Consiglio di Stato, Sez. III, 4 settembre 2013, n. 4414 / C.G.A., 5 settembre 2013, n. 739 / Consiglio di Stato, Sez. V, 9 settembre 2013, n. 4467

 

Consiglio di Stato, Sez. III, 4 settembre 2013, n. 4414

Presidente f.f. Polito; Estensore Russo

 

1. L’interdittiva antimafia è espressione della logica di anticipazione della difesa sociale, prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali nei confronti sia degli amministratori di imprese aventi rapporti qualificati con la P.A. stessa, sia dei soggetti a loro contigui, fondandosi piuttosto sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di PS, valutati per la loro rilevanza dal Prefetto. Pertanto, non richiede un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello che serve per provare l'appartenenza di un soggetto alla criminalità organizzata. Invero, ben può a tal scopo l'interdittiva stessa fondarsi su fatti e vicende aventi un valore soltanto sintomatico ed indiziario, con l'ausilio di indagini che possono riferirsi anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo. In altri termini, non è necessario pervenire al massimo grado di certezza dei presupposti, come occorre per le condanne in sede penale, né a quello, di minor certezza, per le misure di prevenzione, essendo sufficiente la sola dimostrazione del pericolo del pregiudizio.

 

2. Gli elementi raccolti dall’interdittiva antimafia non vanno considerati separatamente, spettando all’interprete di stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo dal quale possa ritenersi attendibile l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata. In tale ottica, se è vero che il solo rapporto di parentela e di frequentazione del socio o dell'amministratore di un’impresa con un soggetto appartenente alla criminalità organizzata non costituisce di per sé un presupposto sufficiente per l’interdittiva, esso assume rilievo nel caso in cui i rapporti non siano occasionali o spuri, ma nel loro complesso avvalorati da altri elementi indiziari e convergenti verso l’impresa.

 

 

 

C.G.A., 5 settembre 2013, n. 739

Presidente f.f. ed Estensore Anastasi

 

1. I legami di natura parentale, in sé considerati, non possono essere ritenuti idonei a supportare autonomamente una informativa prefettizia antimafia negativa, ma assumono rilievo qualora emerga una concreta verosimiglianza dell'ipotesi di controllo o di condizionamento sull'impresa da parte del soggetto unito da tali legami al responsabile o amministratore dell'impresa stessa, ovvero un intreccio di interessi economici e familiari, dai quali sia possibile desumere la sussistenza dell'oggettivo pericolo che rapporti di collaborazione intercorsi a vario titolo tra soggetti inseriti nello stesso contesto familiare costituiscano strumenti volti a diluire e mascherare l'infiltrazione mafiosa nell'impresa considerata.

 

2. La mancanza di pregiudizi penali a carico del titolare di una carica all’interno dell’impresa non preclude di per sé che altri elementi possano fare dubitare della permeabilità dell’impresa, per il suo tramite, al condizionamento mafioso. Infatti, l’informativa prefettizia antimafia non richiede la prova della intervenuta infiltrazione mafiosa, né presuppone l'accertamento di responsabilità penali in capo ai titolari dell'impresa sospettata, essendo sufficiente che dalle informazioni acquisite tramite gli organi e le indagini di polizia si evinca un quadro indiziario sintomatico anche del solo pericolo di collegamento o contiguità tra l'impresa e la criminalità organizzata.

 

3. Non v’è contraddizione tra il giudizio espresso dalla Prefettura circa il fatto che la presenza di un soggetto all’interno della compagine imprenditoriale rechi con sé il pericolo del tentativo di infiltrazione mafiosa e la circostanza che lo stesso soggetto svolga un importante munus pubblico (nella specie: Sindaco di un Comune) senza che siano stati anche solo attivati gli strumenti offerti dall’ordinamento (nella specie: scioglimento del Consiglio comunale ai sensi dell’art. 143 t.u.e.l. ) per colpire il condizionamento mafioso all’interno dell’amministrazione pubblica.

 

 

 

Consiglio di Stato, Sez. V, 9 settembre 2013, n. 4467

Presidente f.f. Caringella; Estensore Luttazi

 

1. Nel rendere le informazioni antimafia, è sufficiente che il Prefetto effettui la propria valutazione sulla scorta di un quadro indiziario, in cui possono assumere rilievo preponderante i fattori induttivi della possibilità che i comportamenti e le scelte dell'imprenditore rappresentino un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti pubblici. Data l'ampiezza di tali poteri di accertamento, giustificata dalla finalità preventiva dell’informativa, il Prefetto può ravvisare l'emergenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé privi dell'assoluta certezza ma che, nel loro insieme, sono tali da giustificare un giudizio di possibilità che l'attività d'impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata.

 

2. La facoltà di revoca o di recesso dal contratto di appalto della Pubblica Amministrazione – prevista dall’incontestabile dato letterale di cui all’art. 11, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 252/1998 nell’ipotesi in cui gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto – rappresenta specificazione della fattispecie più generale della sopravvenienza in corso di rapporto di elementi incompatibili con il prosieguo della sua esecuzione. Tale facoltà, tuttavia, è più apparente che reale, costituendo la revoca o il recesso un atto di regola vincolato. Infatti, in questi casi la scelta di proseguire nel rapporto negoziale è – data l’evidente ratio di pieno sfavore legislativo alle infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici – remota e residuale, e dunque consentita al solo fine di tutelare l'interesse pubblico attraverso una valutazione di convenienza in relazione a circostanze particolari, quali il tempo dell'esecuzione del contratto o la sua natura, o la difficoltà di trovare un nuovo contraente, se la causa di decadenza sopravviene ad esecuzione ampiamente inoltrata.

 

 

BREVI ANNOTAZIONI

 

 

  • L’OGGETTO DELLE PRONUNCE

 

Le tre pronunce qui in rassegna riaffermano, nel solco di consolidata giurisprudenza, alcuni principi in materia di informative antimafia c.d. tipiche. In particolare, ribadiscono la natura preventiva e cautelare della misura amministrativa in discorso, tale per cui il giudizio in essa contenuto non deve avere i connotati della certezza, ma può legittimamente arrestarsi alla soglia della plausibilità del tentativo di infiltrazione mafiosa o anche solo del suo pericolo. Tale giudizio può legittimamente fondarsi su un giudizio complessivo in ordine ad un coacervo di elementi, tra i quali il legame parentale o amicale con soggetti c.d. “controindicati”, senza che in senso contrario possa rilevare l’inidoneità di ciascuno di tali elementi, considerato in modo avulso dagli altri, a sorreggere il giudizio complessivamente reso.

