Corte di cassazione, Sezioni unite civili, ordinanze 30 novembre 2018, nn. 31105 e 31106
L'eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore, denunciabile ai sensi dell'art. 111, ottavo comma, Cost. e dell'art. 362 c.p.c., è configurabile solo qualora il Consiglio di Stato abbia applicato, non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un'attività di produzione normativa che non gli compete: ipotesi non ricorrente quando il giudice amministrativo si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la voluntas legis applicabile nel caso concreto, anche se questa abbia desunto, non dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dalla ratio che il loro coordinamento sistematico disvela, tale operazione ermeneutica potendo dar luogo, tutt'al più, ad un error in iudicando, non alla violazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice speciale.
Le questioni, pur originando da diverse fattispecie, riguardano i limiti dell’intervento della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato in tema di giurisdizione e, dunque, i confini del sindacato del giudice di legittimità su quello amministrativo.
In particolare l’ordinanza n. 31105 riguarda il rigetto da parte del giudice amministrativo della domanda di incentivazione di una società relativamente alla produzione di energia elettrica mediante conversione fotovoltaica dalla fonte solare. Si contesta, infatti, la decisione del Consiglio di Stato laddove aveva negato l’accesso agli incentivi suddetti sulla base del mancato rispetto da parte della società del termine del 31 maggio 2011, termine entro cui iniziare la propria attività al fine di poter beneficiare dei relativi incentivi. Nello specifico la ricorrente sosteneva che il G.A. con la decisione di rigetto avesse creato una nuova normativa non prevista dalla lettura delle disposizioni che regolano la materia, ben potendo quindi essere soggetto al sindacato della Corte di cassazione per sconfinamento delle proprie attribuzioni giurisdizionali.
In realtà, come anche supportato dalla Suprema Corte, l’operazione compiuta dal Consiglio di Stato era stata quella di interpretare sistematicamente la materia alla luce della ratio sottesa al relativo complesso normativo al fine di poter usufruire per il privato delle tariffe incentivanti per gli impianti fotovoltaici. In particolare, tre sono le disposizioni che regolano la questione: il d.m. 6 agosto 2010 il quale definisce all’art. 2, comma 1, lettera c) cosa si debba intendere per “data di entrata in esercizio dell’impianto” (ovvero, tra le altre condizioni – secondo la lettera c4) –, l’assolvimento degli obblighi previsti dalla normativa fiscale in materia di produzione di energia elettrica, obbligo non rispettato nei termini da parte della società ricorrente), il d.lgs. n. 28/2011 che, all’art. 25, comma 9, prevede l’applicabilità degli incentivi solo per gli impianti fotovoltaici che fossero entrati in esercizio entro la data del 31 maggio 2011 e il d.lgs. n. 504/1995 che, all’art. 53 bis, dispone che i soggetti interessati al beneficio, contestualmente all’avvio della propria attività, avrebbero dovuto comunicare all’Agenzia delle dogane tale inizio, presentando una dichiarazione annuale sui dati relativi all’energia elettrica prodotta e distribuita. Il Consiglio di Stato, sostanzialmente equiparando l’avvio dell’attività con l’entrata in esercizio dell’impianto fotovoltaico, aveva pertanto escluso la possibilità per la ricorrente di usufruire delle tariffe incentivanti previste dalla normativa, non avendo la medesima provveduto all’adempimento degli obblighi fiscali e della relativa comunicazione nei termini.
L’attività interpretativa del giudice amministrativo, dunque, si pone come attività interna al raggio di azione delle attribuzioni disposte dal legislatore, non potendo ravvisarsi alcuno sconfinamento dei poteri ad esso assegnati, ma semmai un mero errore nella lettura sistematica delle relative norme.
