Il punto della situazione dopo il parere sollecitato dall'ANAC
Sollecitato, su richiesta dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, a pronunciarsi in sede consultiva su alcuni profili di sospetta dissonanza tra la normativa del Codice dei contratti pubblici e la disciplina del Codice del terzo settore, il Consiglio di Stato ha reso il parere n. 2052 del 20 agosto 2018. La questione è incentrata sulla individuazione della normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali, alla luce delle disposizioni del d.lgs. n. 50 del 2016, come modificato dal d.lgs. n. 56 del 2017, e del d.lgs. n. 117 del 2017, per una serie di dubbi interpretativi manifestati da vari stakeholder e dal Ministero del Lavoro proprio in ordine alla disciplina dell’affidamento dei suddetti servizi. Nello specifico, il pomo della discordia riguarda il presunto e paventato disallineamento tra i due citati impianti normativi, con conseguente esonero dall’ambito applicativo del Codice dei contratti pubblici «di ampi settori di attività affidati agli organismi del terzo settore». L’acquisizione del parere è stata ritenuta opportunamente propedeutica ad un prossimo intervento chiarificatore della stessa Autorità Nazionale Anticorruzione in occasione dell’aggiornamento della delibera n. 32 del 2016, recante “Linee guida per l’affidamento di servizi ad enti del terzo settore ed alle cooperative sociali”.
1 - In premessa preme rilevare come i due codici chiamati in causa – quello in materia di contrattualistica pubblica per i lavori, i servizi e le forniture e quello di riordino del cosiddetto “terzo settore” – siano espressione di istanze regolatorie ben differenti quanto alle rispettive ragioni genetiche ed alle precipue finalità.
Il d.lgs. n. 50/2016, successivamente modificato dal d.lgs. n. 56 del 2017, recepisce e traduce le tre direttive comunitarie del 2014 (2014/23/UE, 2014/24/UE, 2014/25/UE) in materia di concessioni, appalti pubblici e procedure d’appalto nei settori speciali, assimilando nell’ordinamento nazionale le categorie giuridiche proprie della normativa europea. Il Codice del terzo settore, di cui al d.lgs. n. 117/2017, risponde invece al diverso proposito legislativo di riordinare in modo coerente e organico la precedente normativa nazionale, disarmonica e frammentaria, degli enti non profit, tracciando una disciplina unitaria in una materia che esula dal perimetro di competenza dell’Unione Europea riconosciuto dai Trattati.
2 - Il punto di interesse comune, e di possibile attrito, tra le due normative codicistiche concerne le rispettive modalità di affidamento dei servizi sociali. Il vigente Codice dei contratti pubblici annovera, per la prima volta, i servizi sociali nel proprio ambito di applicazione e ne disciplina in maniera compiuta le procedure di affidamento in appalto in ossequio ai canoni concorrenziali di derivazione comunitaria. Il Codice del terzo settore rivendica una diversa prospettiva e si preoccupa, invece, di regolamentare alcune tipologie di rapporti giuridici che possono instaurarsi tra enti non profit e pubbliche amministrazioni per lo svolgimento di servizi sociali di interesse generale, mediante il ricorso ad istituti quali l’accreditamento, la co-progettazione, il partenariato e le convenzioni (artt. 55, 56 e 57 del d.lgs. n. 117/2017).
Al Consiglio di Stato è stato, dunque, demandato il compito di indagare gli eventuali margini di compatibilità dei suddetti istituti, disciplinati dal Codice del terzo settore, con la normativa di matrice comunitaria trasfusa nel Codice dei contratti pubblici, adottando un approccio prospettico ed esegetico modulato sulla egemonia di un ordinamento europeo che tutto copre, tutto garantisce e tutto regola.
3 - Nel dettaglio del percorso argomentativo, l’assunto dogmatico di partenza del Consiglio di Stato è l’affermazione ormai consolidata della nozione funzionale di impresa che, nell’ottica euro-unitaria, prescinde affatto dallo status giuridico e dalle singole caratteristiche strutturali, nonché dalle modalità di finanziamento dell’organismo/soggetto operatore e si attesta, invece, esclusivamente sull’esercizio in concreto di un’attività oggettivamente suscettibile di valutazione economica e riconducibile all’esecuzione di lavori o all’offerta di beni e servizi astrattamente acquisibili in un determinato mercato. La portata onnicomprensiva della definizione comunitaria di impresa - coincidente con la nozione intrinseca di “operatore economico”, trasfusa nel Codice dei contratti pubblici - risponde ad un chiaro disegno di sviluppo e potenziamento del mercato unico europeo e conduce inevitabilmente alla «conseguente necessità di sottoporre alla disciplina pro-concorrenziale tendenzialmente ogni attività umana connotata da un rilievo economico, allo scopo di evitare la permanenza di “sacche” sottratte al confronto competitivo e, dunque, potenzialmente assoggettabili a discipline nazionali contrarie allo spirito uniformatore sotteso ai Trattati».
Considerando di natura lato sensu imprenditoriale ogni attività nella misura in cui sia qualificabile sotto il profilo economico, il pensiero multiforme transnazionale esige l’assoggettamento alla disciplina competitiva del libero mercato per qualsiasi ambito produttivo potenzialmente realizzabile da più operatori in grado di «coprire i costi con i ricavi», fatte salve fattispecie eccezionali, espressamente e tassativamente previste dallo stesso diritto comunitario, che restano invece estranee al circuito regolatorio europeo e nazionale di recepimento.
A questa versione euro-unitaria dell’impresa si abbina un concetto di appalto che postula necessariamente il requisito della onerosità della prestazione contrattuale. Se non altro perché il diritto europeo degli appalti si interessa dei soli affidamenti onerosi, che impongono la corresponsione di un corrispettivo.
4 - Mutuando queste coordinate comunitarie inclusive (nozione funzionale d’impresa e onerosità delle attività esercitate attraverso lo schema dell’appalto), il Consiglio di Stato ha cercato di conciliare, in via esegetica, due contrapposte esigenze: la valorizzazione delle organizzazioni non lucrative con vocazione a svolgere servizi sociali di interesse generale e la salvaguardia degli equilibri funzionali del libero mercato. Tentativo riuscito apparentemente solo in parte, dal momento che il Supremo Consesso ha rilevato alcuni elementi di criticità nelle disposizioni degli articoli 55 e 56 del d.lgs. n. 117/2017, ritenendo che le stesse abbiano «significativamente ampliato le modalità con cui gli enti del terzo settore possono instaurare rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione».
5 - Ad avviso del Consiglio di Stato, il passaggio da un regime di esclusione ad un regime di inclusione per gli appalti di servizi sociali segnala «l’avanzamento progressivo dei principi del mercato anche in un settore prima lasciato ai decisori nazionali» e giustifica la regola, secondo la quale «l’affidamento dei servizi sociali, comunque sia disciplinato dal legislatore nazionale, deve rispettare la normativa pro-concorrenziale di origine europea, in quanto rappresenta una modalità di affidamento di un servizio (appalto in termini euro-unitari) che rientra nel perimetro applicativo dell’attuale diritto euro-unitario».
L’unica zona franca, sottratta in radice all’espansione della disciplina europea, è quella che afferisce ad attività non economiche, esercitate in assenza di qualsivoglia forma di corrispettivo, in quanto tali strutturalmente estranee alle logiche del mercato e a rischi distorsivi della concorrenza. In tal modo, il carattere della “non economicità” si contrappone drasticamente all’elemento dell’onerosità e tende ad assorbire il concetto di “gratuità”, determinandone in via esclusiva l’ambito contenutistico.
Nella fattispecie, dunque, solo il requisito della gratuità acquista rilievo fondante per la qualificazione dei servizi sociali in termini di “servizi non economici di interesse generale”. Il binomio onerosità/gratuità funge da spartiacque per distinguere i servizi di interesse generale economici da quelli non economici e per definire l’estensione applicativa del Codice dei contratti pubblici, in coerenza con l’articolo 164, comma 3, che stabilisce che “i servizi non economici di interesse generale non rientrano nell’ambito di applicazione della presente Parte”.
6 - Il Consiglio di Stato, però, spinge oltre il suo ragionamento e declina la gratuità secondo due diverse accezioni, tra loro complementari: da un lato, la creazione di ricchezza tramite il lavoro del prestatore di servizi non remunerato dal profitto e, dall’altro, lo scopo di solidarietà sociale sotteso al sostenimento di costi in assenza di qualsiasi forma di rimborso e di guadagno. La modalità gratuita di svolgere un servizio viene dunque decifrata, ancora una volta, secondo una logica sinallagmatica a contrario, improntata alla mera assenza di criteri prettamente economici e di mercato: l’aumento patrimoniale di un soggetto, per lo più collettivo, a fronte della «sola e mera diminuzione patrimoniale di altro soggetto, cioè il depauperamento del capitale lavoro o del patrimonio del prestatore».
