Cons. Stato, Adunanze plen., 30 luglio 2018 n. 10, 30 luglio 2018 n. 11, 5 settembre 2018 n. 14, 28 settembre 2018, n. 15

Cons. Stato, Adunanza plen., 30 luglio 2018, n. 10 e n. 11

1. In coerenza con il generale principio dell’effetto devolutivo/sostitutivo dell’appello, le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall’art. 105 c.p.a. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive. 

2. L’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado non costituisce, di per sé, un caso di annullamento con rinvio, in quanto la chiusura in rito del processo, per quanto erronea, non determina, ove la questione pregiudiziale sia stato oggetto di dibattitto processuale, la lesione del diritto di difesa, né tanto meno un caso di nullità della sentenza o di rifiuto di giurisdizione. 

3. La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, anche quando si sia tradotta nella mancanza totale di pronuncia da parte del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente, non costituisce un’ipotesi di annullamento con rinvio; pertanto, in applicazione del principio dell’effetto sostitutivo dell’appello, anche in questo caso, ravvisato l’errore del primo giudice, la causa deve essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado. 

4. Costituisce un’ipotesi di nullità della sentenza che giustifica l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado il difetto assoluto di motivazione. Esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica oppure obiettivamente incomprensibile: quando, cioè, le anomalie argomentative sono di gravità tale da collocare la motivazione al di sotto del “minimo costituzionale” di cui all’art. 111, comma 5, Cost. 

5. La disciplina dei rapporti tra giudice di primo grado e giudice d’appello ha natura indisponibile, il che implica che, fermo restando l’onere di articolare specifici motivi di appello e il generale principio di conversione della nullità in motivi di impugnazione, nei casi di cui all’art. 105 c.p.a., il giudice d’appello deve procedere all’annullamento con rinvio anche se la parte omette di farne esplicita richiesta o chiede espressamente che la causa sia direttamente decisa in secondo grado. Viceversa, nei casi in cui non si applica l’art. 105 c.p.a., la possibilità per il giudice di appello di pronunciarsi sulla domande o sulle domande non esaminate in primo grado o erroneamente dichiarate irricevibili, inammissibili o improcedibili, presuppone necessariamente che, ai sensi dell’art. 101, comma 2, tali domande siano oggetto di rituale riproposizione, operando, altrimenti, la presunzione di rinuncia stabilita dallo stesso articolo, con conseguente inammissibilità per difetto di interesse dell’appello proposto senza assolvere all’onere di riproposizione. 

 

Cons. Stato, Adunanza plen., 5 settembre 2018, n. 14

1) In coerenza con il generale principio dell’effetto devolutivo/sostitutivo dell’appello, le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall’art. 105 c.p.a. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive.

2) La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, anche quando si sia tradotta nella mancanza totale di pronuncia da parte del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente, non costituisce un’ipotesi di annullamento con rinvio; pertanto, in applicazione del principio dell’effetto sostitutivo dell’appello, anche in questo caso, ravvisato l’errore del primo giudice, la causa deve essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado.

Cons. Stato, Adunanza plen., 28 settembre 2018, n. 15

a) l’art. 105, co. 1, c.p.a. indica talune specifiche categorie inderogabili di casi d’annullamento con rinvio, ognuna delle quali è implementabile nel suo specifico ambito dalla giurisprudenza attraverso una rigorosa interpretazione sistematica del testo vigente del Codice, senza possibilità alcuna di pervenire o di tendere alla creazione surrettizia d’una nuova categoria (e, dunque, d’una nuova norma processuale) o, peggio, all’arbitraria interpretazione motivata senza passare al previo vaglio del Giudice delle leggi, dalla prevalenza del solo principio del doppio grado di giudizio rispetto ad altri parametri costituzionali;

b) la nuova nomenclatura contenuta nel vigente art. 105 c.p.a. non ammette tout court l’erronea declaratoria d’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse quale sussumibile nella categoria della lesione dei diritti della difesa, sol perché su talune questioni di merito non si attua il doppio grado di giudizio. Per contro, l’annullamento della sentenza con rinvio al primo Giudice può conseguire, nel caso indicato dalla Sezione remittente, solo a fronte di evidenti ed irrimediabili patologie del complesso della motivazione e non di singole distonie tra il chiesto e il pronunciato, ossia a fronte di quei, per vero, marginali casi in cui è inutilizzabile il decisum (che ridonda quindi nella nullità della sentenza) e sono stati conculcati i diritti di difesa di tutte le parti (P.A. inclusa);

c) è sempre possibile, in linea di principio, riconoscere al Giudice d’appello il potere di sindacare il contenuto della motivazione dell’impugnata sentenza, affinché si possa riqualificare il dispositivo delle sentenze in rito ex art. 35, co. 1, c.p.a., ove s’accerti la patologica eversione del Giudice di prime cure dall’obbligo della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) o dall’obbligo di motivazione (artt. 74 e 88 c.p.a.) –trattandosi, com’è noto, di vicende che impingono sulla struttura inderogabile ed essenziale della sentenza, rispetto all’oggetto del processo–, a condizione, però, che tal patologia, foss’anche per evidenti errori sui fatti di causa tali da alterare la stessa possibilità di difesa delle parti, investa il complesso della motivazione stessa e non una sola sua parte (invece emendabile nei modi ordinari) o, peggio, il punto di diritto affermato (specie se questo, al di là della precisione semantica o d’una buona forma espositiva, sia fedele agli indirizzi consolidati o prevalenti della giurisprudenza di questo Consiglio);

b.3) è evidente che dette ultime ipotesi costituiscano, ovviamente alle condizioni testé evidenziate, tanto una lesione dei diritti della difesa sostanziale delle parti nel grado di riferimento, quanto una vicenda di nullità della sentenza ed implicano, per forza di cose, l’annullamento con rinvio ex art. 105, co. 1, c.p.a.

 

N. 00010/2018REG.PROV.COLL.

N. 00007/2018 REG.RIC.A.P.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 7 di A.P. del 2018, proposto dal
Consorzio Stabile Research s.c.a.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Carlo Contaldi La Grotteria, Paolo Pittori, Rosamaria Berloco, Pietro Falcicchio, con domicilio eletto presso lo studio Paolo Pittori, in Roma, Lungotevere dei Mellini 24;

contro

Multiservizi s.p.a, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Roberta Penna, domiciliato ex art. 25 Cod. proc. amm. presso la segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro n. 13;
Consorzio Stabile Progettisti Costruttori, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pietro De Luca, con domicilio eletto presso lo studio Francesco Ferrante in Roma, via Acherusio 18;

nei confronti

Impresoa s.p.a., Siciv s.r.l., non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza T.A.R. MARCHE, sezione I, n. 748/2017, resa tra le parti;

 


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Multiservizi s.p.a e di Consorzio Stabile Progettisti Costruttori;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 giugno 2018 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti l’avvocato Carlo Contaldi La Grotteria, l’avvocato Giovanni Bonaccio in delega dell’avvocato Roberta Penna, e l’avvocato Roberto Giuffrida in delega dell’avvocato Pietro De Luca;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 


FATTO

1. Il Consorzio stabile ReseArch s.c.a.r.l. ha proposto appello contro la sentenza del Tribunale amministrativo regionale delle Marche indicata in epigrafe, con cui è stato dichiarato irricevibile il suo ricorso per l’annullamento degli atti con cui la Multiservizi s.p.a. – affidataria in house dall’Autorità d’Ambito Territoriale n. 2 (Marche - Centro Ancona) della gestione del servizio idrico integrato per i Comuni soci – ha confermato l’efficacia del rapporto contrattuale d’appalto dei lavori di realizzazione del nuovo depuratore a servizio dei Comuni della Valle del Misa e del Nevola (di cui al bando pubblicato il 12 dicembre 2015) con l’aggiudicatario Consorzio stabile Progettisti Costruttori.

2. Il Consorzio ReseArch, classificatosi al secondo posto della graduatoria finale di gara, aveva sollecitato la Multiservizi ad annullare in autotutela l’aggiudicazione a favore del Consorzio stabile Progettisti Costruttori (disposta con nota n. 15817 del 2 agosto 2016). Ciò dopo avere appreso della possibile perdita dell’attestazione di qualificazione richiesta per partecipare alla gara (categoria OS22, classifica VI), nel periodo dal 18 ottobre 2016 al 25 marzo 2017, a causa della sospensione della validità della certificazione di qualità aziendale della consorziata Water Tecnology s.r.l. (certificato n. SC 08-1619 del 26 giugno 2008) da parte dell’organismo di certificazione Siciv s.r.l.; in particolare questa circostanza era comunicata dalla medesima consorziata alla Multiservizi, con nota in data 31 maggio 2017, inviata per conoscenza anche alla ricorrente.

3. Quindi, avuto riscontro negativo dalla stazione appaltante (con nota n. 13233 del 27 giugno 2017), il Consorzio ReseArch proponeva ricorso al Tribunale amministrativo regionale delle Marche per l’annullamento del diniego di autotutela dell’aggiudicazione e conferma dell’efficacia del contratto d’appalto oppostogli dalla Multiservizi.

4. Il ricorso veniva tuttavia dichiarato irricevibile, sul triplice presupposto che:

a) il Consorzio ricorrente era a conoscenza del contratto d’appalto, «atto immediatamente lesivo» dei suoi interessi, sin dalla relativa stipula in data 9 febbraio 2017, in virtù della coeva nota della Multiservizi inviatagli via p.e.c.;

b) in questo periodo «operava ancora la sospensione (…) del certificato di qualità posseduto da Water Tecnology s.r.l.»;

c) la sospensione era conoscibile per il ricorrente, perché «resa nota al pubblico attraverso il sito www.siciv.it, messo a disposizione di ACCREDIA e delle parti interessate per le azioni del caso».

Pertanto, secondo il giudice di primo grado, a fronte di tale conoscenza, il ricorso, notificato il 30 giugno 2017, era da considerarsi tardivo, per cui in senso contrario non poteva avere rilievo il fatto che il Consorzio ReseArch avesse acquisito la conoscenza effettiva della sospensione del certificato di qualità «con la ricezione della nota del 31.5.2017 trasmessa da Water Tecnology Srl.».

Del pari il Tribunale escludeva che il diniego di annullamento in autotutela impugnato (di cui alla nota della Multiservizi del 27 giugno 2017, n. 13233, sopra citata) potesse avere determinato la riapertura dei termini per l’impugnazione, poiché la suddetta nota «nella sostanza risulta meramente confermativa del principio secondo cui ciò che assumeva rilevanza, per la Stazione Appaltante, era la certificazione posseduta dal Consorzio aggiudicatario (…) e non le vicende riguardanti le singole consorziate cui la Stazione Appaltante resta estranea».

5. Nel proprio appello il Consorzio ReseArch ha contestato la dichiarazione di irricevibilità del proprio ricorso e riproposto le censure in esso contenute.

Si sono costituiti in resistenza la Multiservizi e il controinteressato Consorzio stabile Progettisti Costruttori.

6. La Quinta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza non definitiva 10 aprile 2018, n. 2161, ha accolto il motivo di appello diretto a contestare la tardività del ricorso di primo grado.

Secondo la Sezione rimettente, invero, il T.a.r. ha erroneamente riconosciuto il valore legale della pubblicità sui siti internet istituzionali degli organismi di certificazione, non previsto in realtà da alcuna disposizione di legge. La Quinta Sezione ha richiamato, a tal proposito, l’art. 41, comma 2, Cod. proc. amm. in base al quale, al di fuori delle ipotesi di comunicazione individuale o di conoscenza comunque acquisita, la pubblicazione può essere considerata come decorrenza del termine per proporre ricorso solo se “prevista dalla legge o in base alla legge”.

Inoltre, secondo la Quinta Sezione, la tesi del T.a.r. introdurrebbe un onere indeterminato di acquisizione della conoscenza in capo alla parte circa possibili illegittimità di atti amministrativi: onere che, oltre a non essere imposto da alcuna norma di legge, risulterebbe in contrasto con il principio della pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale ai sensi degli articoli 1 Cod. proc. amm. e 24 e 133 Cost.

7. Accertata l’errata dichiarazione di irrivevibilità del ricorso di primo grado, la Sezione ha affrontato la questione delle relative conseguenze sulla pronuncia da adottare nel giudizio di appello.

Ha ravvisato sul punto l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale, che può essere sintetizzato nei termini che seguono.

7.1. Secondo l’orientamento tradizionale (da ultimo riaffermato da: Cons. Stato, sez. IV, 31 luglio 2017, n. 3809; Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2018, n. 421; Cons. Stato, sez. VI, 18 dicembre 2017, n. 5955), l’errore in questione non comporta il rinvio della causa al giudice di primo grado, ma la ritenzione del giudizio da parte del giudice di appello, nei limiti di quanto ad esso devoluto.

7.2. Tuttavia, un più recente orientamento della giurisprudenza amministrativa si è posto in consapevole linea di discontinuità con l’indirizzo precedente ed ha statuito che l’ipotesi in questione sarebbe invece riconducibile al caso della violazione del diritto di difesa, per il quale ai sensi dell’art. 105, comma 1, Cod. proc. amm. si impone l’annullamento della sentenza di primo grado con rinvio al Tribunale amministrativo (Cons. giust. amm. Sicilia 24 gennaio 2018, n. 33; in termini analoghi, per il caso di omesso esame di una domanda: Cons. Stato, IV, 12 marzo 2018, n. 1535).

8. La Sezione ha, quindi, rimesso all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, Cod. proc. amm., il punto di diritto, oggetto di contrasti in giurisprudenza, relativo all’interpretazione dell’art. 105, comma 1, Cod. proc. amm., e all’esatta individuazione dei casi di annullamento con rinvio, con particolare riferimento alle conseguenze derivanti dall’accertamento dell’errata dichiarazione di irricevibilità del ricorso di primo grado.

9. Nel giudizio innanzi all’Adunanza plenaria ha depositato memoria scritta soltanto la Multiservizi s.p.a.

10. Alla pubblica udienza del 13 giugno 2018 la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

11. La questione di diritto all’esame dell’Adunanza plenaria deve essere risolta dando continuità al consolidato orientamento interpretativo che, anche dopo l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, afferma il carattere tassativo ed eccezionale dei casi di rimessione al giudice di primo grado, oggi descritti dall’art. 105 dello stesso Codice.

Va in particolare, escluso che tra i casi di annullamento con rinvio possa rientrare l’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità della domanda, oppure l’ipotesi in cui il giudice di primo grado abbia totalmente omesso di esaminare una delle domande proposte (anche per ragioni diverse dall’accoglimento di una eccezione pregiudiziale di rito).

12. L’art. 105 Cod. proc. amm. prevede testualmente che: «Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio».

Rispetto alla previgente disposizione contenuta nell’art. 35 della legge n. 1034 del 1971, l’art. 105 Cod. proc. amm., presenta, nonostante i persistenti elementi di diversità, una più spiccata assonanza con la disciplina contenuta negli articoli 353 e 354 del codice di procedura civile, il che risulta coerente con quanto previsto, in sede di legge delega, dall’art. 44, comma 1, l. 18 giugno 2009, n. 69 recante «Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile»), che aveva espressamente menzionato, fra gli obiettivi del riassetto della disciplina del processo amministrativo, proprio il “coordinamento con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali

Il “vincolo” del coordinamento con la disciplina del processo civile impone, pertanto, una lettura dei casi di annullamento con rinvio più ravvicinata rispetto all’analoga disciplina del processo civile e, soprattutto, che tenga conto di tutte le disposizioni del codice di procedura civile che esprimono principi generali o comuni del processo, così come espressamente previsto dalla clausola di rinvio esterno contenuta nell’art. 39 Cod. proc. amm.

Alla luce dell’art. 39 Cod. proc. amm. (e della previsione della legge delega che lo ha ispirato) oggi, quindi, il vincolo interpretativo derivante dai principi generali del processo civile è più forte rispetto al passato (cfr., di recente, Corte cost., sentenza 26 giugno 2018, n. 132).

14. I principi generali del processo che vengono in rilievo ai fini di affrontare la questione di diritto oggetto del presente giudizio sono, in particolare, il principio del c.d. effetto devolutivo dell’appello e quello, strettamente correlato, della conversione delle nullità processuali in motivi di appello (cfr. art. 161, primo comma, Cod. proc. civ.), salvo i casi estremi di c.d. nullità-inesistenza (che l’art. 161, comma secondo, individua nel difetto di sottoscrizione).

15. Il principio dell’effetto devolutivo fa dell’appello una impugnazione sostitutiva che di regola conduce, sia pure subordinatamente all’onere della formulazione di specifici motivi, ad una sentenza che ridefinisce integralmente (per la parte impugnata: tantum devolutum quantum appellatum) la causa pendente, ripronunciandosi sullo stesso oggetto della sentenza di primo grado. Sebbene l’appello sia ormai configurato (tanto nel processo civile quanto in quello amministrativo) come revisio prioris istantiae e non come novum iudicium (cfr. Cass., sez. un. 16 novembre 2017, n. 27199), la sentenza di appello, comunque, nei limiti delle censure dedotte, si esprime direttamente sull’esito da attribuire alla causa, sostituendo, in tutto o in parte, la sentenza di primo grado e ponendosi come nuova decisione idonea a passare in giudicato.

Pertanto, salvo il requisito della specificità dei motivi, l’oggetto del giudizio di appello si sovrappone – almeno potenzialmente, in relazione all’ampiezza della richiesta di riesame desumibile dall’atto di impugnazione e, appunto, dal complesso dei suoi motivi – all’oggetto del processo di primo grado, sì che la nuova sentenza di regola avrà – per effetto di questa ampia devoluzione della materia del primo giudizio al nuovo giudice – carattere sostitutivo.

16. Il principio della conversione delle cause di nullità in motivi di impugnazione è storicamente il frutto dell’evoluzione che, attraverso la fusione dei vizi della c.d. querela (o actionullitatis nell’appello, fa di quest’ultimo un mezzo di impugnazione a vocazione generale (o a critica libera), idoneo a far valere tutti i vizi della sentenza, sia quelli che ne determino l’ingiustizia, sia quelli che ne determinano l’invalidità. Solo nei rari casi di nullità-inesistenza (l’art. 161, secondo comma, Cod. proc. civ. prevede espressamente quello di mancata sottoscrizione del giudice), la particolare gravità del vizio non ammette sanatorie e ancora consente la proposizione di un’azione di nullità della sentenza, senza limiti di tempo.

17. L’art. 105 Cod. proc. amm. si colloca in questo quadro normativo-sistematico, recependo, anche nel processo amministrativo, la regola dell’effetto devolutivo/sostitutivo dell’appello e codificandone il principale corollario applicativo, che si traduce nella limitazione dei casi di annullamento con rinvio (in cui l’appello svolge eccezionalmente una funzione rescindente e non più sostitutiva) ad un numero limitato ed eccezionali di ipotesi.

18. L’art. 105 trova il suo diretto antecedente nell’art. 35 della legge n. 1034 del 1971 (e prima ancora nell'articolo 19 della legge 10 maggio 1890, n. 6837 – su cui ebbe ad incidere la legge 7 marzo 1907, n. 62, istitutiva della Quinta Sezione – e nell’articolo 22 del testo unico 26 giugno 1924, n. 1058, che disciplinavano l'impugnazione delle decisioni delle giunte provinciali amministrative dinanzi al Consiglio di Stato).

L’art. 35 legge n. 1034 del 1971 aveva generato non pochi dubbi applicativi, principalmente dovuti: al significato da attribuire alle due espressioni “difetto di procedura” e “vizio di forma”; alla previsione testuale del rinvio solo in caso di erronea dichiarazione di incompetenza (e non anche di erronea declinatoria di giurisdizione); all’assenza di ogni riferimento esplicito all’erronea dichiarazione di estinzione e di perenzione del giudizio.

19. L’art. 105 Cod. proc. amm. supera molte delle incertezze interpretative legate alla norma previgente e, recependo in gran parte le acquisizioni cui era già approdata in via interpretativa la giurisprudenza amministrativa, chiarisce che l’annullamento con rinvio può avvenire “soltanto” se l’error in procedendo abbia determinato la mancanza del contraddittorio, la violazione del diritto di difesa o un caso di nullità della sentenza.

Sempre in un’ottica di continuità rispetto alle acquisizioni giurisprudenziali, l’art. 105, inoltre, estende testualmente l’annullamento con rinvio all’erronea dichiarazione (oltre che dell’incompetenza) anche della giurisdizione (codificando, così, il principio già enunciato dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 8 novembre 1996, n. 23).

L’espressa inclusione tra i casi di annullamento con rinvio della erronea dichiarazione di estinzione (e di perenzione) determina, invece, un momento di discontinuità rispetto al precedente indirizzo giurisprudenziale, che aveva ritenuto consumato il grado di giudizio (e, quindi, esclusa la rimessione al primo giudice) anche nei casi di estinzione e di perenzione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 8 luglio 2003, n. 4046).

20. Le appena richiamate ipotesi di annullamento con rinvio hanno carattere tassativo e natura eccezionale, perché rappresentano una deroga al principio devolutivo dell’appello (che di regola è un mezzo sostitutivo e non eliminatorio), e non consentono, pertanto, interpretazioni analogiche o estensive.

21. Sul piano testuale, la natura eccezionale dei casi di rinvio è scolpita con nettezza dell’utilizzo dell’avverbio “soltanto”, dal quale si ricava, argomentando a contrario, che la regola è quella secondo cui il giudice d’appello, quando riscontra un errore o un vizio della sentenza, non annulla, ma riforma la sentenza e si pronuncia sul ricorso di primo grado, anche eventualmente esaminando per la prima volta questioni (di rito o di merito) che nel giudizio di primo grado non sono mai state esaminate, in quanto ritenute erroneamente assorbite o precluse dall’accoglimento di un’eccezione pregiudiziale.

22. In senso contrario, al fine di attenuare il rapporto tra regola ed eccezione così delineato, non vale obiettare che nell’individuazione dei casi di rinvio l’art. 105 utilizzerebbe clausole “indeterminate” o “aperte”, che consentirebbero, rispetto al previgente art. 35 della legge n. 1034 del 1971, maggiori margini di flessibilità con conseguente ampliamento dei casi di rinvio.

In realtà, le espressioni utilizzate dall’art. 105, comma 1, per individuare i casi di annullamento con rinvio non risultano “aperte” o “indeterminate”: sono, invece, formule “chiuse” e “determinate”, che confermano e rafforzano il principio di tassatività.

In particolare, attraverso le espressioni “mancanza del contraddittorio” e “lesione del diritto di difesa” (che, più delle altre, hanno sollevato sospetti di indeterminatezza) , il legislatore ha individuato, sia pure senza ricorrere alla tecnica normativa della descrizione analitica delle singole fattispecie, un insieme chiuso, determinato e tipico di vizi, identificabili (pur con l’ineliminabile apporto dell’interpretazione giurisprudenziale) attraverso una regola di giudizio che non presenta profili di vaghezza o indeterminatezza.

L’individuazione dei casi di mancanza del contraddittorio o di violazione del diritto di difesa, come si vedrà funditus nel prosieguo, è rimessa a criteri determinati e identificabili attraverso le singole e puntuali norme processuali che prescrivono, con sfumature diverse secondo l’incedere del processo, le garanzie del contraddittorio e del diritto di difesa. Tali nozioni, del resto, hanno ricevuto nella costante giurisprudenza del Consiglio di Stato una interpretazione chiara, rigorosa, tendenzialmente tipizzante, proprio per evitare che l’erosione della tassatività aprisse una imprevedibile incertezza nel rapporto tra giudizio di primo e di secondo grado e un allungamento indefinito del giudizio, con l’estensione delle ipotesi di rinvio, e con un allontanamento di quel bene ultimo, al quale deve pervenire il processo, e cioè il giudicato sostanziale.

L’impiego di una tecnica normativa non analitica, ma sintetica, è giustificata dall’ineliminabile rischio di incompletezza che ogni elencazione analitica reca con sé. Da qui la scelta del legislatore di utilizzare formule di sintesi (“mancanza del contraddittorio” o “violazione del diritto di difesa”), che non presentano, però, i profili di indeterminatezza valutativa tipici della clausole “aperte”. Affidare l’individuazione di una regola di procedura a clausole “aperte” o “indeterminate” sarebbe, del resto, un’operazione difficilmente compatibile con l’esigenza di certezza e di prevedibilità che, specie in materia processuale, deve essere assicurata al più alto livello possibile.

23. La tassatività che caratterizza l’elenco dell’art. 105 trova poi una ulteriore conferma nel riferimento esplicito e puntuale che la disposizione fa ai casi di erronea dichiarazione di estinzione e di perenzione.

La norma, in questo caso analitica, esprime, oltre che una volontà “positiva” (includere perenzione ed estinzione tra i casi di regressione), anche una chiara volontà “negativa”: la scelta, cioè, di escludere dai casi di annullamento con rinvio tutte le ipotesi di erronea chiusura in rito del processo (irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità) diverse rispetto a quelle espressamente tipizzate (estinzione e perenzione).