L’ordinanza n. 31106, invece, origina da una questione relativa all’illegittima ammissione da parte di una società ad usufruire di alcuni contributi previsti dalla legge regionale della Sardegna in tema di incentivi per la riqualificazione e l’adeguamento delle strutture alberghiere. Tali contributi, invero, erano stati considerati dall’Unione Europea quale applicazione abusiva degli aiuti di Stato, salva l’ipotesi in cui il beneficiario avesse presentato la domanda di aiuto prima dell’esecuzione dei lavori relativi al progetto di investimento iniziale. Per tale motivo la Regione aveva disposto la revoca del finanziamento concesso alla società, ma quest’ultima aveva presentato ricorso per revocazione per aver il Consiglio di Stato in secondo grado omesso di pronunciarsi sulla particolare situazione in cui si trovava la società medesima. In particolare, la ricorrente sosteneva che vi fosse continuità del regime di agevolazione fra due leggi regionali e che, dunque, avendo la stessa avviato i lavori prima della seconda legge, sarebbe andata esente dalla revoca dei finanziamenti. Il Consiglio di Stato, rigettando il ricorso e sostenendo che il giudice adito in secondo grado si fosse pronunciato sui motivi di impugnazione, aveva escluso la continuità tra le due leggi e dunque la possibilità per il privato di beneficiare degli aiuti. Non vi era stato, pertanto, da parte del giudice amministrativo un travalicamento dei limiti del proprio potere giurisdizionale ed un’invasione nella sfera delle attribuzioni legislative, ma solo un’applicazione del potere interpretativo della norma che gli è proprio.
Come è evidente dall’esame del fatto e del diritto sotteso alle due pronunce, la Suprema Corte, in linea con una pacifica giurisprudenza sul punto[1], ha evidenziato che l'eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore, denunciabile ai sensi dell'art. 111, ottavo comma, Cost. e dell'art. 362 c.p.c., è configurabile solo qualora il Consiglio di Stato abbia applicato, non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un'attività di produzione normativa che non gli compete. L’attività interpretativa del giudice amministrativo, dunque, svolgendosi nell’ambito di attribuzioni che gli sono proprie può dar luogo nella specie solamente ad un error in iudicando e non ad una violazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice speciale.
Come noto, il tema del sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato costituisce da sempre un argomento molto dibattuto in dottrina e giurisprudenza che ha subito un’evoluzione costante. Invero, la problematica relativa all’organo cui attribuire la risoluzione dei conflitti tra giudice ordinario e amministrazione (e poi tra G.O. e G.A., con il riconoscimento nel 1907 della natura giurisdizionale del ricorso al Consiglio di Stato) era stata inizialmente risolta dalla legge sarda n. 3780/1859 con l’attribuzione di tale soluzione a un decreto del re, su parere del Consiglio di Stato. Successivamente con la L.A.C. (legge n. 2248/1865, all. E), istitutiva della giurisdizione unica ed abolitiva dei tribunali del contenzioso amministrativo, la questione era stata assegnata alla cognizione del Consiglio di Stato che diveniva dunque organo di vertice in sede di conflitti tra giurisdizioni. Infine, con la legge n. 3761/1877 (poi trasfusa nell’art. 362, comma 1 c.p.c.), tali controversie venivano definitivamente assegnate alla Corte di Cassazione in regime di giurisdizione unica. Le norme attualmente disciplinanti il conflitto sono molteplici, ma tutte accomunate dal principio secondo cui le decisioni del Consiglio di Stato sono ricorribili in Cassazione per i soli motivi di giurisdizione (si pensi all’art. 111, u.c., Cost., all’art. 362 c.p.c., all’art. 10, comma 2,d.lgs. n. 373/2003, agli artt. 91 e 110 c.p.a., all’art. 177, comma 1,d.lgs. n. 174/2016).
