Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza 17 marzo 2014, n. 1327
Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza 17 marzo 2014, n. 1327
Presidente Maruotti; Estensore Tarantino
Nei ricorsi avverso il provvedimento di esclusione da una gara di appalto, il termine per contestare tale provvedimento decorre dal momento della sua conoscenza solo per il suo destinatario; per tutti gli altri concorrenti, invece, occorre valutare il momento in cui si concretizza la lesione della propria posizione giuridica.
Relativamente agli obblighi dichiarativi, previsti dall’art. 38 comma 1 lettera c) del d.lgs. 163/2006, se la cessione del ramo d’azienda non determina di per sé una discontinuità nella gestione tale da sottrarre gli amministratori e direttori tecnici dell’impresa ceduta agli obblighi dichiarativi di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006, qualora ciò avvenga per il tramite di una procedura di concordato preventivo, e salvo che non sia desumibile da ulteriori elementi un intento elusivo della prescrizione ivi contenuta, non può ritenersi che l’impresa cessionaria concorrente nella procedura di gara sia tenuta a rendere le dichiarazioni in questione.
In tema di appalti pubblici, le imprese cooptate non possono acquistare lo status di contraente, non possono acquistare alcuna quota di partecipazione all’appalto, non possono rivestire la posizione di offerente prima e di contraente dopo, non possono prestare garanzie, non possono in alcun modo subappaltare o dichiarare di affidare a terzi una quota dei lavori, perché non ne sono titolari e perché per definizione sono prive della attestazione SOA. L'istituto della c.d. cooptazione è, infatti, preordinato a consentire che imprese minori siano associate ad imprese maggiori e che, in questo modo, le prime maturino capacità tecniche diverse rispetto a quelle già possedute, facendo comunque salvo l'interesse della Stazione appaltante attraverso l'imposizione della qualificazione dell'intero valore dell'appalto da parte delle seconde e cioè delle imprese che associano.
In caso di avvalimento, secondo il principio sancito dalla Corte di Giustizia con la sentenza 10.10.2013, C-94/12, l’integrazione dei requisiti minimi di capacità imposti dall’amministrazione aggiudicatrice può essere dimostrata, sia utilizzando l’avvalimento frazionato che l’avvalimento plurimo, poiché ciò che rileva è la dimostrazione da parte del candidato o dell’offerente, che si avvale delle capacità di uno o di svariati altri soggetti, di poter disporre effettivamente dei mezzi di questi ultimi che sono necessari all’esecuzione dell’appalto.
Nelle gare d'appalto, sono tenuti agli obblighi dichiarativi previsti dall’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 circa la sussistenza dei requisiti morali e professionali non soltanto coloro che rivestono formalmente le cariche di amministratori, ma anche coloro che, in qualità di procuratore "ad negotia", abbiano poteri di rappresentanza dell'impresa e possono compiere atti decisionali (c.d. amministratori di fatto), con l'avvertenza che qualora la lex specialis non contenga al riguardo una specifica comminatoria di esclusione, quest'ultima può essere disposta non già per la mera omessa dichiarazione, ma solo quando sia effettivamente riscontrabile l'assenza del requisito in questione.
BREVI ANNOTAZIONI
L’OGGETTO DELLA PRONUNCIA
Con la pronuncia in commento il Consiglio di Stato si sofferma, tra gli altri, sugli obblighi dichiarativi ex art. 38 comma 1 lett. c) del d.lgs. 163/2006 a carico degli amministratori e direttori tecnici dell’impresa ceduta nel caso di cessione di ramo d’azienda per il tramite di una procedura di concordato preventivo con cessione di beni e sulle conseguenze dell’omissione di tali dichiarazioni.
IL PERCORSO ARGOMENTATIVO
Il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, nel confermare le conclusioni cui è pervenuto il TAR Piemonte con la sentenza impugnata, affronta diverse questioni, processuali e sostanziali, relative alle procedura di affidamento di appalti pubblici.
In primo luogo, il Collegio afferma il principio secondo cui il termine per impugnare il provvedimento di esclusione da parte di un concorrente diverso dal destinatario dello stesso decorre non dal momento della sua conoscenza bensì dal momento in cui si concretizza la lesione della propria posizione giuridica, che, nel caso di specie, è individuato con l’emanazione dell’atto di aggiudicazione definitiva.
Il Collegio si sofferma, poi, sugli obblighi informativi previsti dall’art. 38, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 163/2006 in caso di cessione di ramo d’azienda nell’ambito di una procedura di concordato preventivo con cessione di beni.
Anzitutto, viene ribadito quanto espresso dall’Adunanza Plenaria del 4 maggio 2012, n. 10 ossia che “la dichiarazione circa l’insussistenza di sentenze di condanna passate in giudicato (o di decreti penali di condanna irrevocabili, o di sentenze di applicazione della pena su richiesta) per determinati reati nei confronti di amministratori e direttori tecnici, prevista dall’art. 38 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (codice degli appalti pubblici), va resa, a pena di esclusione, in caso di cessione d’azienda in favore del concorrente nel triennio anteriore al bando (un anno, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 12 luglio 2011, n. 106), anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la impresa cedente nell’ultimo triennio (nell'ultimo anno, a seguito delle suddette modifiche)”. La Quinta Sezione mette, poi, in evidenza come l’Adunanza Plenaria aveva precisato che il cessionario poteva comprovare che la cessione si era svolta secondo una linea di discontinuità rispetto alla precedente gestione tale da escludere l’influenza dei comportamenti degli amministratori e dei direttori tecnici della cedente e che, in caso di mancata presentazione della dichiarazione e sempre che il bando non contenesse una espressa comminatoria di esclusione, quest’ultima poteva essere disposta soltanto dove fosse stata effettivamente riscontrata l’assenza del requisito di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), del d.lgs. 163/2006.