24. Il diverso trattamento processuale che così viene a determinarsi tra l’ipotesi dell’estinzione e quelle della irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità non risulta arbitrario o ingiustificato.

Le vicende anomale del processo – e, in particolare, l’interruzione e l’estinzione del giudizio – sono spesso indissolubilmente legate al diritto di difesa o alla violazione del contraddittorio in danno di una parte, colpita da un evento che non le ha consentito di prendere parte o di dare impulso al processo, e la violazione delle relative disposizioni finisce per privare effettivamente la parte di un grado del giudizio, analogamente a quanto accade quando il giudice dichiara erroneamente il difetto di competenza e di giurisdizione.

In questo senso vi è una perfetta specularità tra un processo erroneamente dichiarato estinto (e/o perento) e un processo erroneamente mai nato per la ritenuta assenza di giurisdizione o di competenza, mentre così non è per la erronea declaratoria di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso. In quest’ultimo caso, il processo si instaura (perché sussistono i c.d. presupposti processuali) e si svolge regolarmente, concludendosi con una sentenza che, pronunciandosi sulla domanda proposta, ravvisa la carenza di una delle condizioni per l’esame del merito.

Del resto, sul piano della teoria generale del processo, tale differenza di trattamento trova ulteriore conferma nella tradizionale distinzione che la dottrina ha elaborato tra presupposti processuali e condizioni dell’azione. I primi (fra cui si annoverano giurisdizione e competenza) condizionano l’instaurazione stessa del processo (che, quindi, non può considerarsi validamente “nato” in loro assenza); le seconde, invece, incidono soltanto sulla possibilità di decidere nel merito la domanda proposta all’esito di un processo che si è validamente instaurato, con la conseguente consumazione della potestas iudicandi e del grado di giudizio.

25. La scelta legislativa trova ancora giustificazione nel generale principio processuale (sancito dall’art. 310, primo comma, Cod. proc. civ.) secondo cui “l’estinzione del processo non estingue l’azione”, dal che si desume, per quello che più rileva in questa sede, che la relativa pronuncia giudiziale (che dichiara l’estinzione) non consuma, a sua volta, la potestas iudicandi del giudice di primo grado.

Se, infatti, persino in caso di estinzione dichiarata ritualmente l’azione potrebbe, in ipotesi, essere riproposta innanzi al giudice di primo grado (per quanto nel diritto amministrativo tale eventualità sia difficilmente compatibile con la natura decadenziale dei termini per proporre il ricorso), a maggior ragione deve escludersi che vi sia consumazione del diritto di azione della parte (e del potere decisorio del giudice) laddove la dichiarazione di estinzione sia avvenuta erroneamente.

Diversamente, la dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità estingue l’azione e consuma la potestas iudicandi: il giudice di primo grado, infatti, nel ritenere che sussista una delle ragioni litis ingressum impedientes, non abdica alla sua potestas iudicandi, ma valuta, per quanto, in ipotesi, erroneamente, che ricorra una questione preliminare idonea a definire il giudizio avanti a sé.

Significativo, a sostegno di tale conclusione, il principio che si ricava dagli articoli 358 e 387 Cod. proc. civ., in base ai quali la dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’appello (art. 358) o del ricorso in cassazione (art. 387) ne precludono la riproponibilità anche se non è scaduto il termine fissato dalla legge per impugnare. Alla base di tali previsioni (al di là della specificità del profilo processuale disciplinato) vi è certamente l’idea che le dichiarazioni di improcedibilità e di inammissibilità (sia che a pronunciarla sia il giudice dell’impugnazione sia quello di primo grado) esauriscono il potere decisorio, determinando, di riflesso, la consumazione del potere di impugnazione della parte.

26. Va aggiunto che l’art. 101, comma 2, Cod. proc. amm. prevede testualmente «che si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell’atto di appello». L’onere di espressa riproposizione delle domande non esaminate (a prescindere dalla ragione che ne ha determinato il mancato esame) rappresenta la coerente applicazione del principio devolutivo/sostitutivo del giudizio di appello ed esclude che il mancato esame di una domanda (o il suo erroneo assorbimento) possa determinare un’ipotesi di annullamento con rinvio, atteso che, altrimenti, detto onere di riproposizione non avrebbe alcuna giustificazione.

27. Coerente con la tassatività dei casi di annullamento con rinvio è, infine, il riferimento che l’art. 105 fa alla “nullità della sentenza”, sia pure, in questo caso, con qualche profilo di maggiore criticità.

La categoria della nullità degli atti processuali soggiace, invero, ad un principio di tassatività tendenziale, enunciato dall’art. 156, primo comma, Cod. proc. civ. (da ritenersi principio generale del processo ai sensi del rinvio esterno di cui all’art. 39 Cod. proc. amm.) in forza del quale la nullità può essere dichiarata solo se è comminata dalla legge (nullità testuale).

La rigida tassatività delle nullità processuali è, tuttavia, ridimensionata dal secondo comma dello stesso art. 156 Cod. proc. civ., che consente di pronunciare comunque la nullità (anche in assenza di una puntuale previsione testuale), «quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo», introducendo così, anche in materia processuale, una ipotesi di nullità “virtuale”.

Va, tuttavia, rimarcato il carattere eccezionale della nullità processuale virtuale, che, richiedendo la carenza di requisiti formali, opera solo per le nullità “formali” (e non per quelle c.d. extraformali) e postula, inoltre, che la forma mancata sia “indispensabile” ai fini del raggiungimento dello scopo cui l’atto è preordinato. Eccezionalità indirettamente ribadita dall’art. 156, terzo comma, Cod. proc. civ., secondo cui la nullità non può essere mai pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato.

28. La tassatività dei casi di annullamento con rinvio riceve conferma anche sul piano sistematico e dei principi: oltre a rappresentare, come si è già evidenziato, il naturale corollario del principio dell’effetto devolutivo dell’appello, si ricollega a sostanziali esigenze di effettività della tutela e di ragionevole durata del processo, evitando che gli errori del giudice possano determinare, a danno delle parti, l’azzeramento del processo e la moltiplicazione dei gradi di giudizio.

Come ha affermato anche la Corte costituzionale (cfr. Corte cost. 12 marzo 2007, n. 77), il principio di ragionevole durata del processo, per quanto rivolto al legislatore, ben può fungere da parametro interpretativo con riguardo a quelle norme processuali le quali – rispetto al fine primario del processo che consiste nella realizzazione del «diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita oggetto della loro contesa» – prevedano rallentamenti o tempi lunghi, inutili passaggi di atti da un organo all'altro, formalità superflue non giustificate da garanzie difensive né da esigenze repressive o di altro genere.

29. Va, inoltre, evidenziato che la natura eccezionale dei casi di annullamento con rinvio non trova alcun ostacolo nel principio del doppio grado di giudizio e, contrariamente a quanto a volte si sostiene per ampliare le ipotesi di rimessione al primo giudice, non ne costituisce una deroga.

Il doppio grado di giudizio non richiede, infatti, una doppia pronuncia sul merito, ma semplicemente che il giudice valuti gli atti processuali ed emetta un giudizio.

Ciò avviene, oltre che quando entra nel merito dell’affare, anche in quei casi in cui il rapporto processuale si chiude con una pronuncia dichiarativa dell’assenza di un presupposto processuale o di una condizione dell’azione. Alla luce del carattere rinnovatorio del giudizio di appello, il rinvio al primo giudice, invocato ad apparente tutela del doppio grado, in realtà si atteggia come eccezione a tale principio, perché contraddice la plena cognitio del giudice di appello una volta che il primo giudice abbia consumato il proprio grado di giurisdizione.

Ne discende che interpretazioni estensive o persino analogiche dell’art. 105 Cod. proc. amm. non realizzerebbero un corretto bilanciamento fra i valori costituzionali in gioco e finirebbero per produrre una ingiustificata violazione del principio della ragionevole durata del processo e dell’effettività della tutela (artt. 24 e 111 Cost.), in quanto la regressione del processo allo stato iniziale (apparentemente volta a garantire alla parte che in primo grado non ha ottenuto una decisione sul merito della domanda proposta) determinerebbe in realtà l’allontanamento sine die di una valida pronuncia sul merito e, quindi, una sostanziale attenuazione, se non una vanificazione dell’effettività della tutela.

Diversamente opinando, in nome di un malinteso senso garantistico del doppio grado del giudizio, si produrrebbe un risultato che andrebbe a ritorcersi contro la parte stessa, la quale, in nome di questo astratto principio (il doppio grado del giudizio nel merito), verrebbe costretta a tornare davanti al primo giudice, dopo l’annullamento con rinvio, e sarebbe onerata di un defatigante percorso ad ostacoli tra primo e secondo grado (con ben quattro o, nei casi di reiterato errore, sei e forse più gradi di giudizio).

30. Furono, del resto, proprio le preoccupazioni legate alla vanificazione del valore costituzionale dell’effettività della tutela che indussero in passato l’Adunanza generale di questo Consiglio di Stato a proporre, de jure condendo, la radicale eliminazione dell’istituto dell’annullamento con rinvio nel giudizio amministrativo. Si fa riferimento, in particolare, al parere n. 236/94 del 6 ottobre 1994 sullo schema di disegno di legge sulla riforma del processo amministrativo, che suggerì l’abrogazione dell’art. 35 della l. n. 1034 del 1971, con l’obbligo, una volta riformata la sentenza impugnata, di decidere «sempre senza rinvio», e tanto per «così evitare che il Consiglio di Stato annulli con rinvio, prolungando così il giudizio di altri due possibili gradi».

Anche nel 1990, rendendo il parere n. 16/89 dell’8 febbraio 1990 su analogo disegno di legge in ordine alla riforma del processo amministrativo, l’Adunanza generale aveva osservato che «l’annullamento con rinvio presenta l’inconveniente di dar luogo a quattro gradi di giudizio, oltre a mantenere in vita la distinzione tra vizi di procedura che possono, oppure no, dar luogo a rinvio».

31. L’esigenza di evitare inutili e defatiganti allungamenti dei tempi del processo (oggi ancor più rilevante alla luce dell’avvenuta costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo) assume un ruolo centrale per evitare interpretazioni dell’articolo 105 non consentite dalla sua puntuale portata letterale.

L’enfatico e suggestivo richiamo al doppio grado del giudizio, anche in chiave costituzionale, non risolve, quindi, il problema del rapporto tra la decisione del primo giudice e quella del secondo giudice. Questo rapporto deve trovare soluzione solo in una rigorosa e tassativa analisi dell’articolo 105 Cod. proc. amm. e delle altre disposizioni, sopra richiamate, in materia di appello.

Proprio l’esegesi puntuale dell’art. 105 non consente di includere tra i casi di annullamento con rinvio l’ipotesi oggetto dell’ordinanza di rimessione, in cui il giudice di primo grado abbia erroneamente dichiarato il ricorso irricevibile (ed identiche considerazioni valgono con riferimento all’erronea dichiarazione di inammissibilità e di improcedibilità).

32. La contraria tesi, volta a ricondurre l’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità tra i casi di annullamento con rinvio, ha individuato tre profili di possibile collegamento tra l’erronea chiusura in rito del giudizio di primo grado e le fattispecie di regressione descritte dall’art. 105.

Si è evidenziato, in particolare, al fine di sostenere l’ampliamento dei casi di annullamento con rinvio:

a) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità (irricevibilità o improcedibilità) del ricorso e la possibile lesione dei diritti della difesa, sub specie di violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e di privazione delle parti del doppio grado di giudizio nel merito;

b) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità (irricevibilità o improcedibilità) del ricorso e la nozione di “rifiuto di giurisdizione”, come emergente da alcune pronunce delle sezioni unite della Corte di Cassazione rese in sede di ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato per motivi di giurisdizione;

c) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la possibile violazione dell’obbligo di motivazione della sentenza.

33. Nessuno dei tre profili appare, tuttavia, dirimente.

34. L’erronea dichiarazione di inammissibilità, irricevibilità o improcedibilità non determina, di per sé, una lesione del diritto di difesa o una violazione del contraddittorio.

35. Va, anzitutto, evidenziato che le formule “lesione del diritto di difesa” e “mancanza del contraddittorio”, pur non costituendo un’endiadi (perché ciascuna nozione ha un suo significato autonomo che non si risolve in quello dell’altra) sono ambedue riconducibili alle menomazione del contraddittorio lato sensu inteso. In entrambi i casi è mancata la possibilità di difendersi nel giudizio-procedimento, nel senso che lo svolgimento del giudizio risulta irrimediabilmente viziato, sicché il giudice è pervenuto a una pronuncia la cui illegittimità va riguardata non per il suo contenuto, ma per il solo fatto che essa sia stata resa, senza che la parte abbia avuto la possibilità di esercitare il diritto di difesa o di beneficiare dell’integrità del contraddittorio.

Nell’ambito di questa macro-categoria (di violazione del contradditorio in senso lato), l’ulteriore distinzione (fatta propria dal testo dell’art. 105 Cod. proc. amm.) tra mancanza del contradditorio in senso stretto e violazione del diritto di difesa attiene alla natura “genetica” o “funzionale” del vizio che ha inficiato lo svolgimento del giudizio-procedimento.

36. La “mancanza del contraddittorio” è così essenzialmente riconducibile all’ipotesi in cui doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte: il vizio è, quindi, genetico, nel senso che a causa della mancata integrazione del contraddittorio o della erronea estromissione, una o più parti vengono in radice e sin dall’inizio private della possibilità di partecipare al giudizio-procedimento.

Peraltro, in applicazione del principio della ragione più liquida, l’art. 49, comma 2, Cod. proc. amm. (applicabile anche nel giudizio di appello al fine di evitare un inutile annullamento con rinvio) consente al giudice di pronunciare anche a contraddittorio non integro quanto il ricorso risulti manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato. È evidente in tale previsione la ratio di economia processuale che consente di prescindere da incombenti inutili (l’integrazione del contraddittorio o il rinvio al primo giudice affinché disponga l’integrazione del contraddittorio) quando le risultanze già acquisite consentono di definire il giudizio in senso sfavorevole per la parte ricorrente (v. Cons. Stato, ad. plen. 27 aprile 2015, n. 5; Cons. Stato sez. IV, 1 giugno 2016, n. 2316; Cons. giust. amm. sic. 17 giugno 2016, n. 172; Cons. Stato, sez. IV, 22 gennaio 2013, n. 370; Cons. Stato, sez. III, 27 maggio 2013, n. 2893).

37. La “lesione del diritto di difesa” fa riferimento, invece, ad un vizio (non genetico, ma) funzionale del contraddittorio, che si traduce nella menomazione dei diritti di difesa di una parte, che ha, tuttavia, preso parte al giudizio, perché nei suoi confronti il contraddittorio iniziale è stato regolarmente instaurato, ma, successivamente, nel corso delle svolgimento del giudizio, è stata privata di alcune necessarie garanzie difensive.

Le ipotesi sono tipiche e presuppongono la violazione di norme che prevedono poteri o garanzie processuali strumentali al pieno esercizio del diritto di difesa. Ad esempio, seguendo le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza amministrativa: a) la mancata concessione di un termine a difesa (Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2009, n. 3787); b) l’omessa comunicazione della data dell’udienza (Cons. Stato sez. V, 10 settembre 2014 n. 4616; Cons. Stato sez. V, 28 luglio 2014 n. 4019; Cons. Stato sez. IV 12 maggio 2014 n. 2416; Cons. Stato, sez. V, 27 marzo 2013, n. 1831); c) l’erronea fissazione dell’udienza durante il periodo feriale (Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 2013, n. 5601); d) la violazione dell’art. 73, comma 3, Cod. proc. amm. per aver il giudice posto a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio e non prospettata alle parti (ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 19 giugno 2017, n. 2974; Cons. Stato, sez. VI, 14 giugno 2017, n. 2921; Cons. Stato, sez. IV, 8 febbraio 2016 n. 478; Cons. Stato, sez. IV, 26 agosto 2015, n. 3992; Cons. Stato, sez. III, 19 marzo 2015, n. 1438); e) la definizione del giudizio in forma semplificata senza il rispetto delle garanzie processuali prescritte dall’art. 60 Cod. proc. amm. (Cons. Stato, sez. VI, 9 novembre 2010, n. 7982; Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 2013, n. 5601); f) la sentenza pronunciata senza che fosse dichiarata l’interruzione nonostante la morte del difensore (Cons. giust. amm. sic. 10 giugno 2011, n. 409).

La violazione del diritto di difesa in tutte queste ipotesi avviene nel giudizio-procedimento, dove la parte non ha potuto difendersi; l’errore si annida nella procedura, e non nel contenuto della sentenza: il diritto di difesa, quindi, è leso nel giudizio e non dal giudizio.

38. Non possono rientrare in tale fattispecie le ipotesi nelle quali, dopo che la questione è stata sottoposta al dibattito processale, essa sia poi accolta e per effetto di ciò non si proceda all’esame del merito.

Il mancato esame del merito in questo caso costituisce una conseguenza dell’applicazione delle regole sull’ordine delle questioni sancito dagli artt. 76, comma 4, Cod. proc. amm. e 276, comma 2, Cod. proc. civ., che attengono alla fase di decisione della controversia ed operano, quindi, quando la dialettica processuale si è ormai svolta; la dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso non si traduce, quindi, in una pronuncia “a sorpresa” (o della terza via) che possa reputarsi lesiva del diritto di difesa.

L’effetto devolutivo e il sindacato sostitutivo fanno sì che il giudice d’appello, una volta ritenuta erronea la declaratoria di inammissibilità, di improcedibilità o di irricevibilità, possa e debba entrare nel merito della causa, proprio per garantire alla parte che si sia vista negare dal primo giudice, sulla base di ragioni erronee, una pronuncia sui motivi dedotti il formarsi di una pronuncia stabile e definitiva su tali motivi.

39. La parte, nell’appello, del resto, censura l’erroneità di tali ragioni, senza lamentare di non essersi potuta difendere su tali ragioni. La parte non deduce neanche che il giudice di primo grado abbia abdicato alla propria potestas iudicandi, ma che egli abbia erroneamente ritenuto il ricorso non meritevole di esame per l’esistenza di ragioni preclusive (decadenza, difetto di interesse, non autonoma impugnabilità dell’atto, etc.), e chiede al giudice di appello di sostituirsi al primo giudice in tale esame.

40. Non vale in senso contrario richiamare l’asserita violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. In disparte la considerazione che se pure tale violazione vi fosse, essa non sarebbe comunque di per sé idonea a giustificare la regressione al primo giudice (sul punto si vedano le considerazioni che si svolgeranno nel prosieguo), è qui dirimente la constatazione che, dichiarando la domanda irricevibile, inammissibile o improcedibile, il giudice si pronuncia su di essa, ravvisando la sussistenza di un ostacolo processuale che impedisce l’esame del merito. Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato è, quindi, rispettato, perché esso postula che ogni domanda venga decisa, ma non necessariamente con una sentenza di merito.

41. Non vale invocare nemmeno la violazione della regola del doppio grado di giudizio, la quale, come si è già ampiamente evidenziato, non implica che il merito debba essere sempre esaminato in ciascun grado, ma solo che la parte possa chiedere la revisione della decisione di primo grado, conformemente alla natura devolutiva (limitatamente ai punti della sentenza di primo grado impugnati) del mezzo dell’appello.

42. La tesi ampliativa dei casi di rimessione al primo giudice non può essere condivisa neanche quando prospetta la possibilità di qualificare l’erronea dichiarazione di inammissibilità, irricevibilità, improcedibilità del ricorso in termini di sostanziale “rifiuto di giurisdizione” e, quindi, alla stregua di una pronuncia che abbia erroneamente declinato la giurisdizione, rifiutandone l’esercizio.

Tale argomento – che trova il suo fondamento in alcune pronunce con le quali le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno talvolta identificato nella erronea chiusura in rito del processo (specie se determinata da un abnorme stravolgimento delle norme di riferimento tali da ridondare in denegata giustizia) una ipotesi di superamento dei limiti esterni della giurisdizione – non merita condivisione per una pluralità di ragioni.

43. In primo luogo, la tendenza volta ad estendere i limiti esterni della giurisdizione (fino a farvi ricomprendere talune particolari ipotesi di erronea dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità) è stata espressamente disattesa dalla Corte costituzionale nella sentenza 18 gennaio 2018, n. 6, la quale ha testualmente affermato che «l’«eccesso di potere giudiziario», denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici». Non può, invece, estendersi all’ipotesi in cui, l’esistenza della giurisdizione è incontroversa, ma il giudice amministrativo nell’esercitarla, ravvisi la sussistenza di impedimenti di natura processuale all’esame nel merito della lite.

Si tratta, peraltro, come ricorda la già citata sentenza della Corte costituzionale, di un indirizzo che è ancora prevalente nella giurisprudenza maggioritaria delle stesse Sezioni unite, la quale continua ad affermare che il «cattivo esercizio della propria giurisdizione da parte del giudice, che provveda perché investito di essa e, dunque, ritenendo esistente la propria giurisdizione e, tuttavia, nell’esercitarla, applichi regole di giudizio che lo portino a negare tutela alla situazione giuridica azionata, si risolve soltanto nell’ipotetica commissione di un errore all’interno di essa »; e che, «poiché la distinzione fra la giurisdizione ordinaria e le giurisdizioni speciali ha come implicazione necessaria che ciascuna giurisdizione si eserciti con l’attribuzione all’organo di vertice interno al plesso giurisdizionale del controllo e della statuizione finale sulla correttezza in iure ed in facto di tutte le valutazioni che sono necessarie per decidere sulla controversia, salvo quelle che implichino negazione astratta della tutela giurisdizionale davanti alla giurisdizione speciale ed a qualsiasi giurisdizione (rifiuto) oppure alla negazione della giurisdizione accompagnino l’indicazione di altra giurisdizione (diniego), non è possibile prospettare che, fuori di tali due casi, il modo in cui tale controllo viene esercitato dall’organo di vertice della giurisdizione speciale, se anche si sia risolto in concreto nel negare erroneamente tutele alla situazione giuridica azionata, sia suscettibile di controllo da parte delle Sezioni Unite» (Corte di cassazione, sezioni unite, 6 giugno 2017, n. 13976; nello stesso senso, tra le più recenti, sezioni unite, 19 settembre 2017, n. 21617; 29 marzo 2017, n. 8117).

44. In secondo luogo, le stesse Sezioni Unite, anche quando hanno aderito a soluzioni ampliative, hanno, comunque, espressamente specificato che tale nuovo concetto di giurisdizione attiene solo alla determinazione dei casi di ammissibilità del ricorso per cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti ai sensi dell’art. 111, ultimo comma, Cost.; non anche alle disposizioni dei codici di rito riguardanti la determinazione dei casi in cui il giudice di appello deve rimettere le parti davanti al primo giudice (cfr., in particolare, Cass. sez. un. 29 dicembre 2017, n. 31222, par. 2.5. della motivazione).

In conclusione, non è dubitabile che la dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso postula l’affermazione implicita della giurisdizione di chi l’ha emessa e non è, quindi, riconducibile all’ipotesi dell’erronea declinatoria di giurisdizione cui fa riferimento l’art. 105 come ipotesi di rinvio a primo giudice.

45. Per quanto riguarda il rapporto tra l’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del giudizio e l’obbligo di motivazione della sentenza, occorre evidenziare che errore di giudizio e difetto di motivazione non sono necessariamente sovrapponibili (potendo l’uno sussistere senza l’altro) e, in ogni caso, che il difetto di motivazione non costituisce (alla luce di un consolidato indirizzo che va in questa sede ribadito) un caso di rinvio al primo giudice.

Il carattere sostitutivo dell’appello consente sempre al giudice di secondo grado di correggere, integrare e completare la motivazione carente, contraddittoria o insufficiente e di pronunciarsi sul merito della causa.

46. Va, tuttavia, precisato che l’ipotesi della motivazione viziata (perché incompleta o contraddittoria) si differenzia da quella della motivazione radicalmente assente (o meramente apparente).

In questo caso, l’assenza o il difetto assoluto della motivazione, quale elemento indefettibile che consenta di rinvenire un concreto esercizio di potestas iudicandi (art. 88 Cod. proc. amm.), impedisce al giudice di appello di esercitare un qualsivoglia sindacato di tipo sostitutivo per essere mancata, nella sostanza, una statuizione sulla quale egli possa incidere, seppure nella forma di integrazione/emendazione delle motivazioni.

Non è possibile, infatti, lasciare al giudice dell’impugnazione il compito di integrare la motivazione sostanzialmente mancante con le più varie, ipotetiche congetture.