 

  • I PERCORSI ARGOMENTATIVI

 

Le sentenze del Giudice di appello qui brevemente annotate compiono una ricognizione delle regole elaborate in via pretoria ai fini del vaglio di legittimità delle informative tipiche. L’informazione antimafia, ci ricordano, è una misura amministrativa che colpisce le imprese in rapporti con la P.A. per le quali vi sia il sospetto del tentativo di condizionamento mafioso (il Consiglio di Giustizia utilizza non a caso l’espressione “contrasto amministrativo”). Gli elementi raccolti dalle Forze di Polizia sui quali l’Amministrazione (il Prefetto della provincia del luogo in cui ha sede) può fondare il proprio giudizio sono i più vari: legami parentali o amicali, cointeressenze economiche, precedenti penali di diverso rilievo (richieste di rinvio a giudizio, qualità di indagato, condanne seguite dall’assoluzione), misure di prevenzione o condanne penali a carico di lavoratori dipendenti o inseriti nell’organigramma aziendale, etc.

La natura spiccatamente preventiva della misura giustifica la eterogeneità, non altrimenti classificabile, degli elementi sui quali fondare il giudizio. L’art. 10, comma 7, d.P.R. n. 252/98, infatti, rinvia agli esiti degli “accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell'interno, ovvero richiesti ai prefetti competenti per quelli da effettuarsi in altra provincia”. Per evitare, però, che la atipicità dei presupposti di fatto possa trasmodare nell’arbitrio, e dovendo, perciò, assicurare comunque un sindacato (debole) sul provvedimento amministrativo, la giurisprudenza esclude che il solo legame parentale possa legittimamente sorreggere l’interdittiva. Esso, però, acquista rilievo in presenza di ulteriori elementi che facciano acquistare a quel legame un rilievo indiziante circa il pericolo del condizionamento mafioso.

Nei 3 casi vagliati con le sentenze, il rapporto di parentela viene inquadrato, appunto, in un più ampio quadro indiziario che rende non irragionevole il giudizio espresso dal Prefetto circa il pericolo del condizionamento mafioso.

Anche il giudizio della Quinta Sezione sul carattere discrezionale del recesso sconta la funzione general preventiva delle informative e il conseguente approccio tendenzialmente conservativo del G.A. al cui vaglio sono sottoposte. La facoltà, tale dovendosi ritenere a tenore della lettera della legge, è in realtà un atto dovuto, al quale il committente pubblico può sottrarsi solo in casi eccezionali: quando, cioè, lo stato di avanzamento dei lavori (o del servizio) sia tale da fare ritenere pregiudizievole per l’interesse pubblico l’interruzione del rapporto e la ricerca – che può risultare non agevole – di un nuovo soggetto che completi l’appalto. Dalla natura (sostanzialmente) vincolata del recesso consegue la dequotazione dell’obbligo di motivazione del recesso, che, semmai, si fa stringente nel caso inverso, in cui, cioè, si scelga di proseguire il rapporto negoziale nonostante l’informativa.

Ad un’attenta lettura, può considerarsi che, se le declinazioni di tali principi nei casi concreti risolti dalle due sentenze del Consiglio di Stato paiono persuasive, qualche perplessità può tuttavia suscitare la decisione del Consiglio di Giustizia. In questo caso, infatti, si è ritenuto ragionevole desumere il pericolo del condizionamento mafioso dalla circostanza che, per un significativo lasso di tempo (circa 7 anni), l’impresa aveva avuto quale responsabile tecnico un professionista (ingegnere) avvinto da non meglio definiti legami parentali con soggetti “controindicati”. Sennonché, tale soggetto era stato nelle more eletto Sindaco di un Comune dell’Isola e non risultava che, per ciò, l’Amministrazione dell’interno avesse anche solo avviato il procedimento per lo scioglimento del Consiglio comunale ex art. 143 t.u.e.l. Secondo il Giudice di appello, non vi sarebbe alcuna contraddizione, perché ai fini dello scioglimento del Consiglio comunale occorre provare la sussistenza di elementi "concreti, univoci e rilevanti". Il che, però, vale a dire che tali – concreti, univoci e rilevanti – non sono quelli che sorreggono l’informativa. Né pare che il sistema possa essere ricondotto a coerenza in virtù del fatto che – come non si manca di segnalare nella sentenza – ai fini dell’informativa è sufficiente il sospetto del pericolo di condizionamento mafioso (“il mero tentativo di infiltrazione, se non il periculum della stessa”), mentre è richiesta la certezza di tale condizionamento per lo scioglimento del consiglio comunale. Infatti, il rilievo dei diritti (costituzionale tutelati: elettorato attivo e passivo) attinti da questa seconda misura di polizia amministrativa, non sembra, da solo, sufficiente a giustificare un trattamento così diversificato, specie avuto riguardo al diverso ruolo del soggetto: assolutamente marginale (responsabile tecnico mai utilizzato dall’impresa a causa della mancata aggiudicazione di commesse per lavorazioni di quel tipo) in un caso; di primissimo piano (Sindaco), nell’altro.

 

  • CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

 

Il Codice della legislazione antimafia (d.lgs. n. 218/12), entrato in vigore di recente (febbraio 2013), per la parte relativa alla “documentazione antimafia” non presenta profili di significativa discontinuità rispetto alla disciplina passata delle informative tipiche. Pertanto, l’elaborazione pretoria, anche se riferita al pregresso assetto delle fonti normative, costituisce un utile punto di riferimento per interpretare la novella.

Restano però ancora alcuni nodi irrisolti. Proprio prendendo spunto dalla sentenza del Consiglio di Giustizia, è auspicabile un intervento del legislatore che valga a chiarire ex professo se l’informativa possa basarsi sul mero sospetto del pericolo di condizionamento mafioso, ovvero se, invece, occorra pur sempre che gli elementi posti alla base del giudizio facciano ritenere concreto ed attuale tale pericolo. L’impressione, infatti, è che, attraverso una sorta di eterogenesi dei fini, l’informativa antimafia, piuttosto che arrestarsi all’anticamera della verità (il sospetto dell’infiltrazione), abbia arretrato la soglia della tutela sino all’anticamera del sospetto (il sospetto del pericolo di condizionamento), finendo però per scolorare il tentativo nel pericolo (non staremo qui a ricordare la distinzione tra il tentativo di un reato di danno e il reato di pericolo concreto).