Nonostante i problemi interpretativi legati all’esatta delimitazione dei confini dei “motivi inerenti la giurisdizione”, è pacifico che questi riguardino la casistica per la quale il giudice amministrativo affermi la propria giurisdizione in una sfera riservata agli altri poteri dello Stato (invasione), ovvero al contrario la neghi su presupposti erronei (arretramento), oppure travalichi i limiti esterni della sua giurisdizione in relazione ad altri organi giurisdizionali (invasione o sconfinamento), ovvero la neghi. La prima ipotesi configura il c.d. “difetto assoluto di giurisdizione”, mentre la seconda quello “relativo”. È comunque interpretazione costante che non rientrino tra i limiti esterni alla giurisdizione amministrativa tutte quelle ipotesi di error in iudicando ed in procedendo, laddove cioè il giudice amministrativo violi la legge (sia essa sostanziale o processuale) e, dunque, si mantenga in un perimetro interno alle proprie attribuzioni, ciò non attenendo alla funzione giurisdizionale vera e propria, ma solo alle modalità del suo esercizio. Tanto più che la Costituzione non richiama un disposto analogo al comma 7 dell’art. 111 Cost. anche per la giurisdizione amministrativa.
Recenti pronunce della Suprema Corte hanno tuttavia individuato un’eccezione in cui i limiti interni potrebbero essere sindacabili da parte del giudice di legittimità, ovvero quei casi in cui l’error in procedendo e, dunque, l’inosservanza di norme processuali comporti un radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da generale un diniego di giustizia[2]. Tale impostazione è stata contrastata da parte della dottrina[3] nella parte in cui rischia, tramite lo sfuggente concetto del diniego di giustizia, di dilatare eccessivamente i confini del sindacato del giudice di legittimità ed ancorare, quindi, l’intervento della Cassazione a parametri non certi e facilmente individuabili.
Sulla questione dei limiti esterni del giudicato è poi recentemente intervenuta la Corte costituzionale[4]che ha disatteso le motivazioni del rimettente il quale aveva affermato una tendenza evolutiva dinamica degli ultimi anni sul concetto di giurisdizione che consentirebbe di sindacare non solo le norme che individuano «i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale», ma anche quelle che prescrivono «le forme di tutela» attraverso cui la giurisdizione si esteriorizza(il rimettente aveva preso come riferimento una recente sentenza della Corte di legittimità - peraltro rimasta isolata nelle sue conclusioni - la quale richiamava una controversia relativa ad una norma nazionale dichiarata non conforme alla CEDU[5]).
La Consulta, al fine di evitare l’eccessivo ampliamento della sindacabilità da parte della Cassazione delle decisioni del giudice amministrativo, ribadisce come non è ammissibile il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato exart. 111, comma 8, Cost., quando non si verte in tema di diniego di giurisdizione, ma si sia dinnanzi ad un diniego di tutela derivante da meri errores processuali o sostanziali. Si richiama a tal proposito la fondamentale sentenza della Consulta n. 204/2004 che ha rilevato come “l'unità funzionale non implica unità organica delle giurisdizioni” e quindi l'effettività della tutela, così come il giusto processo, sono già garantiti da parte degli organi giurisdizionali a ciò deputati dalla Costituzione e non entrano in gioco nella diversa sede del controllo sulla giurisdizione[6].Si conferma, dunque, che il controllo di legittimità della Corte di cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo è limitato al solo eccesso di potere giudiziario, in un’ottica di separazione tra il giudice ordinario e quello amministrativo. Ciascuna giurisdizione, pertanto, si esercita attribuendo al proprio organo di vertice interno il controllo finale in fatto ed in diritto delle decisioni prese dai relativi plessi giudiziari.
La Consulta sembra poi richiamare, contestandolo, anche quel filone giurisprudenziale di legittimità precedentemente esaminato relativo al diniego di giustizia per stravolgimento delle norme di rito, avvertendo che “il concetto di controllo di giurisdizione, così delineato nei termini puntuali che ad esso sono propri, non ammette soluzioni intermedie, come quella pure proposta nell'ordinanza di rimessione, secondo cui la lettura estensiva dovrebbe essere limitata ai casi in cui si sia in presenza di sentenze «abnormi» o «anomale» ovvero di uno «stravolgimento», a volte definito radicale, delle «norme di riferimento». Attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni contingenti e soggettive”.