Il difetto assoluto di motivazione integra allora un caso di nullità della sentenza, per il combinato disposto degli artt. 88, comma 2, lett. d) e 105, comma 1, Cod. proc. amm.. Anche alla luce del principio processuale di cui all’art. 156, comma 2, Cod. proc. civ. la motivazione rappresenta un requisito formale (oltre che sostanziale) indispensabile affinché la sentenza raggiunta il suo scopo.

47. Occorre sottolineare che il difetto assoluto di motivazione non si identifica con la motivazione illogica, contraddittoria, errata, incompleta o sintetica.

Si tratta, al contrario, di un vizio di ben più marcata gravità che dà luogo ad una sentenza abnorme ancor prima che nulla. A parte le ipotesi estreme (spesso dovute ad errori materiali in fase di redazione o pubblicazione della sentenza) di mancanza “fisica” o “grafica” della motivazione (ad esempio, la sentenza viene pubblicata solo con l’epigrafe e il dispositivo, lasciando in bianco la parte dedicata all’illustrazione delle ragioni della decisione), o di motivazione palesemente non pertinente rispetto alla domanda proposta (perché fa riferimento a parti, fatti e motivi totalmente diversi da quelli dedotti negli scritti difensivi), il difetto assoluto di motivazione coincide con la motivazione apparente, per tale dovendosi intendere la motivazione tautologica o assertiva, espressa attraverso mere formule di stile.

46. La motivazione è apparente quando a sostegno dell’accoglimento o non accoglimento del ricorso non individua neppure una ragione ulteriore rispetto alla generica affermazione della sua fondatezza o infondatezza, di cui, però, non viene dato conto e spiegazione, se non attraverso l’utilizzo di astratte formule di stile.

È “apparente”, ad esempio, la motivazione che richiama un generico orientamento giurisprudenziale senza illustrarne il contenuto, né direttamente, né indirettamente, attraverso la citazione di pertinenti precedenti conformi (ed è questo profilo che differenzia, invece, la motivazione in forma semplificata che in base agli art. 74 Cod. proc. amm. e 118 disp. att. Cod. proc. civ. può avvenire anche attraverso il richiamo ad un precedente conforme).

47. Più in generale, la motivazione è apparente quando sussistono anomalie argomentative di gravità tale da porre la motivazione al di sotto del “minimo costituzionale” che si ricava dall’art. 111, comma 5, Cost. («Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati»).

Pertanto, dà luogo a nullità della sentenza solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé. Esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica, oppure obiettivamente incomprensibile (in senso conforme anche l’orientamento della giurisprudenza civile: cfr. Cass. civ. sez. un. n. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. sez. un. 3 novembre 2016, n. 22232; Cass. civ., sez. VI, 22 febbraio 2018, n. 4294).

È una motivazione, in altri termini, che, quale che sia la formulazione linguistica concretamente utilizzata, non reca in sé alcuna enunciazione delle ratio decidendi, limitandosi ad affermare in maniera apodittica e tautologica che il ricorso merita o non merita accoglimento perché fondato o infondato.

La motivazione apparente non è sindacabile dal giudice, in quanto essa costituisce un atto d’imperio immotivato, e dunque non è nemmeno integrabile, se non con il riferimento alle più varie, ipotetiche congetture, ma una sentenza “congetturale” è, per definizione, una non-decisione giurisdizionale – o, se si preferisce e all’estremo opposto, un atto di puro arbitrio – e, quindi, un atto di abdicazione alla potestas iudicandi.

In quest’ottica va precisato che la nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione riguarda non solo le sentenze di rito (irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità), ma anche quelle che recano un dispositivo di merito (accoglimento o rigetto del ricorso) non sorretto da una reale motivazione. Rispetto al difetto assoluto di motivazione, invero, la nullità della sentenza prescinde dalla differenza tra pronunce di rito e pronunce di merito.

48. È opportuno chiarire che il difetto assoluto di motivazione deve essere valutato e apprezzato con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso, e non in maniera parcellizzata o frammentata, facendo riferimento ai singoli motivi o alle singole domande formulate all’interno di esso.

Deve, infatti, essere confermato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’omesso esame di un motivo o anche di una fra le più domande proposte (così come la mancanza della motivazione rispetto ai singoli motivi o a rispetto a una delle domande proposte) non rientra fra le ipotesi di annullamento con rinvio previste dall’art. 105 Cod. proc. amm.

49. Tale conclusione si impone alla luce dell’art. 101, comma 2, Cod. proc. amm., il quale nel prevedere che «si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano espressamente riproposte nell’atto di appello», chiaramente esclude che l’omessa esame di una domanda (e a maggior ragione di un motivo) possa determinare una regressione al primo giudice.

Lo stesso articolo 101, comma 2, stabilisce che per le parti diverse dall’appellante principale la riproposizione delle domande non esaminate (o assorbite) può avvenire anche con semplice memoria difensiva, senza necessità di appello incidentale. Viene, in tal modo codificato, un indirizzo interpretativo che la giurisprudenza amministrativa aveva affermato anche prima dell’entrata in vigore del Codice, sul presupposto che in caso di omessa pronuncia su una specifica ed autonoma domanda (che implica la violazione della regola della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato) l’appellato – risultato vittorioso in ordine ad una domanda – non è costretto a cominciare ex novo un giudizio di primo grado e non è tenuto a proporre una formale impugnazione incidentale, perché manca il presupposto della soccombenza, e può, quindi, riproporre in grado di appello la domanda non esaminata, mediante uno scritto difensivo che la richiami esplicitamente e superi la presunzione di rinuncia (in questi termini cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 20 dicembre 2002, n. 8, che aveva già ritenuto applicabile l’art. 346 Cod. proc. civ., contenente una previsione analoga a quella ora inserita nell’art. 105, comma 2, Cod. proc. amm.).

La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato non è, quindi, equiparabile ad una ipotesi di violazione del diritto di difesa: in questo caso, infatti, la parte non lamenta di non essersi potuta difendere nel corso del procedimento, ma lamenta un vizio che attiene al contenuto della decisione, che risulta incompleto rispetto ai motivi o alle domande proposte.

50. L’analogia (a volte prospettata: cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. III, ord. 24 aprile 2018, n. 2472) con l’ipotesi della “decisione a sorpresa” (adottata in violazione dell’art. 73, comma 3, Cod. proc. amm.), non risulta persuasiva.

Nel caso dell’art. 73, comma 3, infatti, il giudice ha deciso la domanda e la parte lamenta che l’abbia fatto ritenendo dirimente una questione, di rito o di merito, non sottoposta al contraddittorio processuale: il vizio attiene, quindi, al procedimento (la questione non è stata previamente sottoposto al contraddittorio nel corso del processo) non al contenuto della sentenza, che potrebbe essere anche “giusta” nella sua portata decisoria. Con l’ulteriore precisazione, peraltro, che l’art. 73, comma 3, riguarda le domande (o, eventualmente, le eccezioni) decise senza suscitare il contraddittorio sulla questione dirimente; non investe, invece, le conseguenze o gli effetti che derivano dall’accoglimento o dal rigetto delle domande: gli effetti della decisione rimangono, invero, nella disponibilità del giudice che pronuncia la sentenza e non richiedono la previa instaurazione del contraddittorio processuale ai sensi dell’art. 73, comma 3.

Nel caso di omesso esame, invece, il vizio risiede esclusivamente nel contenuto (incompleto) della decisione, mentre nel giudizio-procedimento non risulta violata alcuna specifica regola diretta a tutelare il diritto di difesa delle parti.

51. D’altro canto, la violazione del diritto di difesa presuppone che una pronuncia sia stata resa senza che siano state rispettate le garanzie difensive previste a favore di una delle parti (e la decisione, pertanto, è invalida per il solo fatto che è stata resa). La violazione del diritto di difesa si traduce, infatti, in un vizio del procedimento che porta alla decisione e presuppone che, alla fine, una decisione vi sia. Nel caso di omesso esame di una domanda la situazione è diametralmente opposta: la parte lamenta che il giudizio-procedimento (di per sé non viziato) si è concluso senza una decisione (su una delle domande), che, invece, avrebbe dovuto essere resa.

La tassatività dei casi di annullamento con rinvio di cui all’art. 105 esclude, pertanto, la possibilità di equiparare situazioni processuali diverse sul presupposto della pari o maggiore gravità che caratterizzerebbe l’omessa decisione rispetto alla “decisione a sorpresa” adottata in violazione dell’art. 73, comma 3, Cod. proc. amm. .

52. Non può non rilevarsi, sotto altro profilo, che se si adottasse il criterio “sostanzialistico” (opinabile ed incerto) della “gravità” del vizio, risulterebbe difficile spiegare la differenza con altre ipotesi in presenza delle quali anche le recenti letture “ampliative” dell’articolo 105 escludono l’annullamento con rinvio.

Ad esempio, vi è larga condivisione (anche, come si è detto, da parte degli orientamenti interpretativi più inclini ad estendere i casi di regressione al primo giudice) nel ritenere che l’omesso esame di un singolo motivo non sia causa di rimessione al primo giudice, pure quando ciò avvenga in violazione della gradazione dei motivi che la parte ha espressamente formulato (nei limiti e alle condizioni ben evidenziate dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 5 del 2015).

Eppure, in molti casi, l’omesso esame del motivo proposto in via principale e l’accoglimento quello proposto in via subordinata può modificare la natura del bene della vita che viene riconosciuto al ricorrente (segnando, ad esempio, il passaggio dall’utilità finale all’utilità strumentale). Formalmente non vi è omesso esame di una domanda (ma solo di alcuni motivi a sostegno dell’unica domanda proposta) eppure, sul piano sostanziale, gli effetti della violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato sono simili a quelli che potrebbero derivare dal mancato esame di una domanda: la sentenza non si pronuncia sulla fondatezza di una pretesa sostanziale che il ricorrente aveva azionato formulando il motivo erroneamente non esaminato.

Ancora, nei casi di domande proposte in via subordinata o legate da un rapporto di connessione per pregiudizialità-dipendenza, l’omesso esame di una domanda potrebbe essere frutto o di una erronea lettura del nesso di subordinazione (ad esempio, perché, il giudice non rispetta il vincolo di gradazione impresso dal ricorrente) oppure derivare dell’erroneo (nel merito) rigetto della domanda principale, che comporta il naturale assorbimento di quella consequenziale-dipendente (ad esempio, il mancato esame della domanda risarcitoria in seguito al rigetto della domanda di annullamento del provvedimento).

In queste ipotesi, si ammette pacificamente che il giudice di appello, riscontrato l’errore (in procedendo o in iudicando) del giudice di primo grado, adotti una pronuncia sostitutiva, esaminando, per la prima volta, la domanda erroneamente assorbita nel giudizio di primo grado.

Anche qui, però, a rigore, nel giudizio di primo grado è mancato l’esame (nel merito) di una delle domande, anche se ciò è dipeso, più che da una svista del giudice, da un error in procedendo o iniudicando.

In questi ipotesi, richiamate solo a titolo esemplificativo, non si dubita della naturale operatività dell’effetto devolutivo-sostitutivo del giudizio di appello e dell’inoperatività dell’articolo 105: si ammette, quindi, un solo grado di merito (in sede di appello) sulla domanda pretermessa in primo grado.

È evidente allora che pretendere di isolare o selezionare, nell’ambito della vasta gamma di situazioni che possono determinare l’omesso esame di una domanda proposta in primo grado, una o alcune ipotesi che si differenzierebbero dalle altre perché caratterizzate da connotati di maggiore gravità in concreto, rischia di diventare un’operazione sterile sul piano teorico e potenzialmente foriera, sul piano pratico, del rischio di introdurre una sostanziale incertezza nella delimitazione delle ipotesi di annullamento con rinvio.

54. È ancora utile ricordare che secondo una pacifica giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. III, 1 aprile 2014, n. 1314), l’omesso esame di una delle domande (o di uno o alcuni dei motivi proposti) integra, quando deriva da un svista del giudice nella percezione degli atti processuali, un errore di fatto idoneo a fondare il rimedio della revocazione. L’errore di fatto revocatorio non è un error in procedendo che integra una violazione del diritto di difesa, né un’ipotesi di nullità della sentenza, ma un errore che inficia il contenuto della sentenza. E allora, la qualificazione, ai sensi dell’art. 105, di tale situazione come ipotesi di nullità (o come violazione del diritto di difesa delle parti) determinerebbe profili di incoerenza anche rispetto al citato indirizzo giurisprudenziale maturato in materia di revocazione.

55. Per tali ragioni, deve allora ritenersi che la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (non importa se riferita a singoli motivi o a singole domande) non determina un’ipotesi di nullità della sentenza, né un caso di violazione del diritto di difesa idoneo a giustificare l’annullamento con rinvio della sentenza appellata.

56. Per completezza è ancora opportuno evidenziare che la disciplina dei rapporti tra giudice di primo grado e giudice di appello e dei casi di annullamento con rinvio di cui all’articolo 105 presenta evidenti profili di indisponibilità, perché è diretta a tutela interessi di ordine pubblico che attengono al regolare svolgimento del processo, realizzando un delicato bilanciamento di valori costituzionali (fra i quali, in primis, quelli del giusto processo e della sua ragionevole durata).

Deve escludersi, quindi, che in tale materia la volontà delle parti possa condizionare l’esercizio dei poteri del giudice.

Ciò implica, fermo restando ovviamente l’onere di articolare specifici motivi di appello e il generale principio di conversione della nullità in motivi di impugnazione, che in presenza di una delle ipotesi di cui all’art. 105 Cod. proc. amm., il giudice d’appello deve procedere all’annullamento con rinvio anche se la parte omette di farne esplicita richiesta o, addirittura, formula una richiesta contraria, chiedendo espressamente che la causa sia direttamente decisa dal giudice di appello. Così, ad esempio, se il T.a.r. ha erroneamente declinato la giurisdizione, il rinvio al primo grado risulta doveroso, anche se la parte, che impugna il capo sulla giurisdizione, chiede che la causa venga direttamente decisa nel merito in sede di appello.

Viceversa, ma per ragioni speculari, nei casi in cui non si applica l’art. 105 Cod. proc. amm., la possibilità per il giudice di appello di pronunciarsi sulla domande o sulle domande non esaminate in primo grado o erroneamente dichiarate irricevibili, inammissibili o improcedibili, presuppone necessariamente che, ai sensi dell’art. 101, comma 2, tali domande siano oggetto di rituale riproposizione, operando altrimenti la presunzione di rinuncia stabilita dallo stesso articolo.

Ne consegue che, in tali casi, l’appello proposto senza riproposizione delle domande non esaminate nel merito in primo grado dovrà ritenersi inammissibile per difetto di interesse, atteso che il suo eventuale accoglimento non consentirebbe al giudice di esercitare il potere decisorio sostitutivo sulla domanda ormai rinunciata e non potrebbe, quindi, arrecare alcuna concreta utilità all’appellante.

57. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’Adunanza plenaria enuncia i seguenti principi di diritto:

1. In coerenza con il generale principio dell’effetto devolutivo/sostitutivo dell’appello, le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall’art. 105 Cod. proc. amm. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive.

2. L’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado non costituisce, di per sé, un caso di annullamento con rinvio, in quanto la chiusura in rito del processo, per quanto erronea, non determina, ove la questione pregiudiziale sia stato oggetto di dibattitto processuale, la lesione del diritto di difesa, né tanto meno un caso di nullità della sentenza o di rifiuto di giurisdizione.

3. La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, anche quando si sia tradotta nella mancanza totale di pronuncia da parte del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente, non costituisce un’ipotesi di annullamento con rinvio; pertanto, in applicazione del principio dell’effetto sostitutivo dell’appello, anche in questo caso, ravvisato l’errore del primo giudice, la causa deve essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado.

4. Costituisce un’ipotesi di nullità della sentenza che giustifica l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado il difetto assoluto di motivazione. Esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica oppure obiettivamente incomprensibile: quando, cioè, le anomalie argomentative sono di gravità tale da collocare la motivazione al di sotto del “minimo costituzionale” di cui all’art. 111, comma 5, Cost.

5. La disciplina dei rapporti tra giudice di primo grado e giudice d’appello ha natura indisponibile, il che implica che, fermo restando l’onere di articolare specifici motivi di appello e il generale principio di conversione della nullità in motivi di impugnazione, nei casi di cui all’art. 105 Cod. proc. amm., il giudice d’appello deve procedere all’annullamento con rinvio anche se la parte omette di farne esplicita richiesta o chiede espressamente che la causa sia direttamente decisa in secondo grado. Viceversa, nei casi in cui non si applica l’art. 105 Cod. proc. amm., la possibilità per il giudice di appello di pronunciarsi sulla domande o sulle domande non esaminate in primo grado o erroneamente dichiarate irricevibili, inammissibili o improcedibili, presuppone necessariamente che, ai sensi dell’art. 101, comma 2, tali domande siano oggetto di rituale riproposizione, operando, altrimenti, la presunzione di rinuncia stabilita dallo stesso articolo, con conseguente inammissibilità per difetto di interesse dell’appello proposto senza assolvere all’onere di riproposizione.

58. Il Collegio, enunciati i principi di cui ai punti che precedono, restituisce, anche per la statuizione sulle spese della presente fase, il giudizio alla Sezione rimettente, ai sensi dell’articolo 99, comma 4, Cod. proc. amm.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, enuncia i principi di diritto di cui ai punti 1, 2, 3, 4, e 5 del paragrafo 57 della motivazione e rimette, per il resto, il giudizio alla Sezione rimettente ai sensi dell’art. 99, comma 4, Cod. proc. amm.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 giugno 2018 con l’intervento dei magistrati:

 

 

Alessandro Pajno, Presidente

Filippo Patroni Griffi, Presidente

Sergio Santoro, Presidente

Franco Frattini, Presidente

Giuseppe Severini, Presidente

Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore

Fabio Taormina, Consigliere

Bernhard Lageder, Consigliere

Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere

Umberto Realfonzo, Consigliere

Silvestro Maria Russo, Consigliere

Oberdan Forlenza, Consigliere

Massimiliano Noccelli, Consigliere

 

N. 00011/2018REG.PROV.COLL.

N. 00008/2018 REG.RIC.A.P.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 8 di A.P. del 2018, proposto da
Tour Servizi di Russo Santo & C. s.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Umberto Ilardo, domiciliato ex art. 25 Cod. proc. amm. presso la segreteria del Consiglio di Stato, in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;

contro

Comune di Melilli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Riccardo Giuffrida, domiciliato ex art. 25 Cod. proc. amm. presso la segreteria del Consiglio di Stato, in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;
Centrale Unica di Committenza (C.U.C.) Carlentini-Melilli, non costituita in giudizio;

nei confronti

Vecchio s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Fabio Burgio, domiciliata ex art. 25 Cod. proc. amm. presso la segreteria sezionale del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;
Euro Tour Group s.r.l. non costituita in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania (Sezione Prima) n. 01119/2017, resa tra le parti;

 

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di Melilli e di Vecchio s.r.l.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 giugno 2018 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti l’avvocato Francesco Vagnucci, in delega dell’avvocato Umberto Ilardo, e l’avvocato Riccardo Giuffrida;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

 

FATTO

1. Con bando del 25 novembre 2016 il Comune di Melilli indiceva una procedura di gara per l’affidamento del servizio di trasporto degli alunni della scuola materna e dell’obbligo, da aggiudicare secondo il criterio del prezzo più basso.

Entro il termine di scadenza fissato, facevano pervenire l’offerta solamente due concorrenti: la Euro Tour Servizi di Russo Santo & C. s.a.s. e la società Vecchio s.r.l.

Al fine di assicurare la continuità del servizio ed in attesa del completamento delle operazioni di verifica dell’ammissibilità delle domande e della validità delle offerte, il 7 gennaio 2017 il Comune chiedeva alla Vecchio s.r.l., in qualità di precedente gestrice, di continuare a svolgere la prestazione in regime di proroga contrattuale.

Svolte le operazioni di scrutinio in ordine alla documentazione ed alle offerte, l’aggiudicazione provvisoria veniva pronunziata in favore della Euro Tour, alla quale in data 11 gennaio 2017 la stazione appaltante affidava provvisoriamente il servizio (in via d’urgenza, in attesa della pronunzia dell’aggiudicazione definitiva e della stipula del contratto), revocando il precedente affidamento provvisorio alla società Vecchio s.r.l.

2. Con ricorso innanzi al T.a.r. per Sicilia, sede distaccata di Catania, la società Vecchio s.r.l. impugnava il provvedimento di aggiudicazione e gli atti presupposti (verbali di gara), lamentando che la Euro Tour era stata ammessa in gara nonostante la mancanza di una serie di requisiti di partecipazione (e nonostante non avesse rimosso alcune situazioni di conflitto d’interesse).

Con ricorso incidentale la società Euro Tour lamentava, a sua volta, la mancata esclusione della società Vecchio, deducendo che quest’ultima non era in possesso di mezzi (gli autobus) aventi le caratteristiche tecniche richieste dal bando.

3. In pendenza del giudizio, la stazione appaltante completava le verifiche relative al possesso dei requisiti dichiarati dalle due ditte concorrenti; e all’esito delle stesse, con note prot. n.2463 e 2465 del 2 febbraio 2017, comunicava a ciascuna di esse di aver avviato il procedimento di revoca dell’ammissione alla procedura di affidamento, sia nei confronti della prima che della seconda classificata.

Quindi, con determina n.389 del 7.3.2017, l’amministrazione comunale:

- revocava l’aggiudicazione in favore della Euro Tour nonché il provvedimento con cui le aveva affidato provvisoriamente il servizio;

- e riaffidava il servizio di trasporto degli alunni, in via d’urgenza, temporanea e provvisoria (ed in regime di proroga contrattuale), alla società Vecchio s.r.l. (in qualità di precedente gestrice).

Avverso tale provvedimento di revoca dell’aggiudicazione – sopraggiunto in pendenza del giudizio introdotto dal ricorso precedentemente proposto avverso gli atti di gara – la controinteressata e ricorrente incidentale (società Euro Tour, già aggiudicataria) proponeva ricorso per motivi aggiunti.

4. Con sentenza n.1119 del 22 maggio 2017 il T.a.r. di Catania:

- dichiarava inammissibile il ricorso per motivi aggiunti, ritenendo che la società Euro Tour avrebbe dovuto proporre un nuovo ed autonomo ricorso, anziché innestare la domanda sopravvenuta (volta all’annullamento del menzionato sopraggiunto atto di ritiro) nel giudizio già pendente;

- dichiarava improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse sia il ricorso principale che il ricorso incidentale (volti a sindacare gli atti di verifica delle offerte e la conseguente aggiudicazione), motivando tale statuizione con il rilevo che le parti non avrebbero più potuto conseguire alcun utile risultato dall’annullamento degli atti impugnati, posto che era ormai venuta meno l’intera procedura di gara;

- condannava il Comune sia al risarcimento dei danni (liquidati in € 15.650,41, a titolo di danno emergente) provocati alla società Vecchio s.r.l. per averle repentinamente revocato (in data 11 gennaio 2017) l’affidamento temporaneo del servizio dopo che la stessa aveva approntato i mezzi per svolgerlo (assumendo i relativi oneri finanziari).

5. La società Euro Tour ha impugnato la predetta sentenza innanzi al C.G.A. per la Regione Siciliana.

Con l’appello in questione la predetta società:

- ha lamentato l’erroneità della statuizione con cui il giudice di primo grado ha ritenuto inammissibile il ricorso per motivi aggiunti (avverso i sopravvenuti atti di ritiro della procedura di gara) e conseguentemente improcedibili sia il ricorso principale che quello incidentale (avverso gli atti della procedura concorsuale e l’aggiudicazione);

- ha riproposto tutte le doglianze avanzate con i motivi spiegati in primo grado, sulla cui fondatezza il Tribunale Amministrativo Regionale non si era pronunziato, avendo dichiarato l’improcedibilità del ricorso.

Ritualmente costituitosi nel giudizio innanzi al C.G.A., il Comune di Melilli ha eccepito l’inammissibilità, l’improcedibilità e comunque l’infondatezza nel merito del gravame, chiedendo la conferma della sentenza appellata.

Anche la società Vecchio s.r.l. si è costituita in giudizio eccependo l’infondatezza del gravame e chiedendone il rigetto con integrale conferma della sentenza.

6. Con sentenza non definitiva 17 aprile 2018, n. 223, il C.G.A. ha accolto il motivo di appello diretto a contestare il capo della sentenza che ha dichiarato l’inammissibilità dei motivi aggiunti avverso il sopravvenuto provvedimento di revoca dell’aggiudicazione.

Secondo il C.G.A., la sentenza appellata:

- ha errato nel ritenere che la nuova domanda giudiziale volta all’annullamento dell’atto di ritiro sopravvenuto (a quelli già impugnati), avrebbe dovuto essere proposta mediante un autonomo ricorso (introduttivo di un nuovo giudizio), anziché “innestata”, mediante un ricorso per motivi aggiunti, nel giudizio già pendente;

- ed ha parimenti errato nel non applicare il c.d. “principio di conservazione e conversione degli atti giuridici”; principio in forza del quale avrebbe, comunque, dovuto disporre la separazione dei giudizi, anziché limitarsi a pronunziare l’inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti.