 

 

  • PERCORSO BIBLIOGRAFICO

 

R. Rotigliano, Le informative antimafia prima e dopo il Codice antimafia, in Il nuovo Diritto Amministrativo, Ed. Dike, n. 5/2013, p. 67 ss.; Fabio Di Cristina, L’informativa prefettizia quale presupposto della revoca dell’aggiudicazione, in Giornale Dir. Amm., 2012, pp. 50 – 55; Chiara Fè, Informativa prefettizia e sindacato del g.a., in Corriere del merito, 2012, pp. 41 – 48.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso n. 7062/2012 RG, proposto dalla Tre Emme Costruzioni s.r.l., corrente in Roccabianca (PR), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Marco Selvaggi, Massimo Rutigliano e Simone Dall'Aglio, con domicilio eletto in Roma, via Nomentana n. 76,

contro

l’UTG – Prefettura di Parma, in persona del Prefetto pro tempore ed il Ministero dell'interno, in persona del sig. Ministro pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

nei confronti di

Bacchi s.p.a., corrente in Boretto (RE), Iniziative Ambientali s.r.l., corrente in Novellara (RE) e Consorzio Edile M2, con sede in Parma, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituiti nel presente giudizio,

per la riforma

della sentenza del TAR Emilia-Romagna, Parma, n. 172/2012, resa tra le parti e concernente la sospensione dell’aggiudicazione per interdittiva antimafia;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio delle sole Amministrazioni statali intimate;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore all'udienza pubblica del 1° febbraio 2013 il Cons. Silvestro Maria Russo e uditi altresì, per le parti, l’avv. Rutigliano e l’Avvocato dello Stato Lumetti;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

 

 

FATTO e DIRITTO

1. – La Tre Emme Costruzioni s.r.l., corrente in Roccabianca (PR), dichiara d’aver stipulato il 4 maggio 2010 un contratto di subappalto (per opere di carpenteria) con la Bacchi s.p.a., corrente in Boretto (RE) ed aggiudicataria, per conto della Iniziative Ambientali s.r.l., dei lavori per realizzare la Tangenziale di Novellara (RE), 3° stralcio.

Detta Società rende nota la stipulazione, in data 16 settembre 2010, d’un altro subappalto tra la stessa Bacchi s.p.a. ed il Consorzio M2, anch’esso per opere di carpenteria.

A seguito di un’ispezione di PS nel cantiere delle opere de quibus, la Prefettura di Reggio Emilia ha informato la stazione appaltante, con interdittiva antimafia del 5 aprile 2011, di infiltrazioni mafiose a carico della Bacchi s.p.a. La Prefettura di Reggio Emilia ha quindi reso edotta della citata interdittiva la Prefettura di Parma, competente per territorio quanto alla valutazione della posizione delle due ditte subappaltatrici. Queste ultime sono state attinte dalla misura di rigore prevista dall’art. 3 del DPR 2 agosto 2010 n. 150, giusta nota prefettizia prot. n. 412 del 5 aprile 2011.

2. – Avverso detta statuizione entrambe le subappaltatrici hanno adito il TAR Parma con il ricorso n. 413/2011 RG, deducendo in punto di diritto vari profili di censure.

Nelle more di quel giudizio l’adito TAR ha accolto in parte e con salvezza degli atti ulteriori l’impugnazione spiegata dalla Bacchi s.p.a. Sicché il TAR Parma, con l’ordinanza n. 351 del 6 ottobre 2011, ha concesso la misura cautelare richiesta con il citato ricorso n. 413/2011, stante la unitarietà della vicenda controversa ed ai fini del suo complessivo riesame.

La Prefettura di Parma, in data 28 settembre 2011, ha autonomamente emesso una nuova interdittiva in sostituzione di quella inizialmente adottata, impugnata con motivi aggiunti dalle società interessate.

L’adito TAR, con la sentenza n. 172 del 9 maggio 2012, ha dichiarato il ricorso n. 413/2011 in parte improcedibile ed in parte lo ha respinto.

3. – Appella allora la Tre Emme Costruzioni s.p.a., con il ricorso in epigrafe, deducendo in punto di diritto in modo articolato l’inidoneità del quadro indiziario posto a base dell’impugnata interdittiva. Si sono costituite in giudizio le Amministrazioni intimate, che concludono per il rigetto del presente appello.

Alla pubblica udienza del 1° febbraio 2013, su conforme richiesta delle parti costituite, il ricorso in epigrafe è assunto in decisione dal Collegio.

4. – La Società appellante si duole dell’affermazione del TAR, secondo cui il ricorso di primo grado ha proceduto alla (non consentita) analisi parcellizzata d’ogni singolo dato dell’interdittiva del 2011 senza, però, smentire nel complesso il grave quadro indiziario colà esposto.

L’appellante afferma di aver dovuto seguire tal modo d’argomentate innanzi al TAR ed ora in questa sede perché, a suo avviso, per opporsi ad un provvedimento «… formato da un insieme di atti inconferenti e indizi labili, appare…necessaria ed indispensabile una disamina puntuale a confutazione di ogni singolo elemento…evocato…». Al riguardo, l’appellante prende le mosse dalla sentenza n. 271/2011, con la quale lo stesso TAR Parma aveva annullato l’interdittiva antimafia assunta contro la Bacchi s.p.a. e, con l’analisi minuziosa d’ogni singolo aspetto dell’atto gravato in primo grado, ne vuol assumere la genericità e, al contempo, l’evidente erroneità.

Ancora di recente (cfr. Cons. St., III, 5 marzo 2013 n. 1329), la Sezione ha avuto modo di precisare, con statuizione da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi, che nel previgente sistema l’interdittiva antimafia, essendo espressione della logica di anticipazione della difesa sociale, non richiedeva un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello che serve per provare l'appartenenza di un soggetto alla criminalità organizzata. Invero, ben può a tal scopo l'interdittiva stessa fondarsi su fatti e vicende aventi un valore soltanto sintomatico ed indiziario, con l'ausilio di indagini che possono riferirsi anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo. Sicché l’argomentazione analitica dell’appellante, volta a separare i singoli fatti segnalati e ritenuti sintomatici dalla P.A., tende allo scopo di non far leggere il fenomeno che la riguarda nella sua complessità di intrecci non solo penali, ma anche familistici e, al contempo, economico imprenditoriali, invece tra loro o connessi o pur sempre concordanti.

