Cons. St., sez. III, 24 aprile 2020, n. 2651
1. Possono fondare i rapporti di interdittiva antimafia anche i soli rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”. [Pertanto] la convergenza degli indizi su una unica tipologia (nella specie, i rapporti familiari) non può escludere che gli stessi siano da soli in grado di supportare l’interdittiva, poiché la struttura familiare-clanica si accompagna a plurime evidenze di interessi economici comuni e con una regia non immune da condizionamenti mafiosi.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4341 del 2019, proposto dalla -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, e dai signori -OMISSIS-, nella qualità di Amministratore unico e legale rappresentante pro tempore, e -OMISSIS-, nella sua qualità di Direttore Tecnico e socio di maggioranza, rappresentati e difesi dall'avvocato Costantino Casuscelli, e con questi elettivamente domiciliati in Roma alla Via Ennio Quirino Visconti n. 55, presso lo studio dell’avv. Raffaella Scutieri,
contro
l’Ufficio Territoriale del Governo Vibo Valentia - Prefettura di Vibo Valentia e il Ministero dell’interno, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, n. 12,
per la riforma
della sentenza del Tar Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS- del 30 novembre 2018, che ha respinto il ricorso proposto avverso l’interdittiva antimafia emessa dal Prefetto di Vibo Valentia -OMISSIS- dell'1 agosto 2017.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Ufficio Territoriale del Governo Vibo Valentia - Prefettura di Vibo Valentia e il Ministero dell’interno;
Vista la memoria depositata dall’Ufficio Territoriale del Governo Vibo Valentia - Prefettura di Vibo Valentia e dal Ministero dell’interno in data 4 dicembre 2019;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza del giorno 16 aprile 2020, svoltasi da remoto in videoconferenza ex art. 84, comma 6, d.l. n. 18 del 2020, il Cons. Giulia Ferrari;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. La -OMISSIS- (d’ora in poi, -OMISSIS-), con sede in -OMISSIS- di Vibo Valentia, svolge attività di -OMISSIS-. La società è composta dalla signora da -OMISSIS-, che riveste la qualità di Amministratore Unico, e da -OMISSIS- -OMISSIS-, che ricopre il ruolo di Direttore Tecnico.
In data 1 agosto 2017 è stata emessa, a carico della società, dal Prefetto di Vibo Valentia una interdittiva antimafia, basata sul rapporto di parentela dei titolari della Ditta, -OMISSIS- e -OMISSIS-, rispettivamente -OMISSIS- e -OMISSIS- del signor -OMISSIS- il quale, insieme ai -OMISSIS- -OMISSIS- e -OMISSIS-, è titolare di società destinatarie di informazione interdittiva antimafia, ed in particolare della -OMISSIS-, fallita poco prima della costituzione della Ditta in questione. Il signor -OMISSIS- è stato poi controllato con soggetti deferiti all’Autorità Giudiziaria per reati di estorsione, associazione mafiosa, usura, associazione destinata a traffico di stupefacenti ed è -OMISSIS- di -OMISSIS-, -OMISSIS- con -OMISSIS-, legato da vincoli di parentela con soggetti condannati per omicidio, usura, furto, ricettazione, associazione mafiosa, e ritenuto elemento di spicco della criminalità organizzata operante nelle -OMISSIS- di Vibo Valentia.
2. L’interdittiva è stata impugnata dinanzi al Tar Catanzaro che, con sentenza -OMISSIS- del 30 novembre 2018 della sezione I, ha respinto il ricorso.
Il giudice di primo grado ha ritenuto sufficiente a supportare il provvedimento impugnato la circostanza che la società -OMISSIS- è stata costituita il -OMISSIS-2015 da -OMISSIS- e -OMISSIS- conviventi con -OMISSIS- - indagato per bancarotta fraudolenta e documentale, appartenente a famiglia pregiudicata - immediatamente dopo il fallimento della società da lui amministrata, la -OMISSIS-, dichiarato il -OMISSIS- 2015 (v. visure camerale) società destinataria di interdittiva divenuta definitiva. La coincidenza dell’oggetto sociale tra le due società colpite da interdittive (-OMISSIS-), unita alla menzionata conseguenzialità temporale, consente, secondo la logica probabilistica, alla -OMISSIS- di proseguire l’attività della società del capofamiglia.