7. Accertata l’errata dichiarazione di inammissibilità dei motivi aggiunti (e la conseguente errata dichiarazione di improcedibilità del ricorso incidentale), il C.G.A. ha affrontato la questione delle relative conseguenze sulla pronuncia da adottare nel giudizio di appello.

Ha ravvisato sul punto l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale, che può essere sintetizzato nei termini che seguono.

7.1. Secondo l’orientamento tradizionale (da ultimo riaffermato da: Cons. Stato, sez. IV, 31 luglio 2017, n. 3809; Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2018, n. 421; Cons. Stato, sez. VI, 18 dicembre 2017, n. 5955), l’errore in questione non comporta il rinvio della causa al giudice di primo grado, ma la ritenzione del giudizio da parte del giudice di appello, nei limiti di quanto ad esso devoluto.

7.2. Tuttavia, un più recente orientamento della giurisprudenza amministrativa si è posto in consapevole linea di discontinuità con l’indirizzo precedente ed ha statuto che l’ipotesi in questione sarebbe invece riconducibile al caso della violazione del diritto di difesa (o di nullità della sentenza), per il quale ai sensi dell’art. 105, comma 1, Cod. proc. amm. si impone l’annullamento della sentenza di primo grado con rinvio al Tribunale amministrativo (Cons. giust. amm. Sicilia 24 gennaio 2018, n. 33; in termini analoghi, per il caso di omesso esame di una domanda: Cons. Stato, IV, 12 marzo 2018, n. 1535).

Il C.G.A. ha, quindi, rimesso all’Adunanza plenaria ai sensi dell’art. 99, comma 1, Cod. proc. amm., il punto di diritto, oggetto di contrasti in giurisprudenza, relativo all’interpretazione dell’art. 105, comma 1, Cod. proc. amm., e all’esatta individuazione dei casi di annullamento con rinvio, con particolare riferimento alle conseguenze derivanti dall’accertamento dell’errata dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado.

Sono stati formulati, in particolare, i seguenti quesiti:

a) se l’annullamento della sentenza di inammissibilità e/o di improcedibilità, disvelando che l’omessa trattazione del merito della causa in primo grado ha determinato una ingiusta compressione e dunque lesione del “diritto di difesa” del ricorrente – lesione che verrebbe ulteriormente perpetrata, per la sottrazione alla sua disponibilità di un grado di giudizio, ove la causa fosse trattata (nel merito) direttamente dal giudice d’appello – non determini la necessità di rinviare la causa, ai sensi dell’art.105 Cod. proc. amm. al giudice di primo grado;

b) se la pronunzia con cui il giudice di primo grado abbia dichiarato l’inammissibilità o l’improcedibilità di una domanda giudiziale (rinunciando, dunque, all’esercizio ulteriore del potere giurisdizionale per stabilirne la fondatezza nel merito), possa essere assimilata – ai fini dell’applicazione dell’art.105, primo comma, Cod. proc. amm. e per gli effetti devolutivi ivi previsti – ad una ipotesi di “declinazione” (pur se latu sensu intesa) della giurisdizione;

c) se la statuizione con cui il giudice d’appello “riformi” la sentenza di inammissibilità o di improcedibilità emessa dal giudice di primo grado debba essere ritenuta - al di là del nomen juris utilizzato nel dispositivo – una vera e propria “sentenza di annullamento”; e se una “sentenza di annullamento” (di una pronuncia di inammissibilità o di improcedibilità) possa essere assimilata ad una sentenza “dichiarativa di nullità” in esito alla quale occorre rinviare la causa al primo giudice, ai sensi dell’art.105 Cod. proc. amm., perché decida nel merito le questioni precedentemente non trattate.

Se quindi, in definitiva, la sentenza d’appello che accerti la erroneità della declaratoria di inammissibilità e/o di irricevibilità del ricorso, comporti l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado, ex art. 105 Cod. proc. amm.

8. In vista dell’udienza di discussione innanzi all’Adunanza plenaria hanno presentato memorie sia l’appellante Tour Service, sia il Comune di Melilli, quest’ultimo, tuttavia, depositando memoria, l’ultimo giorno utile (28 maggio 2018), nel giudizio pendente presso il C.G.A. della Regione Siciliana. La memoria del Comune il giorno successivo (29 maggio 2018) è stata trasmessa tramite PEC dalla segreteria del C.G.A. alla segreteria dell’Adunanza plenaria.

9. Alla pubblica udienza del 13 giugno 2018, la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

10. Occorre, anzitutto, rilevare l’irritualità della memoria presentata dal Comune di Melilli in vista dell’odierna udienza di discussione.

La memoria non è utilizzabile per la dirimente ragione che è stata depositata nel diverso procedimento pendente innanzi al C.G.A., nell’ambito del quale sono state rimesse all’Adunanza plenaria le sopra richiamate questioni di diritto. Quel procedimento, peraltro, già nel momento in cui è stato effettuato il deposito della memoria, risultava sospeso, in conseguenza della (sentenza parziale con contestuale) ordinanza di rinvio.

La citata memoria è stata poi trasmessa alla segreteria dell’Adunanza plenaria via PEC dalla segreteria del C.G.A. solo in data 29 maggio 2018, ovvero dopo la scadenza del termine di cui agli artt. 73, comma 1 (come dimezzato ai sensi dell’art. 119, comma 2, Cod. proc. amm.).

11. La questione di diritto all’esame dell’Adunanza plenaria deve essere risolta dando continuità al consolidato orientamento interpretativo che, anche dopo l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, afferma il carattere tassativo ed eccezionale dei casi di rimessione al giudice di primo grado, oggi descritti dall’art. 105 dello stesso Codice.

Va in particolare, escluso che tra i casi di annullamento con rinvio possa rientrare l’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità della domanda, oppure l’ipotesi in cui il giudice di primo grado abbia totalmente omesso di esaminare una delle domande proposte (anche per ragioni diverse dall’accoglimento di una eccezione pregiudiziale di rito).

12. L’art. 105 Cod. proc. amm. prevede testualmente che: «Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio».

Rispetto alla previgente disposizione contenuta nell’art. 35 della legge n. 1034 del 1971, l’art. 105 Cod. proc. amm., presenta, nonostante i persistenti elementi di diversità, una più spiccata assonanza con la disciplina contenuta negli articoli 353 e 354 del codice di procedura civile, il che risulta coerente con quanto previsto, in sede di legge delega, dall’art. 44, comma 1, l. 18 giugno 2009, n. 69 recante «Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile»), che aveva espressamente menzionato, fra gli obiettivi del riassetto della disciplina del processo amministrativo, proprio il «coordinamento con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali».

Il “vincolo” del coordinamento con la disciplina del processo civile impone, pertanto, una lettura dei casi di annullamento con rinvio più ravvicinata rispetto all’analoga disciplina del processo civile e, soprattutto, che tenga conto di tutte le disposizioni del codice di procedura civile che esprimono principi generali o comuni del processo, così come espressamente previsto dalla clausola di rinvio esterno contenuta nell’art. 39 Cod. proc. amm.

Alla luce dell’art. 39 Cod. proc. amm. (e della previsione della legge delega che lo ha ispirato) oggi, quindi, il vincolo interpretativo derivante dai principi generali del processo civile è più forte rispetto al passato (cfr., di recente, Corte cost., sentenza 26 giugno 2018, n. 132).

14. I principi generali del processo che vengono in rilievo ai fini di affrontare la questione di diritto oggetto del presente giudizio sono, in particolare, il principio del c.d. effetto devolutivo dell’appello e quello, strettamente correlato, della conversione delle nullità processuali in motivi di appello (cfr. art. 161, primo comma, Cod. proc. civ.), salvo i casi estremi di c.d. nullità-inesistenza (che l’art. 161, comma secondo, individua nel difetto di sottoscrizione).

15. Il principio dell’effetto devolutivo fa dell’appello una impugnazione sostitutiva che di regola conduce, sia pure subordinatamente all’onere della formulazione di specifici motivi, ad una sentenza che ridefinisce integralmente (per la parte impugnata: tantum devolutum quantum appellatum) la causa pendente, ripronunciandosi sullo stesso oggetto della sentenza di primo grado. Sebbene l’appello sia ormai configurato (tanto nel processo civile quanto in quello amministrativo) come revisio prioris istantiae e non come novum iudicium (cfr. Cass., sez. un. 16 novembre 2017, n. 27199), la sentenza di appello, comunque, nei limiti delle censure dedotte, si esprime direttamente sull’esito da attribuire alla causa, sostituendo, in tutto o in parte, la sentenza di primo grado e ponendosi come nuova decisione idonea a passare in giudicato.

Pertanto, salvo il requisito della specificità dei motivi, l’oggetto del giudizio di appello si sovrappone – almeno potenzialmente, in relazione all’ampiezza della richiesta di riesame desumibile dall’atto di impugnazione e, appunto, dal complesso dei suoi motivi – all’oggetto del processo di primo grado, sì che la nuova sentenza di regola avrà – per effetto di questa ampia devoluzione della materia del primo giudizio al nuovo giudice – carattere sostitutivo.

16. Il principio della conversione delle cause di nullità in motivi di impugnazione è storicamente il frutto dell’evoluzione che, attraverso la fusione dei vizi della c.d. querela (o actionullitatis nell’appello, fa di quest’ultimo un mezzo di impugnazione a vocazione generale (o a critica libera), idoneo a far valere tutti i vizi della sentenza, sia quelli che ne determino l’ingiustizia, sia quelli che ne determinano l’invalidità. Solo nei rari casi di nullità-inesistenza (l’art. 161, secondo comma, Cod. proc. civ. prevede espressamente quello di mancata sottoscrizione del giudice), la particolare gravità del vizio non ammette sanatorie e ancora consente la proposizione di un’azione di nullità della sentenza, senza limiti di tempo.

17. L’art. 105 Cod. proc. amm. si colloca in questo quadro normativo-sistematico, recependo, anche nel processo amministrativo, la regola dell’effetto devolutivo/sostitutivo dell’appello e codificandone il principale corollario applicativo, che si traduce nella limitazione dei casi di annullamento con rinvio (in cui l’appello svolge eccezionalmente una funzione rescindente e non più sostitutiva) ad un numero limitato ed eccezionali di ipotesi.

18. L’art. 105 trova il suo diretto antecedente nell’art. 35 della legge n. 1034 del 1971 (e prima ancora nell'articolo 19 della legge 10 maggio 1890, n. 6837 – su cui ebbe ad incidere la legge 7 marzo 1907, n. 62, istitutiva della Quinta Sezione – e nell’articolo 22 del testo unico 26 giugno 1924, n. 1058, che disciplinavano l'impugnazione delle decisioni delle giunte provinciali amministrative dinanzi al Consiglio di Stato).

L’art. 35 legge n. 1034 del 1971 aveva generato non pochi dubbi applicativi, principalmente dovuti: al significato da attribuire alle due espressioni “difetto di procedura” e “vizio di forma”; alla previsione testuale del rinvio solo in caso di erronea dichiarazione di incompetenza (e non anche di erronea declinatoria di giurisdizione); all’assenza di ogni riferimento esplicito all’erronea dichiarazione di estinzione e di perenzione del giudizio.

19. L’art. 105 Cod. proc. amm. supera molte delle incertezze interpretative legate alla norma previgente e, recependo in gran parte le acquisizioni cui era già approdata in via interpretativa la giurisprudenza amministrativa, chiarisce che l’annullamento con rinvio può avvenire “soltanto” se l’error in procedendo abbia determinato la mancanza del contraddittorio, la violazione del diritto di difesa o un caso di nullità della sentenza.

Sempre in un’ottica di continuità rispetto alle acquisizioni giurisprudenziali, l’art. 105, inoltre, estende testualmente l’annullamento con rinvio all’erronea dichiarazione (oltre che dell’incompetenza) anche della giurisdizione (codificando, così, il principio già enunciato dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 8 novembre 1996, n. 23).

L’espressa inclusione tra i casi di annullamento con rinvio della erronea dichiarazione di estinzione (e di perenzione) determina, invece, un momento di discontinuità rispetto al precedente indirizzo giurisprudenziale, che aveva ritenuto consumato il grado di giudizio (e, quindi, esclusa la rimessione al primo giudice) anche nei casi di estinzione e di perenzione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 8 luglio 2003, n. 4046).

20. Le appena richiamate ipotesi di annullamento con rinvio hanno carattere tassativo e natura eccezionale, perché rappresentano una deroga al principio devolutivo dell’appello (che di regola è un mezzo sostitutivo e non eliminatorio), e non consentono, pertanto, interpretazioni analogiche o estensive.

21. Sul piano testuale, la natura eccezionale dei casi di rinvio è scolpita con nettezza dell’utilizzo dell’avverbio “soltanto”, dal quale si ricava, argomentando a contrario, che la regola è quella secondo cui il giudice d’appello, quando riscontra un errore o un vizio della sentenza, non annulla, ma riforma la sentenza e si pronuncia sul ricorso di primo grado, anche eventualmente esaminando per la prima volta questioni (di rito o di merito) che nel giudizio di primo grado non sono mai state esaminate, in quanto ritenute erroneamente assorbite o precluse dall’accoglimento di un’eccezione pregiudiziale.

22. In senso contrario, al fine di attenuare il rapporto tra regola ed eccezione così delineato, non vale obiettare che nell’individuazione dei casi di rinvio l’art. 105 utilizzerebbe clausole “indeterminate” o “aperte”, che consentirebbero, rispetto al previgente art. 35 della legge n. 1034 del 1971, maggiori margini di flessibilità con conseguente ampliamento dei casi di rinvio.

In realtà, le espressioni utilizzate dall’art. 105, comma 1, per individuare i casi di annullamento con rinvio non risultano “aperte” o “indeterminate”: sono, invece, formule “chiuse” e “determinate”, che confermano e rafforzano il principio di tassatività.

In particolare, attraverso le espressioni “mancanza del contraddittorio” e “lesione del diritto di difesa” (che, più delle altre, hanno sollevato sospetti di indeterminatezza) , il legislatore ha individuato, sia pure senza ricorrere alla tecnica normativa della descrizione analitica delle singole fattispecie, un insieme chiuso, determinato e tipico di vizi, identificabili (pur con l’ineliminabile apporto dell’interpretazione giurisprudenziale) attraverso una regola di giudizio che non presenta profili di vaghezza o indeterminatezza.

L’individuazione dei casi di mancanza del contraddittorio o di violazione del diritto di difesa, come si vedrà funditus nel prosieguo, è rimessa a criteri determinati e identificabili attraverso le singole e puntuali norme processuali che prescrivono, con sfumature diverse secondo l’incedere del processo, le garanzie del contraddittorio e del diritto di difesa. Tali nozioni, del resto, hanno ricevuto nella costante giurisprudenza del Consiglio di Stato una interpretazione chiara, rigorosa, tendenzialmente tipizzante, proprio per evitare che l’erosione della tassatività aprisse una imprevedibile incertezza nel rapporto tra giudizio di primo e di secondo grado e un allungamento indefinito del giudizio, con l’estensione delle ipotesi di rinvio, e con un allontanamento di quel bene ultimo, al quale deve pervenire il processo, e cioè il giudicato sostanziale.

L’impiego di una tecnica normativa non analitica, ma sintetica, è giustificata dall’ineliminabile rischio di incompletezza che ogni elencazione analitica reca con sé. Da qui la scelta del legislatore di utilizzare formule di sintesi (“mancanza del contraddittorio” o “violazione del diritto di difesa”), che non presentano, però, i profili di indeterminatezza valutativa tipici della clausole “aperte”. Affidare l’individuazione di una regola di procedura a clausole “aperte” o “indeterminate” sarebbe, del resto, un’operazione difficilmente compatibile con l’esigenza di certezza e di prevedibilità che, specie in materia processuale, deve essere assicurata al più alto livello possibile.

23. La tassatività che caratterizza l’elenco dell’art. 105 trova poi una ulteriore conferma nel riferimento esplicito e puntuale che la disposizione fa ai casi di erronea dichiarazione di estinzione e di perenzione.

La norma, in questo caso analitica, esprime, oltre che una volontà “positiva” (includere perenzione ed estinzione tra i casi di regressione), anche una chiara volontà “negativa”: la scelta, cioè, di escludere dai casi di annullamento con rinvio tutte le ipotesi di erronea chiusura in rito del processo (irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità) diverse rispetto a quelle espressamente tipizzate (estinzione e perenzione).

24. Il diverso trattamento processuale che così viene a determinarsi tra l’ipotesi dell’estinzione e quelle della irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità non risulta arbitrario o ingiustificato.

Le vicende anomale del processo – e, in particolare, l’interruzione e l’estinzione del giudizio – sono spesso indissolubilmente legate al diritto di difesa o alla violazione del contraddittorio in danno di una parte, colpita da un evento che non le ha consentito di prendere parte o di dare impulso al processo, e la violazione delle relative disposizioni finisce per privare effettivamente la parte di un grado del giudizio, analogamente a quanto accade quando il giudice dichiara erroneamente il difetto di competenza e di giurisdizione.

In questo senso vi è una perfetta specularità tra un processo erroneamente dichiarato estinto (e/o perento) e un processo erroneamente mai nato per la ritenuta assenza di giurisdizione o di competenza, mentre così non è per la erronea declaratoria di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso. In quest’ultimo caso, il processo si instaura (perché sussistono i c.d. presupposti processuali) e si svolge regolarmente, concludendosi con una sentenza che, pronunciandosi sulla domanda proposta, ravvisa la carenza di una delle condizioni per l’esame del merito.

Del resto, sul piano della teoria generale del processo, tale differenza di trattamento trova ulteriore conferma nella tradizionale distinzione che la dottrina ha elaborato tra presupposti processuali e condizioni dell’azione. I primi (fra cui si annoverano giurisdizione e competenza) condizionano l’instaurazione stessa del processo (che, quindi, non può considerarsi validamente “nato” in loro assenza); le seconde, invece, incidono soltanto sulla possibilità di decidere nel merito la domanda proposta all’esito di un processo che si è validamente instaurato, con la conseguente consumazione della potestas iudicandi e del grado di giudizio.

25. La scelta legislativa trova ancora giustificazione nel generale principio processuale (sancito dall’art. 310, primo comma, Cod. proc. civ.) secondo cui «l’estinzione del processo non estingue l’azione», dal che si desume, per quello che più rileva in questa sede, che la relativa pronuncia giudiziale (che dichiara l’estinzione) non consuma, a sua volta, la potestas iudicandi del giudice di primo grado.

Se, infatti, persino in caso di estinzione dichiarata ritualmente l’azione potrebbe, in ipotesi, essere riproposta innanzi al giudice di primo grado (per quanto nel diritto amministrativo tale eventualità sia difficilmente compatibile con la natura decadenziale dei termini per proporre il ricorso), a maggior ragione deve escludersi che vi sia consumazione del diritto di azione della parte (e del potere decisorio del giudice) laddove la dichiarazione di estinzione sia avvenuta erroneamente.

Diversamente, la dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità estingue l’azione e consuma la potestas iudicandi: il giudice di primo grado, infatti, nel ritenere che sussista una delle ragioni litis ingressum impedientes, non abdica alla sua potestas iudicandi, ma valuta, per quanto, in ipotesi, erroneamente, che ricorra una questione preliminare idonea a definire il giudizio avanti a sé.

Significativo, a sostegno di tale conclusione, il principio che si ricava dagli articoli 358 e 387 Cod. proc. civ., in base ai quali la dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’appello (art. 358) o del ricorso in cassazione (art. 387) ne precludono la riproponibilità anche se non è scaduto il termine fissato dalla legge per impugnare. Alla base di tali previsioni (al di là della specificità del profilo processuale disciplinato) vi è certamente l’idea che le dichiarazioni di improcedibilità e di inammissibilità (sia che a pronunciarla sia il giudice dell’impugnazione sia quello di primo grado) esauriscono il potere decisorio, determinando, di riflesso, la consumazione del potere di impugnazione della parte.

26. Va aggiunto che l’art. 101, comma 2, Cod. proc. amm. prevede testualmente «che si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell’atto di appello». L’onere di espressa riproposizione delle domande non esaminate (a prescindere dalla ragione che ne ha determinato il mancato esame) rappresenta la coerente applicazione del principio devolutivo/sostitutivo del giudizio di appello ed esclude che il mancato esame di una domanda (o il suo erroneo assorbimento) possa determinare un’ipotesi di annullamento con rinvio, atteso che, altrimenti, detto onere di riproposizione non avrebbe alcuna giustificazione.

27. Coerente con la tassatività dei casi di annullamento con rinvio è, infine, il riferimento che l’art. 105 fa alla “nullità della sentenza”, sia pure, in questo caso, con qualche profilo di maggiore criticità.

La categoria della nullità degli atti processuali soggiace, invero, ad un principio di tassatività tendenziale, enunciato dall’art. 156, primo comma, Cod. proc. civ. (da ritenersi principio generale del processo ai sensi del rinvio esterno di cui all’art. 39 Cod. proc. amm.) in forza del quale la nullità può essere dichiarata solo se è comminata dalla legge (nullità testuale).

La rigida tassatività delle nullità processuali è, tuttavia, ridimensionata dal secondo comma dello stesso art. 156 Cod. proc. civ., che consente di pronunciare comunque la nullità (anche in assenza di una puntuale previsione testuale), «quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo», introducendo così, anche in materia processuale, una ipotesi di nullità “virtuale”.

Va, tuttavia, rimarcato il carattere eccezionale della nullità processuale virtuale, che, richiedendo la carenza di requisiti formali, opera solo per le nullità “formali” (e non per quelle c.d. extraformali) e postula, inoltre, che la forma mancata sia “indispensabile” ai fini del raggiungimento dello scopo cui l’atto è preordinato. Eccezionalità indirettamente ribadita dall’art. 156, terzo comma, Cod. proc. civ., secondo cui la nullità non può essere mai pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato.

28. La tassatività dei casi di annullamento con rinvio riceve conferma anche sul piano sistematico e dei principi: oltre a rappresentare, come si è già evidenziato, il naturale corollario del principio dell’effetto devolutivo dell’appello, si ricollega a sostanziali esigenze di effettività della tutela e di ragionevole durata del processo, evitando che gli errori del giudice possano determinare, a danno delle parti, l’azzeramento del processo e la moltiplicazione dei gradi di giudizio.

Come ha affermato anche la Corte costituzionale (cfr. Corte cost. 12 marzo 2007, n. 77), il principio di ragionevole durata del processo, per quanto rivolto al legislatore, ben può fungere da parametro interpretativo con riguardo a quelle norme processuali le quali – rispetto al fine primario del processo che consiste nella realizzazione del «diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita oggetto della loro contesa» – prevedano rallentamenti o tempi lunghi, inutili passaggi di atti da un organo all'altro, formalità superflue non giustificate da garanzie difensive né da esigenze repressive o di altro genere.

29. Va, inoltre, evidenziato che la natura eccezionale dei casi di annullamento con rinvio non trova alcun ostacolo nel principio del doppio grado di giudizio e, contrariamente a quanto a volte si sostiene per ampliare le ipotesi di rimessione al primo giudice, non ne costituisce una deroga.

Il doppio grado di giudizio non richiede, infatti, una doppia pronuncia sul merito, ma semplicemente che il giudice valuti gli atti processuali ed emetta un giudizio.

Ciò avviene, oltre che quando entra nel merito dell’affare, anche in quei casi in cui il rapporto processuale si chiude con una pronuncia dichiarativa dell’assenza di un presupposto processuale o di una condizione dell’azione. Alla luce del carattere rinnovatorio del giudizio di appello, il rinvio al primo giudice, invocato ad apparente tutela del doppio grado, in realtà si atteggia come eccezione a tale principio, perché contraddice la plena cognitio del giudice di appello una volta che il primo giudice abbia consumato il proprio grado di giurisdizione.

Ne discende che interpretazioni estensive o persino analogiche dell’art. 105 Cod. proc. amm. non realizzerebbero un corretto bilanciamento fra i valori costituzionali in gioco e finirebbero per produrre una ingiustificata violazione del principio della ragionevole durata del processo e dell’effettività della tutela (artt. 24 e 111 Cost.), in quanto la regressione del processo allo stato iniziale (apparentemente volta a garantire alla parte che in primo grado non ha ottenuto una decisione sul merito della domanda proposta) determinerebbe in realtà l’allontanamento sine die di una valida pronuncia sul merito e, quindi, una sostanziale attenuazione, se non una vanificazione dell’effettività della tutela.