In aderenza a questa impostazione, il Consiglio di Stato ritiene che il concetto di gratuità della prestazione del servizio escluda in re ipsa qualunque remunerazione, anche indiretta, dei fattori produttivi e di investimento a carico dell’ente pubblico e tolleri, viceversa, solo il rimborso delle spese vive e correnti, al di fuori di qualunque forma di incremento patrimoniale, pur se finalizzato al servizio stesso. L’accezione contenutistica della “gratuità” alla stregua di un mero negativo fotografico rispetto alla “economicità” implica che la gestione gratuita di un servizio risulti, di per sé, necessariamente in perdita per il prestatore sotto un profilo comparativo di costi e benefici, giustificando così la sua non appetibilità per il mercato. Altrimenti - prosegue il Supremo Consesso - «la gratuità si risolverebbe addirittura in concorrenza sleale nei confronti degli imprenditori che in ipotesi dessero vita a un mercato di tali servizi».
7 - Sulla scorta di una lettura di tal genere del fenomeno “non economico”, il parere in esame approda alla conclusione per cui ogni affidamento di servizi sociali di interesse generale deve necessariamente ricorrere a procedure d’appalto e conformarsi ai canoni regolatori pro-concorrenziali di matrice europea. Fanno eccezione solo le restanti procedure, previste dal Codice del terzo settore, prive di carattere selettivo, che «non tenda(no), neppure prospetticamente, all’affidamento di un servizio sociale, e che miri(no) invece all’affidamento ad un ente di diritto privato di un servizio sociale che l’ente affidatario svolgerà a titolo integralmente gratuito».
L’oggettiva gratuità del servizio coincide con «l’assenza di qualunque remunerazione a carico del soggetto pubblico affidante, quale che ne sia la formale denominazione e qualunque sia il meccanismo economico o contabile anche indiretto, al personale volontario o dipendente e direttivo dell’ente» e con «l’esclusione di ogni possibile ripianamento con risorse pubbliche del costo dei fattori produttivi utilizzati dall’ente e l’assenza di alcuna forma di incremento patrimoniale anche se finalizzato al servizio stesso».
8 - L’assenza di criteri selettivi e/o l’integrale gratuità dello svolgimento del servizio sono i capisaldi individuati per superare l’impasse che sembra contrapporre l’intera normativa del Codice dei contratti pubblici alle disposizioni del Codice del terzo settore che disciplinano i rapporti tra pubbliche amministrazioni ed enti non profit. Il Consiglio di Stato si avvale, appunto, di queste due coordinate per ritagliare, minuziosamente e in via del tutto residuale, i margini applicativi degli istituti dell’accreditamento, della co-progettazione e del partenariato e giustificare il loro affrancamento dall’ambito della regolazione euro-unitaria. Solo la comprovata ricorrenza, anche in modo alterno, dei due criteri cardine sopra enunciati pone le procedure previste dal Codice del terzo settore in un assetto concettuale di radicale eterogeneità ed alterità rispetto alle procedure concorrenziali d’appalto imposte dal Codice dei contratti pubblici e ne considera adeguata e sufficiente l’attivazione nel rispetto dei canoni procedimentali di cui alla legge 241/1990 e dei principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento, come statuito dagli articoli 55, comma 4, e 56, comma 3, del d.lgs. 117/2017.
Al di fuori di tali casi eccezionali, le altre procedure previste dal Codice del terzo settore confluiscono, invece, ipso iure nel concetto di “appalti di servizi sociali” e, come tali, sono interamente assoggettate alla disciplina del Codice dei contratti pubblici e alle istanze concorrenziali di origine comunitaria.
9 - L’esatta ripartizione degli ambiti applicativi in seno alle due normative codicistiche trova fondamento nelle caratteristiche di assoluta e reciproca estraneità e non interferenza, che definiscono le rispettive tipologie di strumenti normativi ivi previsti. Eppure, nell’approccio argomentativo del Consiglio di Stato, questa circostanza non basta ancora a scongiurare la minaccia di «una sostanziale segregazione del mercato», poiché «priva de facto le imprese profit della possibilità di affidamento del servizio». Ragione per cui viene introdotto l’obbligo puntuale in capo alle Amministrazioni di «indicare e [perfino] documentare la ricorrenza, nella concreta vicenda, degli specifici profili che sostengono, motivano e giustificano il ricorso a procedure che tagliano fuori ex ante gli operatori economici tesi a perseguire il profitto».
Un onere stringente ed imprescindibile di motivazione che appare tanto incongruente quanto indecifrabile, considerata la difficoltà di operare una scelta di valore sulla base di un ipotetico paragone tra schemi e sistemi procedurali in radice diversi e separati, e quindi non confrontabili. Se è vero che le procedure previste nel Codice del terzo settore - laddove non rivendichino alcuna ambizione di natura selettiva ovvero approdino all’affidamento a titolo non oneroso di un servizio di interesse generale - sono avulse dall’applicazione della normativa sugli appalti, non si capisce bene in che termini sia possibile assimilare, con una valutazione di natura comparativa, la logica della gratuità, che esclude ogni scopo di lucro, alla logica del libero mercato, che tende invece unicamente al profitto.
10 - In questa prospettiva, la vera pietra d’inciampo resta l’articolo 56 del Codice del terzo settore sulle convenzioni che le pubbliche amministrazioni possono stipulare solo con organizzazioni di volontariato e/o associazioni di promozione sociale per lo svolgimento in favore di terzi di attività o servizi di interesse generale, con rimborso esclusivo delle spese effettivamente sostenute e documentate, con esclusione di qualsiasi attribuzione a titolo di maggiorazione, accantonamento, ricarico o simili e con la limitazione del rimborso dei costi indiretti alla quota parte imputabile direttamente all’attività oggetto della convenzione. Pur rivendicando un elemento di effettiva gratuità, tali convenzioni possono essere concluse solo “se più favorevoli rispetto al ricorso al mercato” (art. 56, comma 1, d.lgs. 117/2017).
Quest’ultimo inciso puntualizza e ribadisce il punto cruciale dell’intero ragionamento sviluppato dal Consiglio di Stato. La gratuità, per quanto considerata esimente dall’applicazione della disciplina in materia di contratti pubblici, «costituisce, in sé, un vulnus al meccanismo del libero mercato ove operano imprenditori che forniscono i medesimi servizi a scopo di lucro e dunque in maniera economica mirando al profitto». Anche in queste ipotesi, dunque, le pubbliche amministrazioni possono ricorrere allo strumento convenzionale solo previo confronto con il mercato e adeguata motivazione comparativa della scelta in tal senso. Di qui, le stesse perplessità espresse poc’anzi in merito al tentativo di assorbire la logica della “gratuità” nella logica del “profitto”, in aperta contraddizione con i principi informatori della disciplina del terzo settore, modulata sul favor del legislatore nazionale per il fenomeno non profit.
11 - Ogni impianto normativo sottende anzitutto una dimensione assiologica, che ne costituisce l’anima genetica e ne esprime la prospettiva finalistica. Il sistema di valori implicito nell’ambito del terzo settore è di immediata intuizione, essendo il fenomeno del “privato sociale non lucrativo” la traduzione diretta del principio di sussidiarietà orizzontale e, prima ancora, del diritto al pieno sviluppo della personalità del singolo attraverso la partecipazione a formazioni sociali, che la Costituzione italiana riconosce e garantisce agli articoli 2 e 118, comma 4. Quello del non profit è denominato terzo settore proprio perché si differenzia radicalmente dal mercato, dove i soggetti privati operano con finalità lucrative finanziate dal capitale di rischio.
L’attività svolta dagli enti non lucrativi contribuisce per lo più alla realizzazione degli obiettivi pubblici di welfare e concorre semmai a delineare una vera e propria area di “economia sociale” su base solidaristica, spesso più radicata sul territorio e meglio rispondente ai bisogni specifici di alcune realtà sociali. In questa prospettiva, i servizi di interesse generale - che le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale svolgono con l’apporto disinteressato e non remunerato dei singoli e con il rimborso delle sole spese vive - rivelano un’autentica vocazione alla gratuità fine a se stessa. Requisito, quest’ultimo, che peraltro non esaurisce il suo significato e la sua dimensione essenziale con il mero concetto residuale di “non economicità”. L’elemento della gratuità trascende, infatti, di gran lunga la portata di ciò che non è prettamente economico, poiché custodisce in sé un indubbio ed intrinseco valore aggiuntivo, in termini quantitativi e qualitativi di coinvolgimento personale, di protezione e di coesione sociale, non misurabile secondo l’assioma esclusivo della corrispettività.
I servizi di interesse generale erogati gratuitamente sono qualificabili solo alla stregua di servizi non economici e fuoriescono in automatico dalla regolazione competitiva prettamente europea, trasfusa nel settore pubblico degli appalti e delle concessioni, in quanto afferiscono ad una materia ad essa radicalmente estranea e irriducibile.
Le due normative sono, dunque, non comparibili e non interferenti l’una con l’altra. Un servizio sociale erogato gratuitamente da un’organizzazione di volontariato non può avere alcun termine di raffronto con un analogo servizio svolto da operatori economici su libero mercato, perché i criteri di convenienza riferiti alla gratuità e alla onerosità non coincidono e non sono suscettibili di oggettivo paragone. Le varie attività sussumibili sotto il concetto di gratuità producono un’utilità non riducibile all’ottimizzazione dei costi economici, ma stimabile a partire dagli effetti benefici prodotti a livello sociale.