3. La sentenza è stata impugnata con appello depositato in data 22 maggio 2019, deducendone l’erroneità sotto diversi profili.
La sentenza è erronea, ed il provvedimento interdittivo illegittimo, innanzitutto perché dalla lettura di detto provvedimento non si scorge alcun addebito legato agli appellanti ma, al contrario, il suo contenuto si presenta come una palese censura alla figura di -OMISSIS- e dei suoi familiari.
Il giudice di primo grado non ha però considerato che l’interdittiva a carico della -OMISSIS- è risalente al 6 ottobre 2016 ed è, dunque, successiva alla dichiarazione di fallimento della società del 2015, che ha determinato la gestione della stessa da parte di un curatore fallimentare.
A dimostrazione della fragilità della tesi, volta a riconoscere il condizionamento mafioso, contenuta nella sentenza impugnata è, ad avviso di parte ricorrente, la circostanza che, ad esclusione del rapporto parentale con il signor -OMISSIS-, nessun indicatore di pericolo è presente.
Nella valutazione dell’atto prefettizio impugnato, il Tar Catanzaro avrebbe dovuto considerare il quadro indiziario esistente valutando, così come eccepito, anche la mancanza degli elementi sintomatici indicati da una costante giurisprudenza del giudice di appello ed eventualmente spiegare perché l’assenza di condotte “spia” sarebbe stata ininfluente per il giudizio.
4. Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell'interno e l’Ufficio territoriale del Governo - Prefettura di Vibo Valentia, che hanno preliminarmente eccepito la tardività dell’appello, notificato in data 13 maggio 2019 mentre la sentenza di primo grado è stata notificata in data 6 dicembre 2018; nel merito ne hanno sostenuto l’infondatezza.
5. Alla udienza del 16 aprile 2020, tenuta in videoconferenza ex art. 84, co. 6, d.l. n. 18 del 2020, la causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1. Deve preliminarmente essere esaminata l’eccezione di tardività dell’appello, sollevata dal Ministero dell'interno e dall’Ufficio territoriale del Governo - Prefettura di Vibo Valentia, sul rilievo che la sentenza di primo grado è stata notificata in data 6 dicembre 2018 mentre l’appello è stato notificato solo in data 13 maggio 2019, a distanza dunque di circa cinque mesi dall’avvenuta notifica.
L’eccezione – sulla quale peraltro parte appellante non si è difesa – è fondata.
Il comma 1 dell’art. 92 c.p.a. ha disposto che “Salvo quanto diversamente previsto da speciali disposizioni di legge, le impugnazioni si propongono con ricorso e devono essere notificate entro il termine perentorio di sessanta giorni decorrenti dalla notificazione della sentenza”.
Ne consegue che l’appello in esame, notificato dopo più di cinque mesi dalla notifica della sentenza di primo grado, è ampiamente tardivo.
2. Sebbene tale rilievo assuma carattere assorbente di ogni altra considerazione, il Collegio ritiene di passare anche all’esame del merito dell’appello, che è palesemente infondato.
La -OMISSIS- (d’ora in poi, -OMISSIS-) svolge attività di -OMISSIS-; annovera quale Amministratore unico e legale rappresentante la signora -OMISSIS- e quale Direttore Tecnico e socio di maggioranza il signor -OMISSIS-.
L’interdittiva antimafia -OMISSIS- dell'1 agosto 2017, emessa dal Prefetto di Vibo Valentia, si fonda essenzialmente sul rapporto di parentela dei titolari della Ditta, -OMISSIS- e -OMISSIS-, con -OMISSIS-, rispettivamente -OMISSIS- di -OMISSIS- e -OMISSIS- di -OMISSIS-.
Contrariamente a quanto assume l’appellante, tali rapporti sono sufficienti a fondare il provvedimento interdittivo.
Giova premettere, richiamando una ormai consolidata giurisprudenza della sezione (tra le tante, 27 dicembre 2019, n. 8882; 5 settembre 2019, n. 6105; 20 febbraio 2019, n. 1182), che l’informativa antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa. Tale pericolo deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di infiltrazione mafiosa.