Diversamente opinando, in nome di un malinteso senso garantistico del doppio grado del giudizio, si produrrebbe un risultato che andrebbe a ritorcersi contro la parte stessa, la quale, in nome di questo astratto principio (il doppio grado del giudizio nel merito), verrebbe costretta a tornare davanti al primo giudice, dopo l’annullamento con rinvio, e sarebbe onerata di un defatigante percorso ad ostacoli tra primo e secondo grado (con ben quattro o, nei casi di reiterato errore, sei e forse più gradi di giudizio).

30. Furono, del resto, proprio le preoccupazioni legate alla vanificazione del valore costituzionale dell’effettività della tutela che indussero in passato l’Adunanza generale di questo Consiglio di Stato a proporre, de jure condendo, la radicale eliminazione dell’istituto dell’annullamento con rinvio nel giudizio amministrativo. Si fa riferimento, in particolare, al parere n. 236/94 del 6 ottobre 1994 sullo schema di disegno di legge sulla riforma del processo amministrativo, che suggerì l’abrogazione dell’art. 35 della l. n. 1034 del 1971, con l’obbligo, una volta riformata la sentenza impugnata, di decidere «sempre senza rinvio», e tanto per «così evitare che il Consiglio di Stato annulli con rinvio, prolungando così il giudizio di altri due possibili gradi».

Anche nel 1990, rendendo il parere n. 16/89 dell’8 febbraio 1990 su analogo disegno di legge in ordine alla riforma del processo amministrativo, l’Adunanza generale aveva osservato che «l’annullamento con rinvio presenta l’inconveniente di dar luogo a quattro gradi di giudizio, oltre a mantenere in vita la distinzione tra vizi di procedura che possono, oppure no, dar luogo a rinvio».

31. L’esigenza di evitare inutili e defatiganti allungamenti dei tempi del processo (oggi ancor più rilevante alla luce dell’avvenuta costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo) assume un ruolo centrale per evitare interpretazioni dell’articolo 105 non consentite dalla sua puntuale portata letterale.

L’enfatico e suggestivo richiamo al doppio grado del giudizio, anche in chiave costituzionale, non risolve, quindi, il problema del rapporto tra la decisione del primo giudice e quella del secondo giudice. Questo rapporto deve trovare soluzione solo in una rigorosa e tassativa analisi dell’articolo 105 Cod. proc. amm. e delle altre disposizioni, sopra richiamate, in materia di appello.

Proprio l’esegesi puntuale dell’art. 105 non consente di includere tra i casi di annullamento con rinvio l’ipotesi oggetto dell’ordinanza di rimessione, in cui il giudice di primo grado abbia erroneamente dichiarato il ricorso inammissibile (ed identiche considerazioni valgono con riferimento all’erronea dichiarazione di irricevibile e di improcedibilità).

32. La contraria tesi, volta a ricondurre l’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità tra i casi di annullamento con rinvio, ha individuato tre profili di possibile collegamento tra l’erronea chiusura in rito del giudizio di primo grado e le fattispecie di regressione descritte dall’art. 105.

Si è evidenziato, in particolare, al fine di sostenere l’ampliamento dei casi di annullamento con rinvio:

a) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità (irricevibilità o improcedibilità) del ricorso e la possibile lesione dei diritti della difesa, sub specie di violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e di privazione delle parti del doppio grado di giudizio nel merito;

b) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità (irricevibilità o improcedibilità) del ricorso e la nozione di “rifiuto di giurisdizione”, come emergente da alcune pronunce delle sezioni unite della Corte di Cassazione rese in sede di ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato per motivi di giurisdizione;

c) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la possibile violazione dell’obbligo di motivazione della sentenza.

33. Nessuno dei tre profili appare, tuttavia, dirimente.

34. L’erronea dichiarazione di inammissibilità, irricevibilità o improcedibilità non determina, di per sé, una lesione del diritto di difesa o una violazione del contraddittorio.

35. Va, anzitutto, evidenziato che le formule “lesione del diritto di difesa” e “mancanza del contraddittorio”, pur non costituendo un’endiadi (perché ciascuna nozione ha un suo significato autonomo che non si risolve in quello dell’altra) sono ambedue riconducibili alle menomazione del contraddittorio lato sensu inteso. In entrambi i casi è mancata la possibilità di difendersi nel giudizio-procedimento, nel senso che lo svolgimento del giudizio risulta irrimediabilmente viziato, sicché il giudice è pervenuto a una pronuncia la cui illegittimità va riguardata non per il suo contenuto, ma per il solo fatto che essa sia stata resa, senza che la parte abbia avuto la possibilità di esercitare il diritto di difesa o di beneficiare dell’integrità del contraddittorio.

Nell’ambito di questa macro-categoria (di violazione del contradditorio in senso lato), l’ulteriore distinzione (fatta propria dal testo dell’art. 105 Cod. proc. amm.) tra mancanza del contradditorio in senso stretto e violazione del diritto di difesa attiene alla natura “genetica” o “funzionale” del vizio che ha inficiato lo svolgimento del giudizio-procedimento.

36. La “mancanza del contraddittorio” è così essenzialmente riconducibile all’ipotesi in cui doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte: il vizio è, quindi, genetico, nel senso che a causa della mancata integrazione del contraddittorio o della erronea estromissione, una o più parti vengono in radice e sin dall’inizio private della possibilità di partecipare al giudizio-procedimento.

Peraltro, in applicazione del principio della ragione più liquida, l’art. 49, comma 2, Cod. proc. amm. (applicabile anche nel giudizio di appello al fine di evitare un inutile annullamento con rinvio) consente al giudice di pronunciare anche a contraddittorio non integro quanto il ricorso risulti manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato. È evidente in tale previsione la ratio di economia processuale che consente di prescindere da incombenti inutili (l’integrazione del contraddittorio o il rinvio al primo giudice affinché disponga l’integrazione del contraddittorio) quando le risultanze già acquisite consentono di definire il giudizio in senso sfavorevole per la parte ricorrente (v. Cons. Stato, ad. plen. 27 aprile 2015, n. 5; Cons. Stato sez. IV, 1 giugno 2016, n. 2316; Cons. giust. amm. sic. 17 giugno 2016, n. 172; Cons. Stato, sez. IV, 22 gennaio 2013, n. 370; Cons. Stato, sez. III, 27 maggio 2013, n. 2893).

37. La “lesione del diritto di difesa” fa riferimento, invece, ad un vizio (non genetico, ma) funzionale del contraddittorio, che si traduce nella menomazione dei diritti di difesa di una parte, che ha, tuttavia, preso parte al giudizio, perché nei suoi confronti il contraddittorio iniziale è stato regolarmente instaurato, ma, successivamente, nel corso delle svolgimento del giudizio, è stata privata di alcune necessarie garanzie difensive.

Le ipotesi sono tipiche e presuppongono la violazione di norme che prevedono poteri o garanzie processuali strumentali al pieno esercizio del diritto di difesa. Ad esempio, seguendo le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza amministrativa: a) la mancata concessione di un termine a difesa (Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2009, n. 3787); b) l’omessa comunicazione della data dell’udienza (Cons. Stato sez. V, 10 settembre 2014 n. 4616; Cons. Stato sez. V, 28 luglio 2014 n. 4019; Cons. Stato sez. IV 12 maggio 2014 n. 2416; Cons. Stato, sez. V, 27 marzo 2013, n. 1831); c) l’erronea fissazione dell’udienza durante il periodo feriale (Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 2013, n. 5601); d) la violazione dell’art. 73, comma 3, Cod. proc. amm. per aver il giudice posto a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio e non prospettata alle parti (ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 19 giugno 2017, n. 2974; Cons. Stato, sez. VI, 14 giugno 2017, n. 2921; Cons. Stato, sez. IV, 8 febbraio 2016 n. 478; Cons. Stato, sez. IV, 26 agosto 2015, n. 3992; Cons. Stato, sez. III, 19 marzo 2015, n. 1438); e) la definizione del giudizio in forma semplificata senza il rispetto delle garanzie processuali prescritte dall’art. 60 Cod. proc. amm. (Cons. Stato, sez. VI, 9 novembre 2010, n. 7982; Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 2013, n. 5601); f) la sentenza pronunciata senza che fosse dichiarata l’interruzione nonostante la morte del difensore (Cons. giust. amm. sic. 10 giugno 2011, n. 409).

La violazione del diritto di difesa in tutte queste ipotesi avviene nel giudizio-procedimento, dove la parte non ha potuto difendersi; l’errore si annida nella procedura, e non nel contenuto della sentenza: il diritto di difesa, quindi, è leso nel giudizio e non dal giudizio.

38. Non possono rientrare in tale fattispecie le ipotesi nelle quali, dopo che la questione è stata sottoposta al dibattito processale, essa sia poi accolta e per effetto di ciò non si proceda all’esame del merito.

Il mancato esame del merito in questo caso costituisce una conseguenza dell’applicazione delle regole sull’ordine delle questioni sancito dagli artt. 76, comma 4, Cod. proc. amm. e 276, comma 2, Cod. proc. civ., che attengono alla fase di decisione della controversia ed operano, quindi, quando la dialettica processuale si è ormai svolta; la dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso non si traduce, quindi, in una pronuncia “a sorpresa” (o della terza via) che possa reputarsi lesiva del diritto di difesa.

L’effetto devolutivo e il sindacato sostitutivo fanno sì che il giudice d’appello, una volta ritenuta erronea la declaratoria di inammissibilità, di improcedibilità o di irricevibilità, possa e debba entrare nel merito della causa, proprio per garantire alla parte che si sia vista negare dal primo giudice, sulla base di ragioni erronee, una pronuncia sui motivi dedotti il formarsi di una pronuncia stabile e definitiva su tali motivi.

39. La parte, nell’appello, del resto, censura l’erroneità di tali ragioni, senza lamentare di non essersi potuta difendere su tali ragioni. La parte non deduce neanche che il giudice di primo grado abbia abdicato alla propria potestas iudicandi, ma che egli abbia erroneamente ritenuto il ricorso non meritevole di esame per l’esistenza di ragioni preclusive (decadenza, difetto di interesse, non autonoma impugnabilità dell’atto, etc.), e chiede al giudice di appello di sostituirsi al primo giudice in tale esame.

40. Non vale in senso contrario richiamare l’asserita violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. In disparte la considerazione che se pure tale violazione vi fosse, essa non sarebbe comunque di per sé idonea a giustificare la regressione al primo giudice (sul punto si vedano le considerazioni che si svolgeranno nel prosieguo), è qui dirimente la constatazione che, dichiarando la domanda irricevibile, inammissibile o improcedibile, il giudice si pronuncia su di essa, ravvisando la sussistenza di un ostacolo processuale che impedisce l’esame del merito. Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato è, quindi, rispettato, perché esso postula che ogni domanda venga decisa, ma non necessariamente con una sentenza di merito.

41. Non vale invocare nemmeno la violazione della regola del doppio grado di giudizio, la quale, come si è già ampiamente evidenziato, non implica che il merito debba essere sempre esaminato in ciascun grado, ma solo che la parte possa chiedere la revisione della decisione di primo grado, conformemente alla natura devolutiva (limitatamente ai punti della sentenza di primo grado impugnati) del mezzo dell’appello.

42. La tesi ampliativa dei casi di rimessione al primo giudice non può essere condivisa neanche quando prospetta la possibilità di qualificare l’erronea dichiarazione di inammissibilità, irricevibilità, improcedibilità del ricorso in termini di sostanziale “rifiuto di giurisdizione” e, quindi, alla stregua di una pronuncia che abbia erroneamente declinato la giurisdizione, rifiutandone l’esercizio.

Tale argomento – che trova il suo fondamento in alcune pronunce con le quali le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno talvolta identificato nella erronea chiusura in rito del processo (specie se determinata da un abnorme stravolgimento delle norme di riferimento tali da ridondare in denegata giustizia) una ipotesi di superamento dei limiti esterni della giurisdizione – non merita condivisione per una pluralità di ragioni.

43. In primo luogo, la tendenza volta ad estendere i limiti esterni della giurisdizione (fino a farvi ricomprendere talune particolari ipotesi di erronea dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità) è stata espressamente disattesa dalla Corte costituzionale nella sentenza 18 gennaio 2018, n. 6, la quale ha testualmente affermato che «l’«eccesso di potere giudiziario», denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici». Non può, invece, estendersi all’ipotesi in cui, l’esistenza della giurisdizione è incontroversa, ma il giudice amministrativo nell’esercitarla, ravvisi la sussistenza di impedimenti di natura processuale all’esame nel merito della lite.

Si tratta, peraltro, come ricorda la già citata sentenza della Corte costituzionale, di un indirizzo che è ancora prevalente nella giurisprudenza maggioritaria delle stesse Sezioni unite, la quale continua ad affermare che il «cattivo esercizio della propria giurisdizione da parte del giudice, che provveda perché investito di essa e, dunque, ritenendo esistente la propria giurisdizione e, tuttavia, nell’esercitarla, applichi regole di giudizio che lo portino a negare tutela alla situazione giuridica azionata, si risolve soltanto nell’ipotetica commissione di un errore all’interno di essa »; e che, «poiché la distinzione fra la giurisdizione ordinaria e le giurisdizioni speciali ha come implicazione necessaria che ciascuna giurisdizione si eserciti con l’attribuzione all’organo di vertice interno al plesso giurisdizionale del controllo e della statuizione finale sulla correttezza in iure ed in facto di tutte le valutazioni che sono necessarie per decidere sulla controversia, salvo quelle che implichino negazione astratta della tutela giurisdizionale davanti alla giurisdizione speciale ed a qualsiasi giurisdizione (rifiuto) oppure alla negazione della giurisdizione accompagnino l’indicazione di altra giurisdizione (diniego), non è possibile prospettare che, fuori di tali due casi, il modo in cui tale controllo viene esercitato dall’organo di vertice della giurisdizione speciale, se anche si sia risolto in concreto nel negare erroneamente tutele alla situazione giuridica azionata, sia suscettibile di controllo da parte delle Sezioni Unite» (Corte di cassazione, sezioni unite, 6 giugno 2017, n. 13976; nello stesso senso, tra le più recenti, sezioni unite, 19 settembre 2017, n. 21617; 29 marzo 2017, n. 8117).

44. In secondo luogo, le stesse Sezioni Unite, anche quando hanno aderito a soluzioni ampliative, hanno, comunque, espressamente specificato che tale nuovo concetto di giurisdizione attiene solo alla determinazione dei casi di ammissibilità del ricorso per cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti ai sensi dell’art. 111, ultimo comma, Cost.; non anche alle disposizioni dei codici di rito riguardanti la determinazione dei casi in cui il giudice di appello deve rimettere le parti davanti al primo giudice (cfr., in particolare, Cass. sez. un. 29 dicembre 2017, n. 31222, par. 2.5. della motivazione).

In conclusione, non è dubitabile che la dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso postula l’affermazione implicita della giurisdizione di chi l’ha emessa e non è, quindi, riconducibile all’ipotesi dell’erronea declinatoria di giurisdizione cui fa riferimento l’art. 105 come ipotesi di rinvio a primo giudice.

45. Per quanto riguarda il rapporto tra l’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del giudizio e l’obbligo di motivazione della sentenza, occorre evidenziare che errore di giudizio e difetto di motivazione non sono necessariamente sovrapponibili (potendo l’uno sussistere senza l’altro) e, in ogni caso, che il difetto di motivazione non costituisce (alla luce di un consolidato indirizzo che va in questa sede ribadito) un caso di rinvio al primo giudice.

Il carattere sostitutivo dell’appello consente sempre al giudice di secondo grado di correggere, integrare e completare la motivazione carente, contraddittoria o insufficiente e di pronunciarsi sul merito della causa.

46. Va, tuttavia, precisato che l’ipotesi della motivazione viziata (perché incompleta o contraddittoria) si differenzia da quella della motivazione radicalmente assente (o meramente apparente).

In questo caso, l’assenza o il difetto assoluto della motivazione, quale elemento indefettibile che consenta di rinvenire un concreto esercizio di potestas iudicandi (art. 88 Cod. proc. amm.), impedisce al giudice di appello di esercitare un qualsivoglia sindacato di tipo sostitutivo per essere mancata, nella sostanza, una statuizione sulla quale egli possa incidere, seppure nella forma di integrazione/emendazione delle motivazioni.

Non è possibile, infatti, lasciare al giudice dell’impugnazione il compito di integrare la motivazione sostanzialmente mancante con le più varie, ipotetiche congetture.

Il difetto assoluto di motivazione integra allora un caso di nullità della sentenza, per il combinato disposto degli artt. 88, comma 2, lett. d) e 105, comma 1, Cod. proc. amm.. Anche alla luce del principio processuale di cui all’art. 156, comma 2, Cod. proc. civ. la motivazione rappresenta un requisito formale (oltre che sostanziale) indispensabile affinché la sentenza raggiunta il suo scopo.

47. Occorre sottolineare che il difetto assoluto di motivazione non si identifica con la motivazione illogica, contraddittoria, errata, incompleta o sintetica.

Si tratta, al contrario, di un vizio di ben più marcata gravità che dà luogo ad una sentenza abnorme ancor prima che nulla. A parte le ipotesi estreme (spesso dovute ad errori materiali in fase di redazione o pubblicazione della sentenza) di mancanza “fisica” o “grafica” della motivazione (ad esempio, la sentenza viene pubblicata solo con l’epigrafe e il dispositivo, lasciando in bianco la parte dedicata all’illustrazione delle ragioni della decisione), o di motivazione palesemente non pertinente rispetto alla domanda proposta (perché fa riferimento a parti, fatti e motivi totalmente diversi da quelli dedotti negli scritti difensivi), il difetto assoluto di motivazione coincide con la motivazione apparente, per tale dovendosi intendere la motivazione tautologica o assertiva, espressa attraverso mere formule di stile.

46. La motivazione è apparente quando a sostegno dell’accoglimento o non accoglimento del ricorso non individua neppure una ragione ulteriore rispetto alla generica affermazione della sua fondatezza o infondatezza, di cui, però, non viene dato conto e spiegazione, se non attraverso l’utilizzo di astratte formule di stile.

È “apparente”, ad esempio, la motivazione che richiama un generico orientamento giurisprudenziale senza illustrarne il contenuto, né direttamente, né indirettamente, attraverso la citazione di pertinenti precedenti conformi (ed è questo profilo che differenzia, invece, la motivazione in forma semplificata che in base agli art. 74 Cod. proc. amm. e 118 disp. att. Cod. proc. civ. può avvenire anche attraverso il richiamo ad un precedente conforme).

47. Più in generale, la motivazione è apparente quando sussistono anomalie argomentative di gravità tale da porre la motivazione al di sotto del “minimo costituzionale” che si ricava dall’art. 111, comma 5, Cost. («Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati»).

Pertanto, dà luogo a nullità della sentenza solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé. Esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica, oppure obiettivamente incomprensibile (in senso conforme anche l’orientamento della giurisprudenza civile: cfr. Cass. civ. sez. un. n. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. sez. un. 3 novembre 2016, n. 22232; Cass. civ., sez. VI, 22 febbraio 2018, n. 4294).

È una motivazione, in altri termini, che, quale che sia la formulazione linguistica concretamente utilizzata, non reca in sé alcuna enunciazione delle ratio decidendi, limitandosi ad affermare in maniera apodittica e tautologica che il ricorso merita o non merita accoglimento perché fondato o infondato.

La motivazione apparente non è sindacabile dal giudice, in quanto essa costituisce un atto d’imperio immotivato, e dunque non è nemmeno integrabile, se non con il riferimento alle più varie, ipotetiche congetture, ma una sentenza “congetturale” è, per definizione, una non-decisione giurisdizionale – o, se si preferisce e all’estremo opposto, un atto di puro arbitrio – e, quindi, un atto di abdicazione alla potestas iudicandi.

In quest’ottica va precisato che la nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione riguarda non solo le sentenze di rito (irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità), ma anche quelle che recano un dispositivo di merito (accoglimento o rigetto del ricorso) non sorretto da una reale motivazione. Rispetto al difetto assoluto di motivazione, invero, la nullità della sentenza prescinde dalla differenza tra pronunce di rito e pronunce di merito.

48. È opportuno chiarire che il difetto assoluto di motivazione deve essere valutato e apprezzato con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso, e non in maniera parcellizzata o frammentata, facendo riferimento ai singoli motivi o alle singole domande formulate all’interno di esso.

Deve, infatti, essere confermato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’omesso esame di un motivo o anche di una fra le più domande proposte (così come la mancanza della motivazione rispetto ai singoli motivi o a rispetto a una delle domande proposte) non rientra fra le ipotesi di annullamento con rinvio previste dall’art. 105 Cod. proc. amm.

49. Tale conclusione si impone alla luce dell’art. 101, comma 2, Cod. proc. amm., il quale nel prevedere che «si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano espressamente riproposte nell’atto di appello», chiaramente esclude che l’omessa esame di una domanda (e a maggior ragione di un motivo) possa determinare una regressione al primo giudice.

Lo stesso articolo 101, comma 2, stabilisce che per le parti diverse dall’appellante principale la riproposizione delle domande non esaminate (o assorbite) può avvenire anche con semplice memoria difensiva, senza necessità di appello incidentale. Viene, in tal modo codificato, un indirizzo interpretativo che la giurisprudenza amministrativa aveva affermato anche prima dell’entrata in vigore del Codice, sul presupposto che in caso di omessa pronuncia su una specifica ed autonoma domanda (che implica la violazione della regola della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato) l’appellato – risultato vittorioso in ordine ad una domanda – non è costretto a cominciare ex novo un giudizio di primo grado e non è tenuto a proporre una formale impugnazione incidentale, perché manca il presupposto della soccombenza, e può, quindi, riproporre in grado di appello la domanda non esaminata, mediante uno scritto difensivo che la richiami esplicitamente e superi la presunzione di rinuncia (in questi termini cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 20 dicembre 2002, n. 8, che aveva già ritenuto applicabile l’art. 346 Cod. proc. civ., contenente una previsione analoga a quella ora inserita nell’art. 105, comma 2, Cod. proc. amm.).

La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato non è, quindi, equiparabile ad una ipotesi di violazione del diritto di difesa: in questo caso, infatti, la parte non lamenta di non essersi potuta difendere nel corso del procedimento, ma lamenta un vizio che attiene al contenuto della decisione, che risulta incompleto rispetto ai motivi o alle domande proposte.

50. L’analogia (a volte prospettata: cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. III, ord. 24 aprile 2018, n. 2472) con l’ipotesi della “decisione a sorpresa” (adottata in violazione dell’art. 73, comma 3, Cod. proc. amm.), non risulta persuasiva.

Nel caso dell’art. 73, comma 3, infatti, il giudice ha deciso la domanda e la parte lamenta che l’abbia fatto ritenendo dirimente una questione, di rito o di merito, non sottoposta al contraddittorio processuale: il vizio attiene, quindi, al procedimento (la questione non è stata previamente sottoposto al contraddittorio nel corso del processo) non al contenuto della sentenza, che potrebbe essere anche “giusta” nella sua portata decisoria. Con l’ulteriore precisazione, peraltro, che l’art. 73, comma 3, riguarda le domande (o, eventualmente, le eccezioni) decise senza suscitare il contraddittorio sulla questione dirimente; non investe, invece, le conseguenze o gli effetti che derivano dall’accoglimento o dal rigetto delle domande: gli effetti della decisione rimangono, invero, nella disponibilità del giudice che pronuncia la sentenza e non richiedono la previa instaurazione del contraddittorio processuale ai sensi dell’art. 73, comma 3.

Nel caso di omesso esame, invece, il vizio risiede esclusivamente nel contenuto (incompleto) della decisione, mentre nel giudizio-procedimento non risulta violata alcuna specifica regola diretta a tutelare il diritto di difesa delle parti.

51. D’altro canto, la violazione del diritto di difesa presuppone che una pronuncia sia stata resa senza che siano state rispettate le garanzie difensive previste a favore di una delle parti (e la decisione, pertanto, è invalida per il solo fatto che è stata resa). La violazione del diritto di difesa si traduce, infatti, in un vizio del procedimento che porta alla decisione e presuppone che, alla fine, una decisione vi sia. Nel caso di omesso esame di una domanda la situazione è diametralmente opposta: la parte lamenta che il giudizio-procedimento (di per sé non viziato) si è concluso senza una decisione (su una delle domande), che, invece, avrebbe dovuto essere resa.

La tassatività dei casi di annullamento con rinvio di cui all’art. 105 esclude, pertanto, la possibilità di equiparare situazioni processuali diverse sul presupposto della pari o maggiore gravità che caratterizzerebbe l’omessa decisione rispetto alla “decisione a sorpresa” adottata in violazione dell’art. 73, comma 3, Cod. proc. amm. .

52. Non può non rilevarsi, sotto altro profilo, che se si adottasse il criterio “sostanzialistico” (opinabile ed incerto) della “gravità” del vizio, risulterebbe difficile spiegare la differenza con altre ipotesi in presenza delle quali anche le recenti letture “ampliative” dell’articolo 105 escludono l’annullamento con rinvio.