12 - Appare, quindi, quanto meno discutibile e impropria, sotto il profilo concettuale, la locuzione finale contenuta nell’articolo 56, comma 1, del Codice del terzo settore, che stabilisce un obbligo, in capo alle pubbliche amministrazioni, di previa comparazione di convenienza tra il ricorso al mercato e lo strumento gratuito della convenzione ai fini dell’affidamento di servizi sociali di interesse generale.
Sul punto, il Consiglio di Stato preferisce non addentrarsi nel valore significativo della norma e - optando per un’interpretazione letterale di carattere induttivo - ipotizza piuttosto che la presenza dell’inciso finale nel primo comma del citato articolo 56 stia ad indicare, di per sé, proprio la possibilità in astratto di stipulare convenzioni riferite anche a servizi sociali con requisiti di onerosità. Dimenticando, però, che a chiedere l’inserimento, nel primo comma dell’art. 56, dell’inciso finale “se più favorevoli rispetto al ricorso al mercato” è stato, a suo tempo, proprio lo stesso Consiglio di Stato nel parere n. 1405 del 14 giugno 2017, reso sullo schema del decreto legislativo recante il Codice del terzo settore.
La presunta eventualità che tali convenzioni non siano necessariamente a titolo gratuito, ma possano attenere anche a servizi economici di interesse generale, fa rivivere fatalmente lo spettro della incompatibilità con il diritto europeo, reclamando a fortiori l’affidamento dei servizi con il ricorso a procedure d’appalto ad evidenza pubblica.
13 - Di fronte a questa evenienza, il Consiglio di Stato, senza avventurarsi in ulteriori percorsi logico-interpretativi, conclude affidando, in modo alquanto sibillino, alla valutazione dell’Autorità Nazionale Anticorruzione «la eventuale disapplicazione dell’art. 56 del d.lgs. n. 117 del 2017 nella sede competente, con le conseguenze dello specifico caso».
Il ricorso allo strumento della disapplicazione presuppone notoriamente l’eventuale contrasto di una norma del diritto nazionale con una norma europea ad effetto diretto e consente di limitare immediatamente l’efficacia e la portata della norma interna confliggente, impedendo che la stessa venga in rilievo nella definizione del singolo rapporto controverso sottoposto al vaglio del giudice nazionale, senza tuttavia comportarne alcuna forma di invalidità né di illegittimità e senza la previa intermediazione di un giudizio di costituzionalità. Il principio di preminenza del diritto dell’Unione europea impone, infatti, al giudice nazionale l’obbligo di applicare integralmente la normativa comunitaria e comporta il corrispondente dovere di non applicare la norma interna contrastante con quella europea, senza attenderne la previa abrogazione in via legislativa o mediante procedimenti di legittimità costituzionale (cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 9 marzo 1978, causa 106/77 – Simmenthal; Corte Costituzionale, sentenza n. 170 dell’8 giugno 1984 – Granital).
La disapplicazione si configura, quindi, come strumento eccezionale di risoluzione dei conflitti tra disposizioni normative contemporaneamente vigenti e reciprocamente antinomiche, senza alcun effetto estintivo né modificativo delle stesse, e consente “di non applicare ad una singola fattispecie o per particolari effetti un atto, che per altre fattispecie o ad altri effetti rimane pienamente valido ed efficace”.
14 - Nel parere in esame, tuttavia, il Consiglio di Stato si è premurato di dare un contributo interpretativo delle norme del Codice del terzo settore in modo tale da adeguarle e renderle compatibili con le direttive comunitarie in materia di appalti. Determinando l’ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative delle rispettive norme, il Supremo Consesso sembra aver risolto già in via interpretativa l’eventuale antinomia tra i due diversi impianti codicistici.
A tale scopo, è stata drasticamente ridotta la portata di alcune disposizioni del Codice del terzo settore e sono stati individuati criteri rigorosi, improntati al binomio onerosità/gratuità, per tracciare il discrimine tra servizi economici e servizi non economici di interesse generale e per delineare, di conseguenza, la zona franca in cui le pubbliche amministrazioni possono legittimamente instaurare, ai sensi del d.lgs. 117/2017, rapporti giuridici con enti non profit per lo svolgimento di servizi sociali. Criteri che identificano, dunque, i margini di compatibilità delle procedure afferenti al terzo settore rispetto alla normativa nazionale sugli appalti, di diretta derivazione europea, qualificandoli in termini di radicale e reciproca estraneità.
L’unico elemento distonico che residua rispetto a questo sforzo interpretativo è proprio l’inciso finale del primo comma del citato articolo 56, che impone alle amministrazioni di effettuare una valutazione di convenienza, in via preliminare e comparativa, fra due modalità procedurali di affidamento dei servizi di interesse generale del tutto diverse e non raffrontabili: da una parte, le convenzioni a titolo gratuito e, dall’altra, le gare d’appalto a titolo oneroso. Questa previsione racchiude una insanabile contraddizione, che andrebbe - questa sì - opportunamente neutralizzata. A tal fine, però, l’Autorità Nazionale Anticorruzione ha margini contenuti di intervento, potendo disporre solo di strumenti di indirizzo e di regolazione flessibile quali le linee guida, prive, nella fattispecie, del carattere della vincolatività (cfr. articolo 213, comma 2, del d.lgs. 50/2016 e ss.mm.ii.).
15 - Nell’esercizio del suo potere di soft regulation, spetterà all’A.N.AC. il compito prioritario di esplicitare i criteri distintivi enunciati nel parere del Consiglio di Stato e di identificare le coordinate giuridiche che legittimano il ricorso alle convenzioni previste dall’articolo 56 del Codice del terzo settore, riconoscendone l’esclusiva natura non onerosa, attraverso la declinazione esatta del significato normativo di gratuità insito nei servizi non economici di interesse generale.
Il contributo dell’A.N.AC. sarebbe particolarmente opportuno per chiarire due questioni fondamentali, strettamente connesse tra loro. Il primo aspetto attiene alla natura dei rapporti finanziari riguardanti le spese da ammettere a rimborso. Il secondo elemento esige la ricerca di una possibile soluzione alla diatriba se il concetto di gratuità del servizio implichi solamente il rimborso delle spese vive, effettivamente sostenute, o possa includere invece anche i costi indiretti riferiti alla quota parte imputabile direttamente all’attività oggetto della convenzione nonché gli oneri relativi alla copertura assicurativa dei volontari. Quest’ultima questione andrebbe necessariamente dipanata, considerato che l’articolo 18 del d.lgs. 117/2017 indica la copertura assicurativa per la responsabilità civile verso i terzi e contro le malattie e gli infortuni connessi allo svolgimento dell’attività di volontariato quale elemento essenziale delle convenzioni con gli enti del Terzo settore, addossandone i relativi oneri a carico delle stipulande amministrazioni pubbliche.
L’orientamento espresso dall’A.N.AC. sarà utile non solo per stabilire fino a dove può coerentemente estendersi la nozione di “gratuità” del servizio, ma anche per definire, a contrario, il perimetro di applicazione delle procedure d’appalto per l’affidamento dei servizi sociali, senza intaccare ulteriormente gli ambiti operativi legittimi del fenomeno non profit.
16 - Quanto alla discrasia rilevata nell’inciso finale del primo comma dell’articolo 56 del d.lgs. 117/2017, l’eventuale tentativo di suggerire una plausibile soluzione in via interpretativa della norma appare decisamente arduo. Più che un ambiguo e improbabile ricorso allo strumento della disapplicazione, sarebbe auspicabile risolvere in modo definitivo l’antinomia in questione, espungendo dall’ordinamento giuridico il suddetto elemento di incongruenza mediante apposita segnalazione al Governo e al Parlamento, con conseguente richiesta di abrogazione parziale del citato articolo.
LEGGI IL PARERE
Numero 02052/2018 e data 20/08/2018 Spedizione
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Adunanza della Commissione speciale del 26 luglio 2018
NUMERO AFFARE 01382/2018
OGGETTO:
Autorità Nazionale Anticorruzione – ANAC. Normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali alla luce del d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 e del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117.
LA COMMISSIONE SPECIALE del 26 luglio 2018
Vista la nota di trasmissione della relazione prot. n. 59638 in data 6 luglio 2018 con la quale l’Autorità Autorità Nazionale Anticorruzione – ANAC ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e uditi i relatori Luca Lamberti e Stefano Fantini;
1. Il quesito.
Con nota prot. n. 59638 del 6 luglio 2018 l’ANAC ha rivolto a questo Consiglio richiesta di parere in ordine alla normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali, alla luce delle disposizioni del d.lgs. n. 50 del 2016, come modificato dal d.lgs. n. 56 del 2017, e del d.lgs. n. 117 del 2017.
