Consiglio di Stato, Sez. VI, 26 maggio 2015, n. 3910

Consiglio di Stato, Sez. VI, 26 maggio 2015, n. 3910
Presidente Patroni Griffi; Estensore Contessa

 

In materia di procedure ad evidenza pubblica il principio di cui all’art. 38 del Codice degli appalti presenta un carattere di generalità e trova applicazione anche nelle gare dirette all’affidamento di concessioni di servizi, come fondamentale canone di ordine pubblico economico che soddisfa l’esigenza di avere un soggetto contraente con l’Amministrazione che sia affidabile sotto il profilo morale e degli altri requisiti essenziali. Siffatto principio generale attiene al profilo sostanziale, cioè alla necessità che alla gara possa partecipare un soggetto effettivamente affidabile perché in possesso dei requisiti di moralità, ma non anche al profilo dichiarativo e formale, cioè alla sussistenza di un obbligo legale di dichiarare comunque l’assenza di cause ostative.

 

L’art. 2504-bis, comma 1, c.c., nel testo modificato dal D.Lgs. n. 6 del 2003 (Riforma del diritto societario), sancisce che la società risultante dalla fusione o quella incorporante (nell’ipotesi di fusione per incorporazione) assume i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti anteriori alla fusione. Ed infatti non si determina l’estinzione della società incorporata, né l’istituzione di un nuovo soggetto di diritto, ma si realizza una integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, dando vita ad una vicenda meramente evolutiva- modificativa del medesimo soggetto giuridico che conserva la propria identità, seppur in un nuovo assetto organizzativo. Ciò significa che in capo all’incorporante sussistono gli obblighi dichiarativi e le possibili conseguenze espulsive di cui all’art. 38 del Codice dei Contratti, anche con riferimento alle società partecipanti alla fusione.

 

Nel sistema delineato dall’art. 38 del Codice dei Contratti, gli obblighi dichiarativi contemplati e le conseguenze di carattere espulsivo, che derivano da dichiarazioni obiettivamente non corrispondenti al vero, restano soggetti ad un regime di carattere rigidamente oggettivo. Ne consegue che assume rilevanza l’eventuale stato di buona fede in cui possa trovarsi il dichiarante, anche per fatto imputabile a soggetti pubblici (nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate).

 

La cauzione che viene versata dai concorrenti in una gara pubblica assolve alla funzione tipica di garanzia della stipula del contratto e, più in generale, della serietà e della congruenza dell’offerta nel suo complesso; il suo incameramento - da parte dell’Amministrazione appaltante- prescinde da valutazioni di ordine psicologico, relative al maggiore o minore grado di consapevolezza del concorrente sulla sussistenza della causa ostativa, e si riconnette al dato oggettivo della mancata stipula del contratto per fatto riferibile al concorrente.

 

 

 

BREVI ANNOTAZIONI

OGGETTO DELLA SENTENZA

Nonostante la distinzione concettuale ed il diverso regime giuridico tra le concessioni di servizi e gli appalti pubblici di servizi (in base al quale si esclude l’assoggettabilità delle prime al Codice dei Contratti), la giurisprudenza prevede un’eccezione: ritiene applicabile alle concessioni l’art. 38 del D.Lgs. 163/2006. Si tratta, infatti, di un principio generale di ordine pubblico- economico che soddisfa l’esigenza dell’Amministrazione di avere un soggetto contraente realmente affidabile e che, in quanto tale, risulta applicabile anche nelle gare dirette all’affidamento delle concessioni di servizi.

Si afferma poi che, indipendentemente dal momento in cui si realizza una fusione tra più società e, quindi, indipendentemente dalla norma applicabile (previgente o vigente art. 2504-bis), i debiti fiscali non si estinguono con la fusione ma proseguono in capo alla società incorporante o a quella risultante dalla fusione.

 

PERCORSO ARGOMENTATIVO

La pronuncia in esame origina da un appello volto a chiedere la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, che respingeva il ricorso presentato contro l’atto di esclusione, da parte dell’Università degli Studi di Pisa, del B.P. per la violazione dell’art. 38, comma 1, lett. g) del Codice dei Contratti.

In particolare, l’odierna appellante B.P., costituita a seguito di una fusione per incorporazione di altre società prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, veniva esclusa sulla base di una comunicazione dell’Agenzia delle Entrate che, dopo aver inizialmente ingenerato uno stato di buona fede in ordine alla regolarità fiscale del B.P., comunicava la presenza di talune pendenze di carattere tributario a carico di due soggetti confluiti nell’appellante a seguito della fusione.

La società B.P. contestava la legittimità dell’esclusione facendo leva su quattro argomentazioni:

  1. lamentava, innanzitutto, l’erronea applicazione alla concessione di servizi per cui è causa delle previsioni di cui all’art. 38 del Codice dei Contratti che, al contrario, dovrebbero trovare applicazione nel solo caso di gare d’appalto;
  2. in secondo luogo, sosteneva l’inesistenza –nell’ambito del Codice dei Contratti- di una disposizione che prevedesse, e sanzionasse con l’esclusione, l’obbligo per la società incorporante di dichiarare le pendenze tributarie delle incorporate ai sensi del succitato art. 38;
  3. sosteneva che la conseguenza espulsiva non potesse derivare in modo automatico dalla carenza oggettiva del requisito di regolarità fiscale ma che si dovesse tener conto dello stato di buona fede in cui il dichiarante si sia trovato, anche per fatto imputabile a soggetti pubblici;
  4. infine, riteneva illegittimo l’incameramento della cauzione da parte dell’Università argomentando sulle diverse determinazioni assunte dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici.

L’istanza giungeva dinanzi al Consiglio di Stato, che respingeva la domanda di parte per infondatezza delle considerazioni a sostegno.

In relazione al primo motivo di appello, è opportuno precisare che la differenza tra le “concessioni di servizi” e gli “appalti pubblici di servizi” non è solo terminologica ma comporta l’applicazione di un diverso regime giuridico: le prime, disciplinate dall’art. 3 commi 12 e 30 del Codice dei Contratti, devono sottostare al “solo” rispetto dei principi desumibili dal Trattato CE e di quelli generali relativi ai contratti pubblici; i secondi, disciplinati dall’art. 3, comma 10 del Codice dei Contratti, sono tenuti al rispetto degli obblighi dichiarativi di cui all’art. 38 del medesimo testo normativo. Ciò significa che stabilire se una gara ha per oggetto l’affidamento di un contratto “di appalto di servizi” o di un contratto di “concessione di servizi” significa stabilire se lo stesso affidamento debba essere soggetto in toto alle prescrizioni del D.Lgs. 163/2006 o semplicemente conformarsi ai principi in materia di contrattualistica pubblica.

Tuttavia, l’inesistenza di una chiara definizione di concessione ha prodotto inevitabili incertezze giuridiche che sono state risolte dalla giurisprudenza recente, individuando un fondamentale elemento di differenziazione. Il discrimen tra la fattispecie giuridica dell’appalto e quella della concessione sembrerebbe individuabile nella circostanza che, nel contratto di concessione, il corrispettivo dell’erogazione del servizio consiste unicamente nel diritto di gestire il servizio, avendo come vantaggio la possibilità di esigere un prezzo dall’utenza. Più in dettaglio, ne consegue che il fattore determinante in una concessione è il c.d. “rischio operativo”, inteso come incertezza del ritorno economico dell’attività di gestione che grava sul solo soggetto concessionario a fronte della richiesta di un prezzo.