Ad esempio, vi è larga condivisione (anche, come si è detto, da parte degli orientamenti interpretativi più inclini ad estendere i casi di regressione al primo giudice) nel ritenere che l’omesso esame di un singolo motivo non sia causa di rimessione al primo giudice, pure quando ciò avvenga in violazione della gradazione dei motivi che la parte ha espressamente formulato (nei limiti e alle condizioni ben evidenziate dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 5 del 2015).

Eppure, in molti casi, l’omesso esame del motivo proposto in via principale e l’accoglimento quello proposto in via subordinata può modificare la natura del bene della vita che viene riconosciuto al ricorrente (segnando, ad esempio, il passaggio dall’utilità finale all’utilità strumentale). Formalmente non vi è omesso esame di una domanda (ma solo di alcuni motivi a sostegno dell’unica domanda proposta) eppure, sul piano sostanziale, gli effetti della violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato sono simili a quelli che potrebbero derivare dal mancato esame di una domanda: la sentenza non si pronuncia sulla fondatezza di una pretesa sostanziale che il ricorrente aveva azionato formulando il motivo erroneamente non esaminato.

Ancora, nei casi di domande proposte in via subordinata o legate da un rapporto di connessione per pregiudizialità-dipendenza, l’omesso esame di una domanda potrebbe essere frutto o di una erronea lettura del nesso di subordinazione (ad esempio, perché, il giudice non rispetta il vincolo di gradazione impresso dal ricorrente) oppure derivare dell’erroneo (nel merito) rigetto della domanda principale, che comporta il naturale assorbimento di quella consequenziale-dipendente (ad esempio, il mancato esame della domanda risarcitoria in seguito al rigetto della domanda di annullamento del provvedimento).

In queste ipotesi, si ammette pacificamente che il giudice di appello, riscontrato l’errore (in procedendo o in iudicando) del giudice di primo grado, adotti una pronuncia sostitutiva, esaminando, per la prima volta, la domanda erroneamente assorbita nel giudizio di primo grado.

Anche qui, però, a rigore, nel giudizio di primo grado è mancato l’esame (nel merito) di una delle domande, anche se ciò è dipeso, più che da una svista del giudice, da un error in procedendo o in iudicando.

In questi ipotesi, richiamate solo a titolo esemplificativo, non si dubita della naturale operatività dell’effetto devolutivo-sostitutivo del giudizio di appello e dell’inoperatività dell’articolo 105: si ammette, quindi, un solo grado di merito (in sede di appello) sulla domanda pretermessa in primo grado.

È evidente allora che pretendere di isolare o selezionare, nell’ambito della vasta gamma di situazioni che possono determinare l’omesso esame di una domanda proposta in primo grado, una o alcune ipotesi che si differenzierebbero dalle altre perché caratterizzate da connotati di maggiore gravità in concreto, rischia di diventare un’operazione sterile sul piano teorico e potenzialmente foriera, sul piano pratico, del rischio di introdurre una sostanziale incertezza nella delimitazione delle ipotesi di annullamento con rinvio.

54. È ancora utile ricordare che secondo una pacifica giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. III, 1 aprile 2014, n. 1314), l’omesso esame di una delle domande (o di uno o alcuni dei motivi proposti) integra, quando deriva da un svista del giudice nella percezione degli atti processuali, un errore di fatto idoneo a fondare il rimedio della revocazione. L’errore di fatto revocatorio non è un error in procedendo che integra una violazione del diritto di difesa, né un’ipotesi di nullità della sentenza, ma un errore che inficia il contenuto della sentenza. E allora, la qualificazione, ai sensi dell’art. 105, di tale situazione come ipotesi di nullità (o come violazione del diritto di difesa delle parti) determinerebbe profili di incoerenza anche rispetto al citato indirizzo giurisprudenziale maturato in materia di revocazione.

55. Per tali ragioni, deve allora ritenersi che la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (non importa se riferita a singoli motivi o a singole domande) non determina un’ipotesi di nullità della sentenza, né un caso di violazione del diritto di difesa idoneo a giustificare l’annullamento con rinvio della sentenza appellata.

56. Per completezza è ancora opportuno evidenziare che la disciplina dei rapporti tra giudice di primo grado e giudice di appello e dei casi di annullamento con rinvio di cui all’articolo 105 presenta evidenti profili di indisponibilità, perché è diretta a tutela interessi di ordine pubblico che attengono al regolare svolgimento del processo, realizzando un delicato bilanciamento di valori costituzionali (fra i quali, in primis, quelli del giusto processo e della sua ragionevole durata).

Deve escludersi, quindi, che in tale materia la volontà delle parti possa condizionare l’esercizio dei poteri del giudice.

Ciò implica, fermo restando ovviamente l’onere di articolare specifici motivi di appello e il generale principio di conversione della nullità in motivi di impugnazione, che in presenza di una delle ipotesi di cui all’art. 105 Cod. proc. amm., il giudice d’appello deve procedere all’annullamento con rinvio anche se la parte omette di farne esplicita richiesta o, addirittura, formula una richiesta contraria, chiedendo espressamente che la causa sia direttamente decisa dal giudice di appello. Così, ad esempio, se il T.a.r. ha erroneamente declinato la giurisdizione, il rinvio al primo grado risulta doveroso, anche se la parte, che impugna il capo sulla giurisdizione, chiede che la causa venga direttamente decisa nel merito in sede di appello.

Viceversa, ma per ragioni speculari, nei casi in cui non si applica l’art. 105 Cod. proc. amm., la possibilità per il giudice di appello di pronunciarsi sulla domande o sulle domande non esaminate in primo grado o erroneamente dichiarate irricevibili, inammissibili o improcedibili, presuppone necessariamente che, ai sensi dell’art. 101, comma 2, tali domande siano oggetto di rituale riproposizione, operando altrimenti la presunzione di rinuncia stabilita dallo stesso articolo.

Ne consegue che, in tali casi, l’appello proposto senza riproposizione delle domande non esaminate nel merito in primo grado dovrà ritenersi inammissibile per difetto di interesse, atteso che il suo eventuale accoglimento non consentirebbe al giudice di esercitare il potere decisorio sostitutivo sulla domanda ormai rinunciata e non potrebbe, quindi, arrecare alcuna concreta utilità all’appellante.

57. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’Adunanza plenaria enuncia i seguenti principi di diritto:

1. In coerenza con il generale principio dell’effetto devolutivo/sostitutivo dell’appello, le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall’art. 105 Cod. proc. amm. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive.

2. L’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado non costituisce, di per sé, un caso di annullamento con rinvio, in quanto la chiusura in rito del processo, per quanto erronea, non determina, ove la questione pregiudiziale sia stato oggetto di dibattitto processuale, la lesione del diritto di difesa, né tanto meno un caso di nullità della sentenza o di rifiuto di giurisdizione.

3. La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, anche quando si sia tradotta nella mancanza totale di pronuncia da parte del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente, non costituisce un’ipotesi di annullamento con rinvio; pertanto, in applicazione del principio dell’effetto sostitutivo dell’appello, anche in questo caso, ravvisato l’errore del primo giudice, la causa deve essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado.

4. Costituisce un’ipotesi di nullità della sentenza che giustifica l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado il difetto assoluto di motivazione. Esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica oppure obiettivamente incomprensibile: quando, cioè, le anomalie argomentative sono di gravità tale da collocare la motivazione al di sotto del “minimo costituzionale” di cui all’art. 111, comma 5, Cost.

5. La disciplina dei rapporti tra giudice di primo grado e giudice d’appello ha natura indisponibile, il che implica che, fermo restando l’onere di articolare specifici motivi di appello e il generale principio di conversione della nullità in motivi di impugnazione, nei casi di cui all’art. 105 Cod. proc. amm., il giudice d’appello deve procedere all’annullamento con rinvio anche se la parte omette di farne esplicita richiesta o chiede espressamente che la causa sia direttamente decisa in secondo grado. Viceversa, nei casi in cui non si applica l’art. 105 Cod. proc. amm., la possibilità per il giudice di appello di pronunciarsi sulla domande o sulle domande non esaminate in primo grado o erroneamente dichiarate irricevibili, inammissibili o improcedibili, presuppone necessariamente che, ai sensi dell’art. 101, comma 2, tali domande siano oggetto di rituale riproposizione, operando, altrimenti, la presunzione di rinuncia stabilita dallo stesso articolo, con conseguente inammissibilità per difetto di interesse dell’appello proposto senza assolvere all’onere di riproposizione.

58. Il Collegio, enunciati i principi di cui ai punti che precedono, restituisce, anche per la statuizione sulle spese della presente fase, il giudizio al C.G.A. per la Regione Siciliana, ai sensi dell’articolo 99, comma 4, Cod. proc. amm.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, enuncia i principi di diritto di cui ai punti 1, 2, 3, 4, e 5 del paragrafo 57 della motivazione e rimette, per il resto, il giudizio al C.G.A. per la Regione Siciliana ai sensi dell’art. 99, comma 4, Cod. proc. amm.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 giugno 2018 con l'intervento dei magistrati:

 

 

Alessandro Pajno, Presidente

Filippo Patroni Griffi, Presidente

Sergio Santoro, Presidente

Franco Frattini, Presidente

Giuseppe Severini, Presidente

Rosanna De Nictolis, Presidente

Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore

Fabio Taormina, Consigliere

Bernhard Lageder, Consigliere

Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere

Hadrian Simonetti, Consigliere

Umberto Realfonzo, Consigliere

Silvestro Maria Russo, Consigliere

Oberdan Forlenza, Consigliere

Massimiliano Noccelli, Consigliere

 

 

 

 

 

 

 

 

N. 00014/2018REG.PROV.COLL.

N. 00009/2018 REG.RIC.A.P.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso NRG 9/2018 A.P. (NRG 8424/2015), proposto da Giustiniano Chiarella, rappresentato e difeso dall'avv. Giacomo Carbone, con domicilio eletto in Roma, via A. Gramsci n. 9, presso l’avv. A. Guzzo,

contro

– il Comune di Borgia (CZ), in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio e
– il Ministero dell'interno, in persona del Ministro pro tempore e l’U.T.G. - Prefettura di Catanzaro, in persona del Prefetto pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12,

per la riforma

della sentenza del TAR Calabria – Catanzaro, sez. I, n. 367/2015 e concernente la nota interdittiva antimafia, adottata il 30 maggio 2014 dalla Prefettura di Catanzaro, nella parte in cui il TAR, dopo aver accolto la domanda per l’annullamento di quest’ultima, ha omesso di pronunciarsi anche sulla domanda attorea di risarcimento dei danni, per il ristoro del pregiudizio derivante dalla contestata interdittiva e del provvedimento comunale di revoca della SCIA per l’apertura di un esercizio di vendita di frutta e verdura;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio delle sole Amministrazioni statali intimate;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore all'udienza pubblica dell’11 luglio 2018 il Cons. Silvestro Maria Russo, nessuno presente per le parti costituite;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

 


FATTO e DIRITTO

1. – Nel luglio 2010, fu sciolto il Consiglio comunale di Borgia (CZ) per infiltrazione mafiosa, al cui posto fu insediato un commissario prefettizio.

Nel maggio 2012 il sig. Giustiniano Chiarella propose al commissario stesso una SCIA, al fine di ottenere l’apertura d’un esercizio di vendita al dettaglio di frutta e verdura. Decorsi i termini ex art. 19 della l. 7 agosto 1990 n. 241, il sig. Chiarella diede avvio a tal attività commerciale.

Sennonché la nuova Amministrazione comunale eletta, reputando che tal vicenda rientrasse tra le autorizzazioni indicate nell’art. 67 del D.lgs. 6 settembre 2011 n. 159 (codice delle leggi antimafia), chiese alla Prefettura di Catanzaro, ai sensi del successivo art. 100, un’informativa antimafia sulla posizione del sig. Chiarella. Il 30 maggio 2014 la Prefettura ha adottato un’interdittiva antimafia ex art. 91, co. 6 del decreto n. 159 nei confronti del medesimo sig. Chiarella. Pertanto, con ordinanza n. 14 del 12 giugno 2014, il Sindaco di Borgia, nella sua qualità di Autorità ex lege di PS e tenuto conto dell’interdittiva citata, ha disposto la revoca della SCIA per l’esercizio di vicinato in capo al sig. Chiarella.

2. – Questi ha allora impugnato i testé citati provvedimenti innanzi al TAR Catanzaro, col ricorso NRG 1016/2014, chiedendone l’annullamento per erronea applicazione degli artt. 67 e 100 del D.lgs. 159/2011 e per eccesso di potere sotto vari profili. Il ricorrente ha chiesto altresì, con separata ma contestuale domanda, il risarcimento dei danni patiti a causa della chiusura di tale esercizio di vicinato e del danno non patrimoniale (quantificati in complessivi € 35.000,00).

L’adito TAR, con sentenza n. 367 del 26 febbraio 2015, ha accolto il ricorso e ha annullato i citati provvedimenti, ma ha omesso del tutto di pronunciarsi, neppure per implicito o per meri accenni, sulla domanda risarcitoria.

Ha appellato quindi il sig. Chiarella, col ricorso NRG 8424/2015 (sez. III), chiedendo la riforma in parte qua della gravata sentenza laddove non ha disposto alcunché sulla predetta domanda, tant’è che ha dedotto la violazione dell’art. 112 c.p.c e, comunque, la fondatezza della pretesa risarcitoria nel merito ove la si ritenga per implicito respinta senza motivazione, per la quale sussistono invece gli elementi, oggettivo (pregiudizio economico e nesso eziologico coi provvedimenti illegittimi) e soggettivo, della responsabilità di entrambe le Amministrazioni intimate.

Investita della trattazione del ricorso NRG 8424/2014, la sez. III di questo Consiglio, con la ordinanza collegiale n. 2472 del 24 aprile 2018 ed ai sensi dell’art. 99, co. 1, c.p.a. ha rimesso alla Adunanza plenaria la portata applicativa del successivo art. 105, co. 1, ai fini della risoluzione del contrasto giurisprudenziale in atto tra le Sezioni.

Tal ultima disposizione prevede che il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado «… soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio…».

Fissata l’udienza pubblica dell’11 luglio 2018, il 9 giugno u.s. l’Avvocatura erariale ha tempestivamente depositato una memoria difensiva nel giudizio n. 9/2018 R.G. pendente presso la VI Sezione e diverso da quello di cui si discute in questa sede, dotato del numero di ruolo n. 9/2018 dell’Adunanza Plenaria e non di una sezione semplice.

La stessa Avvocatura ha, peraltro, successivamente depositato la memoria nel ricorso n. 9/2018 dell’Adunanza Plenaria; in ritardo, tuttavia, rispetto all’udienza pubblica fissata dinanzi a quest’ultima, alla quale non ha, peraltro, preso parte l’Avvocato dello Stato.

3.  Va innanzi tutto osservato che l’Amministrazione è incorsa in errore nella esatta identificazione del ricorso n. 9/2018 R.G., depositando la memoriain quello dotato di tale numero ma pendente presso la VI Sezione e non in quello pendente presso l’Adunanza Plenaria; trattandosi, peraltro, di mero errore materiale, il Collegio gliene riconosce la scusabilità ed ammette la memoria al proprio esame.

4. – Tanto premesso, la Sezione remittente reputa necessario definire l’esatto ambito di operatività del citato art. 105, co. 1, c.p.a., con riguardo alla vicenda al suo esame, connotata da una totale e immotivata omissione di pronuncia sulla domanda risarcitoria, seppur correlata all’esito vittorioso dell’azione di annullamento contro i provvedimenti lesivi della posizione giuridica del ricorrente in primo grado.

Ad avviso della Sezione remittente, dunque, la vicenda in esame differisce molto da altri e coevi casi oggetto di rinvio all’Adunanza plenaria, pronunciate dalla Quarta e dalla Quinta Sezione, nonché dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana.

Tanto perché viene qui in rilievo la stretta connessione tra il vizio procedurale e la lesione del diritto difesa, rilevante ai fini del rinvio ex art. 105 c.p.a. A tal ultimo riguardo, l’ordinanza di rimessione in oggetto prende le mosse da un dato di fatto in sé evidente già dalla semplice lettura della sentenza appellata. È invero mancata del tutto la pronuncia sulla domanda risarcitoria ritualmente proposta in primo grado e non v’erano (né, allo stato, vi sono) motivi d’ordine processuale o sostanziale che avrebbero potuto inibire al TAR di delibare la fondatezza, o meno, della relativa azione. Non è possibile configurare alcuna pronuncia implicita nella specie e, anzi, della domanda risarcitoria il TAR non ha fatto cenno nell’esposizione dello svolgimento del processo.

Sicché la vicenda de qua manifesta la violazione della disposizione di cui all’art. 112 c.p.c., che, com’è noto, esprime il principio generale dell’obbligo, gravante sul Giudice, di «corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato». Donde la necessità, ad avviso della Sezione remittente, di stabilire in via pregiudiziale se il vizio di mancata totale pronuncia sulla domanda rientri, o no, tra quelli che, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., comportino la regressione del giudizio dal grado d’appello al primo grado, in caso contrario e per l’effetto devolutivo dell’appello dovendo questo Consiglio trattenere la causa e deciderla nel merito.

L’ordinanza di rimessione passa quindi in rassegna l’evoluzione normativa dell’istituto a partire dall’art. 35 della l. 6 dicembre 1971 n. 1034, nonché le varie ipotesi formulate dalle altre Sezioni remittenti per le vicende esaminate all’udienza di questa Adunanza plenaria in data 13 giugno 2018. Si sofferma poi, per quel che qui più rileva, sulla nozione di «lesione del diritto di difesa» (riconnettendola al principio del doppio grado di giudizio). In particolare, essa rammenta come l’ordinamento della giustizia amministrativa s’incentri sul principio del doppio grado di giurisdizione, sancito dall’art. 125 Cost. ed attuato con l’istituzione dei TAR nel 1971. Ma rammenta altresì come la regola costituzionale non imponga affatto che la legge processuale debba garantire sempre alle parti il diritto d’un doppio esame di ogni questione di rito o di merito proposta nel corso del giudizio, all’uopo essendo necessario e sufficiente che ciascuna domanda od eccezione sia potenzialmente esaminabile in due diversi gradi di giudizio, tenuto conto per vero del rapporto di pregiudizialità logica tra le diverse questioni. Dal che l’avvenuto contemperamento, nel c.p.a., tra le regole costituzionali sul doppio grado e sulla ragionevole durata del processo, grazie alla precisa e rigorosa delimitazione dei casi di rinvio al primo giudice, che si pone come eccezione rispetto alla regola dell’effetto devolutivo dell’appello.

La Sezione remittente afferma di non aver motivo di discostarsi dall’orientamento tradizionale, più fedele alla lettera dell’art. 105 c.p.a. ed all’evidente sua finalità d’accelerazione del giudizio, nel rispetto delle prerogative tipicamente processuali in cui si sostanzia il diritto di difesa; reputa, tuttavia, peculiare la vicenda di cui oggi si discute, ossia la totale omissione di pronuncia su una intera domanda (quella risarcitoria), a suo dire direttamente lesiva del diritto di difesa (a differenza dell’erronea declaratoria d’inammissibilità, irricevibilità o improcedibilità), perché ha provocato, nei confronti della parte ricorrente, effetti equivalenti a quelli della c.d. “pronuncia a sorpresa” di cui all’art. 73 c. p.a. Già quando il Giudice pone a base della propria decisione una questione rilevata d’ufficio, senza prospettarla preventivamente alla dialettica tra le parti, arreca un sicuro pregiudizio al diritto di difesa dell’interessato, impedendogli di manifestare in contraddittorio la propria posizione. A più forte ragione si deve concludere per la totale omessa ed immotivata pronuncia del Giudice sull’azione proposta dal ricorrente, ove si verifica in modo ancora più vistoso la lesione del diritto di difesa, poiché la parte si vede privata d’ogni possibilità di difesa in ordine ad una pronuncia sfavorevole, adottata al di fuori del prescritto contraddittorio.

5. – Tutto ciò premesso, la Sezione remittente chiede dunque a questa Adunanza se, «… qualora il giudice di primo grado abbia omesso del tutto la pronuncia su una delle domande del ricorrente (nella specie l’azione di risarcimento del danno, conseguente all’annullamento dei provvedimenti impugnati), la controversia debba essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado, in coerenza con l’effetto devolutivo dell’appello e con la regola della tassatività delle ipotesi di rinvio al primo giudice, oppure, in alternativa, la causa debba essere rimessa al TAR, valorizzando la portata anche sostanziale della nozione di “violazione del diritto di difesa” e il principio costituzionale del doppio grado, anche alla luce della circostanza che la radicale e immotivata omissione di pronuncia avrebbe effetti equivalenti a quelli di una decisione adottata d’ufficio, in violazione del contraddittorio con le parti, stabilito dall’art. 73, comma 3, del CPA…».

6. – Fin d’ora, l’Adunanza ben può rispondere al quesito così posto, ritenendone corretta, anche alla luce d’una consolidata lettura del medesimo art. 105, co. 1, c.p.a., la prima alternativa prospettata con l’ordinanza di rimessione e ciò pur a fronte della singolarità della lite all’esame della Sezione stessa.

Quanto alle questioni sulla portata applicativa dell’art. 105, poste da altre Sezioni, cui l’ordinanza in esame fa riferimento o cenno, esse sono state esaminate con altra pronuncia ispirata a una rigorosa delimitazione dell’ambito oggettivo della menzionata disposizione, con riferimento, peraltro, a quesiti e vicende differenti dalla questione oggi in esame.

Al riguardo, è appena da rammentare, anche alla luce dell’art. 44, co. 1 della l. 18 giugno 2009 n. 69, come l’art. 105 c.p.a. sia sostanzialmente omeomorfo agli artt. 353 e 354 c.p.c., non solo per ragioni semantiche, ma soprattutto perché la riforma del processo amministrativo ha provveduto ad “… adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori” ed a “coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di princìpi generali…”.

Ecco, la struttura ed il significato dell’art. 105 esprimono, fatte le debite differenze, concetti e valori propri dell’ordinamento generale, nella tendenziale unitarietà del processo, pur nelle sue definite e differenti declinazioni. Questi valori e concetti provvedono a delineare un sistema tendenzialmente comune ed unitario del processo, specie oggi che (cfr. i principi delineati da Cons. St., ad. plen., 29 luglio 2011 n. 15) il c.p.a., nel dar attuazione armonica ai principi costituzionali e comunitari in materia di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale previsti nella delega legislativa di cui alla l. 69/2009, supera la tradizionale limitazione della tutela dell'interesse legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo la esperibilità di azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa.

Si ha così un’unitaria regolazione per principi, nella specie quello per cui la sentenza d’appello si sostituisce alla sentenza di primo grado ed il giudice di appello decide nel merito, anche quando rileva un vizio del procedimento o della sentenza di primo grado, qualora, sia pur errando, il Giudice di prime cure abbia esaurito la sua potestà decisoria.

La rigidezza dei casi di rimessione al primo giudice serve, in tutti i giudizi a duplice grado, a limitare la discrezionalità dell’interprete nell’“invenzione”, nel senso proprio di rinvenimento, di fattispecie ulteriori (cioè, diverse e distinte da tutti i casi implicati) di regressione dall’appello al primo grado, la tassatività delle categorie esistenti essendo indubbia pure per la remittente.

Sicché la pronuncia che dichiara erroneamente l’irricevibilità, l’inammissibilità o l’improcedibilità di un ricorso giurisdizionale, consuma il potere decisorio da parte del primo Giudice e, stante l’effetto devolutivo dell’appello, impone al secondo Giudice, una volta riscontrato tale error in iudicando, di pronunciarsi nel merito. È, questo, un orientamento consolidato, certo a partire dalla sentenza che l’Adunanza plenaria resa nel 1978 (cfr. Cons. St., ad. plen., 30 giugno 1978 n. 18): già quarant’anni fa, essa aveva precisato che, quando il Giudice abbia erroneamente definito il giudizio dichiarando inammissibile o improcedibile il ricorso, «…in tale ipotesi il vizio fatto valere investe soltanto il contenuto della pronunzia impugnata e non il processo che ha condotto alla sua emanazione…». Si tratta d’un principio che non v’è ragione di rimettere in discussione nel suo impianto, nemmeno, anzi proprio alla luce del dato normativo dell’art. 105 c.p.a., ben più preciso e compiuto rispetto alla formulazione dell’art. 35 dell’abrogata l. 1034/1971.

Esiste, peraltro, un orientamento giurisprudenziale alla stregua del quale tali erronee pronunce sul rito potrebbero essere considerate nel contenuto e nell’effetto, a guisa di pronunce declinatorie della giurisdizione.