Ha aggiunto la Sezione (n. 758 del 2019) che lo stesso legislatore – art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 – ha riconosciuto quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di questi ad influenzare la gestione dell’impresa sono nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzato, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori.
Ha ancora chiarito la Sezione (5 settembre 2019, n. 6105) che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di “tentativi” di infiltrazione mafiosa, ha fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati” (quelli dell'art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f), d.lgs. n. 159 del 2011), ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.
L’annullamento di qualsivoglia discrezionalità nel senso appena precisato in questa materia, che postula la tesi in parola (sostenuta, invero, da autorevoli studiosi del diritto penale e amministrativo), prova troppo, del resto, perché l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa.
Quest’ultima invece, anzitutto in ossequio ai principî di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito (v., sul punto, Cass., Sez. Un., 4 gennaio 2018, n. 111).
Il giudice amministrativo è, a sua volta, chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della misura in esame.
Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto divenga, appunto, una “pena del sospetto” e che la portata della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio.
La funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi (Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758).
E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi.
Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza De Tommaso c. Italia, consiste anzitutto nel «tenere il passo con il mutare delle circostanze» secondo una nozione di legittimità sostanziale.
Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla giurisprudenza penale, il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte europea in generale compatibile con la normativa convenzionale poiché «il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale» (Cass. pen., sez. II, 9 luglio 2018, n. 30974).
Il delicato bilanciamento raggiunto dall’interpretazione di questo Consiglio di Stato è stato avallato dalla Corte costituzionale dapprima con le recenti sentenze n. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019.
Come ha ben posto in rilievo la Corte costituzionale nella sentenza n. 24 del 2019, infatti, allorché si versi al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base «dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione».
Essenziale – nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale (v., ex multis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione quinta, sentenza 26 novembre 2011, Gochev c. Bulgaria; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 4 giugno 2002, Olivieiria c. Paesi Bassi; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 20 maggio 2010, Lelas c. Croazia) – è, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa.
In tale direzione la verifica della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).
Ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).
Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, «ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale» (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483).
2. I principi elaborati dalla Sezione – che, come si è detto, hanno ricevuto un primo avallo dal giudice delle leggi (sentenze n. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019) – sono stati da ultimo nuovamente confermati dalla Corte costituzionale (sentenza n. 57 del 26 marzo 2020), che, sebbene abbia pronunciato con specifico riferimento alla comunicazione antimafia interdittiva che impinge sull’esercizio di una attività imprenditoriale puramente privatistica, ha ribadito le linee fondanti di tale misura preventiva.
In particolare, in detta occasione il giudice delle leggi è stato chiamato ad esaminare la conformità dell’art. 89-bis (e in via conseguenziale dell’art. 92, commi 3 e 4), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 per violazione degli artt. 3 e 41 Cost. perché priverebbe un soggetto del diritto, sancito dall’art. 41 Cost., di esercitare l’iniziativa economica, ponendolo nella stessa situazione di colui che risulti destinatario di una misura di prevenzione personale applicata con provvedimento definitivo.
Nel respingere la questione di legittimità costituzionale la Corte – prendendo le mosse da una analisi della giurisprudenza di questa Sezione - ha affermato che il fenomeno mafioso rappresenta un quadro preoccupante non solo per le dimensioni ma anche per le caratteristiche del fenomeno, e in particolare – e in primo luogo − per la sua pericolosità (rilevata anche da questa Corte: sentenza n. 4 del 2018). Difatti la forza intimidatoria del vincolo associativo e la mole ingente di capitali provenienti da attività illecite sono inevitabilmente destinate a tradursi in atti e comportamenti che inquinano e falsano il libero e naturale sviluppo dell’attività economica nei settori infiltrati, con grave vulnus, non solo per la concorrenza, ma per la stessa libertà e dignità umana.
Le modalità, poi, di tale azione criminale non sono meno specifiche, perché esse manifestano una grande “adattabilità alle circostanze”: variano, cioè, in relazione alle situazioni e alle problematiche locali, nonché alle modalità di penetrazione, e mutano in funzione delle stesse.