Ciò premesso, nel caso in esame è corretto qualificare lo svolgimento del servizio di cassa dell’Università come concessione di servizi (proprio in virtù del sostanziale accollo del rischio operativo in capo al gestore) ma non è altrettanto pertinente la contestazione dell’appellante.

Difatti, è pacifico in giurisprudenza che il principio di cui all’art. 38 del Codice degli appalti, in base al quale la partecipazione alle gare pubbliche richiede il possesso in capo ai partecipanti di alcuni inderogabili requisiti di moralità, rappresenti un principio di carattere generale e, più precisamente, un principio di ordine pubblico economico che soddisfa l’esigenza di avere –come contraente dell’Amministrazione- un soggetto affidabile; sulla scorta di quanto affermato, si deduce l’applicabilità del prescritto canone di carattere generale anche alle gare dirette all’affidamento delle concessioni di servizi.

È quindi evidente che l’obbligo di fornire le dichiarazioni di cui al succitato art. 38 derivi da una valutazione di ordine generale, prima ancora che dalle disposizioni del disciplinare di gara.

Per quanto concerne il secondo motivo di appello,  è bene premettere che la società appellante, partendo dall’analisi dell’art. 2504-bis nella sua formulazione originaria ed in quella successiva alla riforma del D.Lgs. 6/2003, afferma sia necessario e prioritario stabilire il momento in cui la fusione per incorporazione sia avvenuta. Infatti, se le operazioni di fusione possono ricondursi ad un momento antecedente all’entrata in vigore della riforma del diritto societario, è orientamento pacifico e costante che tale fusione per incorporazione realizzi un’ipotesi di successione a titolo universale corrispondente alla successione mortis causa delle persone fisiche, così da realizzare l’estinzione delle società incorporate ed il successivo subingresso dell’incorporante nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo alle prime. Se invece la fusione è successiva, valorizzando la lettera della disposizione che non contiene più il riferimento all’effetto estintivo, si può affermare che la società risultante dalla fusione o dalla incorporazione prosegue in tutti i rapporti giuridici antecedenti alla fusione e che la stessa non determini l’estinzione delle società incorporate e non crei un nuovo soggetto di diritto ma attui l’integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, dimodoché la fusione si presenti come una vicenda meramente evolutiva-modificativa del medesimo soggetto giuridico.

Ora, evidenziando come nel caso di specie le operazioni di fusione siano avvenute prima dell’entrata in vigore della richiamata  riforma, l’appellante invoca l’estinzione dei rapporti giuridici antecedenti al fine di ritenere estinte le pendenze tributarie delle partecipanti.

A questa tesi si oppone quella accolta dal TAR della Toscana e, successivamente, dal Consiglio di Stato in base alla quale non rilevava il momento in cui la fusione aveva avuto atto; anche nell’ipotesi in cui sia stata precedente all’entrata in vigore, la conseguenza della permanenza del debito fiscale non cambia. E, in effetti, si obietta che l’estinzione della società incorporata, disposta dal previgente art. 2504-bis, non postula in alcun modo l’effetto estintivo anche del debito.

Ciò risulta, altresì, confermato dall’art 15 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, che disciplina specificamente le violazioni di norme tributarie e che sancisce il subentro della società risultante dalla fusione “negli obblighi delle società trasformate o fuse relativi al pagamento delle sanzioni”. Sebbene la norma si riferisca esclusivamente al pagamento della sanzione, deve dedursi che – in base ai principi di continenza e di sequela- essa debba a-fortiori riferirsi anche all’obbligazione principale.

Sulla base delle esposte considerazioni, il Consiglio di Stato ribadisce quindi l’obbligo per la società incorporante di dichiarare le pendenze tributarie di cui all’art. 38 del Codice dei Contratti.

Il terzo motivo di appello viene poi respinto sulla base di una considerazione relativa al sistema generale delineato dall’art. 38, volto a garantire la par condicio e l’affidamento dei concorrenti, nonché teso ad evitare un inutile carico di lavoro per l’Amministrazione dimodoché non valuti delle offerte potenzialmente prive dei requisiti necessari. Si tratta di un sistema rigidamente oggettivo, secondo il quale la conseguenza espulsiva deriva in modo automatico dalla carenza oggettiva del requisito, senza che sia possibile tener conto dell’eventuale buona fede del dichiarante, nemmeno quando essa sia stata ingenerata da un fatto imputabile ad un ente pubblico. Per un approfondimento su questo e sul quarto motivo si rinvia alla parte seguente.

 

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

La pronuncia in esame fornisce argomentazioni a sostegno della tesi secondo cui l’incameramento della cauzione, da parte dell’Amministrazione appaltante, consegue automaticamente al provvedimento di esclusione e all’accertata insussistenza dei requisiti di ordine generale, assolvendo  ad una funzione tipica di garanzia della stipula del contratto e della serietà e congruenza dell’offerta.

Tale tesi appare coerente con l’evoluzione dei profili della cauzione provvisoria e con la natura sui generis che la contraddistingue.  

Disciplinata per la prima volta nell’ordinamento post-unitario dall’art. 332 dell’Allegato F ella L. 2248/1865 quale garanzia obbligatoria posta a carico dei partecipanti ad una gara, la cauzione provvisoria veniva soppressa dalla L. 687/1984 e sostituita con la comunicazione (e la successiva cancellazione) al comitato centrale dell’Albo Nazionale Costruttori; reintrodotta un decennio dopo dalla Legge Merloni, la cauzione provvisoria copriva una sfera di operatività più ampia, fungendo da garanzia contro il rischio della mancata sottoscrizione del contratto sia per ragioni legate alla “volontà” dell’aggiudicatario, sia per circostanze semplicemente imputabili al “fatto” dello stesso. Regolamentata dal combinato disposto degli artt. 48 e 75 del Codice dei Contratti, essa viene attualmente considerata come un elemento strutturale dell’offerta (e non come mero elemento di corredo della stessa), che quindi non può formare oggetto di una regolarizzazione postuma, pena la violazione dei fondamentali principi di par condicio e di affidamento dei concorrenti.

Il tema della natura giuridica della cauzione provvisoria è stato a lungo caratterizzato da un animato dibattito interpretativo, scontrandosi in proposito due posizioni giurisprudenziali: la prima volta a qualificare l’istituto come clausola penale, la seconda tesa a inferire la cauzione nella categoria della caparra confirmatoria.

Una giurisprudenza più risalente considerava l’incameramento della cauzione come la conseguenza di un inadempimento dell’aggiudicatario, in una logica di liquidazione anticipata del danno che prescindeva dalla reale portata quantitativa del nocumento patito dall’Amministrazione. Facendo leva sulla circostanza che il legislatore non prevedeva l’ulteriore risarcibilità del danno non coperto dalla cauzione, si tendeva a ricondurre l’istituto nell’alveo della clausola penale, definita- ai sensi dell’art. 1382 c.c.- quale clausola inserita all’interno di un accordo principale con lo scopo di determinare preventivamente la prestazione che una parte dovrà eseguire in caso di ritardo nell’esecuzione o di inadempimento.

