il punto della situazione a due anni dalla riforma
Una sintetica analisi dello stato dell'attuazione del d.lgs. n. 50/2016, di ciò che è stato fatto e di quanto ancora ci sarà da fare, nonchè delle istanze di riforma della Riforma in coincidenza con il cambio di legislatura.
Il nuovo Codice dei contratti pubblici è arrivato al suo secondo tagliando annuale.
Volendo sintetizzare la storia di un biennio in poche righe, il primo anno è servito agli operatori per rendersi conto se il d.lgs. n. 50/2016 si fosse limitato a modificare le c.d. regole di un gioco conosciuto, oppure se avesse di netto modificato il gioco stesso. In tale periodo si è registrata una notevole incertezza applicativa dove i dubbi erano nettamente superiori alle certezze.
Restando in metafora, il primo tagliando effettuato nell’aprile del 2017 ha comportato un intervento che di certo non si è limitato al mero controllo dei livelli e all’ordinaria manutenzione. Il primo decreto correttivo (d.lgs. n. 56/2017), infatti, è intervenuto in modo sostanziale sul testo codicistico originario, modificandone ulteriormente impostazione e struttura; ma non toccandone le scelte di fondo. Molti errori della prima ora sono stati emendati; ciononostante l’incertezza applicativa - dovuta ad una norma primaria non sempre di agevole lettura e assorbimento, nonché al mancato completamento del nuovo corpus normativo con la prevista regolamentazione secondaria e di soft law - è continuata.
In questo secondo anno, tuttavia, si è registrato un cospicuo intervento sostitutivo del giudice amministrativo, mediante il quale i Tar e il Consiglio di Stato hanno cercato di mettere a regime il nuovo sistema, avviando quell’opportuna (se non addirittura fondamentale) attività di sedimentazione delle norme, attraverso la determinazione di interpretazioni condivise tra le varie corti e una rilevante applicazione del principio dello stare decisis da parte dell’Adunanza Plenaria di Palazzo Spada. Volendo utilizzare un brocardo latino per descrivere l’apprezzabile linea di tendenza assunta dalla giustizia amministrativa si potrebbe affermare: Quieta non movere et mota quietare.
Del resto, parafrasando quanto si era avuto modo di sostenere in passato, una norma può anche non essere in sé una buona norma, ma qualora sia in grado di divenire una norma stabile - anche grazie alle costanti interpretazioni giurisprudenziali - potrebbe riuscire lo stesso a sedimentare quelle prassi fisiologiche standard (che tanto danno sicurezza agli operatori del settore) ed un conseguente ‘circolo applicativo virtuoso’ che solo un quadro positivo stabile e saldo nel tempo può garantire; e, quindi, a divenire per ciò stesso una norma buona.
In questo secondo anno di applicazione del nuovo Codice si è, dunque, registrata una sostanziale sostituzione della giurisdizione alla politica; dei giudici e degli avvocati ai politici e agli stakeholders; e, in definitiva, della sentenza che detta l’interpretazione della norma contemperando i diversi interessi in gioco nella fattispecie concreta, al bilanciamento dei valori e alle conseguenti scelte legislative che il Parlamento dovrebbe effettuare nella costruzione delle fattispecie astratte.
Tale quadro è stato efficacemente descritto nella Relazione del Presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2018, secondo cui “la politica non riesce a compiere in modo autorevole e significativo quel bilanciamento dei valori che costituisce la missione sua propria. Il problema si trasferisce, allora, dalla politica al diritto e alla legge, e la crisi della politica diviene crisi del diritto e della legge. Questa, infatti, che dovrebbe costituire l’atto di indirizzo politico per eccellenza, diventa sempre più incerta e sempre meno capace di regolare. Il proliferare di leggi che spesso intervengono sulla stessa materia provoca una diminuzione della loro chiarezza e della loro capacità precettiva e regolatoria”. E ancora – continua il Presidente del Consiglio di Stato – “una tale situazione provoca gravi conseguenze. Da una parte, l’incapacità della politica di regolare gli interessi in gioco provoca sfiducia, e si è portati a non accettare le soluzioni della politica, anche quando essa tale bilanciamento riesce ad operare. Dall’altra, la mancanza di chiarezza della decisione pubblica determina il trasferimento del conflitto al giudice. E così le controversie politiche diventano giuridiche, anzi giudiziarie, ed il giudice rischia di essere il decisore pubblico di ultima istanza, chiamato a pronunciarsi non sulla legittimità dei provvedimenti sottoposti al suo esame, ma sul conflitto politico e sociale che è sotteso alla controversia esaminata. In un certo senso, non è il giudice a fare politica; è la politica che demanda al giudice la composizione del conflitto fra valori, mentre il segmento della società che non accetta - quando pure viene espressa - la scelta politica, rinuncia a combatterla sul terreno che le è proprio e la riversa sulla giurisdizione. Questa situazione trova un puntuale riscontro nel contenzioso e nella giurisprudenza del giudice amministrativo”. In quest’ottica, “il contenzioso sui contratti pubblici […] rende palese ad un tempo sia la difficoltà dell’amministrazione di assumersi la responsabilità della scelta, sia anche una certa difficoltà del sistema delle imprese di accettare il principio di concorrenza, dal momento che talvolta esse sembrano utilizzare il processo per sfuggire ad una competizione sul piano economico e produttivo, e mirano ad escludere il concorrente dalla gara piuttosto che a confrontarsi con questo”.
