Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ordinanza 4 giugno 2019, in causa C-425/2018.

L’art. 45, paragrafo 2, primo comma, lettera d) della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che è interpretata nel senso di escludere dall’ambito di applicazione dell’«errore grave» commesso da un operatore economico «nell’esercizio della propria attività professionale» i comportamenti che integrano una violazione delle norme in materia di concorrenza, accertati e sanzionati dall’Autorità nazionale garante della concorrenza con un provvedimento confermato da un organo giurisdizionale e che preclude alle amministrazioni aggiudicatrici di valutare autonomamente una siffatta violazione per escludere eventualmente tale operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico.

Una società che gestisce servizi di trasporto indiceva una procedura ristretta per il relativo affidamento del servizio di pulizia dei veicoli, locali ed aree, nonché di servizi accessori. Un Consorzio si aggiudicava la gara, ma successivamente la stazione appaltante dichiarava la decadenza del medesimo dall’aggiudicazione per errore professionale grave violativo delle norme in materia di concorrenza.

Al Consorzio, infatti,  l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) aveva irrogato una multa per aver preso parte ad un’intesa restrittiva della concorrenza di tipo orizzontale al fine di condizionare gli esiti di una gara indetta da un’altra amministrazione. La decisione dell’Autorità era poi stata confermata in sede giurisdizionale con sentenza passata in giudicato.

Il Consorzio tuttavia non aveva indicato nel fascicolo di partecipazione alla gara che qui interessa la procedura sanzionatoria in corso davanti all’Autorità, adottando misure di regolarizzazione solo dopo l’inizio della procedura, facendo venir meno il rapporto fiduciario con la stazione appaltante ed omettendo un elemento di valutazione rilevante per la medesima che aveva pertanto provveduto ad escludere l’operatore dalla gara.

L’amministrazione aggiudicatrice si era risolta in tal senso anche sulla base di due sentenze del giudice del rinvio che avevano qualificato il comportamento del Consorzio quale errore professionale grave rilevante ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera f) del codice dei contratti pubblici e dell’art. 45, paragrafo 2, primo comma, lettera d) delle Direttiva 2004/18.

Tuttavia tali decisioni erano state poi riformate dal Consiglio di Stato affermando come i comportamenti costitutivi di illecito anticoncorrenziale non fossero idonei ad essere qualificati come errori professionali gravi di cui alla normativa nazionale e comunitaria richiamata, in quanto intervenuti nella prodromica procedura di affidamento e non nella fase successiva alla stipula del contratto di servizio.

Di talché la loro effettiva rilevanza sembrava circoscritta solo al caso in cui un rapporto negoziale tra le parti fosse giuridicamente esistente e non nella fase antecedente del procedimento amministrativo di individuazione dell’operatore economico con cui procedere alla stipula del negozio.

In tal senso dunque il giudice nazionale aveva interpretato in senso restrittivo la nozione di errore grave recepita dal legislatore italiano dalla direttiva comunitaria (l’art. 45 della direttiva 2004/18 prevede infatti che possa essere escluso dalla partecipazione all’appalto ogni operatore economico che, nell’esercizio della propria attività professionale, abbia commesso un errore grave, accertato con qualsiasi mezzo di prova dall’amministrazione aggiudicatrice), di fatto circoscrivendo le ipotesi di violazione della concorrenza.

Si solleva allora questione pregiudiziale dinnanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in questi termini: “se il combinato disposto da una parte degli articoli 53, paragrafo 3 e 54, paragrafo 4 della Direttiva 2004/17 e d’altra parte dell’art. 45, paragrafo 2, primo comma, lettera d) della Direttiva 2004/18 osti ad una previsione come l’art. 38, comma 1, lettera f) del codice dei contratti pubblici, come interpretato dalla giurisprudenza nazionale che esclude dalla sfera di operatività del c.d. “errore grave” commesso da un operatore economico “nell’esercizio della propria attività professionale” i comportamenti integranti violazione delle norme sulla concorrenza accertati e sanzionati dall’Autorità nazionale antitrust con provvedimento confermato in sede giurisdizionale, in tal modo precludendo a priori alle amministrazioni aggiudicatrici di valutare autonomamente siffatte violazioni ai fini della eventuale, ma non obbligatoria, esclusione di tale operatore economico da una gara indetta per l’affidamento di un appalto pubblico”.  

La questione dunque involge i rapporti tra diritto comunitario e diritto nazionale proprio in relazione alla portata e agli effetti della direttiva comunitaria nel sistema interno.

Come noto la direttiva è una delle fonti del diritto comunitario adottata congiuntamente dal Parlamento e dal Consiglio dell’Unione europea per assolvere ai fini previsti dal Trattato UE, perseguendo uno scopo di armonizzazione delle normative degli Stati membri (art. 288, comma 3 del Trattato).

Come noto, a differenza del Regolamento, la direttiva deve essere prima recepita dai singoli Stati per poter essere applicata e comporta una sola obbligazione di risultato, lasciando un margine di autonomia normativa agli Stati circa l’individuazione della forma e dei mezzi per raggiungerlo.