L’argomentare dell’appellante, distintamente riferito ai singoli rilievi, mira a svuotare del senso complessivo i singoli dati, ognuno dei quali, forse, potrebbe apparire poco rilevante o non allarmante, ma alla sola condizione che tali fatti veramente avessero riguardato altre persone, in un contesto remoto nel tempo e nello spazio. Per il Collegio tre s’appalesano i dati dell’interdittiva che con evidenza dimostrano la fondatezza della sentenza alla luce arresti giurisprudenziali di questo Consiglio, nonché la debolezza del metodo usato nel ricorso. Per un verso vi sono seri indizi di continui ed attuali contatti e parentela tra i membri della famiglia Mattace, ossia tra gli stretti congiunti degli amministratori della Società appellante, con le famiglie Sarcone e Grande Aracri, notoriamente ‘ndrine di spicco in Calabria, indizi che, non dequotati dalla risalenza dei precedenti penali del sig. Francesco Mattace, ne escono anzi rafforzati perché ciò fa sorgere il non infondato sospetto anche dell’anzianità di tali contatti. Per altro verso, colpisce la peculiare situazione del sig. Vito Giuliano Floro, ex-marito della sorella del sig. Domenico Mattace (anche egli amministratore dell’ società appellante), per il quale, già titolare di una impresa facente parte del Consorzio M2 e poi uscitane, l’AGO dispose l’avviamento al lavoro ma, guarda caso, tra tutti i lavori possibili proprio per quello alle dipendenze dell’appellante stessa, da cui il sig. Floro si dimise nell’aprile 2011, al tempo, cioè, della prima interdittiva del Prefetto di Reggio Emilia. Per altro verso ancora, si predica il non frazionamento dei subappalti, quando essi son stati affidati ad imprese afferenti a soggetti d’un unico gruppo familiare, mentre per quello inerente all’appellante, d’altronde affidato a corpo e non a misura, il suo valore stimato fu calcolato, erroneamente, per fatto di quest’ultima e poi corretto dall’appaltatrice Bacchi s.p.a.

Va, quindi, ribadita la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Cons. St., III, 18 aprile 2011 n. 2342; id., 19 gennaio 2012 n. 254; id., 23 luglio 2012 n. 4208), laddove ammonisce che gli elementi raccolti dall’interdittiva antimafia non vanno considerati separatamente, spettando all’interprete di stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo dal quale possa ritenersi attendibile l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata.

E dimostra altresì come non sia necessario pervenire al massimo grado di certezza dei presupposti, come occorre per le condanne in sede penale, né a quello, di minor certezza, per le misure di prevenzione, essendo sufficiente la sola dimostrazione del pericolo del pregiudizio. I fatti sintomatici ed indizianti che sostengono la plausibilità della sussistenza di un collegamento tra impresa e criminalità organizzata s’incentrano appunto nelle relazioni familistiche dell’appellante con contesti e persone che non lasciano seriamente propendere per la loro affidabilità. Si dice giustamente in materia che il solo rapporto di parentela e di frequentazione del socio o dell'amministratore di un’impresa con un soggetto appartenente alla criminalità organizzata non costituisce di per sé un presupposto sufficiente per l’interdittiva. Nella specie, tuttavia, si hanno tali rapporti non già come occasionali o spuri, ma nel loro complesso avvalorati da altri elementi indiziari e convergenti verso la stessa appellante, da cui essa stessa non appare in grado di potersi sottrarre.

Inoltre, i dati testé evidenziati costituiscono da soli, oltre che buoni argomenti a supporto della fondatezza e della completezza dell’interdittiva prefettizia (e, dunque, della sentenza impugnata, che va così condivisa), seri elementi indiziari da cui arguire la possibile permeabilità malavitosa dell’appellante, che non vanificano, anzi corroborano la serietà dell’interpretazione complessiva datane dalla P.A. In tal caso, l’interdittiva de qua bene adempie al suo compito, delineato dalla giurisprudenza (cfr., per tutti, Cons. St., III, 15 maggio 2012 n. 2806; id., 3 settembre 2012 n. 4663), d’essere, cioè, una misura preventiva volta a colpire l'azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con la P.A. Ecco perché l’interdittiva stessa prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali nei confronti sia degli amministratori di imprese aventi rapporti qualificati con la P.A. stessa, sia dei soggetti a loro contigui, fondandosi piuttosto sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di PS, valutati per la loro rilevanza dal Prefetto.

5. – Nei sensi fin qui esaminati, l’appello non è dunque meritevole d’accoglimento, e rende recessiva ogni altra confutazione di merito, peraltro non con consona alla potestà valutativa latamente discrezionale del Prefetto, in sé né arbitraria, né sproporzionata al fine perseguito.

Giusti motivi suggeriscono l’integrale compensazione, tra le parti, delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. III), definitivamente pronunciando sull'appello (ricorso n. 7062/2012 RG in epigrafe), lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 1° febbraio 2013, con l'intervento dei sigg. Magistrati:

 

 

Bruno Rosario Polito, Presidente FF

Vittorio Stelo, Consigliere

Angelica Dell'Utri, Consigliere

Dante D'Alessio, Consigliere

Silvestro Maria Russo, Consigliere, Estensore

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA

 

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 144 del 2013, proposto da: 
Ministero dell'Interno e Prefettura - Ufficio Territoriale del Governo di Palermo;, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliata in Palermo, via De Gasperi n. 81;

contro

S.I.E.M. s.r.l., rappresentata e difesa dagli avv. Salvatore Raimondi e Francesca Reina, con domicilio eletto presso Salvatore Raimondi in Palermo, via Abela n. 10;

nei confronti di

Enel Servizi s.r.l. e Enel Distribuzione s.p.a., rappresentati e difesi dagli avv. Marcello Mole' ed Emanuela Quici, con domicilio eletto presso Maria Ninfa Badalamenti in Palermo, piazza Castelnuovo n. 42;

per la riforma

della sentenza del TAR SICILIA – PALERMO - Sezione I n. 213/2013, resa tra le parti, concernente informativa antimafia tipica interdittiva-revoca autorizzazione sub appalti

 

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 luglio 2013 il Cons. A. Anastasi e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Mango, l'avv. S. Raimondi e l'avv. M. Molè;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

 

FATTO

La SIEM è impresa operante nel settore degli impianti elettrici civili ed industriali e svolge ( in appalto o subappalto) significativa parte della sua attività su committenza dell’ENEL.