Ha aggiunto la Corte costituzionale che quello che si chiede alle autorità amministrative non è di colpire pratiche e comportamenti direttamente lesivi degli interessi e dei valori prima ricordati, compito naturale dell’autorità giudiziaria, bensì di prevenire tali evenienze, con un costante monitoraggio del fenomeno, la conoscenza delle sue specifiche manifestazioni, la individuazione e valutazione dei relativi sintomi, la rapidità di intervento.
È in questa prospettiva anticipatoria della difesa della legalità che si colloca il provvedimento di informativa antimafia al quale, infatti, è riconosciuta dalla giurisprudenza natura “cautelare e preventiva” (Cons. Stato, A.P., 6 aprile 2018, n. 3), comportando un giudizio prognostico circa probabili sbocchi illegali della infiltrazione mafiosa.
La Corte costituzionale ha quindi fatto riferimento alle situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale, individuate da questa Sezione. Tra queste: i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale; le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa; la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011; i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”; i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa e nella sua gestione, incluse le situazioni in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
3. I principi elaborati dalla Sezione e più volte ribaditi dalla Corte costituzionale portano alla reiezione dell’appello.
É ben vero, come ha affermato parte appellante, che l’interdittiva si fonda sui soli rapporti di parentela tra i signori -OMISSIS- e -OMISSIS- - rispettivamente Amministratore unico e legale rappresentante la prima e Direttore Tecnico e socio di maggioranza il secondo - con il signor -OMISSIS-, -OMISSIS- della signora -OMISSIS- e -OMISSIS- del signor -OMISSIS-.
La ragione dedotta dal Prefetto di Vibo Valentia appare, infatti, al Collegio sufficiente: come chiarito dalla citata sentenza della Corte costituzionale n. 57 del 26 marzo 2020 – di fatto confermando la giurisprudenza della Sezione (26 febbraio 2019, n. 1349) – a supportare il provvedimento interdittivo sono sufficienti anche i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”.
Proprio con riferimento ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose la Sezione (7 febbraio 2018, n. 820) ha chiarito che l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto. Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione. Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti.
Questo presupposto pare al Collegio presente nel caso di specie.
Dalla documentazione versata agli atti di primo e di secondo grado risulta che il signor -OMISSIS-: a) è amministratore unico e socio della "-OMISSIS-" (impresa dichiara fallita il -OMISSIS- 2015, operante nel -OMISSIS-), con sede in Vibo Valentia, destinataria di informazione antimafia interdittiva emessa in data 6 ottobre 2016; b) è stato socio (fino al 4 febbraio 2016, data in cui ha ceduto le quote a -OMISSIS-) e direttore tecnico (fino al 21 dicembre 2015) della "-OMISSIS-" (attiva nel settore dei lavori generali di -OMISSIS-), con sede in Vibo Valentia, destinataria di informazioni antimafia interdittive emesse, rispettivamente, in data 4 dicembre 2009 e 19 settembre 2012, quest’ultima confermata dal Consiglio di Stato con sentenza del 4 giugno 2015; c) è stato controllato con soggetti nominativamente individuati, sul conto dei quali figurano vicende di polizia (SDI) per associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ed altro; d) è -OMISSIS- di -OMISSIS-; e) è -OMISSIS- di -OMISSIS-; quest’ultimo a sua volta è: -OMISSIS- di -OMISSIS-, la quale è: socio della -OMISSIS-, destinataria di informazioni