L’Autorità ha precisato che sono emersi “dubbi interpretativi” in proposito e che, in particolare, si sono registrate “posizioni contrastanti da parte di vari stakeholder e del Ministero del lavoro, che teorizzano l’esclusione dall’applicazione del Codice dei contratti pubblici di ampi settori di attività affidati agli organismi del terzo settore. Inoltre, è emerso un difetto di coordinamento tra la disciplina recata dal Codice del terzo settore e la normativa nazionale in materia di trasparenza e di prevenzione della corruzione”.
In conseguenza della “delicatezza della materia, che per alcune tipologie di attività sottende rilevanti interessi economici”, l’Autorità ha, quindi, ritenuto opportuno acquisire il parere di questo Consiglio prima di procedere ad un “intervento chiarificatore” che, nelle intenzioni dell’Autorità, potrebbe svolgersi in occasione dell’aggiornamento della delibera n. 32 del 2016, recante “Linee guida per l’affidamento di servizi ad enti del terzo settore ed alle cooperative sociali” e che, per taluni profili, potrebbe essere anticipato nell’ambito dell’approfondimento sul tema dell’immigrazione, allo stato in fase di predisposizione nel più ampio contesto del Piano Nazionale Anticorruzione per l’anno 2018.
2. Il contesto normativo di riferimento.
In data 26 febbraio 2014 il Parlamento europeo ed il Consiglio hanno adottato le coeve direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE, relative rispettivamente alla “aggiudicazione dei contratti di concessione”, agli “appalti pubblici” ed alle “procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali”.
Tali direttive hanno abrogato le precedenti direttive 2004/18/CE e 2004/17/CE, già attuate in Italia con il d.lgs. n. 163 del 2006, e sono state recepite nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 50 del 2016, recante il nuovo Codice dei contratti pubblici in sostituzione del previgente d.lgs. n. 163 del 2006
Il d.lgs. n. 50 del 2016, a sua volta, è poi stato oggetto delle modifiche disposte con il successivo d.lgs. n. 56 del 2017.
Nel corso del 2017, inoltre, è stato emanato il d.lgs. n. 117 del 2017, recante il Codice del terzo settore, nel cui ambito sono dettate talune norme afferenti alle modalità di affidamento dei servizi sociali.
L’Autorità richiedente ha rilevato profili di possibile disarmonia fra il Codice dei contratti pubblici ed il Codice del terzo settore proprio in ordine alla disciplina dell’affidamento di servizi sociali e, prima di procedere alla formulazione di apposite “linee guida” in materia, ha ritenuto opportuno acquisire, in proposito, il parere di questo Consiglio.
3. L’affidamento dei servizi sociali nella normativa euro-unitaria e nazionale di derivazione euro-unitaria.
Il vigente Codice dei contratti pubblici disciplina al proprio interno anche le procedure di affidamento di appalti di servizi sociali.
Netta, sul punto, la distonia rispetto alla previgente disciplina, che dedicava agli affidamenti di servizi sociali (al pari di tutti i servizi inclusi nell’allegato II-B) solo le disposizioni afferenti alle specifiche tecniche ed agli avvisi circa l’esito della procedura di aggiudicazione (cfr. art. 20 d.lgs. n. 163 del 2006).
L’attuale Codice, viceversa, non solo non reca alcuna esplicita esclusione dei servizi sociali dal proprio ambito di applicazione, ma detta in proposito plurime disposizioni, che rendono evidente la sottoposizione anche di tali servizi alla normativa codicistica.
Questo Consiglio, del resto, nel parere n. 855 del 1 aprile 2016 relativo allo schema di decreto legislativo poi confluito nel vigente Codice aveva evidenziato, fra le novità recate dal nuovo provvedimento rispetto al previgente d.lgs. n. 163 del 2006, proprio l’inclusione degli “appalti relativi ai servizi sociali” (cfr. punto I.b.2 alla pagina 8 del citato parere).
In particolare, sono significative in proposito le seguenti disposizioni:
- l’art. 35 individua, per gli “appalti di servizi sociali”, la soglia di rilevanza comunitaria (€ 750.000 per i settori ordinari ed € 1.000.000 per i settori speciali);
- gli articoli 70 e 72 per i settori ordinari e gli articoli 127 e 130 per i settori speciali individuano il termine di validità ed il conseguente periodo di pubblicazione dell’avviso di preinformazione circa le procedure di affidamento di servizi sociali;
- l’art. 95 individua il criterio di aggiudicazione, stabilendo che “i contratti relativi ai servizi sociali … sono aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo”;
- gli articoli 140 (per i settori speciali), 142, 143 e 144 (per i settori ordinari) recano, in ordine ad alcuni profili e per alcune tipologie di servizi sociali, una disciplina speciale e derogatoria rispetto a quella generale disposta dal Codice, connotata da un tendenziale alleggerimento degli oneri;
- l’art. 169 menziona espressamente le concessioni di servizi sociali, richiamate del resto anche negli allegati XXII e XXIV.
L’inclusione dell’affidamento dei servizi sociali nell’ambito del Codice è, peraltro, pienamente in linea con il disposto delle direttive UE (cfr., in particolare, gli articoli 74 – 77 della direttiva 2014/24/UE, gli articoli 91 – 94 della direttiva 2014/25/UE, l’articolo 19 della direttiva 2014/23/UE).
4. L’affidamento dei servizi sociali nella normativa nazionale afferente al terzo settore.
Con il d.lgs. n. 117 del 2017, in esecuzione della delega conferita con l. n. 106 del 2016, è stato emanato il Codice del terzo settore.
Il provvedimento, nel contesto di una dichiarata valorizzazione del ruolo degli enti non profit anche alla luce dell’art. 118, comma 4, Cost., attende ad una regolamentazione del settore di impronta e finalità dichiaratamente sistematica, pur non disponendo l’espressa abrogazione di tutta la pregressa normativa stratificatasi in materia.
Nell’ambito di tale ampia disciplina si collocano anche talune disposizioni, racchiuse nel Titolo VII, tese a regolamentare i “rapporti con gli enti pubblici” e, in particolare, le modalità di affidamento ad enti del terzo settore dello svolgimento di servizi sociali da parte di Pubbliche Amministrazioni.
Si tratta, in particolare, degli articoli 55, 56 e 57.
L’art. 55, premessi i principi generali cui la disposizione si conforma (“sussidiarietà, cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità, copertura finanziaria e patrimoniale, responsabilità ed unicità dell’amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare”), dispone al primo comma che “le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi nei settori di attività di cui all’articolo 5, assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore, attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento, poste in essere nel rispetto dei principi della legge 7 agosto 1990, n. 241”.
Al secondo e terzo comma vengono, rispettivamente, disciplinate la co-programmazione e la co-progettazione.
La co-programmazione è “finalizzata all’individuazione, da parte della pubblica amministrazione procedente, dei bisogni da soddisfare, degli interventi a tal fine necessari, delle modalità di realizzazione degli stessi e delle risorse disponibili”, mentre la co-progettazione è volta alla “definizione ed eventualmente alla realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni definiti, alla luce degli strumenti di programmazione di cui comma 2”.
La co-progettazione è oggetto anche del quarto comma, in cui si precisa che “ai fini di cui al comma 3, l’individuazione degli enti del Terzo settore con cui attivare il partenariato avviene anche mediante forme di accreditamento nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento, previa definizione, da parte della pubblica amministrazione procedente, degli obiettivi generali e specifici dell’intervento, della durata e delle caratteristiche essenziali dello stesso nonché dei criteri e delle modalità per l’individuazione degli enti partner”.
L’art. 56 è dedicato all’istituto delle convenzioni che le Amministrazioni possono stipulare con alcune specifiche tipologie di enti del terzo settore, ossia le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale, al fine di “svolgere in favore di terzi di attività o servizi sociali di interesse generale”.
Il primo comma si premura di precisare che il ricorso allo strumento convenzionale è possibile solo ove risulti “più favorevole rispetto al ricorso al mercato”.
Al comma secondo viene stabilito che le convenzioni possono “prevedere esclusivamente il rimborso … delle spese effettivamente sostenute e documentate”, mentre il comma terzo reca disposizioni di carattere procedurale ed individua i requisiti che le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale debbono avere per poter stipulare una convenzione.
Il quarto comma individua specifiche previsioni che debbono essere contenute in ogni convenzione.
L’art. 57, infine, stabilisce che il “servizio di trasporto sanitario di emergenza ed urgenza” può essere affidato in convenzione alle organizzazioni di volontariato accreditate ai sensi della normativa vigente.
La Commissione osserva preliminarmente che questo Consiglio, con il parere n. 1405 del 14 giugno 2017 relativo allo schema di decreto legislativo, aveva sostenuto, al punto 3c, che “i Trattati Europei non attribuiscono all’Unione alcuna competenza in materia di enti non profit. Nonostante tale scelta di policy ‒ tradizionalmente giustificata in ragione della prossimità tra le attività degli enti non profit e i sistemi nazionali di welfare ‒ la competenza degli Stati membri deve, nondimeno, essere esercitata nel rispetto della disciplina in materia di concorrenza (CGCE, sentenza 14 settembre 2006 in causa C-386/04, Stauffer). La Corte di Giustizia è costante nell’adottare una nozione funzionale di impresa, incentrata sullo svolgimento di attività economica, anziché sulle caratteristiche dell’operatore professionale: per “impresa” deve intendersi l’organismo che «esercita un’attività economica, offrendo beni e servizi su un determinato mercato, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento» (a partire quanto meno da CGCE, 23 aprile 1991, in causa C-41/90, Höfner).