Con informativa tipica del 2.12.2011, indirizzata all’ENEL, la Prefettura di Palermo ha ritenuto sussistenti concreti ed attuali tentativi di infiltrazioni mafiose tendenti a condizionare le scelte della Ditta.

In fatto l’informativa poggia sul rilievo che il responsabile per la sicurezza dell’impresa ( ing. D.L.P.) risulta legato da vincoli parentali e da cointeressenze economiche con soggetti ed enti contigui alla criminalità organizzata.

Per conseguenza l’Ente ha risolto i contratti di appalto con la società ed ha revocato le autorizzazioni al subappalto.

SIEM ha quindi impugnato l’informativa con ricorso proposto avanti al TAR Palermo, rilevando che il predetto responsabile per la sicurezza è stato incluso nell’organigramma della Ditta per esigenze meramente formali ma non ha mai concretamente spiegato alcuna attività aziendale.

Successivamente, sostituito il responsabile e richiesto il riesame della propria posizione, SIEM ha impugnato con motivi aggiunti il silenzio tenuto dall’Amministrazione.

Con un secondo ricorso per motivi aggiunti SIEM ha insistito per l’annullamento della nota prefettizia.

Si è costituito in resistenza l’UTG- Prefettura di Palermo.

Si è altresì costituita l’ENEL, domandando il rigetto dell’avversa impugnativa.

Con la sentenza in epigrafe indicata l’adito Tribunale ha accolto il ricorso, rilevando la fondatezza della doglianza mediante la quale SIEM aveva lamentato il difetto di istruttoria e di motivazione.

In sintesi, secondo il Tribunale, il rapporto professionale tra il D.L.P. e l’impresa è sempre rimasto sul piano meramente potenziale e pertanto la mera inclusione del suo nominativo nel certificato camerale non è idonea a supportare un giudizio prognostico sfavorevole circa la sussistenza di infiltrazioni mafiose.

La sentenza è stata impugnata con l’atto di appello all’esame dalla soccombente Amministrazione la quale ne ha chiesto l’integrale riforma, previa sospensione dell’esecutività.

Si è costituita l’ENEL instando per l’accoglimento dell’appello.

Si è costituita l’Impresa, domandando il rigetto dell’avversa impugnativa.

Alla camera di consiglio del 27.3.2013 l’istanza cautelare è stata rinviata al merito.

Le Parti hanno depositato memorie e repliche, insistendo nelle già rappresentate conclusioni.

All’udienza del 10 luglio 2013 l’appello è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

L’appello è fondato e va pertanto accolto.

Con il primo motivo di impugnazione l’Amministrazione sostiene che le informative prefettizie antimafia non possono che basarsi sui dati desumibili dal certificato camerale delle imprese sottoposte a verifica, risultando ininfluente ogni considerazione attinente all’effettivo esercizio delle cariche sociali.

D’altro canto – all’opposto di quanto sostiene la SIEM – il mantenimento per sette anni di un incarico aziendale in capo a un soggetto che non viene concretamente utilizzato è indicativo della capacità di condizionamento che quel soggetto stesso è in grado di esercitare.

Il mezzo merita, a giudizio del Collegio, positiva considerazione.

L’art. 3 comma 1 del D.M. 22-1-2008 n. 37 ( Regolamento di delegificazione

recante riordino delle disposizioni in materia di attività di installazione degli impianti all'interno degli edifici) prevede che le imprese sono abilitate all'esercizio delle attività di cui all'articolo 1, se l'imprenditore individuale o il legale rappresentante ovvero il responsabile tecnico da essi preposto con atto formale, è in possesso dei requisiti professionali di cui all'articolo 4.

Ai sensi dell’art. 1 le attività considerate sono quelle riguardanti l’installazione di :

a) impianti di produzione, trasformazione, trasporto, distribuzione, utilizzazione dell'energia elettrica, impianti di protezione contro le scariche atmosferiche, nonché gli impianti per l'automazione di porte, cancelli e barriere;

b) impianti radiotelevisivi, le antenne e gli impianti elettronici in genere;

c) impianti di riscaldamento, di climatizzazione, di condizionamento e di refrigerazione di qualsiasi natura o specie, comprese le opere di evacuazione dei prodotti della combustione e delle condense, e di ventilazione ed aerazione dei locali;

d) impianti idrici e sanitari di qualsiasi natura o specie;

e) impianti per la distribuzione e l'utilizzazione di gas di qualsiasi tipo, comprese le opere di evacuazione dei prodotti della combustione e ventilazione ed aerazione dei locali;

f) impianti di sollevamento di persone o di cose per mezzo di ascensori, di montacarichi, di scale mobili e simili;

g) impianti di protezione antincendio.

Nel caso all’esame, secondo quanto asserito dalla società, il direttore tecnico della stessa non è abilitato per le attività relative agli impianti di sollevamento persone e cose e protezione antincendio, di talchè la SIEM ha dovuto individuare l’ing. D.L.P. quale responsabile tecnico per le relative attività.

Ora, non è chiaro per quale motivo il direttore tecnico dell’impresa ( pur essendo un perito industriale) non fosse in possesso dei requisiti professionali attribuiti dall’art. 4 comma 1 lettera b) del citato Regolamento proprio ai periti industriali.

In ogni caso, e a prescindere da ogni approfondimento sul punto, la individuazione con atto formale da parte di SIEM di un responsabile tecnico preposto alle specifiche attività in questione ha – a parere del Collegio - un rilievo intrinseco nell’ambito dell’organizzazione aziendale, rilievo che la sentenza impugnata non sembra avere colto in tutta la sua pregnanza.

In tal senso è decisivo il disposto ( innovativo rispetto a quanto in precedenza previsto dalla legge n. 46 del 1990) dell’art. 3 del Regolamento il quale al comma 2 prevede che “ Il responsabile tecnico di cui al comma 1 svolge tale funzione per una sola impresa e la qualifica è incompatibile con ogni altra attività”.