Una diversa tesi oggi dominante, invece, prende le mosse dalla ratio della cauzione provvisoria ed evidenzia come questa sia diretta non tanto a stabilire le conseguenze dell’inadempimento quanto a garantire la serietà dell’offerta fino al momento della stipula del contratto. Nel tentativo, poi, di tutelare l’interesse dell’Amministrazione a pretendere un maggior danno, la giurisprudenza più recente qualifica la cauzione come caparra confirmatoria che, in base al disposto civilistico di cui all’art. 1385 e ai principi ormai consolidati in materia, sembra più coerente con l’intento di confermare la volontà di assumere un impegno in futuro e con la possibilità, per la P.A., di richiedere il risarcimento del maggior danno patito.

Tuttavia deve osservarsi che la cauzione si presenta come un istituto sui generis, disciplinato dal legislatore con norme ad hoc (artt. 48 e 75 del D.Lgs. 163/2006) e finalizzato a tutelare le ragioni della stazione appaltante nelle more della stipulazione del contratto. In particolare, la cauzione consente al soggetto che ha bandito la procedura di ottenere immediato ristoro, senza necessità di prova, dei pregiudizi subiti per effetto di specifiche violazioni del dovere di lealtà e probità nelle trattative addebitabili all’operatore partecipante alla gara. Essa opera sia nel caso di “mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario” (art. 75, comma 6, Codice dei Contratti), sia nella diversa fattispecie della mancanza di prova dei requisiti in occasione delle relative verifiche (art. 48, commi 1 e 2, Codice dei Contratti).

La cauzione provvisoria svolge, dunque, una doppia funzione: da un lato indennitaria in caso di mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell’aggiudicatario, dall’altro strettamente sanzionatoria in caso di altri inadempimenti procedimentali del concorrente.

Una terza funzione può genericamente essere individuata nello scopo di garanzia che la cauzione persegue: essa si presenta come garanzia del generale patto di integrità cui si vincola chi partecipa ad una gara pubblica, perseguendo la finalità di responsabilizzare i partecipanti in relazione alle dichiarazioni rese, di garantire la serietà e l’affidabilità dell’offerta e di escludere i soggetti privi dei requisiti necessari. Infatti, la presenza di dichiarazioni non corrispondenti al vero altera di per sé la gara, quantomeno per un aggravio di lavoro della stazione appaltante che viene così chiamata a vagliare anche concorrenti inidonei oppure offerte prive di tutte le qualità promesse. Inoltre, la cauzione si pone altresì come garanzia per il versamento della sanzione pecuniaria comminata per le irregolarità inerenti le dichiarazioni di cui all’art. 38 del Codice dei Contratti e che conducono al c.d. soccorso istruttorio.

Occorre precisare che le disposizioni succitate (artt. 48 e 75 Codice dei Contratti) predispongono un sistema di automaticità ponderata della sanzione, tale per cui l’incameramento della cauzione rappresenta una conseguenza automatica del provvedimento di esclusione e della mancata sottoscrizione del contratto “per fatto dell’affidatario”. La ratio di tale meccanismo deve essere individuata nel contemperamento del principio di libero accesso alle gare con la garanzia che vi partecipino imprese affidabili e, altresì, nella finalità di tutelare la correttezza e la speditezza della procedura di affidamento, preservando la gara dalla partecipazione di imprese non adeguate per mancanza dei requisiti necessari.

In tale ottica, si è posto il problema di capire quale spazio interpretativo potesse avere tale espressione e, in particolare, se nel “fatto dell’affidatario” potesse farsi rientrare l’insussistenza dei requisiti di ordine generale di cui all’art. 38 del D.Lgs. 163/2006.

Una prima tesi restrittiva assume una posizione negativa, argomentando sulla scorta dei principi di legalità e di tassatività delle norme sanzionatorie ed escludendo quindi la possibilità di far derivare l’incameramento della cauzione dall’accertata insussistenza dei requisiti di moralità.

Più convincente appare la tesi estensiva che ritiene non pertinenti i richiami al principio di tassatività, che riguarda le sanzioni in senso proprio e non anche le misure di indole patrimoniale contenute negli atti di indizione e accettate dai concorrenti, e al principio di legalità che è riferibile alle sole cause di esclusione dalla gara e non anche alle altre misure di tipo patrimoniale contenute negli atti di indizione. Sulla base di tali considerazioni, la giurisprudenza prevalente ritiene di considerare la cauzione provvisoria come una misura di indole patrimoniale, priva del carattere sanzionatorio amministrativo, alla quale non sono applicabili i principi succitati; in considerazione poi del carattere aperto dell’espressione “fatto dell’affidatario”,  essa giunge a ravvisare nella accertata insussistenza dei requisiti di ordine generale ex art. 38 del Codice dei Contratti un’ipotesi di mancata stipulazione del contratto per fatto dell’affidatario, che legittima l’automatico incameramento della cauzione.

Per le ragioni suesposte, si può affermare che la mancanza del requisito di regolarità fiscale dell’impresa aggiudicatrice comporta in via oggettiva l’esclusione della stessa dalla gara e  l’automatico incameramento della cauzione da questa prestata, prescindendo da valutazioni di ordine psicologico, relative al maggiore o minore grado di consapevolezza del concorrente sulla sussistenza della causa ostativa.

 

 

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

 

ha pronunciato la presente

 

SENTENZA

 

sul ricorso numero di registro generale …, proposto dal B.P.S.C., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati ***, con domicilio eletto presso …;

 

contro

 

Università degli Studi di P., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in …;

 

nei confronti di

 

B.d.P. e F.C.C. S.c.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati ***, con domicilio eletto presso …;

 

per la riforma della sentenza del T.A.R. della Toscana, Sezione II, n. …

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Università degli Studi di P. e della B.d.P. e F.C.C. S.c.p.a.;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 26 maggio 2015 il Cons. C.C. e uditi per le parti l’avvocato ***, l’avvocato dello Stato *** e l’avvocato ***;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

 

Il B.P.S.C. (d’ora in poi: ‘il B.P.’ o ‘la società appellante’) riferisce di essere un operatore autorizzato all’esercizio dell’attività bancaria ai sensi del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (‘Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia’) e di essere stato costituito – con effetto dal 1° luglio 2007 – a seguito di fusione fra la B.P.I. e il B.P.V. e N. s.c.a.r.l.

Riferisce, altresì, di aver gestito il servizio di cassa dell’Università degli Studi di P. (per effetto di un contratto stipulato il 21 dicembre 2006, da ultimo prorogato sino al 31 dicembre 2013) e di avere successivamente partecipato alla procedura aperta indetta dall’Ateneo per l’affidamento del medesimo servizio.

Con ricorso proposto dinanzi al T.A.R. della Toscana e recante il n. … l’odierna appellante (che era risultata aggiudicataria all’esito della procedura da ultimo richiamata) ha impugnato gli atti con cui l’Università appellata, all’esito della verifica dei requisiti di cui al comma 2 dell’articolo 48 del ‘Codice dei contratti’, l’ha esclusa dalla procedura di gara per violazione della previsione di cui all’articolo 38, comma 1, lettera g) del ‘Codice dei contratti’ (il quale fa riferimento alla commissione di “violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse”).