Il Consiglio di Stato, dunque, partendo dalle affermazioni dell’Adunanza Plenaria, ravvisa, nell’ipotesi di cessione di ramo d’azienda nell’ambito di una procedura di concordato preventivo con cessione dei beni, una discontinuità nella gestione dell’impresa tale da escludere l’obbligo di rendere le dichiarazioni di cui all’art. 38, comma 1, lettera c) per gli amministratori ed i direttori tecnici della ceduta.
In particolare, il Collegio evidenzia che la procedura di concordato preventivo con cessione di beni determina effetti immediati sulla attività di impresa tali da comportare una rilevante discontinuità della gestione in quanto: a) successivamente all’ammissione al concordato, il debitore non può compiere atti che eccedano l’ordinaria amministrazione, se non previa autorizzazione del giudice delegato (art. 167 L.F.); b) in sede di omologa il giudice può emettere proprie determinazioni anche d’ufficio svolgendo così un controllo di legittimità sostanziale della procedura; c) i liquidatori nominati ai sensi dell’art. 182 L.F. con il decreto di omologazione possono effettuare scelte discrezionali, nei limiti dei criteri forniti dal giudice delegato, sulle modalità di vendita ritenute più idonee nell’interesse dei creditori; d) dopo il decreto di omologazione non è possibile, ai sensi dell’art. 186-bis L.F., la continuazione dell’attività aziendale se la stessa non è prevista nel piano di concordato.
Sempre in tema di dichiarazione circa il possesso dei requisiti morali e professionali ex articolo 38, comma 1, lettera c) del d.lgs. 163/2006, la Quinta Sezione afferma, in linea con quanto asserito dall’Adunanza Plenaria del 16 ottobre 2013, n. 23, che, in caso di omessa dichiarazione cui sono tenuti non soltanto coloro che rivestono formalmente la carica di amministratori ma anche i procuratori c.d. ad negotia, non vi può essere esclusione del concorrente laddove la lex specialis non contenga una specifica comminatoria di esclusione e non sia riscontrabile l’assenza del requisito in questione in capo al procuratore per il quale non sia stata resa la dichiarazione.
Il Collegio, nella pronuncia in esame, si sofferma su ulteriori questioni afferenti le procedure per l’affidamento di appalti pubblici ribadendo principi espressi precedentemente dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria.
In tema di cooptazione, istituto disciplinato dall’articolo 92, comma 5, del d.P.R. n. 207/2010, la cui ratio va individuata nell’opportunità di ampliare le possibilità delle piccole imprese di giocare un ruolo degli appalti pubblici incrementando anche le garanzie offerte all’amministrazione, il Collegio ricorda che non può essere disatteso l’impegno da parte della mandataria rispetto alle quote di lavori che dovranno essere eseguite dalle imprese cooptate poiché queste non possono acquistare lo status di contraente, non possono acquistare alcuna quota di partecipazione all’appalto, non possono rivestire la posizione di offerente prima e di contraente dopo, non possono prestare garanzie, non possono in alcun modo subappaltare o dichiarare di affidare a terzi una quota dei lavori, perché non ne sono titolari e perché per definizione sono prive della attestazione SOA.
Infine, in tema di avvalimento, istituto disciplinato dagli articoli 49 e 50 del d.lgs. n. 163/2006 e artt. 88 e 104 del d.P.R. n. 207/2010, il Consiglio di Stato afferma che, come chiarito dalla Corte di Giustizia con la sentenza 10 ottobre 2013, C – 94/13, l’integrazione dei requisiti di capacità imposti dall’amministrazione aggiudicatrice può essere dimostrata, sia utilizzando l’avvalimento frazionato che l’avvalimento plurimo, poiché ciò che rileva è la dimostrazione da parte del candidato o dell’offerente, che si avvale delle capacità di uno o di svariati altri soggetti, di poter disporre effettivamente dei mezzi di questi ultimi che sono necessari all’esecuzione dell’appalto.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Con la decisione in commento, il Consiglio di Stato fornisce un’importante precisazione relativamente ai principi espressi dall’Adunanza Plenaria n. 10 del 4 maggio 2012 in tema di obblighi dichiarativi relativi al possesso dei requisiti morali e professionali previsti dall’art. 38, comma 1, lett. c) del d.lgs. n. 163/2006 in capo agli amministratori ed ai direttori tecnici dell’impresa cedente in caso di cessione d’azienda.
I giudici di Palazzo Spada, partendo dalle affermazioni dell’Adunanza Plenaria, ritengono che la discontinuità nella gestione e l’assenza di intenti elusivi delle prescrizioni normative facciano venir meno l’obbligo di rendere le dichiarazioni di cui all’art. 38, comma 1, lettera c), d.lgs. n. 163/2006 in capo agli amministratori e direttori tecnici dell’impresa ceduta.
Tale discontinuità è ravvisabile, secondo la pronuncia in commento, nell’ipotesi di concordato preventivo con cessione dei beni.