[1]Cfr., ex multis, Cass., Sez. Un., 30 luglio 2018, n. 20168; Id., ord. 27 giugno 2018, n. 16974; Id, 5 giugno 2018, n. 14437; Id., 10 aprile 2017, n. 9147; Id., 27 marzo 2017, n. 7758.
[2]Cass., Sez. Un., 5 aprile 2017, n. 8798;Id., 17 gennaio 2017, n. 964: “non esorbita dai limiti interni della giurisdizione amministrativa e non comporta diniego di giustizia la sentenza del Consiglio di Stato che abbia dichiarato inammissibile un appello per violazione del dovere di sinteticità e di chiarezza”; Id., 30 ottobre 2013, n. 24468, nella specie, il ricorrente, revocato dalla provvisoria aggiudicazione del servizio di riscossione tributi per sua inaffidabilità desumibile da un precedente rapporto, aveva lamentato che il Consiglio di Stato non si fosse limitato alla mera verifica della sufficienza della motivazione di tale revoca, ma ne aveva operato una vera e propria integrazione nel ritenere sussistente il presupposto di cui all'art. 38, lett. f), d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (oggi d.lgs. n. 50/2016), così travalicando i confini della giurisdizione operando apprezzamenti discrezionali riservati alla p.a.
[3]Travi, Abuso del processo e questione di giurisdizione: una soluzione conclusiva?, in Foro it., 2017, I, 983 ss. (nota a Cass., Sez. Un., 20 ottobre 2016, n. 21260: “è da intendere proposto per motivi inerenti alla giurisdizione, in base agli art. 111, ultimo comma, cost. e 362, 1º comma, c.p.c., ed è perciò ammissibile, il ricorso per cassazione contro la decisione del consiglio di stato con cui è stato ritenuto precluso l'esame della questione di giurisdizione in quanto sollevata dalla parte che ha agito in primo grado mediante la scelta del giudice del quale, poi, nel contesto dell'appello, disconosce e contesta la giurisdizione; spetta infatti alle sezioni unite non soltanto il giudizio vedente sull'interpretazione della norma attributiva della giurisdizione, ma anche il sindacato sull'applicazione delle disposizioni che regolano la deducibilità ed il rilievo del difetto di giurisdizione”).
[4] Corte cost., 18 gennaio 2018, n. 6.
[5]Cass. civ., Sez. Un., 8 aprile 2016, n. 6891: “è configurabile omissione di esercizio del potere giurisdizionale da parte del consiglio di stato, come tale sindacabile dalle sezioni unite della Corte di cassazione, qualora la sentenza sia destinata ad esplicare i propri effetti in maniera contrastante con una norma sovranazionale (nella specie, della convenzione europea dei diritti dell'uomo) cui lo stato italiano è tenuto a dare applicazione”. Si trattava della sentenza della Corte EDU 4 febbraio 2014, Mottola c. Italia, Staibano c. Italia, ricorso n. 29932/07, con cui la Corte aveva dichiarato non conforme alla CEDU la norma nazionale sul termine di decadenza dell’azione sul pubblico impiego.
[6] Continua la Consulta con un passaggio significativo sulla giurisdizione esclusiva: “né l'allargamento del concetto di giurisdizione può essere giustificato dalla presunta eccessiva espansione delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, poiché esse, come è noto, sono state da questa Corte contenute nei limiti tracciati dalla Costituzione (sentenze n. 191 del 2006, Foro it., 2006, I, 1625, e n. 204 del 2004, cit.); d'altro canto, «è la stessa Carta costituzionale a prevedere che siano sottratte al vaglio di legittimità della Corte di cassazione le pronunce che investono i diritti soggettivi nei confronti dei quali, nel rispetto della ‘particolarità’ della materia nel senso sopra chiarito, il legislatore ordinario prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo»”.