L’esclusione era stata disposta sulla base di una comunicazione dell’Agenzia delle entrate in data … con cui veniva indicato che a carico dell’appellante sussistevano due importanti pendenze di carattere tributario (la prima relativa a un inadempimento risalente al 1993 e riferibile alla B.di B. e la seconda relativa a un inadempimento risalente al 2001 e riferibile alla ICCRI/B.F.E.). Entrambi i soggetti cui erano riferibili le violazioni tributarie in contestazione erano confluiti nel B.P.S.C. all’esito di complesse operazioni di fusione per incorporazione dettagliatamente descritte alle pagine 5 e 6 del ricorso in appello.

Ai fini della presente decisione giova sottolineare che sia il B.P. di B. s.p.a., sia la ICCRI/B.F.E. si erano fuse per incorporazione in altri soggetti bancari (per poi confluire in B.P.) prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6 (‘Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366’), atteso che tali fusioni per incorporazione erano avvenute – rispettivamente – in data 18 ottobre 1999 e in data 1° giugno 2002.

Con la sentenza in epigrafe il T.A.R. della Toscana ha respinto il ricorso, ritenendolo infondato.

La sentenza in questione è stata impugnata in appello dal B.P. il quale ne ha chiesto la riforma articolando plurimi motivi.

Con il primo motivo di appello il B.P. lamenta la mancata delibazione da parte dei primi Giudici in ordine al motivo di ricorso con cui si era richiamato (in quanto pertinente per il caso di specie) l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale difetta nell’ambito del ‘Codice dei contratti ‘ una disposizione la quale preveda (e con la sanzione dell’esclusione) l’obbligo per l’incorporante di dichiarare le pendenze tributarie dell’incorporata ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 38 del richiamato ‘Codice’.

L’appellante reitera poi (in quanto non espressamente esaminato dal T.A.R.) il motivo di ricorso con cui si era richiamato il diverso – ma parimenti favorevole - orientamento secondo cui, anche a ritenere che la società incorporante possa essere chiamata a rispondere delle inadempienze dell’incorporata, ciò è possibile solo laddove si dimostri che l’operazione di fusione abbia natura sostanzialmente fittizia ed assolva alla finalità (di carattere elusivo) di consentire all’incorporata di proseguire l’attività sotto le mentite spoglie dell’incorporante.

Si tratterebbe, tuttavia, di un’evenienza che non ricorre nel caso in esame, ragione per cui (contrariamente a quanto ritenuto dai primi Giudici) l’appellate non avrebbe potuto essere esclusa dalla procedura per inadempienze di carattere fiscali riferibili alle sue danti causa (rectius: a società danti causa di proprie danti causa).

Ed ancora, i primi Giudici avrebbero erroneamente omesso di considerare l’orientamento della S.C. secondo cui le operazioni di fusione che – al pari di quelle che qui rilevano – siano state attuate prima dell’entrata in vigore della riforma del diritto societario di cui al decreto legislativo n. 6 del 2006 (i.e.: prima dell’introduzione nel’ambito del codice civile dell’articolo 2504-bis nella sua attuale formulazione) producono l’effetto di estinguere le società fuse o incorporate con fenomeno riconducibile alla successione universale.

Al contrario (in base alla richiamata giurisprudenza), le disposizioni di cui alla novella codicistica del 2003 (da cui emerge il carattere solo modificativo e non estintivo della fusione) non presentano carattere interpretativo ma innovativo rispetto a quanto stabilito dal previgente testo dell’articolo 2504-bis cod. civ. e risultano applicabili alle sole fusioni attuate dopo l’entrata in vigore della riforma.

Ebbene, se i primi Giudici avessero correttamente interpretato ed applicato tale orientamento giurisprudenziale, avrebbero necessariamente dovuto concludere nel senso dell’intervenuta estinzione dei soggetti cui erano riferibili le contestate inadempienze tributarie e della conseguente impossibilità di riferire tali inadempienze alla società appellante.

Del pari erroneamente i primi Giudici avrebbero richiamato a sostegno delle proprie tesi le statuizioni rese dalla S.C. con la sentenza n. 3820/2013, non essendosi evidentemente avveduti del fatto che tale sentenza riguardava una vicenda che – al contrario di quelle che qui vengono in rilievo – si era perfezionata all’indomani della più volte richiamata novella codicistica.

Con il secondo motivo di appello il B.P. chiede la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui i primi Giudici, pur ammettendo la buona fede dell’odierna appellante nell’iniziale dichiarazione relativa all’insussistenza di violazioni di carattere tributario, ha nondimeno ritenuto tale dichiarazione idonea a determinare l’esclusione dalla gara, in quanto “ideologicamente falsa (seppure non idonea a configurare un reato per mancanza dell’elemento soggettivo)” (pagina 14 del ricorso in appello).

In tal modo decidendo i primi Giudici:

- avrebbero erroneamente omesso di considerare che non è configurabile nel vigente ordinamento penale la figura del falso documentale colposo;

- avrebbero erroneamente affermato che l’appellante non potesse invocare in proprio favore un’ipotesi di errore scusabile (indotto dall’Agenzia delle Entrate, la quale aveva inizialmente ingenerato uno stato di buona fede in ordine alla propria regolarità fiscale), trattandosi di un operatore professionale, in quanto tale onerato di un onere di diligenza qualificata;

- avrebbero omesso di considerare che non sussistessero in atti prove certe della stessa contestata inadempienza tributaria, anche in considerazione del fatto che le cartelle di pagamento rivolte alle danti causa dell’appellante (la prima, del gennaio 2011, rivolta alla B.P. di B. e la seconda, dell’aprile 2007, rivolta alla ICCRI) non sarebbero state ritualmente notificate alle stesse danti causa, con la conseguenza che le relative risultanza non sarebbero opponibili all’appellante medesima;

- avrebbero erroneamente richiamato i principi di diritto affermati con la sentenza di questo Consiglio di Stato n. 907/2012, non avvedendosi che si trattava di pronuncia resa su una vicenda affatto diversa da quella che qui rileva;

- avrebbero omesso di considerare adeguatamente la valenza che, ai fini del decidere, sortiva il certificato liberatorio reso dall’Agenzia delle entrate in data 1° agosto 2012 e il fatto che l’odierna appellante avesse prontamente sanato (in data 25 settembre 2012) le pendenze tributarie di cui aveva acquisito conoscenza solo in data 21 settembre 2012. In tal modo decidendo i primi Giudici avrebbero omesso di tenere in adeguata considerazione la violazione perpetrata in danno dell’appellante dei principi di collaborazione e buona fede procedimentale, nonché del principio di legittimo affidamento riposto nella correttezza delle dichiarazioni rese dalla competente Agenzia delle entrate.

Con il terzo motivo di appello il B.P. chiede la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui i primi Giudici hanno respinto il motivo con il quale si era contestata l’applicabilità alla vicenda per cui è causa (in cui veniva in rilievo una concessione di servizi) delle disposizioni di cui agli articoli 38, comma 1-ter e 48 del ‘Codice dei contratti’, anche in relazione al disposto incameramento della cauzione per le richiamate incongruenze dichiarative.