In sostanza la normativa di settore richiede oggi una esclusività nel rapporto tra l’impresa associante e il responsabile tecnico associato, in un contesto che è dunque di vera e propria immedesimazione organica discendente – si badi – dalla formale nomina e non dall’espletamento in concreto del relativo munus professionale.

Non è quindi convincente la Difesa dell’appellata allorchè – con argomentazioni pur suggestive – dequota il rilievo della nomina del P.D.L., rappresentandola come atto privo di ogni pratico effetto in quanto adottato tuzioristicamente in vista di eventuali committenze nei settori de quibus mai intervenute.

Infatti non può essere considerata quasi onorifica una nomina che per un settennio ha precluso al nominato lo svolgimento di ogni altra attività professionale, a titolo autonomo o dipendente, legandolo in esclusiva alla società appellata.

Ne consegue che il diuturno legame instauratosi tra la società e il suo responsabile tecnico – per come consacrato nelle risultanze camerali – ben si prestava ad essere apprezzato ai fini dell’informativa.

Del resto, come dedotto dall’Amministrazione, il mantenimento di un siffatto ( e stringente) legame per un periodo non breve e nonostante la perdurante mancanza di commesse nei settori de quibus, appare ragionevolmente sintomatico dell’influenza che il D.L.P. era in grado di spiegare all’interno della compagine societaria.

Tanto chiarito sul punto nodale della controversia, non può seguirsi la Difesa dell’appellata allorchè sostiene che l’informativa – in sè considerata – fosse inconcludente in quanto basata esclusivamente sulla rappresentazione di legami parentali, spesso labili o indiretti, intercorrenti tra il predetto e soggetti coinvolti in fatti di criminalità organizzata.

Al riguardo, la giurisprudenza di questo Consiglio di Giustizia ha da tempo chiarito che i legami di natura parentale, in sé considerati, non possono essere ritenuti idonei a supportare autonomamente una informativa prefettizia antimafia negativa, ma assumono rilievo qualora emerga una concreta verosimiglianza dell'ipotesi di controllo o di condizionamento sull'impresa da parte del soggetto unito da tali legami al responsabile o amministratore dell'impresa stessa, ovvero un intreccio di interessi economici e familiari, dai quali sia possibile desumere la sussistenza dell'oggettivo pericolo che rapporti di collaborazione intercorsi a vario titolo tra soggetti inseriti nello stesso contesto familiare costituiscano strumenti volti a diluire e mascherare l'infiltrazione mafiosa nell'impresa considerata. ( ex multis C.G.A. n. 227 del 2012).

Applicando tali criteri ermeneutici al caso all’esame, deve rilevarsi che la nota prefettizia delinea un quadro di rapporti economico- finanziari intrattenuti dal P.D.L. con enti a loro volta oggetto di informative negative o con ambienti societari ritenuti permeabili alle pressioni della criminalità organizzata.

Quindi l’informativa non poggia soltanto sui rapporti parentali dell’interessato o dei suoi sodali ma anche e prevalentemente su una valutazione dei legami economici finanziari del D.L.P. con ambienti contigui alla criminalità organizzata o infiltrati da esponenti di spicco di questa.

In siffatto contesto, la circostanza che il predetto non abbia mai riportato condanna penale per reati associativi è per la verità non rilevante.

E’ noto infatti che l’informativa prefettizia antimafia non richiede la prova della intervenuta infiltrazione mafiosa, né presuppone l'accertamento di responsabilità penali in capo ai titolari dell'impresa sospettata, essendo sufficiente che dalle informazioni acquisite tramite gli organi e le indagini di polizia si evinca un quadro indiziario sintomatico anche del solo pericolo di collegamento o contiguità tra l'impresa e la criminalità organizzata.

In sostanza, le informative prefettizie in tema di lotta antimafia afferiscono alla prevenzione del crimine e al contrasto amministrativo preventivo delle organizzazioni di criminalità organizzata, potendo quindi fondarsi su fatti e vicende aventi valore meramente sintomatico e solo indiziario, indipendentemente dal loro compiuto accertamento nella sede penale volta alla repressione dei reati.

Sostiene ancora la Difesa dell’appellata che la fragilità della informativa sarebbe dimostrata dal fatto che l’ing. D.L.P. è stato successivamente eletto sindaco di un comune siciliano e tale carica elettiva ricopre tuttora, senza che il Ministero dell’interno abbia mai ipotizzato l’avvio del procedimento di scioglimento di quel consiglio comunale.

Il rilievo, pur assai suggestivamente argomentato, non coglie in realtà nel segno.

Infatti, per le misure di prevenzione poste a contrasto del condizionamento delle imprese da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso, è sufficiente il mero tentativo di infiltrazione, se non il periculum della stessa.

Invece per quanto riguarda lo scioglimento dei consigli comunali l'art. 143 comma 1 T.U.E.L., nel testo novellato dall'art. 2 comma 30 L. n. 94 del 2009, richiede oggi che detta situazione sia resa significativa da elementi "concreti, univoci e rilevanti" che assumano valenza tale da determinare un'alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi amministrativi e da compromettere l'imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali.

Questa necessità di già avvenuta compromissione riveste carattere essenziale ai fini dell'adozione della misura di scioglimento dell'organo rappresentativo della comunità locale ed evidentemente si correla al fatto che la misura di scioglimento incide radicalmente su organi scelti dall’elettorato.

Quindi non si possono raffrontare normative che hanno finalità e presupposti di applicazione del tutto differenziati.

Sulla scorta delle considerazioni che precedono l’appello dell’Amministrazione va quindi accolto, con riforma della sentenza impugnata e rigetto del ricorso introduttivo e relativi motivi aggiunti.

Ogni ulteriore profilo resta espressamente assorbito in quanto irrilevante ai fini del decidere.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate forfettariamente in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale,

definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie, riforma la sentenza impugnata e respinge il ricorso introduttivo.

Condanna la SIEM al pagamento delle spese del giudizio liquidate in Euro 3000 oltre accessori in favore dell’Amministrazione ed Euro 3000 complessive oltre accessori in favore delle società ENEL.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 10 luglio 2013 con l'intervento dei magistrati:

 

Antonino Anastasi, Presidente FF, Estensore

Ermanno de Francisco, Consigliere

Gabriele Carlotti, Consigliere

Pietro Ciani, Consigliere

Giuseppe Barone, Consigliere

 

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1063 del 2004, proposto da C.Z.C. Costruzioni s.a.s. di Salvatore Lettieri e c., rappresentata e difesa dall’avv. Luigi Peluso, e con domicilio eletto presso Alessandro Oddi in Roma, via Pompeo Ugonio 3;

contro

- il Comune di Striano, non costituito;
- il Ministero dell'Interno in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ed ivi domiciliato ex lege, in Roma alla via dei Portoghesi n. 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. CAMPANIA – NAPOLI, SEZIONE I, n. 11743/2003, resa tra le parti, concernente risoluzione contratto di appalto dei lavori di ampliamento del cimitero comunale.