Su queste basi, il Codice del Terzo settore ‒ come emergerà meglio dall’esame dell’articolato ‒ potrebbe forse considerare con più attenzione la necessità (imposta dal diritto europeo) di mediare le due contrapposte esigenze: valorizzare le organizzazioni non lucrative e, al contempo, salvaguardare gli equilibri funzionali del libero mercato”.
Del resto, rileva ancora la Commissione, la legge delega precisava che il decreto dovesse, tra l’altro, “… individuare criteri e modalità per l'affidamento agli enti dei servizi d'interesse generale, improntati al rispetto di standard di qualità e impatto sociale del servizio, obiettività, trasparenza e semplificazione e nel rispetto della disciplina europea e nazionale in materia di affidamento dei servizi di interesse generale” (cfr. l. n. 106 del 2016, art. 4, comma 1, lett. o).
Ciò premesso, la Commissione osserva che le disposizioni di cui ai citati articoli 55 e 56 hanno significativamente ampliato le modalità con cui gli enti del terzo settore possono instaurare rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione.
Già prima del Codice, per vero, l’ordinamento conosceva forme peculiari di rapporti fra enti privi di scopo di lucro ed Amministrazione, contenute tuttavia entro limiti ben più circoscritti; talune di queste forme, peraltro, sono contenute in leggi non formalmente abrogate dal Codice.
Per quanto qui di interesse, in particolare, la legge n. 328 del 2000, denominata “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” ed appunto non espressamente abrogata dal Codice, stabilisce all’art. 5 che “Le regioni, secondo quanto previsto dall'articolo 3, comma 4, e sulla base di un atto di indirizzo e coordinamento del Governo, ai sensi dell'articolo 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59 … adottano specifici indirizzi per regolamentare i rapporti tra enti locali e terzo settore, con particolare riferimento ai sistemi di affidamento dei servizi alla persona”.
Il Governo ha conseguentemente emanato il D.P.C.M. 30 marzo 2001, il cui art. 6 prevede che “Le regioni adottano specifici indirizzi per regolamentare i rapporti tra comuni e soggetti del terzo settore nell'affidamento dei servizi alla persona di cui alla legge n. 328 del 2000 tenuto conto delle norme nazionali e comunitarie che disciplinano le procedure di affidamento dei servizi da parte della pubblica amministrazione”.
Il successivo art. 7, inoltre, limita la co-progettazione a casi particolari: si stabilisce, infatti, che “Al fine di affrontare specifiche problematiche sociali, valorizzando e coinvolgendo attivamente i soggetti del terzo settore, i comuni possono indire istruttorie pubbliche per la co-progettazione di interventi innovativi e sperimentali su cui i soggetti del terzo settore esprimono disponibilità a collaborare con il comune per la realizzazione degli obiettivi”.
In base a tali disposizioni, dunque, “i rapporti tra comuni e soggetti del terzo settore nell'affidamento dei servizi alla persona”, quali che ne siano le forme, sono comunque soggetti alle “norme nazionali e comunitarie che disciplinano le procedure di affidamento dei servizi da parte della pubblica amministrazione”; inoltre, la co-progettazione è circoscritta ad “interventi innovativi e sperimentali”.
Le disposizioni del Codice in commento, invece, non indicano più, quale superiore principio conformativo delle procedure di affidamento di servizi sociali, il necessario rispetto “delle norme nazionali e comunitarie che disciplinano le procedure di affidamento dei servizi da parte della pubblica amministrazione”; in termini più specifici, inoltre, non limitano il ricorso alla co-progettazione ai soli “interventi innovativi e sperimentali”, ma, de facto, qualificano l’istituto come strumento ordinario a regime.
Parimenti, l’accreditamento viene indicato quale possibile modalità per addivenire alla conclusione di un partenariato ed il relativo procedimento è soggetto al rispetto di taluni generali principi di massima (“trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento”), senza, tuttavia, alcun espresso richiamo alla normativa del Codice dei contratti pubblici.
5. Le prospettive interpretative.
L’esegesi di tali disposizioni, per vero, non può limitarsi al mero riscontro del dato letterale (pur apparentemente univoco), ma deve tener conto del più ampio contesto sistematico in cui la normativa de qua si colloca e, in particolare, del principio della primazia del diritto euro-unitario.
La Commissione rileva, infatti, che il Codice dei contratti pubblici recepisce in Italia la normativa euro-unitaria e deve, pertanto, essere interpretato in base alle categorie giuridiche proprie dell’ordinamento europeo.
Come si è accennato al par. 4, la nozione funzionale di impresa ha, in ambito euro-unitario, una latitudine semantica assai vasta, giacché prescinde dalla veste giuridica e dai caratteri strutturali del soggetto gerente e si concentra, viceversa, sulla ricorrenza in concreto di oggettivi caratteri economici nell’attività posta in essere: sotto altra angolazione prospettica, ogni iniziativa relativa alla realizzazione di beni, all’esecuzione di lavori od alla prestazione di servizi astrattamente contendibili sul mercato (recte, per i quali vi sia, in atto o in potenza, un mercato) e, come tale, potenzialmente realizzabile da più operatori in quanto intrinsecamente capace di coprire i costi con i ricavi è, ai fini e per gli effetti della normativa europea, attività di impresa ed è soggetta alla disciplina dalla medesima apprestata.
Una tale postura giuridica gemma dalle finalità stesse della costruzione europea, tesa alla creazione, estensione, allargamento ed approfondimento di un mercato unico (tale da essere, in prospettiva, mero “mercato interno” unionale), con la conseguente necessità di sottoporre alla disciplina pro-concorrenziale tendenzialmente ogni attività umana connotata da un rilievo economico, allo scopo di evitare la permanenza di “sacche” sottratte al confronto competitivo e, dunque, potenzialmente assoggettabili a discipline nazionali contrarie allo spirito uniformatore sotteso ai Trattati.
In sostanza, ai fini del diritto euro-unitario l’impresa è un concetto non normativo ma, per così dire, naturalistico, attenendo ad ogni fenomeno oggettivamente economico (cfr. la definizione di “operatore economico” recata dal Codice dei contratti pubblici, all’art. 3, lett. p]): del resto, l’attuale Unione Europea costituisce l’evoluzione istituzionale dell’originaria Comunità Economica Europea.
L’ascrizione, ai fini euro-unitari, della natura imprenditoriale ad ogni attività di intrinseco rilievo economico incontra le sole esclusioni esplicitamente previste dallo stesso diritto euro-unitario, che, concretando disposizioni eccezionali, sono da interpretarsi in forma tassativa. Trattasi delle così dette fattispecie escluse, pur sottoposte all’art. 4 del codice, e delle fattispecie estranee, che fuoriescono totalmente dal circuito delle direttive in questione e del codice (cfr. par. Cons. Stato, comm. spec., 10 maggio 2018, n. 1241; Cons. Stato, Ad. Plen., 1 agosto 2011, n. 16; Cons. Stato, comm. spec., 3 agosto 2018, n. 2017/18).
Per tutte le fattispecie escluse (non per quelle estranee) l’art. 4 del Codice dei contratti pubblici prevede solamente il rispetto di meri principi di massima (ossia economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica).
E’ il caso, ad esempio, del servizio di trasporto sanitario di emergenza ed urgenza, che l’art. 17, lett. h], del Codice dei contratti pubblici (in aderenza al considerando n. 28 della direttiva 2014/24/UE) esclude dall’applicazione delle disposizioni in esso dettate: tale tipologia di servizio, pertanto, è liberamente articolabile in sede nazionale (cfr. in proposito, l’art. 57 del Codice del terzo settore), fermo il rispetto del menzionato art. 4 del Codice dei contratti pubblici.
Di converso, ciò che non è economico è eo ipso e funditus fuori dalla regolazione competitiva euro-unitaria: si verte, in questo caso, in tema non di esclusione (di ciò che, altrimenti, astrattamente rientrerebbe nel fuoco della normativa), ma di radicale estraneità (conseguente al diverso sostrato oggettuale della materia, che la rende altra rispetto a quella normata dalla disciplina euro-unitaria). Si ponga mente, in proposito, all’art. 2 del Protocollo 26 dei Trattati, ai sensi del quale “Le disposizioni dei trattati lasciano impregiudicata la competenza degli Stati membri a fornire, a commissionare e ad organizzare servizi di interesse generale non economico”, nonché all’art. 164, comma 3, del Codice dei contratti pubblici, che stabilisce che “I servizi non economici di interesse generale non rientrano nell'ambito di applicazione della presente Parte”.
Orbene, mentre le direttive del 2004 escludevano pressoché in toto i servizi sociali dal proprio ambito di applicazione, le direttive di nuova generazione del 2014 includono espressamente pure gli “appalti di servizi sociali”, in tal modo disvelando la sottesa mens legis tesa ad un approfondimento ed avanzamento progressivo dei principi del mercato anche in un settore, quale quello de quo, prima lasciato ai decisori nazionali. Si è pertanto passati dal regime di esclusione a quello di inclusione, con tutte le conseguenze del caso.