antimafia interdittive emesse, rispettivamente, in data 12 agosto 2014 e 12 aprile 2016; socio della -OMISSIS-, destinataria di informazioni antimafia interdittive emesse, rispettivamente, in data 21 luglio 2011 e 9 novembre 2012; e’’) -OMISSIS- convivente di -OMISSIS-, socio di una società nella quale è anche socio un soggetto, -OMISSIS- di -OMISSIS-, elemento apicale della famiglia mafiosa -OMISSIS-; e’’’) liquidatore e socio della citata "-OMISSIS-"; e’’’’) socio della citata "-OMISSIS-"; e’’’’’) già socio della società nella quale risultano essere soci la -OMISSIS- ed il -OMISSIS- del citato -OMISSIS-; f) è -OMISSIS- di -OMISSIS-, sul conto del quale figurano vicende di polizia per turbata libertà degli incanti, truffa ed altro, il quale a sua volta è: f’) è amministratore unico e socio della citata "-OMISSIS-"; f’’) è direttore tecnico e già amministratore unico (carica ceduta in data 26 giugno 2013 allo stesso -OMISSIS-, al quale il successivo 21 maggio 2014 ha ceduto anche le proprie quote) della citata -OMISSIS-"; f’’’) è stato socio della "-OMISSIS-" (quote cedute a -OMISSIS- il 19 maggio 2011); g) è -OMISSIS- di -OMISSIS- il quale: g’) è stato, sino all’1 luglio 2016, amministratore unico della Società "-OMISSIS-", destinataria in data 15 aprile 2013 di informazione antimafia interdittiva; g’’) risulta coinvolto nell'operazione di polizia "-OMISSIS-"; h) è -OMISSIS- di -OMISSIS- il quale risulta: h’) -OMISSIS- di un soggetto, deceduto nel 2014, esponente apicale della famiglia mafiosa "-OMISSIS-" di Vibo Valentia; h’’) è stato socio della citata "-OMISSIS-" fino al 2014, data in cui ha ceduto le proprie quote al -OMISSIS- -OMISSIS-; i) è -OMISSIS- di -OMISSIS-, -OMISSIS- di -OMISSIS- il quale è socio della "-OMISSIS-", con sede in Vibo Valentia, destinataria di informazione antimafia interdittiva, emessa in data 27 giugno 2013 ed è stato coinvolto, unitamente al -OMISSIS- -OMISSIS-, nell'operazione di polizia "-OMISSIS-". -OMISSIS- è poi -OMISSIS- di -OMISSIS- il quale é -OMISSIS-, esponente di consorteria mafiosa di -OMISSIS-, condannato dalla Corte di Appello di Catanzaro alla pena di otto anni di reclusione (nell'ambito del procedimento penale scaturito dalla citata operazione di polizia "-OMISSIS-"); e destinatario della misura di Prevenzione della Sorveglianza Speciale di P.S. con obbligo di soggiorno per anni 5, con contestuale confisca dei beni; 2. -OMISSIS-, esponente di spicco di consorteria mafiosa di -OMISSIS-, già sorvegliato speciale di P.S., tratto in arresto dopo 4 mesi di irreperibilità in applicazione di misura cautelare emessa in data 30 marzo 2015 che ha visto coinvolti esponenti ed affiliati della consorteria mafiosa "-OMISSIS-"; 3. -OMISSIS-, esponente di spicco della citata consorteria mafiosa, condannato a 6 anni ed otto mesi di reclusione, nell'ambito del procedimento penale scaturito dalla citate operazione “-OMISSIS-", destinatario della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. con contestuale confisca beni e amministratore unico del socio della "-OMISSIS-", destinataria di informazione antimafia interdittiva emessa in data 22 giugno 2011 e confisca a seguito del citato provvedimento; 4. -OMISSIS-, esponente di spicco della citata ed omonima consorteria mafiosa, condannato dalla Corte di Appello di Catanzaro alla pena di anni 7 e mesi 6 di reclusione, nell'ambito del procedimento penale scaturito dalla citata operazione "-OMISSIS-'' e destinatario della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. con contestuale confisca beni. Tale intreccio, familiare, economico, ricco di legami con consorterie mafiose radicate sul territorio, fonda in modo approfondito e ragionevole l’interdittiva impugnata.