 

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno;

Visti gli atti della causa;

Visti gli artt. 74 e 120, comma 10, del codice del processo amministrativo;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 luglio 2013 il Cons. Giancarlo Luttazi;

Udito l’avv. dello Stato Fabio Tortora;

Preso atto della presenza in aula, successivamente al passaggio in decisione del ricorso, dell'avvocato Alessandro Izzo, per delega dell’avvocato Luigi Peluso;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

 

FATTO e DIRITTO

1.1 – La C.Z.C. Costruzioni s.a.s. di Salvatore Lettieri e c. impugna la sentenza del Tar Campania, Sede di Napoli, n. 11743/2003, la quale ha respinto il ricorso proposto in primo grado dalla medesima C.Z.C. Costruzioni avverso il provvedimeno prot. n. 12830 dell’11 novembre 2002 [con cui il Comune di Striano disponeva - sulla scorta dell'informativa prefettizia antimafia richiesta ai sensi e per gli effetti del combinato disposto dell' art. 4 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490 e dell'art. 10 del D.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 (atti normativi entrambi vigenti a quella data) - la risoluzione del contratto di appalto dei lavori di ampliamento del cimitero comunale - Lotto C, stipulato in data 28 marzo 2002] e avverso gli atti pregressi (la nota del 9.10.2002 prot. n. 11829 con cui lo stesso Comune preannunciava la volontà di procedere alla risoluzione di quel contratto; il verbale di presa d’atto della sospensione dei lavori del 18.10.2002; la informativa prefettizia antimafia pervenuta al Comune di Striano in data 2.10.2002).

1.2.1 - L’appello sostiene in primo luogo che erroneamente i giudici di primo grado hanno ritenuto non fondata la tesi, prospettata nel ricorso introduttivo, della natura non vincolata ma discrezionale del potere di risoluzione esercitato dal Comune di Striano, e dunque della conseguente necessità di puntuale motivazione in capo all'Amministrazione resistente, motivazione che nella specie sarebbe stata del tutto omessa.

Il Tar avrebbe sminuito l'inconfutabile dato testuale emergente dalla normativa di riferimento, in base alla quale l’inibizione a contrarre prospettata dall’Amministrazione comunale sussisterebbe nella sola ipotesi in cui il Comune riceva le informazioni richieste prima della sottoscrizione del contratto con l'impresa aggiudicataria (come si ricaverebbe dalla lettura degli artt. 4, comma 6, d.lgs. n. 490/94 e 10, comma 2, D.P.R. n. 252/98); viceversa, qualora (come nell'ipotesi che occupa) l'Amministrazione abbia legittimamente provveduto alla stipula del contratto decorso inutilmente il termine di quarantacinque giorni previsto dagli artt. 4, comma 5, d. lgs. n. 490/94 e 11, comma 2, D.P.R. n. 252/98, il legislatore avrebbe previsto che l'originaria inibizione a contrarre degradi a mera facoltà di revoca o di recesso in favore dell'Ente (giusta quanto contemplato dagli artt. 4, comma 6, D. lgs. 490/94 e 11, comma 3; D.P.R. n. 252/98), il quale sarebbe tenuto ad esercitarla non in maniera arbitraria ma fornendo ampio ragguaglio dei provvedimenti e delle motivazioni posti a base della stessa.

Tale facoltà sarebbe peraltro testualmente riprodotta nell'art. 13 del contratto di appalto stipulato dalla ricorrente, a confortare vieppiù la necessità che il Comune di Striano, nel deliberare la risoluzione contratto concluso con la ricorrente, avrebbe dovuto non soltanto consentire a quest'ultima di avere piena ed effettiva conoscenza dell'informativa prefettizia (invece inspiegabilmente celata), ma avrebbe dovuto adeguatamente motivare il provvedimento avente portata lesiva degli interessi vantati dalla deducente e da sacrificare.

1.2.2 - L’appello lamenta altresì che erroneamente i giudici di primo grado hanno ritenuto che l'informativa prefettizia impugnata resistesse alle critiche mosse dalla ricorrente.

I giudici di prime cure non avrebbero adeguatamente valutato il contenuto della documentazione esibita dall’Amministrazione resistente, dal momento che non avrebbero in alcun modo considerato che le circostanze riferite nella nota della Questura, nonché negli atti e documenti ivi richiamati, pur non avendo sinora trovato riscontro in alcun provvedimento giudiziario, sarebbero state invece poste a base di determinazioni prefettizie che confliggerebbero insanabilmente con il rispetto rigoroso dei canoni minimi di adeguatezza della motivazione, di trasparenza e di coerenza e logicità degli atti. E il Tar non avrebbe per nulla valutato che il giudizio negativo espresso dall’Ufficio territoriale del Governo di Napoli si è basato su circostanze risalenti (ai primi anni '80 e al 1991), per la maggior parte irrilevanti e per nulla confortate da nuovi accertamenti che dimostrassero la persistenza del presunto condizionamento.

1.3 - Il Ministero dell’Interno si è costituito in data 14 gennaio 2013, ed in data 15 maggio 2013 ha depositato una memoria.

La causa è passata in decisione alla udienza pubblica del 2 luglio 2013.

2. -L’appello non è fondato.

2.1 – Il primo motivo ribadisce l’assunto del primo grado che afferma la natura non vincolata ma discrezionale del potere di risoluzione/recesso esercitato dal Comune di Striano al ricevimento dell'informativa prefettizia antimafia di cui agli artt. 4 del decreto legislativo n. 490/994 e 10 del D.P.R. n. 252/1998; e la conseguente necessità - che il Comune appellato avrebbe negletto – di una esauriente motivazione del relativo provvedimento prot. n. 12830/2002.

Il rilievo è da respingere.

In proposito il Tar risulta aver correttamente valorizzato, in primo luogo, l’ espressa clausola risolutiva contenuta nell’art. 13 del contratto stipulato fra Comune e aggiudicatario ora appellante.