Tale procedura determina, secondo il Collegio, una cesura nella gestione dei beni dell’impresa, tale da escludere un’influenza dei comportamenti degli amministratori e dei direttori tecnici della cedente. Se è vero, infatti, che la cessione del ramo di azienda non determina di per sé una discontinuità nella gestione tale da sottrarre gli amministratori ed i direttori tecnici dell’impresa ceduta agli obblighi dichiarativi di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006, qualora ciò avvenga per il tramite di una procedura di concordato preventivo e salvo che non sia desumibile da ulteriori elementi un intento elusivo della prescrizione ivi contenuta non può ritenersi che l’impresa cessionaria concorrente nella procedura di gara sia tenuta a rendere le dichiarazioni in questione.
In conclusione, laddove vi sia una discontinuità rispetto alla precedente gestione, non sussiste in capo al concorrente cessionario l’obbligo di produrre le dichiarazioni di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006 relativamente ai requisiti morali e professionali in capo agli amministratori e dei direttori tecnici dell’impresa cedente.
PERCORSO BIBLIOGRAFICO
F. Caringella, M. Giustiniani, Codice dei contratti pubblici annotato con la giurisprudenza, Dike Giuridica, 2014; F. Caringella, M. Giustiniani, Manuale di Diritto Amministrativo, IV, I Contratti Pubblici, Dike Giuridica, 2014.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3292 del 2013, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
***, in persona del legale rappresentante in carica, in proprio e quale mandataria del costituendo R.T.I., R.t.i. ***, in persona del legale rappresentante in carica, R.t.i. - ***, in persona del legale rappresentante in carica, Rti - ***, in persona del legale rappresentante in carica, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati ***, ***, *** con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo, in ***;
contro
***, in persona del legale rappresentante in carica, in proprio e quale mandataria del costituendo R.t.i., rappresentato e difeso dagli avvocati ***, ***, ***, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in ***; R.t.i. - *** e in proprio non costituito;
nei confronti di
***- ***, *** in proprio e quale mandataria del costituendo R.t.i., R.t.i. - *** e in proprio, R.t.i. - *** e in proprio, *** - *** non costituiti.
per la riforma
della sentenza del T.A.R. PIEMONTE – TORINO, SEZIONE I, n. 658/2013, e del dispositivo di sentenza del T.A.R. PIEMONTE – TORINO, SEZIONE I, n. 416/2013, resa tra le parti, concernente affidamento lavori di potenziamento impianto di depurazione in località ***.
Visti il ricorso in appello, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di *** in proprio e quale mandataria del costituendo R.t.i.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 gennaio 2014 il Cons. Luigi Massimiliano Tarantino e uditi per le parti l’avvocato ***, su delega dell'avvocato ***, e l’avvocato ***, su delega dell'avvocato ***;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Il presente gravame ha ad oggetto la sentenza del TAR per il Piemonte indicata in epigrafe, con la quale il primo Giudice, respinto il ricorso incidentale spiegato da ***, accoglieva il ricorso principale n. 114 del 2013 di *** e, conseguentemente, annullava gli atti di gara impugnati a partire dalle operazioni di attribuzione dei punteggi relativi alle offerte economiche, con conseguente obbligo della Stazione Appaltante di rinnovare le predette operazioni e di concludere la procedura previa esclusione, per i motivi sopra visti, delle offerte presentate da *** e da ***.
Del pari, riteneva di dover disattendere la richiesta di risarcimento del danno, per non aver la ricorrente fornito la dimostrazione di aver già subito un danno per effetto delle illegittimità riscontrate nella procedura parzialmente annullata.
2. Il TAR per il Piemonte, dunque, disattendeva le censure contenute nel ricorso incidentale rilevando che, secondo l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria n. 10/2012, l’acquisizione di una azienda, o di un ramo d’azienda, per il tramite di una procedura di concordato preventivo per cessione di beni non costituisce di per sé un mezzo idoneo a realizzare un intento elusivo delle preclusioni poste dall’art. 38, comma 1, lett. c) del Codice dei contratti pubblici.
Secondo il primo Giudice, dal momento in cui una impresa viene ammessa alla procedura di concordato preventivo é assoggettata a continua vigilanza da parte del giudice delegato dal Tribunale e degli organi da esso nominati.
La presenza di un simile controllo porta ad escludere la presenza di un intento elusivo del divieto contenuto nel citato art. 38, da parte degli amministratori o direttori tecnici mediante la cessione totale o parziale della azienda. Inoltre, la omologa di un concordato preventivo per cessione di beni realizza, nella sostanza, una sorta di separazione del patrimonio destinato al soddisfacimento dei crediti, che passa sotto il diretto controllo del commissario liquidatore, il quale, previa autorizzazione del comitato dei creditori, ne cura la liquidazione nell’osservanza delle modalità eventualmente stabilite dal Tribunale nel decreto di omologa (art. 182 L.F.). Si realizza, pertanto, una discontinuità nella gestione aziendale.
In particolare, va sottolineato, secondo il primo Giudice, che nel concordato preventivo per mera cessione di beni la gestione di essi non si può più prevedere, dopo il decreto di omologa, la continuazione della attività aziendale, occorrendo a tale scopo che il Tribunale, su apposita istanza del debitore, abbia autorizzato la continuità aziendale ai sensi dell’art. 186 bis L.F.; inoltre, come già precisato, la vendita dei cespiti é curata direttamente, previa autorizzazione del comitato dei creditori, dal commissario liquidatore, al quale spetta di scegliere i soggetti cessionari dei beni e di negoziare con gli stessi le condizioni più favorevoli nell’interesse dei creditori. Si realizza, pertanto, un significativo svuotamento dei poteri di amministrazione del debitore, che comporta il venir meno di una effettiva gestione aziendale in capo agli amministratori della azienda oggetto di cessione concordataria ed ai relativi direttori tecnici.