Si deve, in proposito, evidenziare che il concetto europeo di “appalto” è sensibilmente più ampio di quello nazionale ed inerisce a tutti i “contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici, aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti e la prestazione di servizi” (cfr. Codice dei contratti pubblici, art. 3, lett. ii]).
Di regola, dunque, l’affidamento dei servizi sociali, comunque sia disciplinato dal legislatore nazionale, deve rispettare la normativa pro-concorrenziale di origine europea, in quanto rappresenta una modalità di affidamento di un servizio (in termini euro-unitari, un “appalto”) che rientra nel perimetro applicativo dell’attuale diritto euro-unitario.
Cionondimeno, al ricorrere di alcune condizioni la procedura di affidamento di servizi sociali disciplinata dal diritto interno non è soggetta alla regolazione di origine euro-unitaria. Ciò accade allorché:
- la procedura disciplinata dal diritto interno non abbia carattere selettivo;
- non tenda, neppure prospetticamente, all’affidamento di un servizio sociale;
- la procedura disciplinata dal diritto interno miri sì all’affidamento ad un ente di diritto privato di un servizio sociale che, tuttavia, l’ente affidatario svolgerà a titolo integralmente gratuito (il punto sarà trattato più diffusamente infra in questo paragrafo e nei limiti ivi indicati).
I primi due punti sono un corollario delle finalità del diritto europeo: questo, invero, tende all’apertura del mercato e, pertanto, non si protende per così dire all’indietro a disciplinare modalità di contatto fra Amministrazione e soggetti privati prive di carattere selettivo e non tese all’affidamento, neanche solo prospettico, di un servizio.
Il terzo punto deriva dal fatto che il diritto europeo degli appalti si interessa dei soli affidamenti onerosi: non solo, infatti, dal punto di vista testuale è “appalto pubblico” ai fini europei esclusivamente il contratto a titolo oneroso, ma, in un’ottica sostanziale, lo svolgimento di un servizio in assenza di corrispettivo non pone in radice problemi di distorsione della concorrenza in quanto (e nei limiti in cui) si risolve in un fenomeno non economico, ossia strutturalmente al di fuori delle logiche di mercato perché incapace di essere auto-sufficiente mediante la copertura dei costi con i ricavi. In tal caso la gratuità assume due significati: sotto un primo profilo, la creazione di ricchezza tramite il lavoro del prestatore di servizi non remunerato dal profitto; sotto un secondo profilo il sostenimento eventuale di costi senza rimborso né remunerazione, a puro scopo di solidarietà sociale (evenienza tipica delle associazioni di volontariato, cfr art. 17 del codice del terzo settore). In tali casi si realizza la corretta fattispecie della gratuità, vale a dire un aumento patrimoniale di un soggetto, in questo caso la collettività, cui corrisponde una sola e mera diminuzione patrimoniale di altro soggetto, cioè il depauperamento del capitale lavoro o del patrimonio del prestatore.
Per questa linea, la effettiva gratuità si risolve contenutisticamente in non economicità del servizio poiché gestito, sotto un profilo di comparazione di costi e benefici, necessariamente in perdita per il prestatore. Di conseguenza, esso non è reso dal mercato, anzi è fuori del mercato. Viceversa, la gratuità si risolverebbe, addirittura, in concorrenza sleale nei confronti degli imprenditori che in ipotesi dessero vita a un mercato di tali servizi.
E’ necessario, pertanto, scandagliare la compatibilità degli istituti disciplinati dal Codice del terzo settore con la normativa di origine euro-unitaria adottando questa specifica prospettiva.
La peculiarità dell’istituto delle convenzioni ex art. 56 del Codice ne suggerisce, tuttavia, una trattazione separata e specifica.
Quanto in primo luogo all’accreditamento, esso è al di fuori della normativa euro-unitaria ove si limiti alla mera individuazione dei soggetti del terzo settore da inserire nella rete dei servizi sociali, senza che, a monte, sia stato previamente individuato un numero od un contingente prefissato (cosiddetto modello dell’accreditamento libero).
In tal caso, infatti, l’istituto si risolve sostanzialmente in una sorta di abilitazione priva di carattere selettivo e non propedeutica all’affidamento di un servizio: come tale, non impinge in campi disciplinati dal diritto europeo e trova la propria esclusiva regolazione nel diritto nazionale.
Viceversa, ove sia ex ante stabilito un contingente massimo di operatori accreditabili ovvero, a fortiori, qualora l’accreditamento sia lo strumento per addivenire all’attivazione di un partenariato, la procedura tradisce un afflato selettivo che ne impone la riconduzione entro gli stilemi del diritto euro-unitario.
In siffatti casi, pertanto, la procedura sarà qualificabile, ai fini e per gli effetti del Codice dei contratti pubblici, come appalto di servizi sociali e sarà, pertanto, sottoposta alla relativa disciplina (scilicet, per quanto di interesse, in considerazione della peculiare natura dell’accreditamento), ad eccezione della sola ipotesi di integrale gratuità dell’affidando servizio nei limiti di quanto già osservato sul concetto di gratuità e di quanto si preciserà più avanti in questo paragrafo.
Considerazioni analoghe debbono formularsi in ordine alla co-progettazione, che, peraltro, rientra nel fuoco della normativa europea quale forma di appalto di servizi sociali con ancora maggiore evidenzia rispetto all’accreditamento: la co-progettazione, infatti, quale procedura “finalizzata alla definizione ed eventualmente alla realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento”, si sostanzia in un rapporto fra Amministrazione e specifici enti del terzo settore che presenta a monte un momento selettivo fra gli operatori interessati e tende a valle a disporre all’ente co-progettante l’affidamento del servizio sociale.
Percorsi argomentativi del tutto simili debbono svolgersi con riferimento al partenariato, specie ove si ponga mente al fatto che il Codice dei contratti pubblici contempla specifiche procedure, quale in primis il partenariato per l’innovazione, che rispondono proprio alle esigenze di flessibilità e snellezza operativa cui, con ogni evidenza, è preposto l’istituto in discorso.
Nei casi di co-progettazione e partenariato, pertanto, solo la comprovata ricorrenza dell’elemento della gratuità (con i caveat segnalati e di cui avanti) esclude la sussunzione della procedura entro la disciplina euro-unitaria.
In sostanza, e ricapitolando, si devono ritenere estranee al codice unicamente le procedure di accreditamento c.d. libero e le procedure di co-progettazione e partenariato finalizzate a rapporti puramente gratuiti, nel significato e con i limiti segnalati e di cui infra.
Salve, dunque, le esposte eccezioni, le procedure previste dal Codice del terzo settore (e, in generale, dalla normativa ancora in vigore in subiecta materia) configurano, in ottica europea, appalti di servizi sociali e, pertanto, sono sottoposte anche alla disciplina del Codice dei contratti pubblici, che si affianca, integrandola, a quella apprestata dal Codice del terzo settore.
Del resto, le direttive europee consentono agli Stati, in materia di aggiudicazione di appalti sociali, “di determinare le norme procedurali applicabili fintantoché tali norme consentono alle amministrazioni aggiudicatrici di prendere in considerazione le specificità dei servizi in questione” (così gli articoli 76 della direttiva 2014/24/UE e 93 della direttiva 2014/25/UE): il diritto europeo, nella consapevolezza della peculiarità del settore, più di altri legato alle tradizioni culturali di ogni Paese, lascia sì in materia un significativo margine di libertà procedurale agli Stati, ferma restando, tuttavia, la doverosa applicazione della sostanza regolatoria pro-concorrenziale propria della disciplina europea.
In considerazione della primazia del diritto euro-unitario, peraltro, la disciplina recata dal Codice dei contratti pubblici prevale in ogni caso sulle difformi previsioni del Codice del terzo settore, ove queste non possano in alcun modo essere interpretate in conformità al diritto euro-unitario: troverà, in tali casi, applicazione il meccanismo della disapplicazione normativa, costituente un dovere sia per il Giudice sia per le Amministrazioni.
E’ opportuno precisare che l’applicazione del Codice dei contratti pubblici è integrale ed attiene, dunque, a tutti gli istituti ivi previsti, salva l’applicazione dell’art. 36 per i contratti sotto soglia.
Tuttavia, il d.lgs. n. 56 del 2017, recante il decreto correttivo del Codice dei contratti pubblici, ha novellato l’art. 142, delineando un regime cosiddetto “alleggerito” per alcuni dei servizi elencati nell’allegato IX del Codice stesso: pertanto, per i servizi indicati al comma 5-bis dell’art. 142 (“servizi sanitari, servizi sociali e servizi connessi; servizi di prestazioni sociali; altri servizi pubblici, sociali e personali, inclusi servizi forniti da associazioni sindacali, da organizzazioni politiche, da associazioni giovanili e altri servizi di organizzazioni associative”) si applica il regime “alleggerito” contemplato nei successivi commi da 5-ter a 5-nonies, mentre per i restanti servizi dell’allegato IX non enucleati al comma 5-bis l’applicazione del Codice è integrale e si estende a tutti gli istituti da esso previsti.