Tale modo di pensare non coglie, peraltro, le implicazioni dirette della questione, ossia la ricorribilità per cassazione di tali pronunce ed una non appropriata considerazione del principio del doppio grado. Quanto al primo aspetto, pare sufficiente considerare che, anche nella pacifica giurisprudenza della Corte regolatrice, non si è mai affermato che l’erronea statuizione sulla inammissibilità o improcedibilità possa dar luogo a un’errata pronuncia sulla giurisdizione ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 della Costituzione. In ordine al secondo aspetto, si deve osservare che il Giudice di primo grado, nel ritenere la sussistenza d’una ragione che escluda la delibazione d’una controversia nel merito, non ha abdicato alla sua potestas iudicandi, ma ha valutato, per quanto erroneamente, che ricorra una questione preliminare o pregiudiziale idonea a definire il giudizio avanti a sé.

E un giudizio può, com’è noto, esser definito con l’accoglimento d’una questione, preliminare o pregiudiziale, che impedisce l’esame nel merito, in quanto non è vero che la parte abbia diritto sempre e comunque ad un doppio grado nel merito, ove al merito non si possa giungere (si pensi, p. es., a tutte le preclusioni o decadenze in cui s’incorre per la violazione di termini processuali).

Il doppio grado nel merito costituisce, infatti, il punto di arrivo –eventuale– del processo, non la sua premessa necessaria e indefettibile. Il bene al quale aspira la parte ed al quale tende il giudizio è il giudicato sulla sua pretesa. Il passaggio attraverso più gradi di giudizio è il veicolo, peraltro non sempre necessario (si pensi, p. es., ai casi di unico grado di giudizio avanti al Consiglio di Stato), il quale conduce a questo risultato, verso la stabilità della cosa giudicata (art. 2909 c.c.).

7. – Con l’ordinanza di rimessione oggi all’esame del Collegio, la III Sezione del Consiglio di Stato ha pertanto affermato di considerare preferibile la tradizionale interpretazione dell’art. 105 c.p.a., ritenuta più fedele alla lettera della norma ed alla sua evidente finalità di accelerazione del giudizio; ha, invece, ritenuto di sottoporre all’attenzione dell’Adunanza il quesito se la totale omissione di pronuncia su una intera domanda (nella specie, quella risarcitoria) possa comportare, a differenza dell’erronea declaratoria di irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità, una diretta lesione del diritto di difesa, potendo una situazione del genere provocare, nei confronti della parte interessata, effetti equivalenti a quelli della c.d. “pronuncia a sorpresa”, che l’art. 73 c.p.a. tende, appunto, ad evitare. Poiché, infatti, il porre a base della decisione del giudice una questione rilevata d’ufficio non preventivamente sottoposta al contraddittorio delle parti costituirebbe un pregiudizio del diritto di difesa dell’interessato, potrebbe essere plausibile ritenere, secondo la Sezione, che, quando il giudice disattende del tutto, senza alcun esame, la domanda del ricorrente, si sia di fronte ad una ancor più grave lesione del diritto di difesa della parte interessata.

Non sfugge, peraltro al Collegio, lo si è già accennato, la differenza tra il caso prospettato dalla Sezione remittente e quelli di cui si occupano, in altro e diverso contesto, le altre ordinanze di rimessione. In queste ultime, in vario modo, gli interessati lamentano non che il Giudice di prime cure abbia abdicato alla propria potestas iudicandi, ma che questi abbia ritenuto il ricorso non meritevole d’esame nel merito a causa delle più svariate pregiudiziali in rito. In base a tale constatazione, l’appellante chiede al Giudice d’appello, nei limiti della devoluzione, di sostituirsi al TAR in tal esame sulla sostanza della lite. E tale sostituzione costituisce un potere/dovere del Giudice d’appello, laddove emerga l’erroneità della statuizione del TAR e si riapra interamente davanti a lui la cognizione del merito, senza che un tal risultato possa mai non solo implicare, ma proprio ipotizzare un’ipotesi di rinvio ex art. 105, co. 1, c.p.a.

A ben vedere, la vicenda adesso rimessa all’esame dell’Adunanza da parte della III Sezione non rientra affatto tra i casi cui fa riferimento il dato testuale del citato art. 73, co. 3 c.p.a., per l’evidente ragione che il Giudice di prime cure non ha impedito alle parti di difendersi in contraddittorio su tutte le questioni dedotte innanzi a lui. L’art. 73, co. 3, se impone al Giudice di provocare il contraddittorio sulla questione rilevata d’ufficio e sebbene non sanzioni in modo espresso di nullità la sentenza resa, in realtà fa un rinvio implicito al successivo art. 105, co. 1, poiché così è mancato il contraddittorio, ossia la prima nell’elenco delle ragioni che impongono il rinvio al primo Giudice. Si badi: il dovere del Giudice stabilito dall'art. 73, co. 3, non tutela affatto un inesistente “diritto” delle parti ad esser previamente informate su come questi vorrà qualificare giuridicamente i fatti portati alla sua attenzione, ma costituisce un mezzo di garanzia del contraddittorio, diretto ad evitare pronunce su profili aventi un’influenza decisiva sul giudizio quali, per esempio, la tardività, il difetto dell’interesse protetto, la perenzione del giudizio. Pertanto, il dovere ex art. 73, co. 3 risponde alla chiara finalità di contrastare, in ossequio al fondamentale principio del contraddittorio enunciato dall'art. 2, co. 1, c.p.a., il fenomeno delle c.d. decisioni a sorpresa, tant’è che la sua omissione trova la sanzione endoprocessuale nell'art. 105, co. 1 (arg. ex Cons. St., IV, 8 febbraio 2016 n. 478). D’altra parte, l’analogia (a volte prospettata della violazione dell’art. 112 c.p.c.: cfr., ad esempio, Cons. St., sez. III, ord. 24 aprile 2018, n. 2472) con l’ipotesi della “decisione a sorpresa” (adottata in violazione dell’art. 73, comma 3, Cod. proc. amm.), non risulta persuasiva.

Nel caso dell’art. 73, comma 3, infatti, il giudice ha deciso la domanda e la parte lamenta che l’abbia fatto ritenendo dirimente una questione, di rito o di merito, non sottoposta al contraddittorio processuale: il vizio attiene, quindi, al procedimento (la questione non è stata previamente sottoposta al contraddittorio nel corso del processo) non al contenuto della sentenza (che potrebbe essere anche “giusta” nella sua portata decisoria).

Nel caso di omesso esame, invece, il vizio risiede esclusivamente nel contenuto (incompleto) della decisione, mentre nel giudizio-procedimento non risulta violata alcuna specifica regola diretta a tutelare il diritto di difesa delle parti.

D’altro canto, la violazione del diritto di difesa presuppone che una pronuncia sia stata resa senza che siano state rispettate le garanzie difensive previste a favore di una delle parti (e la decisione, pertanto, è invalida per il solo fatto che è stata resa). La violazione del diritto di difesa si traduce, infatti, in un vizio del procedimento che porta alla decisione e presuppone che, alla fine, una decisione vi sia. Nel caso di omesso esame di una domanda la situazione è diametralmente opposta: la parte lamenta che il giudizio-procedimento (di per sé non viziato) si è concluso senza una decisione (su una delle domande), che, invece, avrebbe dovuto essere resa.

La tassatività dei casi di annullamento con rinvio di cui all’art. 105 esclude, pertanto, la possibilità di equiparare situazioni processuali diverse sul presupposto della pari o maggiore gravità che caratterizzerebbe l’omessa decisione rispetto alla “decisione a sorpresa” adottata in violazione dell’art. 73, comma 3, Cod. proc. amm.

8. - Ma, pur a seguire la tesi dell’ordinanza, una cosa è la decisione “a sorpresa”, ben altra è l’assenza di pronuncia, nel qual caso il TAR avrebbe violato un altro non sovrapponibile precetto, ossia quello ex art. 112 c.p.c., stante la mancata statuizione su tutte le domande poste, con conseguente violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Ora, la violazione dell’art. 112 c.p.c., di per sé sola, non costituisce una causa normale (predefinita ex lege) di rinvio al primo Giudice. Ciò vale certamente per l’esame di alcuni motivi dell’originario ricorso, come s’evince dall’onere di parte ex art. 101, co. 2, c.p.a. di riproposizione in forma espressa dei motivi assorbiti o non esaminati in primo grado, che dà luogo ad una decadenza o, se si vuole, ad una presunzione assoluta di rinuncia. Dal che è ben possibile evincere come, in generale, l’omesso esame di taluni motivi non determini la regressione della causa al primo Giudice. Anzi, se non v’è un impulso della parte pretermessa a volerli far constare dal Giudice d’appello, i motivi s’intendono rinunciati sic et simpliciter.

Del pari, non si può mai configurare tal rinvio, quando, pur a fronte d’un materiale omesso esame di alcune delle domande, dalla lettura della motivazione si comprenda comunque perché il Giudice non abbia pronunciato espressamente su queste ultime.

9. - Ma ad analoga conclusione deve pervenirsi anche quando, a causa d’una svista o di un errore di fatto, il primo Giudice non s’è materialmente accorto, nel leggere gli atti del giudizio, della formulazione d’una o più domanda (è il classico errore revocatorio, per c.d. “abbaglio dei sensi”). In tali casi, è utile ricordare che, secondo una pacifica giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. III, 1 aprile 2014, n. 1314), l’omesso esame di una delle domande (o di uno o alcuni dei motivi proposti) integra, quando deriva da un svista del giudice nella percezione degli atti processuali, un errore di fatto idoneo a fondare il rimedio della revocazione. Ma va avvertito che l’errore di fatto revocatorio non è un error in procedendo che integra una violazione del diritto di difesa, né un’ipotesi di nullità della sentenza, bensì (semplicemente) un errore che inficia il contenuto della sentenza. E allora, la qualificazione, ai sensi dell’art. 105, di tale situazione come ipotesi di nullità (o come violazione del diritto di difesa delle parti) determinerebbe profili di incoerenza anche rispetto al citato indirizzo giurisprudenziale maturato in materia di revocazione.

Per tali ragioni, deve allora ritenersi che la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (non importa se riferita a singoli motivi o a singole domande) non determina un’ipotesi di nullità della sentenza, né un caso di violazione del diritto di difesa idoneo a giustificare l’annullamento con rinvio della sentenza appellata.

10. - Tale conclusione si impone anche alla luce dell’art. 101, comma 2, Cod. proc. amm., il quale nel prevedere che «si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano espressamente riproposte nell’atto di appello», chiaramente esclude che l’omesso esame di una domanda (e a maggior ragione di un motivo) possa determinare una regressione al primo giudice.

Lo stesso articolo 101, comma 2, c.p.a. stabilisce che per le parti diverse dall’appellante principale la riproposizione delle domande non esaminate (o assorbite) può avvenire anche con semplice memoria difensiva, senza necessità di appello incidentale. Viene, in tal modo codificato, un indirizzo interpretativo che la giurisprudenza amministrativa aveva affermato anche prima dell’entrata in vigore del Codice, sul presupposto che in caso di omessa pronuncia su una specifica ed autonoma domanda (che implica la violazione della regola della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato) l’appellato –risultato vittorioso in ordine ad una domanda– non è costretto a cominciare ex novo un giudizio di primo grado e non è tenuto a proporre una formale impugnazione incidentale, perché manca il presupposto della soccombenza, e può, quindi, riproporre in grado di appello la domanda non esaminata, mediante uno scritto difensivo che la richiami esplicitamente e superi la presunzione di rinuncia (in questi termini cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 20 dicembre 2002, n. 8, che aveva già ritenuto applicabile l’art. 346 Cod. proc. civ., contenente una previsione analoga a quella ora inserita nell’art. 101, comma 2, Cod. proc. amm.).

La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato non è, quindi, equiparabile ad una ipotesi di violazione del diritto di difesa: in questo caso, infatti, la parte non lamenta di non essersi potuta difendere nel corso del procedimento, ma lamenta un vizio che attiene al contenuto della decisione, che risulta incompleto rispetto ai motivi o alle domande proposte.

Diverso può essere il caso -la cui individuazione determinerebbe la regressione della causa al primo giudice- in cui manchi del tutto la pronuncia sulla domanda o il giudice pronunci su diversa domanda, ovvero sulla domanda fatta valere in giudizio il giudice di primo grado abbia pronunciato con motivazione inesistente o apparente.

In questi casi –i cui termini sono stati chiariti da questa Adunanza plenaria con le decisioni n. 10 e n. 11/2018, assunta all’esito della medesima udienza pubblica in cui è stata decisa la presente causa–, la rimessione al primo giudice si riscontra in ragione del ricorrere della fattispecie della nullità della sentenza, perché priva degli elementi minimi idonei a qualificare la pronuncia come tale.

E così, per esempio, Cons. St., IV, 31 luglio 2017, n. 3809, ha ritenuto che, ai sensi degli artt. 99 e 112 c.p.c., sia nel processo civile che in quello amministrativo, il principio della domanda e quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato hanno dignità di clausole generali e comportano il divieto di attribuire un bene della vita non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda. Sicché va annullata con rinvio la sentenza che, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi identificativi dell'azione, cioè il petitum e la causa petendi, attribuendo quindi un bene della vita diverso da quello richiesto o ponendo a fondamento della propria decisione fatti o situazioni del tutto estranei o dalle parti non considerati, salvo comunque il potere del giudice adito di fornire la qualificazione giuridica dei fatti e della domanda giudiziale. Si tratta di ipotesi, ben note alla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Cons. St., VI, n. 4914/2013, cit.; id., IV, 12 maggio 2014 n. 2416; id., V, 28 luglio 2014, n. 4019, che cita tal quale la precedente; id., IV, n. 3809/2017, cit.), in cui si verifica la totale mancanza dell’esplicazione, neanche in minima parte o per accenni a principi di diritto, delle ragioni che hanno condotto alla decisione assunta. In tal caso, la sentenza appellata è nulla, risultando priva di uno degli elementi essenziali prescritti dall'art. 88 c.p.a. In tali ipotesi non trova applicazione il richiamato orientamento per cui l'accoglimento dell'impugnazione, per violazione dell'art. 112 c.p.c., non conduce all'annullamento della statuizione gravata ma implica la risoluzione della controversia nel merito da parte del Giudice d’appello (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 28 febbraio 2016, n. 846), in quanto, nelle su richiamate ipotesi affatto eccezionali, l’annullamento con rinvio consegue (anche alle luce dei molteplici principi di diritto enunciati da Cons. St., ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5) alla nullità della sentenza non già per una mera distonia tra quanto chiesto e quanto pronunciato dal TAR, ma perché quest’ultimo ha completamente tralasciato di affrontare la vera domanda proposta, onde vi fu il chiesto, ma non v’è mai stato alcun pronunciato.

Anche in questi casi, peraltro, è opportuno chiarire che l’omessa pronuncia o il difetto assoluto di motivazione, per poter determinare la nullità della sentenza ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 105 c.p.a., devono essere valutati e apprezzati con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso, e non in maniera parcellizzata o frammentata, facendo riferimento ai singoli motivi o alle singole domande formulate all’interno di esso.

Anche sotto tale profilo da ultimo evidenziato, deve osservarsi che l’ordinanza di rimessione, nel prospettare come causa di rinvio ex art. 105 l’omesso esame della domanda risarcitoria, non considera l’impossibilità di frazionare il presupposto e gli effetti del rinvio.

In altre parole, si prospetta una nullità della sentenza, ma solo in parte qua, ossia per l’omesso esame o il totale difetto di motivazione su una domanda risarcitoria non autonoma, ma strettamente dipendente da quella, poi accolta, d’annullamento. Ha ragione la Sezione remittente ad inferire la grave patologia della sentenza che non ha esaminato tale domanda pur a fronte della statuita illegittimità dell’atto; l’ordinanza, tuttavia, non può esser seguita quando, in base a tal inferenza, concludeper il rinvio di quest’ultima parte dell’azione nel complesso spiegata dal sig. Chiarella al TAR stesso. Infatti, se l’integrale violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato può rientrare nei casi in cui il principio devolutivo cede il passo al principio del doppio grado di giudizio, ciò può avvenire solo se il profilo di nullità nei termini sopra chiariti –omesso totale esame della domanda azionata o motivazione inesistente- coinvolga la sentenza nella sua interezza; mentre sarebbe davvero incongruo ipotizzare, sul piano dell’economia del giudizio e della sua ragionevole durata, un rinvio limitato alla parte di giudizio relativo all’azione su cui non vi è stata pronuncia (nella specie, la domanda risarcitoria connessa all’azione di annullamento) con contestuale sospensione della parte di giudizio su cui si è esplicato appieno il doppio grado.

11. - Deve in conclusione il Collegio enunciare, rispondendo all’ordinanza di rimessione, i seguenti principi di diritto, che possono esser in tal modo riassunti:

a) In coerenza con il generale principio dell’effetto devolutivo/sostitutivo dell’appello, le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall’art. 105 Cod. proc. amm. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive.

b) La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, anche quando si sia tradotta nella mancanza totale di pronuncia da parte del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente, non costituisce un’ipotesi di annullamento con rinvio; pertanto, in applicazione del principio dell’effetto sostitutivo dell’appello, anche in questo caso, ravvisato l’errore del primo giudice, la causa deve essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado.

Ai sensi dell’art. 99, co. 4, c.p.c. la decisione definitiva del ricorso è rimessa alla Sezione, alla luce dei princìpi di diritto testè enunciati e in relazione alle peculiarità del caso concreto.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), enuncia i principi di diritto di cui ai punti 11.a), 11.b) della motivazione e restituisce per il resto l’affare alla III Sezione, che definirà il giudizio nel merito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio dell’11 luglio 2018, con l'intervento dei sigg. Magistrati:

 

 

Alessandro Pajno, Presidente

Filippo Patroni Griffi, Presidente

Sergio Santoro, Presidente

Franco Frattini, Presidente

Giuseppe Severini, Presidente

Roberto Giovagnoli, Consigliere

Claudio Contessa, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere

Bernhard Lageder, Consigliere

Umberto Realfonzo, Consigliere

Silvestro Maria Russo, Consigliere, Estensore

Oberdan Forlenza, Consigliere

Massimiliano Noccelli, Consigliere

 

N. 00015/2018REG.PROV.COLL.

N. 00004/2018 REG.RIC.A.P.

N. 00003/2018 REG.RIC.A.P.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sui ricorsi riuniti
A) – NRG 4/2018 AP, proposto da Anna Nascimbene, rappresentata e difesa dagli avv.ti Roberto Damonte e Ludovico Ferdinando Villani, con domicilio eletto in Roma, via Asiago n. 8, presso lo studio dell’avv. Silvia Villani,

contro

– il Comune di Rapallo (GE), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Luigi Cocchi e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto in Roma, v.le Giulio Cesare n. 14 e
– la Città metropolitana di Genova (già Provincia di Genova), in persona del Sindaco metropolitano pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Gabriele Pafundi, Carlo Scaglia e Valentina Manzone, con domicilio eletto in Roma, v.le Giulio Cesare n. 14 e

nei confronti

– della Regione Liguria, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Michela Sommariva e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto in Roma, v.le Giulio Cesare n. 14,
– della Società mediterranea delle acque - SAM s.p.a., corrente in Genova, della Idrotigullio s.p.a., corrente in Chiavari (GE) e della IRETI s.p.a. (già IREN Acqua Gas s.p.a), corrente in Genova, in persona dei loro legali rappresentanti pro tempore, rappresentate e difese dagli avv.ti Daniela Anselmi, Giulio Bertone e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto in Roma, v.le Giulio Cesare n. 14,
– della Soprintendenza BAP per la Liguria, del Ministero per i beni e le attività culturali e il turismo - MIBACT, del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco – Com. prov.le di Genova, del Ministero dell'interno, dell’Agenzia del demanio, dell’Agenzia delle dogane, dell’Ufficio circondariale marittimo di S. Margherita Ligure e della Capitaneria di porto di Genova, in persona dei rispettivi legali rappresentante pro tempore, tutti rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12 e
– di AATO della Provincia di Genova, Comune di Zoagli, ASL n. 4 Chiavarese, Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente – ARPA Liguria, Società Acque Potabili s.p.a, Telecom Italia s.p.a., ITALGAS s.p.a., ENEL s.p.a. e dell’Agenzia delle Dogane – sede di Genova, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, nonché di Angelo Canepa, Silvia Soppa, Enzo Luppi, Luigi Abrescia ed Anna Piccirillo, non costituiti in giudizio;


 

B) – NRG 3/2018 AP, proposto da i sigg. Franca e Pierluigi Ottonello, Angelo Gobbi, Elisa Maria Devoti, Alessia Bertuzzi, Bruno Giambarrasi, Marina Assereto, Armanda Bottazzi, Salvatore e Nicola Pocorobba, Gianna Carla Nerazio, Raffaella Brazzini, Giacomo Maggiolo, Maria Alessandrino, Vincenzo e Francesco Guglielmo Buonanno, Fabrizia Gneis, Santina Cataudella, Salvatore Distaso, Rina Spagni, Maria Viacava, Angela Porta, Francesco Baldi, Renata Bice Marisa Ottonella, Maria Grazia Florio, Mauro e Beatrice Noberini, Edvige Masala, Giuliano Godani, Pietro Giovanni Torosani, Anna Corvi, Matteo Vanzini, Arlene Tanael, Rosalba Maria Merlino, Fenita Malatesta, Filippo Merlino, Piero Oneto, Nicoletta Arata, Roberto Travi, Roberto Venuti, Enrica Garibotto, Giancarlo Abeli, Agnese Noce, Dina Gottardi, Vanessa Di Malta, Sara Martina, Rosalia Pizzo, Angelo e Salvatore Pitarresi, Letizia Temini, Nice Panisi, Maria Angela Figari, Alfio Antonio Zanforlini, Giovanni Solari, Marco Di Mattei, Rosanna Benasso, Antonella Demattei, Luciana Macchiavello, Diego Pallavicini, Isola Assereto, Paola Malpeli, Salvatore Mantelli, Maria Mosca, Olga Macchiavello, Tiziana Rosso, Germana Dondero, Salvatore Soffietto, Bruna Rossato, Paolo Co', Gabriella Fattori, Patrizia Cioli, Angelo Brambilla, Mafalda Lertora, Daniela Colman, Maria Luisa Ardito, Alessandro Bonon, Massimo Giovanelli, Antonella Roncagliolo, Liliana Barlaro, Giobatta Tassara, Tamara Viganò, Susanna Beatrice Taverna, Kalam Abu, Marco Martini, Maria Elisabetta Arpinati, Franco Garibaldi, Ahlaya Chornohach, Cosmo Lucido, Salvatore Romeo, Maria Ratto, Caterina Valenti, Dalida Iannotta, William Cucco, Giorgio Appennini, Maria Camilla Bianchi, Debora Fraccaroli, Mauro Barra, Giovanni Lattanzio, Silvana Taietti, Sergio Vanzini, Paola Camerini, Daniele Romualdo Vigorelli, Maria Angela Fasani, Patrizia Vigorelli, Claudia Camboni, Rina Cortellazzi, Iris Manzo, Luisa Chichizola, Anna Maria Begagli, Giorgio Allegri, Everardo Amati, Placido Mariani, Luisa Roncagliolo, Virgilio Mariani, Giulia Fornaciari, Rosa Grande, Rita Palmas, Giancarlo Sacchetti, Alessandro Sacchetti, Vincenza Spatafora, Maria Baldi, Maria Era, Sergio Baldi, Antonella Mascardi, Erika Vanzini, Elisa Pelosin, Carlos Humberto Popoli, Pierluigi Biagioni, Klodian Zemblaku, Ugo Achille Sampietro, Viorica Bicazan, Daniele Malmusi, Mirella De Franceschi, Maria Protti, Giuseppina Drisaldi, Donatella Deferrari, Andrea Introini, Piergiosué Guerini, Alberto Biffi e Roberto Volvera, tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Daniele Granara e Federico Tedeschini, con domicilio eletto in Roma, l.go Messico n. 7,

contro

il Comune di Rapallo, come sopra rappresentato, difeso ed elettivamente domiciliato e

nei confronti

– della Città metropolitana di Genova (già Provincia di Genova), come sopra rappresentata, difesa ed elettivamente domiciliata,
– della Regione Liguria, come sopra rappresentata, difesa ed elettivamente domiciliata,
– di SEM s.p.a. , di Idrotigullio s.p.a. e IRETI s.p.a., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, come sopra rappresentate, difese ed elettivamente domiciliate,
– della Soprintendenza BAP per la Liguria, dell’Agenzia del demanio, dell’Agenzia delle dogane e del Provveditorato interregionale OO. PP. Lombardia/Liguria, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12 e
– di ASL n. 4 Chiavarese, Corpo nazionale dei Vigili del fuoco - Com. prov.le di Genova, AATO della Provincia di Genova, Legambiente Liguria, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, nonché dei sigg. Angelo Canepa, Silvia Soppa, Enzo Luppi, Luigi Abrescia, Anna Piccirillo ed Anna Nascimbene, non costituiti in giudizio,

per la riforma

della sentenza breve del TAR Liguria, sez. I, n. 585/2013, resa tra le parti sull’approvazione del progetto preliminare, nonché per la localizzazione e la realizzazione di un impianto di depurazione in Rapallo, loc. Ronco;

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di Rapallo, della Città metropolitana di Genova e della Regione Liguria, nonché della SEM s.p.a. e degli altri soggetti meglio elencati in premessa;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore all'udienza pubblica del 13 giugno 2018 il Cons. Silvestro Maria Russo e uditi altresì, per le parti, gli avvocati Damonte, Anselmi (per sé e per delega dell’avv. Cocchi) e Pafundi.