Conseguentemente, non vi è obbligo per l’impresa cessionaria che utilizzi le qualificazioni di una azienda, o ramo d’azienda, acquisite per il tramite di una procedura di concordato preventivo per cessione di beni, di effettuare le dichiarazioni di cui al combinato disposto dell’art. 38, comma 1, lett. c), e comma 2 del Codice dei contratti pubblici, con riferimento agli amministratori e direttori tecnici della azienda ceduta, non rientrando detta cessione tra quelle che realizzano una continuità di gestione aziendale tra impresa cedente ed impresa cessionaria, e dovendosi al contrario ravvisare, in tale evenienza, quella cesura tra vecchia e nuova gestione che, secondo la Adunanza Plenaria, esclude qualsiasi rilevanza alle illecite condotte eventualmente poste in essere dai precedenti amministratori e direttori tecnici.
Inoltre, le disposizioni del disciplinare non evocavano espressamente l’obbligo di produrre le certificazioni di che trattasi con riferimento agli amministratori e direttori tecnici di aziende cedute, né il disciplinare o il bando comminavano l’automatica esclusione dalla procedura dal partecipante che avesse omesso di produrre tali documenti.
3. L’esame del ricorso principale da parte del TAR conduceva ad una conclusione speculare, ritenendo il primo Giudice fondate le doglianze spiegate da parte di ***. Il Tribunale osservava innanzitutto che la Commissione aveva errato nell’ammettere l’offerta presentata dal raggruppamento ***, per essere la stessa oggettivamente indeterminata ed operatane l’unica interpretazione possibile nel rispetto di quanto previsto dal disciplinare, essa risultava non conforme alla volontà negoziale della parte offerente.
L’inammissibilità dell’offerta del raggruppamento *** avrebbe dovuto condurre anche ad una distribuzione dei punteggi relativi alla offerta economica completamente diversi: il punteggio massimo per l’offerta economica sarebbe stato attribuito al raggruppamento ***, che, avendo offerto un ribasso del 36,67%, sarebbe risultata prima in graduatoria con 91,098 punti; secondo in graduatoria sarebbe stato, invece, il raggruppamento ***, che con un ribasso del 21,06% avrebbe conseguito 40,113 punti per l’offerta economica ed 87,971 punti complessivi.
Inoltre, anche l’offerta di *** avrebbe dovuto essere esclusa per sua intrinseca inadeguatezza, a causa di un utilizzo non corretto dello strumento della cooptazione delle imprese, atteso che il raggruppamento di imprese cooptanti, con la domanda di partecipazione alla gara, non si era assunto formalmente l’onere di partecipare all’appalto con riferimento alla intera quota dei lavori, la cui esecuzione avrebbe dovuto integralmente garantire in caso di aggiudicazione del contratto e possedere tutte le qualificazioni richieste dal bando.
Nel caso di specie la capogruppo *** si era impegnata, in qualità di mandataria, a partecipare all’appalto ed a realizzare i lavori di categoria prevalente solo in ragione del 45%; ***, mandante associata ai sensi dell’art. 92, comma 2, D.P.R. 207/2010, si era invece impegnata a partecipare all’appalto e ad eseguire i lavori solo in ragione del 35% delle opere di categoria prevalente. Dunque le due imprese cooptanti costituenti il raggruppamento *** avevano presentato una offerta che le impegnava ad eseguire non il 100% delle opere messe a gara, ma solo l’80% di esse. Da qui l’inadeguatezza della offerta in esame, che pure andava esclusa per carenza di un elemento essenziale.
4. Il TAR per il Piemonte, quindi, assorbiva gli altri motivi proposti con il ricorso principale.
5. Con l’odierno gravame proposto dapprima avverso il dispositivo, quindi, avverso la sentenza del primo Giudice, le odierne appellanti contestano la correttezza del ragionamento logico-giuridico a fondamento della pronuncia de qua.
5.1. In prima battuta si contesta la tardività del ricorso principale, atteso che lo stesso veniva notificato il 28 gennaio 2013, mentre l’esclusione di *** risaliva al 23 ottobre 2012, data nella quale veniva conosciuta anche dal ricorrente principale.
5.2. Inoltre, si assume l’erroneità della sentenza oggetto di gravame nella parte in cui ha respinto il ricorso incidentale.
***, infatti, aveva acquistato un ramo d’azienda dal commissario liquidatore di ***, senza rendere la dichiarazione prevista dall’art. 38, comma 1, lett. c), del Codice dei contratti pubblici per i direttori tecnici di ***, che risulterebbe necessaria a pena di esclusione secondo la lettura offerta dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 10/2012, in caso di cessione d’azienda in favore del concorrente nel triennio anteriore al bando (un anno, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 12 luglio 2011, n. 106), anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la impresa cedente nell’ultimo triennio (nell'ultimo anno, a seguito delle suddette modifiche). Pertanto, non sarebbe da condividersi la prospettazione di *** secondo la quale ex art. 2487-bis, terzo comma, c.c., avvenuta l’iscrizione nel registro delle imprese dei liquidatori, gli amministratori cessano dalla carica, perché tale previsione non vale per i direttori tecnici. Né poteva disporre la stazione appaltante il soccorso istruttorio, pena la violazione della par condicio.