Peraltro, in ordine all’opportunità di procedere a siffatta partizione di disciplina, anche in relazione alle scelte già operate al momento del primo esercizio della delega ed all’ampiezza delle facoltà riconosciute al Governo dall’art. 1, comma 8, della legge delega n. 11 del 2016 (ai sensi del quale “Entro un anno dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi di cui al comma 1 il Governo può adottare disposizioni integrative e correttive nel rispetto dei principi e criteri direttivi e della procedura di cui al presente articolo”), la Commissione rimanda alle considerazioni critiche svolte dal Consiglio nel parere n. 782 del 30 marzo 2017, formulato proprio in relazione allo schema di decreto correttivo.
Giacché, poi, le procedure in questione concretano, in ottica euro-unitaria, forme di affidamento di servizi pubblici (rectius, costituiscono tout courtforme di “appalti pubblici”, come qualificati dall’art. 3, lett. ii] del Codice), le Amministrazioni che vi ricorrono sono soggette all’art. 37 del d.lgs. n. 33 del 2013, afferente agli “Obblighi di pubblicazione concernenti i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture”, scilicet ad eccezione dell’ipotesi di svolgimento interamente gratuito del servizio affidato nei limiti e nei sensi più volte richiamati.
A loro volta, i soggetti affidatari dei servizi sociali sono sottoposti all’art. 2-bis, comma 3, del d.lgs. 33/2013, quali “enti di diritto privato, anche privi di personalità giuridica … che esercitano attività di produzione di servizi a favore delle Amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici”.
Più in generale, è ragionevole ritenere che le Amministrazioni debbano volta per volta motivare la scelta di ricorrere agli stilemi procedimentali delineati dal Codice del terzo settore, in luogo dell’indizione di una ordinaria gara d’appalto.
L’attivazione di una delle forme enucleate dal Codice del terzo settore, infatti, priva de facto le imprese profit della possibilità di affidamento del servizio e, in termini più generali, determina una sostanziale segregazione del mercato: in ossequio ai principi di parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza, pertanto, l’Amministrazione dovrà puntualmente indicare e documentare la ricorrenza, nella concreta vicenda, degli specifici profili che sostengono, motivano e giustificano il ricorso a procedure che tagliano fuori ex ante gli operatori economici tesi a perseguire un profitto.
L’Amministrazione dovrà, in particolare, evidenziare la maggiore idoneità di tali procedure a soddisfare i bisogni lato sensu “sociali” ricorrenti nella fattispecie, alla luce dei principi di adeguatezza, proporzionalità ed efficacia ed in comparazione con gli esiti che verosimilmente produrrebbe l’alternativa del ricorso al mercato.
L’esposta conclusione consegue anche al fatto che le procedure previste dal Codice del terzo settore non trovano una diretta “copertura” nel Codice dei contratti pubblici, che conosce solo le ipotesi derogatorie di cui all’art. 112 (riserva di partecipazione o di esecuzione a favore di enti “il cui scopo principale sia l'integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate”) e di cui all’art. 143 (riserva ad organizzazioni qualificate da specifici caratteri, indicati al comma 2, degli affidamenti relativi ad alcune tipologie di “servizi sanitari, sociali e culturali”).
Pertanto, al di fuori di tali ipotesi il ricorso alle procedure di cui al Codice del terzo settore deve essere volta per volta specificamente motivato quale riflesso operativo del preminente valore “sociale” dell’affidamento, in diretta connessione con i principi sottesi al considerando 114 della direttiva 2014/24/UE ed all’analogo considerando n. 120 della direttiva 2014/25/UE, secondo cui “I contratti per servizi alla persona al di sopra di tale soglia dovrebbero essere improntati alla trasparenza, a livello di Unione. In ragione dell’importanza del contesto culturale e della sensibilità di tali servizi, gli Stati membri dovrebbero godere di un’ampia discrezionalità così da organizzare la scelta dei fornitori di servizi nel modo che considerano più adeguato”.
Giova a tal proposito ribadire che nelle ipotesi in cui la gratuità sia considerata esimente dalla applicazione del codice, ciò non di meno essa costituisce, in sé, un vulnus al meccanismo del libero mercato ove operano imprenditori che forniscono i medesimi servizi a scopo di lucro e dunque in maniera economica mirando al profitto. La motivazione della scelta quindi non solo è opportuna, ma deve considerarsi condicio sine qua non per l’esercizio di un tale potere.
Sulla scorta di tali premesse, del resto, i considerando n. 114 e n. 120 precisano che “Le norme della presente direttiva tengono conto di tale imperativo, imponendo solo il rispetto dei principi fondamentali di trasparenza e di parità di trattamento e assicurando che le amministrazioni aggiudicatrici abbiano la facoltà di applicare criteri di qualità specifici per la scelta dei fornitori di servizi, come i criteri stabiliti dal quadro europeo volontario della qualità per i servizi sociali, pubblicato dal comitato per la protezione sociale. Nel definire le procedure da utilizzare per l’aggiudicazione degli appalti di servizi alla persona, gli Stati membri dovrebbero tener conto dell’articolo 14 TFUE e del protocollo n. 26”.
Prima di passare alla disamina del fenomeno delle convenzioni, la Commissione ritiene necessario operare un approfondimento relativo al concetto di onerosità, che costituisce la linea di faglia fra i servizi economici di interesse generale, soggetti al Codice, ed i servizi non economici di interesse generale, viceversa in radice ad esso estranei. Concetto complementare a quello di gratuità già precedentemente esaminato.
Sul punto, la Commissione ritiene che solo il rimborso spese a pie’ di lista che, in particolare, escluda la remunerazione, anche in maniera indiretta, di tutti i fattori produttivi e comprenda unicamente le documentate spese vive, correnti e non di investimento, incontrate dall’ente, consente di affermare la gratuità della prestazione del servizio e, dunque, di postulare la estraneità all’ambito del Codice dei contratti pubblici.
E’, in special modo, necessario che sia acclarata l’assenza di qualunque remunerazione a carico del soggetto pubblico affidante, quale che ne sia la formale denominazione e qualunque sia il meccanismo economico o contabile anche indiretto, al personale volontario o dipendente e direttivo dell’ente e, altresì, che non ricorrano forme di forfetizzazione dei rimborsi né di finanziamento a fondo perduto, né di finanziamento, acquisto o contributo in conto capitale.
Solo la sicura esclusione di ogni possibile ripianamento con risorse pubbliche del costo dei fattori produttivi utilizzati dall’ente e l’assenza di alcuna forma di incremento patrimoniale anche se finalizzato al servizio stesso dimostrano, infatti, l’oggettiva assenza dell’economicità e, dunque, determinano l’ascrizione del servizio entro la categoria dei servizi non economici di interesse generale, con conseguente fuoriuscita dall’ambito oggettuale del Codice dei contratti pubblici.
Giova sul punto richiamare, e fare propria come completamento della motivazione, la precisa dicitura contenuta nell’art. 56 del codice del terzo settore, ove si prevedono convenzioni necessariamente gratuite come quelle nelle quali (co. 2) si possono prevedere: “esclusivamente il rimborso … delle spese effettivamente sostenute e documentate” e (co. 4) “con esclusione di qualsiasi attribuzione a titolo di maggiorazione, accantonamento, ricarico o simili, e con la limitazione del rimborso dei costi indiretti alla quota parte imputabile direttamente all’attività oggetto della convenzione”.
In conclusione sul punto, può così sintetizzarsi l’opzione esegetica coltivata da questa Commissione:
- le procedure di affidamento dei servizi sociali contemplate nel Codice del terzo settore (in particolare, accreditamento, co-progettazione e partenariato) sono estranee al Codice dei contratti pubblici ove prive di carattere selettivo, ovvero non tese all’affidamento del servizio, ovvero ancora ove il servizio sia prospetticamente svolto dall’affidatario in forma integralmente gratuita, intesa nel rigido senso specificato supra;
- le procedure di affidamento dei servizi sociali contemplate nel Codice del terzo settore (in particolare, accreditamento, co-progettazione e partenariato) sono, viceversa, soggette al Codice dei contratti pubblici, al fine di tutelare la concorrenza anche fra enti del terzo settore, ove il servizio sia prospetticamente svolto dall’affidatario in forma onerosa, ricorrente in presenza anche di meri rimborsi spese forfettari e/o estesi a coprire in tutto od in parte il costo dei fattori di produzione; l’Amministrazione, inoltre, deve specificamente e puntualmente motivare il ricorso a tali modalità di affidamento, che, in quanto strutturalmente riservate ad enti non profit, de facto privano le imprese profit della possibilità di rendersi affidatarie del servizio.
6. In particolare, le convenzioni ex art. 56 del Codice del terzo settore.
Nel contesto della ricostruzione sistematica che precede si può ora tentare l’inquadramento della più problematica modalità di gestione dei rapporti tra Amministrazioni pubbliche ed enti del terzo settore, e cioè delle convenzioni di cui all’art. 56 del d.lgs. n. 117 del 2017.