E’ dunque evidente il collegamento di -OMISSIS- – -OMISSIS- di -OMISSIS- Amministratore unico e legale rappresentante della -OMISSIS- e -OMISSIS- di -OMISSIS-, socio di maggioranza della stessa -OMISSIS- – con l’ambiente malavitoso: controllato con soggetti sul conto dei quali figurano vicende di polizia; amministratore e socio di società destinatarie di interdittive; con -OMISSIS- anch’essi vicini alla criminalità organizzata, coinvolti in operazioni di polizia, vicini a soggetti affiliati alle consorterie mafiose (famiglia mafiosa di -OMISSIS-; famiglia mafiosa "-OMISSIS-" di Vibo Valentia; famiglia mafiosa -OMISSIS-) e soci di società colpite da informative antimafia. In particolare -OMISSIS- è amministratore unico e socio di società destinataria di informazione interdittiva antimafia, la -OMISSIS-, fallita due mesi prima della costituzione della -OMISSIS-. E’ risultato controllato con soggetti deferiti all’Autorità Giudiziaria per reati di estorsione, associazione mafiosa, usura, associazione destinata a traffico di stupefacenti. Il -OMISSIS- (-OMISSIS- della -OMISSIS- -OMISSIS-) è legato da vincoli di parentela o vicinanza con soggetti condannati per omicidio, usura, furto, ricettazione, associazione mafiosa.
Gli elementi indiziari, puntualmente indicati dal Prefetto di Vibo Valentia, ben supportano dunque l’interdittiva.
La loro evidente gravità rende irrilevante, nella fattispecie di cui è causa, la circostanza che gli stessi ruotano essenzialmente sul rapporto di parentela – incontestato – con soggetti molto vicini ad ambienti della criminalità organizzata. La convergenza degli indizi su una unica tipologia (nella specie, i rapporti familiari) non può escludere che gli stessi siano da soli in grado di supportare l’interdittiva, poiché la struttura familiare-clanica si accompagna a plurime evidenze di interessi economici comuni e con una regia non immune da condizionamenti mafiosi.
Nella specie, correttamente il coacervo di elementi è stato ritenuto dal Prefetto di Vibo Valentia sufficiente ad evidenziare il pericolo di contiguità con la mafia, con un giudizio peraltro connotato da ampia discrezionalità di apprezzamento, con conseguente sindacabilità in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’autorità perviene solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (Cons. St. n. 4724 del 2001). Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (Cons. St. n. 7260 del 2010).
4. A fronte di tale quadro non assume rilevanza la circostanza che -OMISSIS- non sia gravato da precedenti giudiziari dai quali desumere l’appartenenza ad una consorteria, essendo vicino a soggetti contigui alla criminalità organizzata nonché socio al 75% e Amministratore (dall'11 giugno 2013 alla data del fallimento) della società -OMISSIS-, esercente l'attività di trasporto di merci su strada, società destinataria nell’ottobre 2016 di interdittiva divenuta definitiva e dichiarata fallita il -OMISSIS- 2015, a distanza di soli due mesi dalla costituzione della -OMISSIS-, attraverso la quale, con la -OMISSIS- e il -OMISSIS-, può continuare l’attività precedentemente svolta all’interno della -OMISSIS-. Di tale ultima società era socio -OMISSIS-, a sua volta socio della -OMISSIS-, destinataria di informazioni antimafia interdittive emesse, rispettivamente, in data 12 agosto 2014 e 12 aprile 2016.
Non rileva inoltre la circostanza che l’interdittiva della -OMISSIS- sia intervenuta dopo il fallimento della società, atteso che il provvedimento interdittivo, come si è detto, ha natura cautelare ed è l’epilogo di una situazione fattuale che non è cronologicamente circoscritta alla data della sua emissione ma precede, anche di molto tempo, la stessa.
5. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c.. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.
6. In conclusione, per i suesposti motivi, l’appello va dichiarato irricevibile per tardività – e comunque infondato nel merito – e va, dunque, confermata la sentenza del Tar Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS- del 30 novembre 2018, che ha respinto il ricorso di primo grado.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza),
definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo dichiara irricevibile e comunque infondato nel merito, con conseguente conferma della sentenza del Tar Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS- del 30 novembre 2018.
Condanna l'appellante al pagamento, in favore del costituito Ministero dell’Interno, delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in € 5.000,00 (euro cinquemila/00).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
GUIDA ALLA LETTURA
La Sezione Terza del Consiglio di Stato torna a occuparsi, con la sentenza in commento, dell’informativa antimafia, e lo fa, in particolare, richiamando un’ormai consolidata giurisprudenza della medesima sezione (tra le tante, 27 dicembre 2019, n. 8882; 5 settembre 2019, n. 6105; 20 febbraio 2019, n. 1182, nonché la più recente, 6 maggio 2020, n. 2854).