Non vi sarebbe inoltre la discontinuità nella gestione, come sostenuto dal primo giudice, tanto che i direttori tecnici sarebbero rimasti gli stessi. La stessa giurisprudenza di questo Consiglio sosterrebbe che, anche quando non vi è espresso obbligo in capo agli amministratori o direttori tecnici di imprese cedute di rendere la dichiarazione a pena di esclusione, la stessa si debba evincere dalla clausola di esclusione prevista per i direttori tecnici dell’impresa partecipante in via di interpretazione.
5.3. Infine, le appellanti sostengono l’infondatezza nel merito del ricorso principale, in quanto:
a) *** non poteva essere esclusa, stante la tassatività delle ipotesi di esclusione dalla gara ex art. 46 del Codice dei Contratti pubblici, non potendo ravvisarsi nella fattispecie un’incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta;
b) del pari, l’offerta di *** non doveva essere esclusa per il mancato impegno da parte della mandataria rispetto alle quote di lavori che dovevano essere eseguite dalle imprese cooptate.
6. In sede di costituzione a seguito del gravame proposto dalle odierne appellanti avverso il dispositivo, *** ne invoca la conferma, e ripropone i motivi assorbiti dal primo Giudice.
7. A seguito dell’appello avverso la sentenza, *** propone appello incidentale autonomo e chiede la correzione della sentenza de qua, rilevando che attraverso il disciplinare di gara non sarebbe, comunque, possibile interpretare la discrasia tra percentuale di ribasso e prezzo, in quanto tale regola varrebbe solo per regolare il caso di discordanza tra prezzo espresso in cifre e prezzo espresso in lettere. In ogni caso, l’appellante incidentale sostiene che sarebbe illegittima la lex specialis pure impugnata, atteso che la regola da applicare sarebbe quella secondo la quale ex art. 119, d.P.R. n. 207/2010, l’elemento dell’offerta vincolante dovrebbe essere individuata nel ribasso percentuale espresso in cifre.
Essa chiede, quindi, di essere collocata al primo posto in graduatoria, che venga dichiarata l’inefficacia del contratto eventualmente stipulato, disposto il subentro a suo favore o il risarcimento dei danni per equivalente.
8. Nelle successive difese le parti del presente giudizio reiterano le loro conclusioni e richieste.
DIRITTO
1. Sia l’appello principale che l’appello incidentale sono infondati, sicché va confermata la pronuncia di prime cure.
2. Preliminarmente, deve essere disattesa l’eccezione di tardività formulata dall’appellante principale in relazione al ricorso di primo grado.
L’atto in questione è stato notificato in data 28 gennaio 2013, ma non può ritenersi tardivo, come sostenuto nell’appello principale, anche se l’esclusione di *** veniva disposta nella riunione della commissione del 23 ottobre del 2012, alla quale partecipava anche un rappresentante della mandante dell’appellata R.t.i. ***, munito di apposita delega da parte del R.t.i. ***.
Infatti, come dimostra la stessa giurisprudenza indicata dall’appellante, il termine per contestare il provvedimento di esclusione decorre dal momento della sua conoscenza solo per il suo destinatario. Al contrario, per tutti gli altri concorrenti occorre valutare il momento in cui si concretizza la lesione della propria posizione giuridica. Tale evento nella fattispecie deve individuarsi con l’emanazione dell’atto di aggiudicazione definitiva a favore dell’odierna appellante principale. Sicché l’eccezione in esame va disattesa.
3. Non risulta fondata la doglianza - rivolta alla sentenza di prime cure – con cui si sostiene la violazione da parte del TAR dei principi espressi dalla giurisprudenza di questo Consiglio in merito all’applicazione dell’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006, in caso di cessione di ramo d’azienda.
Come ha rilevato l’Adunanza Plenaria nella sentenza del 4 maggio 2012, n. 10, “La dichiarazione circa l’insussistenza di sentenze di condanna passate in giudicato (o di decreti penali di condanna irrevocabili, o di sentenze di applicazione della pena su richiesta) per determinati reati nei confronti di amministratori e direttori tecnici, prevista dall’art. 38 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (codice degli appalti pubblici), va resa, a pena di esclusione, in caso di cessione d’azienda in favore del concorrente nel triennio anteriore al bando (un anno, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 12 luglio 2011, n. 106), anche con riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la impresa cedente nell’ultimo triennio (nell'ultimo anno, a seguito delle suddette modifiche)”.
L’affermazione di tale principio da parte della Adunanza Plenaria ha superato il contrasto insorto tra le singole Sezioni, che aveva portato al sorgere di due opposti orientamenti giurisprudenziali.
Una prima tesi, infatti, era nel senso che la dichiarazione resa dall'impresa concorrente sui requisiti morali dovesse essere espressamente riferita anche agli amministratori e ai direttori tecnici di un impresa estranea alla gara, dalla quale la partecipante avesse acquisito il ramo di azienda prima della partecipazione alla gara medesima, in base al presupposto che i requisiti soggettivi negativi propri dell'impresa cedente si trasmettano all'impresa cessionaria (Cons. St., Sez. VI, 4 maggio 2011, n. 2662). Un opposto indirizzo, al contrario, riteneva che non potesse essere esclusa dalla gara d'appalto, prima della partecipazione alla selezione, l'Impresa cessionaria che non avesse presentato le dichiarazioni sulla moralità professionale relative ai requisiti soggettivi della cedente riferita sia agli amministratori e direttori tecnici, in quanto l'art. 38 D.L.vo 12 aprile 2006, n. 163, richiede il possesso e la dimostrazione dei requisiti generali solo in capo al soggetto concorrente (Cons. St., Sez. V, 15 novembre 2010, n. 8044).