In particolare, la sentenza sarebbe meritevole di riforma per la parte in cui i primi Giudici hanno ritenuto che l’operato dell’Università degli Studi di P. rappresentasse una legittima forma di autovincolo in ogni caso non contrastante con le richiamate disposizioni normative.

Con il quarto motivo di appello il B.P.  lamenta il mancato accoglimento del motivo con cui si era affermato che, pure a voler ritenere che gli articoli 38, comma 1-ter e 48 del ‘Codice dei contratti’ possano trovare applicazione anche in relazione alle concessioni di servizi, nondimeno la seconda di tali disposizioni non avrebbe comunque legittimato l’incameramento della cauzione provvisoria a fronte di asserite violazioni degli obblighi dichiarativi di cui all’articolo 38 del medesimo ‘Codice’.

Del resto, l’incameramento della cauzione non avrebbe potuto essere disposto a fronte di una dichiarazione (quella resa dall’appellante ai fini della partecipazione alla gara) meramente riproduttiva di una certificazione pubblica rilasciata dalla competente Agenzia delle entrate, sì da non consentire neanche in astratto la configurazione di un’ipotesi di ‘falsa dichiarazione’.

L’appellante invoca inoltre in proprio favore l’orientamento giurisprudenziale secondo cui gli articoli 48 e 75 del ‘Codice’ devono essere intesi nel senso di legittimare l’esclusione dalla gara (e l’escussione della cauzione) solo nelle più gravi ipotesi di radicale falsità delle dichiarazioni rese ai fini della partecipazione (nonché di radicale carenza dei requisiti di cui si era attestato il possesso) e non anche nel caso di dichiarazioni conclamatamente rese in uno stato di buona fede, peraltro indotto dal fatto di un Organo pubblico quale l’Agenzia delle Entrate.

Si è costituita in giudizio l’Università degli Studi di P. la quale ha concluso nel senso della reiezione dell’appello.

Si è altresì costituita in giudizio la B. di P. e F.C.C. s.c.p.a. la quale ha concluso nel senso della reiezione dell’appello.

Alla pubblica udienza del 26 maggio 2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

 

DIRITTO

 

1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dal B.P. avverso la sentenza del T.A.R. della Toscana con cui è stato respinto il ricorso avverso gli atti con cui l’Università degli Studi di P.

- dopo averla dichiarata aggiudicataria di una gara per l’affidamento del servizio di cassa per conto di quell’Ateneo

- l’ha esclusa dalla procedura ritenendo la violazione del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, articolo. 38, comma 1, lettera g) (per gravi violazioni di carattere tributario imputabili a due società sue danti causa).

2. Il Collegio ritiene di esaminare prioritariamente il terzo motivo di appello con cui – come anticipato in narrativa – il B.P. lamenta il mancato accoglimento del motivo con cui si è lamentata l’erronea applicazione alla concessione di servizi per cui è causa delle previsioni di cui all’articolo 38 del ‘Codice dei contratti’ (disposizione che, al contrario, dovrebbe trovare applicazione nel solo caso di gare di appalto).

2.1. Il motivo non può trovare accoglimento.

2.1.1. Per quanto riguarda la qualificazione del contratto all’origine dei fatti di causa come ‘concessione di servizi’ (articoli 3, comma 12 e 30 del decreto legislativo 12 aprile 206, n. 163) e non come ‘appalto pubblico di servizi’ (ivi, articolo 3, comma 10) si riscontra in atti una sostanziale comunanza di vedute fra le parti in causa, pur divergendo le stesse in ordine alle conseguenze di tale qualificazione (si osserva inoltre che la stessa sentenza in epigrafe qualifica il contratto in questione come concessione di servizi).

Ai limitati fini che qui rilevano si osserva comunque che la qualificazione come concessione di servizi espressamente affermata dai primi Giudici risulta nel complesso condivisibile, se solo si consideri che lo svolgimento del servizio di cassa dell’Università, pur configurandosi con caratteristiche analoghe a quelle proprie di un appalto di servizi, si caratterizza per il fatto che le modalità di remunerazione del servizio comportano un sostanziale accollo in capo al gestore del c.d. ‘rischio operativo sostanziale’.

2.1.2. Ebbene, per quanto riguarda l’applicabilità alla concessione di servizi per cui è causa delle disposizioni di cui all’articolo 38 del ‘Codice dei contratti’ (e rinviando al prosieguo la questione dell’espresso richiamo che, in sede di sostanziale autovincolo, l’amministrazione aveva operato alle previsioni codicistiche in sede di lex specialis di gara), il Collegio ritiene di richiamare, non ravvisandosi ragioni in senso contrario, l’orientamento di questo Giudice di appello che ha già affermato in via generale tale applicabilità.

E’ stato affermato, in particolare, che il principio di cui all’articolo 38 del ‘Codice dei contratti’ presenta un carattere di generalità e trova quindi applicazione anche nelle gare dirette all’affidamento di concessioni di servizi. Si tratta, del resto, di un fondamentale principio di ordine pubblico economico che soddisfa l’esigenza di disporre di un soggetto contraente con l’amministrazione il quale sia affidabile sotto il profilo morale e degli altri requisiti richiesti.

Siffatto principio generale attiene al profilo sostanziale, alla necessità cioè che alla gara possa partecipare un soggetto effettivamente affidabile perché in possesso dei requisiti di moralità, ma non anche al profilo dichiarativo e formale, cioè alla sussistenza di un obbligo legale di dichiarare comunque l’assenza di cause ostative (in tal senso: Cons. Stato, VI, 2 febbraio 2015, n. 462; id., VI, 27 giugno 2014, n. 3251; id., VI, 21 maggio 2013, n. 2725).

Pertanto, l’obbligo di dichiarare (e, prima ancora, di possedere) i requisiti di ordine generale di cui all’articolo 38 del decreto legislativo n. 163 del 2006 (ivi compreso quello della regolarità fiscale di cui all’articolo 38, comma 1, lettera g)) sussisteva in relazione alla gara per cui è causa, pure a prescindere dall’espresso richiamo che ne era stato fatto in sede di lex specialis.

2.1.3. Ai limitati fini che qui rilevano (e con notazione non meno dirimente) si osserva comunque che l’articolo 4 del disciplinare di gara (rubricato ‘Requisiti di ammissione e contenuto della domanda di partecipazione e dichiarazioni a corredo della domanda e dell’offerta’) imponeva ai partecipanti di dichiarare (nonché –scil. - di possedere) il requisito della regolarità fiscale di cui all’articolo 38, comma 1, lettera g), cit. (in particolare, attraverso la compilazione della domanda di partecipazione, i concorrenti dovevano dichiarare “di non aver commesso violazioni, gravi definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui è stabilita”).

E’ qui appena il caso di osservare che, attraverso la compilazione della domanda di partecipazione, i concorrenti hanno integralmente accettato tale prescrizione la quale integrava pertanto un puntuale obbligo dichiarativo, la cui violazione era idonea a produrre le conseguenze escludenti di cui è menzione al più volte richiamato articolo 38.