Se questa è la situazione ad oggi; se questa è in certo modo la cornice; la domanda che occorre porsi è che quadro vedremo nel prossimo futuro. O meglio, che cosa ci si dovrà aspettare per la futura regolamentazione dell’agere amministrativo attraverso la formula contrattuale.
Nel discorso tenuto dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte in occasione della discussione al Senato dello scorso 5 giugno per il voto di fiducia al nuovo Governo, la tematica del c.d. public procurement è stata affrontata in modo deciso anche in un’ottica di politica economica generale. Secondo il Presidente del Consiglio occorre “ridare slancio agli appalti pubblici, che sono e possono diventare una leva fondamentale della politica economica del Paese. Negli ultimi anni c'è una stasi totale, determinata per buona parte anche dalle incertezze interpretative e da talune rigidità, purtroppo collegate anche al nuovo codice dei contratti pubblici. Noi vogliamo la legalità, ma dobbiamo superare il formalismo fine a sé stesso che ancora domina questa disciplina, poiché la forma non può essere scambiata per legalità. Troppo spesso - chi ne ha esperienza lo sa - gare formalmente perfette nascondono corruzione e non impediscono la cattiva esecuzione. Dobbiamo assicurare il rispetto rigoroso dei tempi di consegna delle opere, ma anche la qualità dei lavori e delle forniture e l'efficienza dei servizi”.
La presa di posizione del Presidente del Consiglio e – per esso – del nuovo Governo, consente di intravedere un prossimo intervento (che si auspica) semplificatore dell’attuale disciplina e che, magari, riesca a coniugare uno snellimento testuale di alcune delle più corpulente disposizioni vigenti, con ulteriore riduzione degli adempimenti procedurali richiesti alle stazioni appaltanti e ai concorrenti e che faccia, altresì, chiarezza sull’ambito applicativo della normativa stessa (ancora oggi segnata da confini esterni eccessivamente labili).
Si confida, tuttavia, che il legittimo desiderio del nuovo Legislatore di tendere alla norma perfetta – attraverso continui e ripetuti affinamenti normativi – non si tramuti in un’inarrestabile ricerca del Graal. Questa confidenza trova la sua chiave di lettura nel convincimento che il Legislatore non può non aver preso coscienza degli errori commessi in vigenza del vecchio Codice del 2006. In effetti, il d.lgs. n. 163/2006 ha nel tempo manifestato un duplice limite: i) per un verso, un’assoluta instabilità della disciplina dovuta a centinaia di interventi di modifica che si sono succeduti nei passati due lustri e nelle precedenti quattro legislature, terremotando di continuo il quadro normativo di riferimento; ii) per un altro verso, un’eccessiva regolamentazione - non richiesta dagli standard comunitari - che ha imbrigliato negativamente il sistema degli appalti e, in molti casi, agevolato sacche di illegalità e certamente di inefficienza ammnistrativa.
Se questo è l’ammonimento che si ricava dalla storiografia normativa degli ultimi due lustri, non può non concludersi che una norma sia buona anche se riesce a divenire stabile: ossia se è in grado di garantire – con l’interpretazione fornitane a livello pretorio - la stabilità della disciplina, la metabolizzazione delle procedure da parte di coloro che devono gestirle e di coloro che devono prendervi parte, nonché la conseguente formazione di fisiologiche prassi standardizzate che ne agevolino l’implementazione (i.e. delle best practices). Inoltre, una norma stabile nel settore della contrattualistica pubblica rappresenta anche il primo fronte per un’efficace lotta a fenomeni corruttivi che troppe volte hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare il settore. Del resto, dove vi è chiarezza circa le modalità applicative, è difficile per il corrotto e il corruttore trovare quegli angoli bui in cui celare un malaffare.
In conclusione, ora che il banco è passato di mano se ciò che accadrà potrà essere definito come una riforma della riforma, un cambiamento del cambiamento o una rivoluzione della rivoluzione, solo tra qualche tempo potremo giudicarlo. Tuttavia, anche in questa occasione, non dobbiamo scordarci l’insegnamento di Ennio Flaiano secondo cui “al giorno d’oggi si può essere rivoluzionari solo applicando le leggi”; con la dovuta precisazione che anche le leggi possono essere rivoluzionate purché allo scopo di garantirne una migliore applicazione.
Roma, 8 giugno 2018
Francesco Caringella
Marco Giustiniani