L’ambito soggettivo della norma contempla, rispetto alla variegata tipologia degli enti del terzo settore prevista dall’art. 4 del predetto testo legislativo, le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale, iscritte da almeno sei mesi nel registro unico nazionale del terzo settore; tali soggetti possono stipulare con le Amministrazioni convenzioni finalizzate allo svolgimento in favore di terzi di attività o servizi sociali di interesse generale, “se più favorevoli rispetto al ricorso al mercato”.
La clausola finale induce a ritenere, sul piano sistematico, che siano deducibili nella convenzione servizi economici di interesse generale, in quanto, altrimenti, cioè nella prospettiva della non onerosità, non si porrebbe, sul piano logico prima ancora che giuridico, il problema della comparazione di convenienza della scelta tra ricorso al mercato e convenzione.
Non si può escludere peraltro, sul piano dell’ermeneusi letterale, una diversa lettura del profilo causale, nella misura in cui il secondo comma dell’art. 56 consente, con una locuzione invero non particolarmente lineare, per le convenzioni, il solo rimborso delle spese vive (effettivamente sostenute e documentate). Occorre intendersi su tale locuzione, atteso che, richiamando quanto in precedenza chiarito, il rimborso che escluda la remunerazione di tutti i fattori della produzione altrui (capitale e lavoro) e copra solamente le spese vive, nega l’onerosità della prestazione ed enuclea un contesto di servizio di interesse generale non economico, non interferente, in quanto tale, con la disciplina del codice dei contratti pubblici. A questo riguardo, la stessa disposizione del quarto comma dimostra l’impossibilità di pervenire, sul piano dello stretto diritto positivo, ad un approdo sicuro; il riferimento è alla disciplina del contenuto della convenzione, che deve riguardare anche i rapporti finanziari riguardanti le spese da ammettere a rimborso, tra cui figurano, necessariamente a carico dell’Amministrazione pubblica (come conferma l’art. 18 del d.lgs. n. 117 del 2017), gli oneri relativi alla copertura assicurativa (per infortuni, malattie connesse allo svolgimento dell’attività di volontariato, nonché per la responsabilità civile verso i terzi) dei volontari di cui si avvalgono gli enti del terzo settore. A fronte di tale previsione cogente sugli oneri relativi alla copertura assicurativa, occorre peraltro considerare che la convenzione deve comunque disciplinare le modalità di rimborso delle spese, nel rispetto del principio di effettività delle stesse, “con esclusione di qualsiasi attribuzione a titolo di maggiorazione, accantonamento, ricarico o simili, e con la limitazione del rimborso dei costi indiretti alla quota parte imputabile direttamente all’attività oggetto della convenzione”. Per tentare una sintesi, sembra far propendere per la onerosità del servizio sociale di interesse generale oggetto della convenzione la riconduzione tra le spese rimborsabili dei costi indiretti e forse anche degli oneri relativi alla copertura assicurativa, ma è indubbio che si tratta di ipotesi limite, non costruite con previsioni di portata generale, che si collocano quasi in una terra di nessuno.
E’ proprio questo il nesso critico di inquadramento delle convenzioni, rispetto alle quali rimane un problema interpretativo aperto, come si cercherà di meglio chiarire.
In particolare, assume rilievo il terzo comma dell’art. 56, a mente del quale “l’individuazione delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale con cui stipulare la convenzione è fatta nel rispetto dei principi di imparzialità, pubblicità, trasparenza, partecipazione e parità di trattamento, mediante procedure comparative riservate alle medesime”. Sono enunciati principi essenzialmente riconducibili nell’ambito dell’imparzialità e della trasparenza e costituenti il contenuto imprescindibile di ogni procedimento di valutazione comparativa, o, potrebbe dirsi con diversa terminologia, ad evidenza pubblica in senso ampio. Appare peraltro chiaro che non è affermato il principio di concorrenzialità (libera concorrenza), che specifica, di regola, il procedimento finalizzato all’aggiudicazione (ed anche all’esecuzione) degli appalti e delle concessioni. Di tale diversità si ha contezza anche raffrontando i principi individuati nella norma oggetto di disamina con quelli enucleati dall’art. 30 del d.lgs. n. 50 del 2016. Ciò significa che il procedimento volto alla scelta dell’organizzazione di volontariato o dell’associazione di promozione sociale per la stipula di una convenzione finalizzata allo svolgimento in favore di terzi di attività o servizi sociali di interesse generale non è permeato dal principio di concorrenzialità, ma solamente da quello di parità di trattamento. Potrebbe, al più, ritenersi che sia garantito il principio interno di concorsualità, valorizzando il secondo periodo del comma 3, che richiede alle organizzazioni di volontariato ed alle associazioni di promozione sociale il possesso dei requisiti di moralità professionale, di idoneità professionale e di capacità tecnica professionale, seppure non con l’intensità inferibile, rispettivamente, dalla disciplina dettagliata degli artt. 80 ed 83 del d.lgs. n. 50 del 2016, ma in senso relativo, da valutare cioè, sul piano oggettivo, con riferimento alla struttura ed all’attività svolta e, sul piano soggettivo, con riferimento all’esperienza maturata, all’organizzazione, alla formazione ed all’aggiornamento dei volontari.
Le considerazioni che precedono evidenziano due potenziali coni visuali per le convenzioni di cui all’art. 56 del d.lgs. n. 117 del 2017.
Il primo è quello che tende ad identificare la convenzione come l’ambito proprio dei servizi sociali non economici di interesse generale, in relazione ai quali non si pone neppure un problema di mercato contendibile, e tale circostanza, a prescindere anche da quanto espressamente previsto dall’art. 164, comma 3, del d.lgs. n. 50 del 2017, di per sé garantirebbe la ragionevolezza della disciplina procedimentale dettata dall’art. 56, posta a garanzia della parità di trattamento/imparzialità, e dunque del vincolo formalistico proprio dell’agire amministrativo.
Tale interpretazione, che non è di per sé in contrasto con le direttive e con il codice nella misura in cui, appunto, afferisca esclusivamente e propriamente ai servizi generali NON economici, circoscriverebbe la fattispecie solo a tale tipo di servizi in aperta contraddizione con la clausola del confronto con il mercato, che presuppone invece la economicità del servizio. Ciò conduce alla conclusione che ove si attribuisca prevalenza ai (già ricordati) indici normativi che pongono in evidenza il carattere oneroso e dunque economico della convenzione, seppure mediante la forma giuridicamente poco connotante del rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate, e dunque la sua inerenza ai servizi economici di interesse generale, il regime giuridico prefigurato dalla norma pone un problema di compatibilità con il diritto euro-unitario, proprio per la ragione che non risulta informato al principio di concorrenzialità, che invece permea il codice dei contratti pubblici, recettivo delle direttive europee, e che indirizza l’affidamento del servizio mediante appalto o concessione.
Si è già ricordato come questo Consiglio, con il parere n. 1405 del 14 giugno 2017 reso sullo schema del decreto legislativo recante il codice del terzo settore, abbia sottolineato il necessario rispetto della disciplina, di imprinting sovranazionale, in materia di concorrenza, la quale viene in giuoco al cospetto di una nozione funzionale di impresa, incentrata sullo svolgimento di attività economica, e non già sulle caratteristiche dell’operatore professionale; di qui l’invito al legislatore a “mediare le due contrapposte esigenze: valorizzare le organizzazioni non lucrative e, al contempo, salvaguardare gli equilibri funzionali del libero mercato”.
In tale background, ove le circostanze di fatto pongano in evidenza che il ricorso alla convenzione concreti un comportamento vietato in quanto distorsivo del confronto competitivo tra operatori economici in un mercato aperto alla concorrenza, piuttosto che ricorrere ad improprie forzature logico-interpretative, appare corretto rimettere alla valutazione di codesta Autorità la eventuale disapplicazione dell’art. 56 del d.lgs. n. 117 del 2017 nella sede competente, con le conseguenze dello specifico caso. Ancora più opportuno potrebbe essere l’intervento in sede di aggiornamento delle “Linee guida per l’affidamento di servizi ed enti del terzo settore ed alle cooperative sociali” (di cui alla delibera ANAC n. 32 del 2016), allo scopo di bene perimetrare l’ambito del ricorso consentito alle convenzioni (pacificamente, ad esempio, per il servizio di trasporto sanitario di emergenza e urgenza con le organizzazioni di volontariato, disciplinato dall’art. 57 del d.lgs. n. 117 del 2017), al contempo delimitando il concetto di rimborso spese, e di evidenziare, specularmente, l’ipotesi in cui lo strumento convenzionale, in quanto previsto da una norma interna in contrasto con il diritto euro-unitario, dotato di primauté rispetto al diritto nazionale, non possa essere applicato.
P.Q.M.
La Commissione Speciale esprime il richiesto parere nei termini sopra indicati.
GLI ESTENSORI
IL PRESIDENTE
Luca Lamberti, Stefano Fantini
Claudio Zucchelli
IL SEGRETARIO
Cinzia Giglio