3. Si può ora passare all’esame puntuale delle questioni centrali ai fini del decidere. Si tratta di stabilire, in sequenza logico-sistematica:

a) se l’accertata sussistenza di rilevanti pendenze fiscali in capo alla società fusa per incorporazione determini anche in capo alla società incorporante gli obblighi dichiarativi e le possibili conseguenze espulsive di cui al più volte richiamato articolo 38 del ‘Codice dei contratti’, ovvero se la sussistenza di tali obblighi e conseguenze sia da escludere ratione temporis in relazione alla presente vicenda contenziosa;

b) se, una volta fornita risposta in senso affermativo al quesito che precede, la conseguenza espulsiva derivi in modo sostanzialmente automatico dalla carenza in senso oggettivo del requisito di regolarità fiscale, ovvero se possa in qualche misura tenersi conto dello stato di buona fede in cui può essersi trovato il dichiarante (anche per fatto imputabile a soggetti pubblici).

3.1. Ebbene, per quanto riguarda la questione richiamata sub a), i primi Giudici hanno ritenuto ostativi all’accoglimento delle tesi dell’appellante i principi di diritto affermati dalla Cassazione civile con la sentenza n. 3820/2013, secondo cui il nuovo articolo 2504-bis cod. civ. (nel testo introdotto dall’articolo 5 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6) deve essere inteso nel senso che la società che risulta dalla fusione o quella incorporante proseguono in tutti i rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione, atteso che l’evento della fusione non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della società incorporata, né determina l’istituzione di un nuovo soggetto di diritto, ma attua l’unificazione mediante l’integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo-modificativa del medesimo soggetto giuridico il quale conserva la propria identità, pur se in un nuovo assetto organizzativo.

Come si è anticipato in narrativa, l’appellante contesta tale ricostruzione (e il richiamo giurisprudenziale ad essa sotteso) e osserva che essa risulterebbe pertinente solo laddove venisse qui in rilievo una vicenda di fusione per incorporazione verificatasi anteriormente alla riforma del diritto societario ai sensi del decreto legislativo n. 6 del 2003.

Al contrario – sottolinea l’appellante – siccome nel caso in esame la fusione per incorporazione delle due danti causa del B.P. si era verificata prima dell’entrata in vigore del decreto di riforma del diritto societario (rispettivamente, il 18 ottobre 1999 per quanto riguarda la B.P. di B. e il 1° giugno 2002 per quanto riguarda l’ICCRI – B-F.E.), la conseguenza sarebbe nel senso di rendere applicabile alla presente vicenda di causa il previgente articolo 2504-bis cod. civ. (nella formulazione di cui al decreto legislativo 16 gennaio 1991, n. 22).

Secondo un orientamento puntualmente richiamato dall’appellante – e riferito al previgente regime normativo -, la fusione per incorporazione che si sia verificata prima dell’entrata in vigore del novellato art. 2504-bis cod. civ. determina l’estinzione della società incorporata, atteso che la disciplina di cui alla riforma del diritto societario del 2003 assume carattere squisitamente innovativo e non meramente interpretativo del previgente (e diverso) quadro normativo (Cass., Sez. un., sent. 19509/2010).

3.1.1. Ebbene, tanto premesso da punto di vista generale, il Collegio osserva che le tesi della società appellante non possono comunque trovare accoglimento, pur se in base a ragioni diverse da quelle esposte dai primi Giudici.

Ed infatti, risulta che i primi Giudici abbiano effettivamente richiamato un orientamento giurisprudenziale non pertinente ratione temporis in relazione alla vicenda di causa (in quanto relativo a vicende di fusione per incorporazione verificatesi successivamente alla riforma del diritto societario del 2003).

Ma il punto è che, laddove si applichi alla vicenda di causa l’art. 2504-bis, cod. civ. nella formulazione al tempo vigente (i.e.: quella introdotta dall’articolo 13 del decreto legislativo n. 22 del 1991), non mutano in modo sostanziale le conseguenze in termini di riferibilità delle contestate inadempienze tributarie all’odierna appellante.

Ed infatti, ai sensi del pregresso articolo 2504-bis (la cui applicazione viene qui invocata dalla stessa società appellante), “la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte”.

La giurisprudenza relativa alla disposizione da ultimo richiamata ha infatti chiarito che la vicenda della fusione per incorporazione determinasse (nel pregresso sistema normativo) l’estinzione della società incorporata e, conseguentemente, un’ipotesi di successione a titolo universale corrispondente alla successione mortis causa delle persone fisiche, dalla quale deriva(va) l’estinzione della società incorporata ed il contestuale subingresso di quella incorporante nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo alla prima (sul punto, oltre alla sentenza n. 19509 del 2010 - richiamata dalla stessa appellante -, si citeranno: Cass. Civ., n. 12350 e 5716 del 2003; 17974, 9504 e 4679 del 2002; 14238, 10595, 9595, 6949, 4180 e 2655 del 2001; 9796/2000).

Al contrario, il richiamato filone giurisprudenziale non postulava in alcun modo che la vicenda estintiva della società fusa o incorporata determinasse altresì un effetto estintivo sul debito (nel caso di specie, di carattere tributario) o che il subentro della società incorporante avvenisse a titolo di responsabilità solidale.

Ed invero, il richiamato fenomeno – di carattere sostanzialmente successorio – comportava che la società incorporante subentrasse nella medesima posizione debitoria della sua dante causa, laddove il tratto distintivo fra la vecchia e la nuova disciplina (e la sussistenza o meno della vicenda estintiva della dante causa) rinveniva puntuali applicazioni su aspetti diversi da quelli che qui vengono in rilievo (così come, nel caso della sentenza 19509 del 2010 richiamata dalla società appellante, la ritualità della notifica effettuata presso la sede della società fusa per incorporazione).

Concludendo sul punto, anche a seguito della corretta individuazione della disciplina che governava la vicenda di fusione per incorporazione che qui viene in rilievo (si tratta dell’articolo 2504-bis cod. civ. nella formulazione anteriore alla riforma del diritto societario del 2003), non muta il dato di fatto secondo cui, per effetto della sequenza di operazioni di fusione per incorporazione che avevano riguardato le società nei cui confronti erano inizialmente maturati i contestati insoluti tributari, tali insoluti fossero comunque riferibili al B.P., nei cui confronti operavano – in via di principio – gli obblighi dichiarativi e le conseguenze di cui all’articolo 38 del ‘Codice dei contratti’.

3.1.2. Fermo restando il carattere dirimente ai fini del decidere di quanto appena osservato sub 3.1.1., si osserva comunque che a conclusioni del tutto analoghe si dovrebbe giungere anche laddove si riguardi la vicenda di causa attraverso l’angolo visuale della speciale disciplina in tema di violazioni di norme tributarie di cui al decreto legislativo n. 472 del 18 dicembre 1997.

Ed infatti, in base all’articolo 15 del decreto legislativo in questione (articolo rubricato “Trasformazione, fusione e scissione di società” e che non risulta modificato nel corso del tempo), “la società o l’ente risultante dalla trasformazione o dalla fusione, anche per incorporazione, subentra negli obblighi delle società trasformate o fuse relativi al pagamento delle sanzioni (…)”.