L’Adunanza Plenaria ha condiviso il primo dei citati orientamenti, operando, però, alcune precisazioni, il cui contenuto appare decisivo in questa sede per la conferma della pronuncia del primo Giudice.
Ed infatti la citata sentenza n. 10 del 2012 ha inteso coordinare il principio di tipicità e tassatività delle cause di esclusione, che non consente di introdurre ulteriori e non previste cause ostative alla partecipazione alla procedura di gara, con la necessità di evitare l’utilizzo di strumenti elusivi del principio che impone che il possesso dei requisiti di moralità sia effettivo in capo a tutti i concorrenti. Quindi, il principio ubi commoda eius et incommoda è stato ritenuto sufficiente per ‘addossare’ al cessionario la responsabilità per le condotte degli amministratori dell’impresa cedente.
A fronte di ciò l’Adunanza Plenaria ha ritenuto che il cessionario potesse comprovare “che la cessione si è svolta secondo una linea di discontinuità rispetto alla precedente gestione, tale da escludere alcuna influenza dei comportamenti degli amministratori e direttori tecnici della cedente”.
Ulteriore indicazione, che in questa sede assume particolare rilievo, è rinvenibile in quel passaggio motivazione della sentenza de qua, in cui si precisa che: “Resta altresì fermo – tenuto anche conto della non univocità delle norme circa l’onere del cessionario – che in caso di mancata presentazione della dichiarazione e sempre che il bando non contenga al riguardo una espressa comminatoria di esclusione, quest’ultima potrà essere disposta soltanto là dove sia effettivamente riscontrabile l’assenza del requisito in questione”.
Correttamente il Giudice di primo grado ha rilevato sia l’insussistenza di una continuità di gestione che facesse scattare un obbligo di rendere le dichiarazioni anche per gli amministratori e direttori tecnici dell’impresa ceduta, sia l’assenza di una previsione nel bando e nel disciplinare di gara che ponesse in termini di automatismo l’esclusione in caso di mancata presentazione delle dichiarazioni in questione.
3.1. In merito alla discontinuità della gestione, la stessa può evincersi attraverso le modalità con le quali è stata attuata la cessione del ramo d’azienda, che è stata posta in essere per il tramite di una procedura di concordato preventivo per cessione di beni.
La procedura in questione sortisce effetti immediati sulla gestione dell’impresa, che è sottoposta a considerevoli limitazioni, che vengono a determinare una rilevante discontinuità ai fini che in questa sede interessano. Così, già all’indomani dell’ammissione al concordato, il debitore conserva l'amministrazione dei suoi beni e l'esercizio dell'impresa, sotto la vigilanza del commissario giudiziale, ma non può compiere atti che eccedano l’ordinaria amministrazione, se non previa autorizzazione del giudice delegato (art. 167 L.F.).
In sede di omologa, anche all’indomani delle modifiche portate dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, il giudice svolge un controllo di legittimità sostanziale e non di regolarità formale della procedura, potendo questi emettere proprie determinazioni anche d’ufficio (Cass. civ., Sez. I, 15 settembre 2011, n. 18864). Inoltre, ai sensi dell’art. 182 L.F. con il decreto di omologazione il tribunale nomina uno o più liquidatori e un comitato di tre o cinque creditori per assistere alla liquidazione e determina le altre modalità della liquidazione.
Pertanto, in assenza di specifiche indicazioni il liquidatore può effettuare scelte discrezionali, nei limiti dei criteri forniti dal giudice delegato, sulle modalità di vendita ritenute più idonee al conseguimento del miglior realizzo nell'interesse della massa concorsuale, mentre tale attività non può essere svolta in modo sostitutivo o parallelo dal debitore concordatario (Cass. civ., Sez. I, 15 luglio 2011, n. 15699). Inoltre, all’indomani del decreto di omologazione in caso di concordato per mera cessione dei beni, secondo quanto dispone l’art. 186-bis L.F., non è possibile la continuazione della attività aziendale, se la stessa non è stata prevista nel piano di concordato di cui all'articolo 161 L.F. secondo comma, lettera e), L.F. Tale circostanza non risulta provata in giudizio.
Si può, dunque, affermare che, se la cessione del ramo d’azienda non determina di per sé una discontinuità nella gestione tale da sottrarre gli amministratori e direttori tecnici dell’impresa ceduta agli obblighi dichiarativi di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006, qualora ciò avvenga per il tramite di una procedura di concordato preventivo, e salvo che non sia desumibile da ulteriori elementi un intento elusivo della prescrizione ivi contenuta, non può ritenersi che l’impresa cessionaria concorrente nella procedura di gara sia tenuta a rendere le dichiarazioni in questione. La cessione dell’azienda o del ramo d’azienda a seguito del concordato preventivo determina, infatti, una cesura nella gestione dei beni dell’impresa, tale da escludere un’influenza dei comportamenti degli amministratori e dei direttori tecnici della cedente, senza che risulti rilevante che quest’ultimi ex art. 2487-bis, terzo comma c.c., avvenuta l’iscrizione nel registro delle imprese dei liquidatori, a differenza di quanto accade per gli amministratori, non cessino dalla carica.