La clausola del contratto consentiva di per sé lo ius poenitendi del Comune, al sopraggiungere di una sfavorevole informativa prefettizia antimafia (“Il presente contratto è stipulato con clausola risolutiva espressa ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 490/94 e dell’art. 11 del D. P. R. n. 252/1998”), sia che si attribuisse a quella clausola origine negoziale sia che - come ritenuto dal Tar - si attribuisse a quella clausola natura di “condizione legale, evento previsto dalla legge come causa ostativa del contratto al cui verificarsi è subordinato il potere-dovere della stazione appaltante di procedere alla risoluzione del contratto” (così la sentenza appellata).

Quella clausola risolutiva espressa veniva richiamata dal Comune già con la pure impugnata nota prot. n. 11829 del 9.10.2002 (che dava conto alla deducente dell’informativa prefettizia e preannunciava la volontà comunale di procedere alla risoluzione del contratto·di appalto "ai sensi e per gli effetti dell' art. 13 del contratto medesimo"); sicché le contestate determinazioni comunali risultano già per questa ragione correttamente ed esaurientemente motivate, a prescindere dall’attribuire ad esse natura vincolata (come ritenuto dal Tar) oppure discrezionale (come asserito dall’appellante).

Quanto a quest’ultimo profilo (natura vincolata oppure discrezionale della determinazione comunale di risoluzione/recesso) si osserva che, come la Sezione ha già avuto modo di rilevare (v. C.d.S., Sez. V, 3 ottobre 2005, n. 5247), la facoltà di revoca o di recesso dal contratto di appalto della Pubblica Amministrazione - prevista dall’art. 11, comma 3, del D.P.R. n. 252/1998 nell’ipotesi in cui gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto - rappresenta specificazione della fattispecie più generale della sopravvenienza in corso di rapporto di elementi incompatibili con il prosieguo della sua esecuzione; incompatibilità sulla quale la legge non attribuisce alcun sindacato all'Amministrazione appaltante, stante il divieto di stipulare o approvare i contratti e i subcontratti previsto dall’art. 10 comma 2 allorché, a seguito delle verifiche disposte dal Prefetto, emergano elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate.

La Stazione appaltante non ha facoltà di sindacare il contenuto dell'informativa prefettizia, poiché è al Prefetto che la legge demanda in via esclusiva la raccolta degli elementi e la valutazione circa la sussistenza del tentativo di infiltrazione mafiosa (C.d.S., Sezione VI, 19 gennaio 2012, n. 197).

Invero, dall’incontestabile dato letterale di cui all’art. 11, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 252/1998 e dell’art. 4 comma 6, del decreto legislativo n. 490/1994 può riconoscersi alla Stazione appaltante una qualche facoltà di non revocare l'appalto nonostante il collegamento dell'impresa con organizzazioni malavitose sia stato accertato. Ma trattasi di ipotesi che – data l’evidente ratio di pieno sfavore legislativo alle infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici – è, all’evidenza, remota e residuale, e dunque consentita al solo fine di tutelare l'interesse pubblico attraverso una valutazione di convenienza in relazione a circostanze particolari, quali il tempo dell'esecuzione del contratto o la sua natura, o la difficoltà di trovare un nuovo contraente, se la causa di decadenza sopravviene ad esecuzione ampiamente inoltrata (confr. la testé citata pronuncia C.d.S., Sezione VI, n. 197/2012). Ma il caso in esame non presenta queste caratteristiche particolari; sia perché presenta l’espressa clausola risolutiva sia per le specifiche circostanze di fatto, dalle quali non emergono situazioni tali da poter prescindere dalle risultanze preclusive emerse dall’informativa prefettizia.

2.2 – Quest’ultima infine – diversamente da quanto asserito dalla deducente in appello e in primo grado – non risulta in conflitto con i “canoni minimi di adeguatezza della motivazione, di trasparenza e di coerenza e logicità degli atti”.

La circostanza – allegata dall’appellante - che le criticità riferite nella nota della Questura prot n. 12598 del 20.9.2002 e negli altri documenti ivi richiamati non troverebbero riscontro in provvedimenti giudiziari è priva di rilievo, poiché – come pacificamente ritenuto (v. per tutte, C.d.S., Sez. V, 3 ottobre 2005, n. 5247) - nel rendere le informazioni in argomento, fornite ai sensi dell'allora vigente art. 10 comma 7 lett. c), del D.P.R. n. 252/1998, era sufficiente che il Prefetto effettuasse la propria valutazione sulla scorta di un quadro indiziario, in cui assumessero rilievo preponderante i fattori induttivi della possibilità che i comportamenti e le scelte dell'imprenditore rappresentassero un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti pubblici, e con la precisazione che l'ampiezza dei poteri di accertamento, giustificata dalla finalità preventiva dell’informativa, consentiva che il Prefetto potesse ravvisare l'emergenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé privi dell'assoluta certezza ma che, nel loro insieme, fossero tali da giustificare un giudizio di possibilità che l'attività d'impresa potesse, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata.

Queste considerazioni, cui si rinvia, valgono anche per la lamentata risalenza delle circostanze valutate dal Prefetto e dal Questore (il giudizio negativo espresso dall’Ufficio territoriale del Governo di Napoli si sarebbe illogicamente basato solo su circostanze risalenti ai primi anni '80 e al 1991); considerazioni cui può aggiungersi il rilievo che dalla informativa prefettizia, e dagli atti a suo sostegno esaminati dal Tar, appaiono sufficienti elementi perché il Prefetto arguisse - senza gravi vizi logici o palesi carenze valutative - che il pericolo d’infiltrazione poteva permanere (né invero risultano nel presente giudizio principi di prova o adeguate prospettazioni a contrario).

3. – L’appello va dunque respinto.

Le spese seguono la soccombenza anche nel presente grado, e sono anche per esso – come per il primo grado - liquidate in € 2.000,00.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) respinge il gravame in epigrafe.

Condanna l’appellante al rimborso delle spese d’appello dell’intimato Ministero dell’Interno, e le liquida in € 2.000,00.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 luglio 2013 con l'intervento dei magistrati:

 

 

Francesco Caringella, Presidente FF

Manfredo Atzeni, Consigliere

Doris Durante, Consigliere

Antonio Bianchi, Consigliere

Giancarlo Luttazi, Consigliere, Estensore