Vero è che la disposizione in questione (la quale conferma in modo evidente la latitudine del fenomeno successorio dinanzi richiamato sub 3.2.) fa riferimento esclusivo all’obbligo relativo al pagamento delle sanzioni, me è anche vero che tale riferimento non può che essere riferito anche all’obbligazione principale in base a un evidente principio di continenza, nonché alla luce del generale principio “accessorium sequitur principale”.

E’ qui appena il caso di soggiungere che (contrariamente a quanto ritenuto dall’appellante) la responsabilità di cui è menzione all’articolo 15 del decreto legislativo n. 472, cit. non è configurabile come di carattere solidale, bensì come titolo di responsabilità proprio del soggetto incorporante (non altrimenti può essere intesa la chiara littera legis secondo cui la società incorporante “subentra negli obblighi delle società incorporate o fuse”).

3.1.3. Concludendo sul punto, si deve ritenere che, pure a seguito delle operazioni di fusione per incorporazione che avevano riguardato – rispettivamente - la B.P. di B. e l’ICCRI – B.F.E., gli insoluti di carattere tributario da ultimo segnalati dall’Agenzia delle entrate in data 11 novembre 2012 (e che certamente erano sussistenti al momento dell’inoltro della domanda di partecipazione – 5 settembre 2012 -) fossero riferibili in modo diretto alla Banca Popolare, se cui gravavano integralmente gli oneri dichiarativi e le conseguenze richiamate dall’articolo 38 del ‘Codice dei contratti’.

3.2. Si può quindi passare all’esame della seconda delle questioni dinanzi richiamate sub 3 (se, cioè, una volta accertata l’applicabilità alla vicenda di causa della previsione di cui all’articolo 38 del ‘Codice dei contratti’, la conseguenza espulsiva derivi in modo sostanzialmente automatico dalla carenza in senso oggettivo del requisito di regolarità fiscale, ovvero se possa in qualche misura tenersi conto dello stato di buona fede in cui può essersi trovato il dichiarante - anche per fatto imputabile a soggetti pubblici -).

3.2.1. Anche sotto tale aspetto le tesi della società appellante non possono trovare accoglimento.

3.2.2. Si osserva in primo luogo al riguardo che, nel sistema delineato dall’articolo 38 del ‘Codice dei contratti’, gli obblighi dichiarativi ivi contemplati e le conseguenze di carattere espulsivo che derivano da dichiarazioni obiettivamente non corrispondenti al vero, restano soggetti a un regime di carattere rigidamente oggettivo.

Non altrimenti può essere inteso il comma 1 dell’articolo 38 (secondo cui “sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento (…), né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti soggetti (…) g) che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti”) il quale non ammette ipotesi di irrilevanza della dichiarazione non veritiera - alla quale corrisponda l’oggettiva sussistenza di fattori preclusivi – in casi di sussistenza (per così dire) ‘putativa’ del requisito.

3.2.2.1. E’ qui appena il caso di rammentare che il complessivo sistema normativo in tema di requisiti di ordine generale (ovvero ‘di ordine pubblico’ o ‘di moralità’) delineato dall’articolo 38 del ‘Codice dei contratti risponde al prevalente interesse pubblico di assicurare che i partecipanti alle pubbliche gare siano dotati di requisiti soggettivi adeguati. Allo stesso modo, l’obbligo di assicurare il possesso di tali requisiti al momento della scadenza del termine per la presentazione delle offerte è volto a garantire in modo adeguato il rispetto del generale principio della par condicio fra i partecipanti.

3.2.2.2. E’ ancora il caso di osservare che persino la più ampia disciplina in tema di soccorso istruttorio di cui al nuovo comma 2-bis dell’articolo 38 del ‘Codice’ (nella formulazione introdotta dall’articolo 39 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 e che comunque non rileva ai fini della presente vicenda), laddove ammette il c.d. ‘soccorso istruttorio a pagamento’ per le ipotesi di “mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni”, non ammette comunque la tardiva presentazione di un documento o di una dichiarazione, laddove essi siano rappresentativi di un requisito di partecipazione ab origine non posseduto (nel caso in esame, si tratta della regolarità ai fini fiscali che obiettivamente risultava carente alla data del 5 settembre 2012).

3.2.2.3. Fermo restando il carattere dirimente ai fini del decidere di quanto in precedenza osservato il Collegio rileva inoltre che dall’esame degli atti di causa emergono alcuni elementi in base ai quali non risulta del tutto pacifica la non conoscenza da parte della società appellante della propria non regolarità ai fini fiscali (e conseguentemente, lo stato di ignoranza incolpevole su cui ha fondato alcuni degli argomenti del ricorso in appello).

Si osserva al riguardo:

- che non emerge una ragione apparente a supporto della scelta dell’appellante la quale, avendo allegato alla propria domanda di partecipazione la dichiarazione ai sensi dell’articolo 38, comma 1, lettera g), ha altresì deciso di allegare anche la dichiarazione dell’Agenzia delle entrate dell’agosto 2012 dalla quale non emergevano i carichi pendenti infine ritenuti ostativi dall’Università appellata;

- che, allo stesso modo, non emerge una ragione apparente a sostegno dell’ulteriore scelta dell’appellante la quale, essendo stata richiesta in corso di procedura, di integrare la documentazione relativa alla certificazione ISO, ha altresì provveduto in data 25 settembre 2012 – e anche in questo caso, senza esserne richiesta – ad allegare una nuova certificazione dell’Agenzia delle entrate del settembre 2011 attestante l’assenza – a quella data – di carichi ostativi alla partecipazione;

- che, proprio alla stessa data del 25 settembre 2012 (i.e.: lo stesso giorno in cui l’appellante produceva all’Università una certificazione dell’Agenzia delle entrate di carattere sostanzialmente liberatorio), la stessa appellante aveva provveduto a saldare i rilevanti debiti che in seguito avrebbero determinato la sua esclusione dalla gara (debiti di cui afferma di aver avuto conoscenza solo alcuni giorni prima – 21 settembre 2012 -). Tuttavia, alla data del 25 settembre l’odierna appellante si era limitata a rendere nota all’Università l’esistenza di una pregressa – e invero non più attuale – dichiarazione liberatoria dell’Agenzia, mentre aveva omesso di segnalare l’esistenza di due rilevanti insoluti tributari di cui, pure, aveva medio tempore acquisito conoscenza.

3.2.3. Per quanto riguarda, poi, la tipologia di insoluto tributario che qui viene in rilievo, si tratta certamente di violazione rientrante nelle previsioni di cui all’articolo 38 del ‘Codice dei contratti’ (il cui comma 2, ai fini che qui rilevano, stabilisce che “ai fini del comma 1, lettera g), si intendono gravi le violazioni che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse per un importo superiore all’importo di cui all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602; costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili”).

Si osserva al riguardo: a) che nel caso in esame risulta in effetti superato il valore-soglia di cui al richiamato comma 2 dell’articolo 38 (pari a diecimila euro); b) che le violazioni di cui trattasi risultano definitivamente accertate, trattandosi di somme ormai iscritte a ruolo con atto che – a quanto risulta agli atti di causa – non risulta più impugnabile).