3.2. Nella fattispecie, inoltre, a fronte di una lex specialis che non prevede espressamente un obbligo dichiarativo per gli amministratori e i direttori tecnici dell’impresa ceduta, non risulta essere stato dimostrata la sussistenza di alcuna delle cause ostative indicate dal citato art. 38, comma 1, lett. c), in capo a quest’ultimi. Né un simile obbligo può desumersi in via interpretativa direttamente dalla norma in questione, atteso che una conclusione di tal fatta è stata smentita dalla giurisprudenza dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, peraltro, anche per l’ipotesi di fusione tra imprese (cfr. Cons. St., Ad. Plen. 7 giugno 2012, n. 21: “In tema di appalti pubblici l'art. 38 comma 2 D.L.vo 12 aprile 2006, n. 163, sia prima che dopo l'entrata in vigore del D.L. 3 maggio 2011, n. 70, impone la presentazione di una dichiarazione sostitutiva completa la quale deve essere riferita, quanto al profilo della moralità professionale di cui all'art. 38, comma 1, lett. c), anche agli amministratori delle società che partecipano ad un procedimento di incorporazione o di fusione, nel limite temporale ivi indicato, con la precisazione che in caso di mancata allegazione dell'atto de quo la Ditta va estromessa dalla gara solo se il bando espliciti tale onere di dichiarazione e la conseguente causa di esclusione, mentre in caso contrario, quest'ultima può essere disposta solo ove vi sia la prova che gli amministratori per i quali è stata omessa la dichiarazione hanno pregiudizi penali”).
4. Venendo alle censure proposte contro la sentenza nella parte in cui ha accolto il ricorso principale, va rilevato che esse prospettano argomenti non condivisibili.
4.1. In particolare, l’appellante sostiene che *** non poteva essere esclusa stante la tassatività delle ipotesi di esclusione dalla gara ex art. 46 del Codice dei Contratti pubblici, non potendo ravvisarsi nella fattispecie un’incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta.
In realtà al momento della sua presentazione l’offerta economica era oggettivamente ambigua, perché a fronte di un ribasso d’asta pari al 29%, indicava un prezzo di euro 1.889.464,46, non corrispondente al suddetto ribasso. Inoltre, il punto 3.3. del disciplinare di gara stabiliva che “Il prezzo offerto deve essere riportato in cifre ed in lettere. In caso di discordanza tra i valori riportati nell’offerta, varrà il prezzo indicato in lettere e la percentuale di ribasso verrà eventualmente ricalcolata”. Quest’indicazione non consentiva alla commissione di gara la diversa operazione di desumere il prezzo offerto attraverso il ribasso percentuale proposto sul prezzo a base d’asta. Pertanto, secondo il disciplinare di gara l’offerta di *** doveva ritenersi pari ad euro 1.889.464,46, con un ribasso del 71% sul prezzo a base d’asta.
Sennonchè la successiva precisazione del rappresentante di *** - secondo la quale il prezzo realmente offerto era quello corrispondente al ribasso del 29% - fa venire meno la stessa volontà negoziale di eseguire i lavori con ribasso del prezzo a base d’asta del 71%. Sicché, correttamente il primo Giudice ha ritenuto che la stessa avrebbe dovuto essere esclusa.
4.2. Quanto alla seconda doglianza, invece, nell’odierno gravame si afferma che, l’offerta di *** non doveva essere esclusa per il mancato impegno da parte della mandataria rispetto alle quote di lavori che dovevano essere eseguite dalle imprese cooptate.
Si tratta di un’affermazione che però non può essere condivisa, poiché le imprese cooptate non possono acquistare lo status di contraente, non possono acquistare alcuna quota di partecipazione all’appalto, non possono rivestire la posizione di offerente prima e di contraente dopo, non possono prestare garanzie, non possono in alcun modo subappaltare o dichiarare di affidare a terzi una quota dei lavori, perché non ne sono titolari e perché per definizione sono prive della attestazione SOA. L'istituto della c.d. cooptazione è, infatti, preordinato a consentire che imprese minori siano associate ad imprese maggiori e che, in questo modo, le prime maturino capacità tecniche diverse rispetto a quelle già possedute, facendo comunque salvo l'interesse della Stazione appaltante attraverso l'imposizione della qualificazione dell'intero valore dell'appalto da parte delle seconde e cioè delle imprese che associano.
Da ciò si desume l’infondatezza della censura proposta con l’appello principale.
5. A questo punto occorre passare ad esaminare i motivi non esaminati dal primo Giudice e riproposti dall’appellante incidentale a seguito della proposizione dell’appello principale per motivi aggiunti avverso la motivazione della pronuncia gravata, nonché mercé l’appello incidentale autonomo proposto dalla stessa ***.
5.1. L’appellante incidentale, infatti, sostiene l’erroneità della sentenza nella parte in cui, non accogliendo integralmente il proprio ricorso principale di prime cure, si è limitata a disporre la rinnovazione degli atti di gara a partire dalle operazioni di attribuzione dei punteggi relativi alle offerte economiche, previa esclusione delle offerte presentate da *** e da ***, invece che riconoscere direttamente la spettanza dell’aggiudicazione a favore della ***.
5.1.1. In particolare, secondo l’appellante incidentale *** doveva essere esclusa per difetto dei requisiti di qualificazione SOA, che non avrebbe potuto integrare, né con l’incremento del 20% ai sensi dell’art. 61, comma 2, d.P.R. n. 207/2010, ostandovi il disposto dell’art. 92, comma 2, d.P.R. n. 207/2010, che esclude una simile possibilità per il capogruppo mandatario a.t.i., né con l’avvalimento ex art. 49, d.lgs. n. 163/2006, atteso che l’impresa ausiliaria ***, sarebbe qualificata solo per la categoria OS 22, class. II, quindi vi sarebbe violazione del divieto di avvalimento frazionato.