La Corte, invero, parte dalla constatazione, ormai pacifica, della sussistenza di un ampio potere di valutazione discrezionale in capo all’autorità prefettizia, ai fini dell’emissione dell’informazione antimafia, quale strumento di “frontiera avanzata” nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato.
Secondo siffatta ricostruzione, infatti, l’accertamento del pericolo di infiltrazione mafiosa, posto a fondamento del provvedimento prefettizio, implica “un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico” che non richiede un livello di certezza logico-inferenziale tipico dell’accertamento penale; ma, al contrario, è sufficiente “una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti”. Sono dunque sufficienti elementi indiziari, purché in grado di far presumere, secondo il criterio del “più probabile che non” di matrice civilistica, il pericolo di infiltrazione mafiosa.
Del resto, gli elementi caratterizzanti l’istituto in esame “delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione […]”.
La Sezione ha chiarito infatti (5 settembre 2019, n. 6105) che la legge italiana, richiedendo la sussistenza di “tentativi” di infiltrazione mafiosa, ai fini dell’emissione del provvedimento interdittivo antimafia, ha posto una “clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice”.
Sul versante opposto, dovrebbe infatti ritenersi che l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, darebbe luogo a un provvedimento, al contrario, vincolato, siccome fondato su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege; esso, come tale, non sarebbe solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, perché limita l’efficacia adeguatrice della previsione al caso concreto, ma risulterebbe nondimeno “deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa”.
Quest’ultima, invece, è chiamata “a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità”. Il giudizio di inferenza logica, secondo la Corte, deve infatti presentare una struttura bifasica: devono cioè intervenire sia una diagnosi dei fatti rilevanti che una prognosi di permeabilità criminale. Il modello valutativo non è dissimile, in fondo, da quello che caratterizza le misure di sicurezza personali, ed è dunque scevro da un’inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito (v., sul punto, Cass., Sez. Un., 4 gennaio 2018, n. 111).
Del resto, i medesimi principi elaborati dalla Sezione – che hanno ricevuto un primo avallo dal giudice delle leggi (sentenze n. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019) – sono stati da ultimo nuovamente confermati dalla Corte costituzionale (sentenza n. 57 del 26 marzo 2020), che, sebbene sia intervenuta su un’ipotesi specifica, “ha ribadito le linee fondanti di tale misura preventiva”. Ricostruzione ermeneutica che conferma la natura “cautelare e preventiva” dell’istituto, come sostenuto anche dal Cons. Stato, A.P., 6 aprile 2018, n. 3.
Come ha chiarito infatti la citata sentenza della Corte costituzionale (n. 57 del 26 marzo 2020) – di fatto confermando la giurisprudenza della Sezione (26 febbraio 2019, n. 1349) – “a supportare il provvedimento interdittivo sono sufficienti anche i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa”.
La Sezione (7 febbraio 2018, n. 820) ha, d’altronde, chiarito che, proprio con riguardo a siffatti casi di parentela, “l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva” e una regìa tipica del clan malavitoso, “ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto”. La Sezione delinea, invero, talune ipotesi esemplificative, quali, ad esempio: la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale; tali casi rendono obbiettivamente verosimile la sussistenza di fenomeni di “influenza reciproca” che possono generare “legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza”.
Sicché, conclude il Collegio, “la convergenza degli indizi su una unica tipologia (nella specie, i rapporti familiari) non può escludere che gli stessi siano da soli in grado di supportare l’interdittiva, poiché la struttura familiare-clanica si accompagna a plurime evidenze di interessi economici comuni e con una regia non immune da condizionamenti mafiosi”.
Del resto, la valutazione discrezionale del Prefetto, che nel caso esaminato dalla Corte ha riconosciuto il pericolo di contiguità con la mafia, “costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (Cons. St. n. 7260 del 2010)”. Si prevede così un sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione, per manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, del provvedimento amministrativo, il cui campo valutativo è, in ultima analisi, destinato ad arrestarsi “solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico” (Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758).