3.2.4. Concludendo sul punto, si osserva che ciò che conferma l’obbligo di esclusione dalla gara dell’odierna appellante non è tanto (o non è solo) il solo profilo di discrasia fra quanto dichiarato ai fini partecipativi e la realtà sostanziale (discrasia che i primi Giudici riconducono, invero in modo non condivisibile, alla nozione di falsità ideologica), quanto – piuttosto – l’oggettiva carenza in capo alla società appellante, al momento di scadenza del termine per la presentazione delle domande, del requisito della regolarità fiscale di cui all’articolo 38, comma 1, lettera g) del ‘Codice dei contratti’.

3.2.5. Poche notazioni saranno qui dedicate alla questione (su cui si sofferma piuttosto diffusamente l’appellante) relativa a presunti vizi di notifica che inficerebbero le cartelle notificate nel corso del 2006 (per quanto riguarda il debito riferibile alla B.P. di B.) e nel corso del 2011 (per quanto riguarda il debito riferibile all’ICCRI – B.F.E).

L’appellante ha osservato al riguardo:

- che, per quanto riguarda la prima di tali notifiche, il competente agente per la riscossione avrebbe comunicato solo in data 4 febbraio 2014 che la relata non sarebbe disponibile e

- che, per quanto riguarda la seconda di esse, solo “recentemente” l’appellante avrebbe appreso che la notifica sarebbe nulla per essere stata effettuata presso un indirizzo diverso da quello dell’effettiva sede del soggetto notificatario al tempo della notifica.

La questione va esaminata alla luce dell’articolo 104, comma 2 del cod. proc. amm., secondo cui “[nel giudizio di appello] non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”.

Si osserva al riguardo:

- che la questione relativa alla regolarità delle notifiche avrebbe potuto (e dovuto) essere ritualmente proposta dinanzi alla competente giurisdizione tributaria e, in ogni caso, in contraddittorio con l’Ente impositore e che essa non può essere introdotta per la prima volta nella presente sede di appello dinanzi a un Giudice evidentemente privo di giurisdizione su tale aspetto della controversia e altresì in difetto di evocazione in giudizio degli altri Enti coinvolti (sotto tale aspetto, manca il presupposto perché si possa ammettere l’indispensabilità officiosa dell’acquisizione delle due relate di cui si discute);

- che il provvedimento di esclusione impugnato in primo grado è stato adottato il 12 febbraio 2013 sulla base di una comunicazione dell’Agenzia delle entrate in data 12 novembre 2012 e che il ricorso di primo grado è stato depositato in data 8 marzo 2013, mentre l’appellante dichiara (pag. 8 del ricorso in appello) di aver richiesto informazioni sulle notifiche in questione solo in data 14 gennaio 2014 (ossia, quando il ricorso di primo grado era ormai pendente da oltre dieci mesi);

- che, nonostante l’appellante dichiari di aver appreso solo in data 9 gennaio 2014 dall’Agenzia delle entrate che informazioni sulle notifiche avrebbero potuto essere richieste ai competenti agenti per la riscossione, ciononostante alla pubblica udienza del 16 gennaio 2014 (fissata per la discussione del ricorso in primo grado) l’odierna appellante non ha chiesto un termine per integrare la documentazione agli atti o per disporre incombenti istruttori.

Conseguentemente, difettano i presupposti perché si possa fare eccezione al generale divieto di nova in appello ai sensi del comma 2 dell’articolo 104 del cod. proc. amm..

4. Il Collegio ritiene a questo punto di esaminare il quarto motivo di appello con il quale si è lamentata l’erroneità della decisione in epigrafe per avere il T.A.R. omesso di valutare la fondatezza degli argomenti con i quali si era contestata la decisione dell’Università appellata di disporre l’incameramento della cauzione.

4.1. Ebbene, per quanto riguarda l’applicabilità alla vicenda per cui è causa delle disposizioni di cui agli articoli 48 e 75 del ‘Codice dei contratti’ (in tema, appunto, di prestazione della cauzione e di condizioni per la relativa escussione), si ribadisce qui – ricollegandosi a quanto già osservato sub 2 – che tale applicabilità risulta comunque confermata a cagione dell’autovincolo introdotto nell’articolo 11 del disciplinare di gara, il cui comma 3 risulta ampiamente riproduttivo della previsione di cui all’articolo 75, comma 6 del ‘Codice dei contratti’ (ai sensi della previsione del disciplinare, infatti, “la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario, ed è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto medesimo”).

Ebbene, ai sensi della richiamata previsione della lex specialis di gara (cui l’odierna appellante aveva prestato espressa adesione attraverso la partecipazione alla gara e con la sottoscrizione della documentazione di gara cui non aveva fatto seguito alcuna contestazione sul punto), del tutto coerente si è rivelato l’operato dell’Università appellata la quale, avendo accertato che il contratto non poteva essere stipulato a causa di una circostanza ostativa riconducibile all’aggiudicataria, ha conseguentemente disposto l’incameramento della cauzione.

Pertanto, nel caso di specie la cauzione ha puntualmente soddisfatto alla sua funzione tipica di garanzia della stipula del contratto e, più in generale, della stessa serietà e congruenza dell’offerta nel suo complesso.

4.2. Né può ritenersi che l’operato dell’amministrazione appellata risulti illegittimo se posto in comparazione con quanto operato dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (in seguito: Autorità Nazionale Anticorruzione) la quale, valutate tutte le circostanze del caso, ha ritenuto di escludere l’applicazione nei confronti dell’appellante delle conseguenze di cui al comma 1-ter dell’articolo 38 del ‘Codice dei contratti’ (e, in primis, dell’iscrizione dell’accaduto nel casellario informatico di cui all’articolo 7, comma 10 del ‘Codice’).

Al riguardo ci si limita a rilevare l’oggettiva diversità che, al livello normativo, sussiste fra:

- (da un lato) l’ipotesi di cui al comma 1-ter dell’articolo 38, cit. (il quale consente all’Autorità di settore di valutare l’elemento psicologico sotteso alle false dichiarazioni o ai falsi documenti prodotti ai fini della gara, al fine di escludere le più gravi conseguenze richiamate dal medesimo comma 1-ter) e

- (dall’altro) il comma 6 dell’articolo 75 (pressoché testualmente riprodotto all’articolo 11 del Disciplinare di gara) il quale connette l’incameramento della cauzione al dato oggettivo della mancata stipula del contratto per fatto riferibile al concorrente (nel caso in esame, l’obiettiva carenza di un requisito soggettivo di partecipazione), senza che sia possibile svolgere un’indagine puntuale in ordine allo stato di maggiore o minore consapevolezza che il concorrente potesse vantare in ordine alla sussistenza del requisito ostativo.

4.3. Anche per questa ragione il ricorso in appello non può trovare accoglimento.

5. Per le ragioni sin qui esposte l’appello in epigrafe deve essere respinto.

Il Collegio ritiene che debba essere disposta l’integrale compensazione delle spese di lite fra le parti anche in considerazione della particolarità e parziale novità della queaestio iuris sottesa alla presente vicenda contenziosa.

 

P.Q.M.

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese del doppio grado compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.