In questa sede va rilevato, al di là dell’utilizzo dell’incremento del quinto, come non sia corretta la prospettazione dell’appellante incidentale circa il divieto dell’utilizzo dell’avvalimento frazionato, specie all’indomani della sentenza della Corte Giust., 10 ottobre 2013, C-94/12, secondo la quale: “Gli articoli 47, paragrafo 2, e 48, paragrafo 3, della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, letti in combinato disposto con l’articolo 44, paragrafo 2, della medesima direttiva, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una disposizione nazionale, art. 49 co. 6 Codice degli appalti, la quale vieta, in via generale, agli operatori economici che partecipano ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori di avvalersi, per una stessa categoria di qualificazione, delle capacità di più imprese”.
Nella suddetta pronuncia la Corte ha, quindi, ritenuto che l’integrazione dei requisiti minimi di capacità imposti dall’amministrazione aggiudicatrice può essere dimostrata, sia utilizzando l’avvalimento frazionato che l’avvalimento plurimo, poiché ciò che rileva è la dimostrazione da parte del candidato o dell’offerente, che si avvale delle capacità di uno o di svariati altri soggetti, di poter disporre effettivamente dei mezzi di questi ultimi che sono necessari all’esecuzione dell’appalto.
5.1.2. Ancora l’appellante incidentale lamenta che *** e la mandante cooptata *** non hanno reso le dichiarazioni ex art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006, relative ad alcuni procuratori, nonostante dalle visure camerali risulti che a questi siano stati attribuiti rilevanti poteri rappresentativi.
Anche questa doglianza non può trovare accoglimento, considerato che nella lex specialis non vi è indicazione di un obbligo di tal fatta e non risulta che alcuno dei procuratori indicati dall’appellante incidentale siano privi dei suddetti requisiti. Al riguardo, infatti, occorre fare applicazione del principio affermato da Cons. St., Ad. Plen., 16 ottobre 2013, n. 23: “Nelle gare d'appalto, l'art. 38 D.L.vo 12 aprile 2006, n. 163, nella parte in cui elenca i soggetti tenuti ad effettuare le dichiarazioni di sussistenza dei requisiti morali e professionali ha come destinatari dell'obbligo non soltanto coloro che rivestono formalmente le cariche di amministratori, ma anche coloro che, in qualità di procuratore ad negotia, abbiano poteri di rappresentanza dell'impresa e possono compiere atti decisionali (c.d. amministratori di fatto), con l'avvertenza che qualora la lex specialis non contenga al riguardo una specifica comminatoria di esclusione, quest'ultima può essere disposta non già per la mera omessa dichiarazione, ma solo quando sia effettivamente riscontrabile l'assenza del requisito in questione”.
Pertanto, la prospettazione dell’appellante incidentale va disattesa.
5.1.3. Infine, l’appellante incidentale sostiene che la sentenza sarebbe erronea perché già al momento della presentazione l’offerta di *** doveva essere esclusa ex art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006, per la sua oggettiva equivocità: inoltre, anche se si adottasse la soluzione ermeneutica condivisa dal TAR quanto all’interpretazione della lex specialis, dovrebbe ritenersi lo stessa illegittima per violazione dell’art. 119, comma 3, d.P.R. n. 207/2010.
Anche questa doglianza risulta, però, infondata.
Il citato art. 46, comma 1-bis, fa riferimento all’incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta, mentre nella fattispecie in esame si è al cospetto di un’offerta formata da due elementi (un prezzo fisso ed una percentuale di ribasso) non collimanti, la cui discrasia viene risolta con meccanismi automatici sia dalla lex specialis che dalla normativa di settore.
Non sussistendo un’incertezza assoluta, e potendosi applicare meccanismi di risoluzione, come correttamente rilevato dal primo Giudice la stessa volontà negoziale della *** è venuta meno a seguito delle precisazioni offerte dal rappresentante della stessa, sicché anche la prospettata censura in ordine alla violazione dell’art. 119 d.P.R. n. 207/2010, appare priva di interesse per l’appellante incidentale, perché al di là del corretto meccanismo di soluzione della discrasia ciò che rileva è il venir meno della stessa volontà negoziale della concorrente in questione.
Inoltre, non risulta applicabile la regola dettata dall’art. 119, comma 3, citato, che riguarda il diverso caso dell’offerta a prezzi unitari, mentre la procedura in questione prevedeva l’aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
6. L’infondatezza dell’appello incidentale consente di confermare la sentenza di primo grado anche per ciò che attiene l’insussistenza della spettanza dell’aggiudicazione in capo alla ***, nonché la richiesta di risarcimento del danno per equivalente.
7. Conclusivamente, vanno respinti sia l’appello principale che quello incidentale, con integrale conferma della sentenza del TAR e conseguente obbligo della stazione appaltante di rinnovare gli atti di gara a partire dalle operazioni di attribuzione dei punteggi relativi alle offerte economiche e di concludere la procedura previa esclusione, per i motivi sopra visti, delle offerte presentate da *** e da ***.
8. Nella parziale soccombenza si ravvisa un idoneo motivo per compensare le spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello n. 3292 del 2013, come in epigrafe proposto, rigetta l 'appello principale proposto da ***, in proprio e quale mandataria del costituendo R.T.I. e rigetta l’appello incidentale proposto da ***, in proprio e quale mandataria del costituendo R.t.i..
Spese compensate del secondo grado.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 gennaio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Carlo Saltelli, Consigliere
Antonio Amicuzzi, Consigliere
Fulvio Rocco, Consigliere
Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere, Estensore