È chiaro tuttavia che il recepimento di una direttiva incontri il limite delle finalità perseguite dall’Unione con quell’atto e dunque vada calibrato in base ed in vista dell’obiettivo da raggiungere. A tal  proposito il c.d. divieto di gold plating preclude alla normativa nazionale di introdurre livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalla direttiva.

La ratio è quella di costituzione di un mercato unico con regole tendenzialmente omogenee, evitando che si sviluppi una concorrenza tra i diversi ordinamenti nazionali con il rischio di produrre ingiustificati vantaggi per gli operatori economici attivi in determinati Stati piuttosto che in altri con normative più favorevoli.

Nella specie, l’art. 53, paragrafo 3 della Direttiva 2004/17 prevede infatti che i criteri e le norme di qualificazione, nonché i criteri di selezione qualitativa degli operatori economici nelle procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto e postali “possono includere i criteri di esclusione di cui all’art. 45 della direttiva 2004/18 alle condizioni stabilite in detto articolo”. In tal modo, quindi, si individua una causa di esclusione c.d. “facoltativa” per l’ordinamento interno che tuttavia, se recepita, trova nel sistema comunitario e nella sua interpretazione un limite più stringente e quindi un potere di discrezionale di recepimento degli Stati membri più ridotto.

In altri termini, gli Stati membri recependo una causa di esclusione facoltativa (e sempre che la normativa europea non rinvii alle normative e alle regolamentazioni nazionali per precisarne le proprie condizioni di applicazione) sono vincolati in modo più stringente al rispetto del diritto dell’Unione e all’interpretazione che di tale clausole è data dalla Corte di Giustizia.

Invero, come noto, la fonte dei principi comunitari è preminentemente giurisprudenziale, ciò anche grazie alla peculiare forza riconosciuta alle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea che hanno la stessa forza delle norme interpretate, formando un tutt’uno con esse e stabilendo un vincolo giuridico puntuale verso tutti gli Stati membri.

Tanto più che il diritto comunitario, sopito il passato dibattito tra la Corte di Giustizia e la Consulta, è oggi direttamente applicabile nell’ordinamento nazionale ed anzi prevale sul medesimo in forza del principio di primautè comunitaria. Di talché, ad esempio, anche gli atti di esercizio del potere legislativo che cagionino danni, violando il diritto dell’Unione europea, se la violazione sia grave e manifesta ed incida su diritti riconosciuti con certezza ai cittadini dalla norma comunitaria, sono illeciti e producono un’obbligazione risarcitoria.

Di ciò è consapevole anche il legislatore italiano perché persino la L. n. 241/1990 si arrende alla primazia del diritto europeo laddove sancisce la soggiacenza dell’azione amministrativa ai principi non solo costituzionali, ma anche comunitari. La dizione dell’art. 1 è comunque coerente con il carattere universale dei principi: si discorre infatti di “principi dell’ordinamento comunitario” in senso generale, non recependo dunque solo le regole nei settori di competenza comunitaria (ad esempio appalti, concorrenza), ma leggendo tali principi in un’ottica universale. L’azione amministrativa, dunque,  anche se non vi è un vincolo comunitario espresso in un particolare settore dovrà seguire i precetti di garanzia dei diritti del cittadino che sono elemento qualificante di tali principi antropocentrici.

 Nella specie, la Corte di Giustizia ha rilevato come alla nozione di errore professionale grave sia riconducibile qualsiasi comportamento scorretto che incida sulla credibilità professionale dell’operatore economico, minandone l’integrità e l’affidabilità, indipendentemente dal momento  in cui temporalmente si inserisce (se durante la procedura di gara o successivamente alla stipulazione del contratto di servizio) ed in tal senso sono da interpretarsi le disposizioni richiamate dalle direttive 2004/17 e 2004/18 e la conseguente normativa nazionale di recepimento. La stazione appaltante potrà quindi nell’ambito della propria discrezionalità valutare la violazione delle norme sulla concorrenza posta in essere dal concorrente e deciderne eventualmente l’esclusione. Da qui la massima così come riportata in apertura.

Infatti la Corte di Giustizia, sebbene, imponga una lettura restrittiva del disposto di cui agli articoli 53, paragrafo 3, 54, paragrafo 4 della Direttiva 2004/17 e 45, paragrafo 2, primo comma, lettera d) della Direttiva 2004/18, precisa che anche una violazione delle norme in materia di concorrenza accertata da una decisione dell’autorità garante nazionale antitrust non possa automaticamente comportare sic et simpliciter l’esclusione dell’operatore economico dalla procedura di aggiudicazione del servizio. Servirà infatti un’ulteriore valutazione della stazione appaltante in merito alla gravità dell’errore da condursi alla luce del primario principio di proporzionalità comunitario ed in relazione quindi al fatto concreto e alle circostanze del caso.

Come noto, infatti, il principio di proporzionalità, letto nei termini di idoneità, necessarietà e adeguatezza, costituisce uno dei principi fondanti dell’Unione europea e dell’azione amministrativa che limita la legge (le leggi comunitarie e nazionali non possono prevedere poteri amministrativi sproporzionati), la pubblica amministrazione ed è criterio per il giudice ai fini del sindacato sul potere amministrativo discrezionale repressivo.

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