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

 

 

FATTO e DIRITTO

1. – La sig.ra Anna Nascimbene dichiara d’esser proprietaria in Rapallo (GE) d’un immobile sito al v.le Torino, in prossimità della loc. Ronco, che fu scelta dal Comune di Rapallo per localizzarvi un impianto per il trattamento, sia primario che secondario, di acque reflue.

La sig.ra Nascimbene rende noto altresì che il Comune di Rapallo è sì dotato attualmente d’un impianto per la depurazione delle acque (trattamento primario), ma ormai obsoleto e non più adatto alla vigente disciplina eurocomunitaria per la tutela delle acque.

Il Comune di Rapallo, volendo costruire un nuovo impianto di potenziamento di detto depuratore, affidò al soggetto Gestore del SII (IREN Acqua e Gas s.p.a.) ed alla sua impresa operativa di zona (Società mediterranea delle Acque s.p.a.) di redigere la relazione di screening, al fine d’individuare l'area più idonea a ospitarlo, all’uopo fissando vari ed articolati criteri. In esito a tal incarico, il Gestore individuò nel sito di via Betti quello con le caratteristiche più acconce per ospitare, accanto all’impianto già esistente, anche quello secondario. Sicché, con delibera n. 126 del 26 marzo 2010, la Giunta comunale di Rapallo approvò il progetto preliminare redatto dalla SMEA s.p.a. e, con la delibera n. 223 del 28 settembre successivo, il Consiglio comunale approvò un ODG, ritenendo l'intervento stesso avente carattere d'urgenza.

2. – Accadde che, con delibera consiliare del 6 aprile 2011, il Comune di Rapallo, senza con ciò revocare la delibera n. 223/2010, manifestò la "volontà politica" di mantenere l'impianto di via Betti per il solo uso in caso di emergenza e di procedere alla realizzazione ex novo di un impianto di trattamento primario e secondario delle acque reflue in loc. Ronco.

La delibera n. 223 fu poi modificata dalla delibera consiliare n. 275 del 20 luglio 2011, con la quale fu adottata la relativa variante al PRG (peraltro condizionata all’approvazione a sua volta della variante, d’iniziativa regionale, al PTCP, allora in itinere) ed alle NTA per l’area della loc. Ronco. La delibera stessa approvò il progetto preliminare denominato «Completamento del depuratore acque reflue del Comune di Rapallo in località Ronco», redatto dal Gestore del SII. Sennonché, nell’area d’intervento la realizzazione del nuovo impianto non era possibile, in quanto contrastava con la disciplina di zona del vigente PTCP, che l’aveva classificata come PU - Parco Urbano, assoggettandola al regime della conservazione.

Intervenne allora la delibera n. 18 del 2 agosto 2011, con cui il Consiglio regionale approvò la variante di salvaguardia della fascia costiera del PTCP, prevedendo lo stralcio dell'area di Ronco dal regime di conservazione PU, riclassificandola come area IS-MA. Tuttavia, nemmeno così sarebbe stata possibile la localizzazione d’un impianto di depurazione come quello voluto dal Comune. Ciò nonostante, col decreto n. 3931 del 30 dicembre 2011, il Dirigente del Settore VIA della Regione, in esito all’apposita procedura di screening, escluse, con varie prescrizioni, il progetto preliminare di tal impianto dalla soggezione a VIA.

In relazione a ciò, la sig.ra Nascimbene venne a conoscenza della pendenza presso il TAR Liguria del ricorso NRG 684/2011, promosso dalla sig.ra Franca Ottonello e consorti avverso gli atti testé citati, spiegandovi un intervento ad adiuvandum.

La sig.ra Nascimbene, acceduta agli atti de quibus, prese conoscenza pure della determina dirig. n. 600 del 25 giugno 2012 (in BUR Liguria del successivo 18 luglio), che concluse il procedimento in conferenza di servizi, con contestuale approvazione del progetto preliminare del nuovo depuratore in loc. Ronco.

3. – Avverso tali provvedimenti la sig.ra Nascimbene è insorta innanzi al TAR Liguria, col ricorso NRG 1052/2012, deducendo in punto di diritto 24 articolati motivi di gravame contro la determina n. 600/2012 ed uno contro la determina n. 664/2012.

Dal canto loro, anche la sig.ra Franca Ottonello e consorti, nella qualità di proprietari di immobili o di residenti nella loc. Ronco, avevano già proposto al medesimo TAR il ricorso NRG 684/2011, articolato in un gravame introduttivo ed in quattro atti per motivi aggiunti, nonché il ricorso NRG 1107/2011, a sua volta articolato nel gravame introduttivo ed in tre atti per motivi aggiunti.

L’adito TAR, con sentenza n. 585 dell’8 aprile 2013 e previa riunione del ricorso Nascimbene NRG 1052/2012 coi ricorsi NRG 694/2011 e NRG 1107/2011, li ha tutti dichiarati inammissibili, essendo stati rivolti contro gli atti d’approvazione di un progetto preliminare di opera pubblica, di per sé solo atto non autonomamente impugnabile in quanto non immediatamente lesivo della sfera giuridica dei soggetti interessati.

Ha appellato la sig.ra Nascimbene, col ricorso NRG 5533/2013, deducendo l’erroneità della sentenza gravata anzitutto nella parte in cui ha pronunciato l'inammissibilità del ricorso di prime cure. Al riguardo, l’appellante riferisce come il TAR abbia rammentato l’immediata impugnabilità del progetto preliminare ove esso contenga statuizioni direttamente lesive della sfera giuridica dei destinatari e come, al contempo, abbia ritenuto inapplicabile nella specie tal principio poiché «… nulla viene dedotto in concreto né provato nella specie…». L’appellante precisa sul punto d’aver evidenziato invece l’effetto lesivo derivante direttamente dall’approvazione del progetto preliminare del nuovo depuratore, consistente nell’allocazione di tale nuovo impianto in un sito precisamente individuato e ad una distanza assai vicina alla propria abitazione. Siffatta è un aspetto che non può esser modificato col progetto definitivo, né con quello esecutivo, donde l’interesse immediato e diretto a gravarsi contro tal statuizione. Nel merito, l’appellante ribadisce tutti i motivi d’illegittimità degli atti impugnati in primo grado, trascrivendone il contenuto nel ricorso in appello.

Hanno appellato quindi la sig.ra Ottonello e consorti, col ricorso NRG 8589/2013, deducendo pure essi l’erroneità di detta sentenza sotto molteplici profili, simili a quelli testé proposti con l’appello della sig.ra Nascimbene.

4. – Questo Consiglio (IV sez.), con la sentenza parziale n. 2122 del 5 aprile 2018, ha anzitutto riunito i due citati appelli. Quindi ha disatteso l’eccezione, sollevata dalle parti resistenti, d’improcedibilità dell’appello per sopravvenuta carenza d’interesse, a seguito della medio tempore intervenuta approvazione del progetto definitivo del depuratore, disposta con la determina comunale n. 680 del 10 luglio 2014. Giova precisare che anche tal provvedimento è stato impugnato dinanzi al TAR Liguria da parte degli odierni appellanti, in una con i nuovi atti di approvazione progettuale. In quella sede son state riproposte le medesime censure già spese contro gli atti oggetto dell’odierno gravame e, con iterazione dell’impugnazione, pure avverso questi ultimi, in quanto atti presupposti.

4.1. – Sul punto, la Sezione remittente ha precisato, per un verso e al di là della normativa ratione temporis applicabile —giacché la disciplina dell’attività di progettazione è di fatto immutata e continua ad articolarsi, sotto il profilo procedimentale, nei tre successivi livelli di progettazione (preliminare, definitiva ed esecutiva) con progressivo approfondimento tecnico—, che il sistema è congegnato in modo che le scelte della fase progettuale precedente condizionino quelle della fase successiva sotto i profili sia della legittimità che del merito.

Per altro e connesso verso, ciascun progetto è presupposto dal precedente, tant’è che è consentita l’omissione d’uno dei primi due livelli di progettazione, ma solo se il livello successivo contenga tutti gli elementi previsti per il livello omesso e ne siano garantiti i requisiti di legge. Pertanto, ove si dovessero rivelare fondati i gravami esperiti contro il progetto preliminare, in virtù di tal nesso procedimentale, l’annullamento determinerà effetti caducanti a valle, ossia sulla approvazione del progetto definitivo, poiché verrà a mancare –sul piano logico giuridico– il livello progettuale presupposto, solo il quale può consentire il perfezionamento della fattispecie.

La Sezione rammenta al riguardo il principio (cfr. Cons. St., VI, 27 novembre 2012 n. 5986; ma più di recente cfr. id., V, 10 aprile 2018 n. 2168) in virtù del quale, per ben distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante, occorre valutare «… l'intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento dell'effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi”…».

Ad avviso della Sezione, la controversia in esame, se ha ad oggetto un livello di progettazione sì preliminare, ma contenente, in parte, effetti tipici del livello progettuale successivo, delinea un caso d’invalidità caducante, onde l’eventuale travolgimento dell’atto presupposto (l’approvazione del preliminare), farebbe venir meno subito e necessariamente quello definitivo, privato di quei contenuti (gli effetti edilizi e paesaggistici) cristallizzati al livello progettuale precedente e non rinnovati, se non in senso meramente confermativo, nel successivo livello.

La tesi di fondo della sentenza di rimessione è che, nell'ambito della serie procedimentale degli atti per l’approvazione del citato progetto preliminare dell’opera, vi sia stata quella perturbazione dell'iter procedimentale tale da far assumere a tal progetto, sia pur in parte, caratteristiche proprie della progettazione definitiva. In tal caso, la relativa statuizione sarebbe capace d’incidere in via immediata e diretta sui beni dei proprietari privati viciniori al sito d’allocazione dell’opera e, quindi, da esser lesive nei loro confronti. Da ciò discenderebbe l’impugnabilità e, al contempo, l’interesse degli odierni appellanti a far constare in via d’azione l'illegittimità di tal progetto preliminare, altrimenti non autonomamente impugnabile (cfr., per tutti questi passaggi argomentativi, Cons. St., II, 14 aprile 2011 n. 2367, citato in sentenza; nonché id., 2 settembre 2014 n. 5035).

5. – Tutto ciò premesso, nel merito, la sentenza n. 2122/2018 pone all’Adunanza plenaria le quattro questioni qui di seguito indicate:

«… a) se alle ipotesi di annullamento con rinvio di cui all’art. 105 c.p.a. debba attribuirsi portata tassativa ovvero natura di clausola generale suscettibile di essere riempita, nel contenuto, attraverso l’elaborazione giurisprudenziale;

a.1) nel primo caso, quali siano le ipotesi di annullamento con rinvio da intendersi come tassative; a.2) nel secondo caso, quali siano i criteri che devono guidare il giudice nell’attività di interpretazione dei fatti processuali, onde qualificarli come cause di annullamento con rinvio;

b) se, alla luce della nuova nomenclatura contenuta nel vigente art. 105 c.p.a., l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse debba (o possa) essere ricompresa nella categoria della lesione dei diritti della difesa, come perdita del (normativamente previsto) doppio grado di giudizio nel merito, con conseguente annullamento della sentenza con rinvio al primo giudice;

c) anche a prescindere da tale ultima soluzione, se ed entro quali limiti e secondo quali criteri possa riconoscersi al giudice di secondo grado il potere di sindacare il contenuto della motivazione dell’impugnata sentenza, al fine di riqualificare il (formale) dispositivo di declaratoria di inammissibilità per carenza di interesse in un (sostanziale) accertamento della violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) o dell’obbligo di motivazione (artt. 74 e 88 c.p.a.), intesa - questa - come elemento essenziale della sentenza, rispetto all’oggetto del processo;

b.3) [in realtà d) – NDE] se dette ultime ipotesi costituiscano (o a quali condizioni possano costituire), rispettivamente, lesione dei diritti della difesa o ipotesi di nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a.…».

5.1. – Ora, la Sezione remittente, per giungere a formulare siffatti quesiti dianzi elencati, si chiede quali siano le conseguenze sul piano processuale, in generale e con riguardo all’art. 105 c.p.a.

In particolare, dubita della tradizionale inapplicabilità di quest’ ultima disposizione ai casi in cui un’erronea pronuncia in rito del TAR, idonea sì a definire il giudizio ma senza pervenire al merito, possa dar luogo ad un vizio tale da imporre invece la rimessione della causa al primo grado e, allo stesso tempo, precluda la (mera) riforma della sentenza da parte del Giudice d’appello. La Sezione in linea di massima e salvo gli approfondimenti successivi reputa che, a differenza dell’art. 354 c.p.c. —in cui le ipotesi di rimessione al primo Giudice sono non solo tassative ma anche ben definite—, l’art. 105 c.p.a. indica sì ipotesi indubbiamente tassative di rinvio della causa al TAR (significativo al riguardo è l’uso dell’avverbio «soltanto»), ma con una tecnica d’individuazione dei relativi casi fondata, in parte, su clausole “aperte”. I contenuti di detta norma dovrebbero allora esser ben definiti da questo Giudice con caratteri di sufficiente chiarezza, al fine d’evitare, in giurisprudenza, quell’incertezza ed imprevedibilità degli esiti, nocive in materia processuale.

Tre sono le questioni problematiche ravvisate:

a) il rapporto tra l’erronea declaratoria d’inammissibilità del ricorso e la possibile lesione dei diritti della difesa, nel senso che le parti sono deprivate del doppio grado di giudizio, nel merito;

b) il rapporto tra l’erronea declaratoria d’inammissibilità del ricorso e la possibile violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato;

c) il rapporto tra l’erronea declaratoria d’inammissibilità del ricorso e la possibile violazione dell’obbligo di motivazione della sentenza.

5.2. – Alcune precisazioni preliminari di metodo e di carattere generale s’impongono, per meglio chiarire il pensiero del Collegio circa le varie e complesse questioni poste all’esame dell’Adunanza plenaria.

Quanto alle questioni sulla portata applicativa dell’art. 105, poste da altre Sezioni, esse sono state esaminate con altra pronuncia ispirata a una rigorosa delimitazione dell’ambito oggettivo della menzionata disposizione, con riferimento, peraltro, a quesiti e vicende differenti dalla questione oggi in esame.

Al riguardo, è appena da rammentare, anche alla luce dell’art. 44, co. 1 della l. 18 giugno 2009 n. 69, come l’art. 105 c.p.a. sia sostanzialmente omeomorfo agli artt. 353 e 354 c.p.c., non solo per ragioni semantiche, ma soprattutto perché la riforma del processo amministrativo ha provveduto ad “… adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori” ed a “coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di princìpi generali…”.

Ecco, la struttura ed il significato dell’art. 105 esprimono, fatte le debite differenze, concetti e valori propri dell’ordinamento generale, nella tendenziale unitarietà del processo, pur nelle sue definite e differenti declinazioni. Questi valori e concetti provvedono a delineare un sistema tendenzialmente comune ed unitario del processo, specie oggi che (cfr. i principi delineati da Cons. St., ad. plen., 29 luglio 2011 n. 15) il c.p.a., nel dar attuazione armonica ai principi costituzionali e comunitari in materia di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale previsti nella delega legislativa di cui alla l. 69/2009, supera la tradizionale limitazione della tutela dell'interesse legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo la esperibilità di azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa.

Si ha così un’unitaria regolazione per principi, nella specie quello per cui la sentenza d’appello si sostituisce alla sentenza di primo grado ed il giudice di appello decide nel merito, anche quando rileva un vizio del procedimento o della sentenza di primo grado, qualora, sia pur errando, il Giudice di prime cure abbia esaurito la sua potestà decisoria.

La rigidezza dei casi di rimessione al primo giudice serve, in tutti i giudizi a duplice grado, a limitare la discrezionalità dell’interprete nell’“invenzione”, nel senso proprio di rinvenimento, di fattispecie ulteriori (cioè, diverse e distinte da tutti i casi implicati) di regressione dall’appello al primo grado, la tassatività delle categorie esistenti essendo indubbia pure per la remittente.

Sicché la pronuncia che dichiara erroneamente l’irricevibilità, l’inammissibilità o l’improcedibilità di un ricorso giurisdizionale, consuma il potere decisorio da parte del primo Giudice e, stante l’effetto devolutivo dell’appello, impone al secondo Giudice, una volta riscontrato tale error in iudicando, di pronunciarsi nel merito. È, questo, un orientamento consolidato, certo a partire dalla sentenza che l’Adunanza plenaria resa nel 1978 (cfr. Cons. St., ad. plen., 30 giugno 1978 n. 18): già quarant’anni fa, essa aveva precisato che, quando il Giudice abbia erroneamente definito il giudizio dichiarando inammissibile o improcedibile il ricorso, «…in tale ipotesi il vizio fatto valere investe soltanto il contenuto della pronunzia impugnata e non il processo che ha condotto alla sua emanazione…». Si tratta d’un principio che non v’è ragione di rimettere in discussione nel suo impianto, nemmeno, anzi proprio alla luce del dato normativo dell’art. 105 c.p.a., ben più preciso e compiuto rispetto alla formulazione dell’art. 35 dell’abrogata l. 1034/1971.

Esiste, peraltro, un orientamento giurisprudenziale alla stregua del quale tali erronee pronunce sul rito potrebbero essere considerate nel contenuto e nell’effetto, a guisa di pronunce declinatorie della giurisdizione.

Tale modo di pensare non coglie, peraltro, le implicazioni dirette della questione, ossia la ricorribilità per cassazione di tali pronunce ed una non appropriata considerazione del principio del doppio grado. Quanto al primo aspetto, pare sufficiente considerare che, anche nella pacifica giurisprudenza della Corte regolatrice, non si è mai affermato che l’erronea statuizione sulla inammissibilità o improcedibilità possa dar luogo a un’errata pronuncia sulla giurisdizione ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 della Costituzione. In ordine al secondo aspetto, si deve osservare che il Giudice di primo grado, nel ritenere la sussistenza d’una ragione che escluda la delibazione d’una controversia nel merito, non ha abdicato alla sua potestas iudicandi, ma ha valutato, per quanto erroneamente, che ricorra una questione preliminare o pregiudiziale idonea a definire il giudizio avanti a sé.

E un giudizio può, com’è noto, esser definito con l’accoglimento d’una questione, preliminare o pregiudiziale, che impedisce l’esame nel merito, in quanto non è vero che la parte abbia diritto sempre e comunque ad un doppio grado nel merito, ove al merito non si possa giungere (si pensi, p. es., a tutte le preclusioni o decadenze in cui s’incorre per la violazione di termini processuali).

Il doppio grado nel merito costituisce, infatti, il punto di arrivo –eventuale– del processo, non la sua premessa necessaria e indefettibile. Il bene al quale aspira la parte ed al quale tende il giudizio è il giudicato sulla sua pretesa. Il passaggio attraverso più gradi di giudizio è il veicolo, peraltro non sempre necessario (si pensi, p. es., ai casi di unico grado di giudizio avanti al Consiglio di Stato), il quale conduce a questo risultato, verso la stabilità della cosa giudicata (art. 2909 c.c.).

6. – Tali premesse possono orientare la risposta da fornire al quesito sub a), che ha valenza generale ed impone il predetto lavoro di chiarificazione.

Esso chiede se, nel passaggio dal previgente art. 35 della l. 1034/ 1971 all’attuale art. 105 c.p.a., la casistica delle pronunce di questa Adunanza plenaria, sulla distinzione tra i casi di mera riforma della sentenza appellata e quelli che implicano l’annullamento della sentenza con rinvio al TAR, non sia da rivedere ed ampliare affinché non possano rientrare in questa seconda categoria pure i casi d’erronea declaratoria d’inammissibilità, irricevibilità o decadenza del ricorso pronunciate in primo grado.

Dice la Sezione remittente d’esser ben consapevole che tal revisione sia delicata, a cagione del dato testuale e, soprattutto, della sua ratio juris, ossia il non facilmente raggiunto punto d’equilibrio, nel redigere il c.p.a., tra il principio (in sé non assoluto e non costituzionalizzato, ma non anche per la Giustizia amministrativa, almeno in senso ascendente: cfr. C. cost., 1° febbraio 1982 n. 8; Cons. St., V, 27 gennaio 2014 n. 401) del doppio grado di giurisdizione di merito ed il principio (questo sì tout court costituzionalizzato) della ragionevole durata del giudizio e dell’economicità dei mezzi di impugnazione.

Se si vuole privilegiare una lettura rigida del principio del doppio grado del giudizio nel merito, si onera la parte vittoriosa (in apparenza) a tornare avanti al primo Giudice, dopo l’annullamento con rinvio. Tal vicenda ha in sé un costo, che appare accettabile nei casi indicati espressamente nell’art. 105, co. 1 qual rimedio contro il ben più oneroso mantenimento di gravi patologie della sentenza di primo grado. Ma, se la si riferisce a tutti i casi (rimanendo infatti difficile graduare l’“intensità” di tal errore) di erronea declaratoria d’inammissibilità o d’improcedibilità, costringe la parte stessa ad un nuovo lungo e defatigante percorso tra primo e secondo grado.

Si ricordi in proposito che Corte Cost. n. 77/2007 ha indicato nel principio di ragionevole durata del processo un significativo parametro interpretativo per le norme processuali.

L’Adunanza Plenaria sottolinea del resto che già l’Adunanza generale del Consiglio di Stato, nel parere n. 236/94 del 6 ottobre 1994 sullo schema di disegno di legge per la riforma del processo amministrativo, suggerì l’abrogazione dell’art. 35 della l. 1034/1971, con l’obbligo, una volta riformata la sentenza impugnata, di decidere «sempre senza rinvio», in modo da «… evitare che il Consiglio di Stato annulli con rinvio, prolungando così il giudizio di altri due possibili gradi…». In modo analogo l’Adunanza generale aveva osservato, già col parere n. 16/89 dell’8 febbraio 1990 su analogo disegno di legge di riforma, che «l’annullamento con rinvio presenta l’inconveniente di dar luogo a quattro gradi di giudizio, oltre a mantenere in vita la distinzione tra vizi di procedura che possono, oppure no, dar luogo a rinvio».

Ebbene, questi antichi richiami, per un verso, dimostrano il tendenziale rifiuto di estendere l’art. 105 oltre ai casi che, con prudente ragionevolezza, già gli arresti della giurisprudenza hanno voluto ricondurvi. Per altro verso, fanno emergere il paradosso derivate dal “diritto” della parte, garantito costituzionalmente, ad un doppio grado del giudizio amministrativo nel merito, nel senso che la stessa norma sulla riproposizione dei motivi, non esaminati o assorbiti dal primo Giudice e sul loro esame solo da parte del secondo Giudice (art. 101, co. 2, c.p.a.), potrebbe per qualche aspetto porsi in violazione degli artt. 24, 103, 111, 113 e 125 Cost.

Al contrario, la corretta interpretazione dell’art. 101, co. 2 c.p.a. conferma la soluzione che l’Adunanza plenaria ritiene preferibile. Infatti, lo stesso articolo 101, comma 2, c.p.a. stabilisce che per le parti diverse dall’appellante principale la riproposizione delle domande non esaminate (o assorbite) può avvenire anche con semplice memoria difensiva, senza necessità di appello incidentale. Viene, in tal modo codificato, un indirizzo interpretativo che la giurisprudenza amministrativa aveva affermato anche prima dell’entrata in vigore del Codice, sul presupposto che in caso di omessa pronuncia su una specifica ed autonoma domanda (che implica la violazione della regola della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato) l’appellato – risultato vittorioso in ordine ad una domanda – non è costretto a cominciare ex novo un giudizio di primo grado e non è tenuto a proporre una formale impugnazione incidentale, perché manca il presupposto della soccombenza, e può, quindi, riproporre in grado di appello la domanda non esaminata, mediante uno scritto difensivo che la richiami esplicitamente e superi la presunzione di rinuncia (in questi termini cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 20 dicembre 2002, n. 8, che aveva già ritenuto applicabile l’art. 346 Cod. proc. civ., contenente una previsione analoga a quella ora inserita nell’art. 105, comma 2, Cod. proc. amm.).

La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato non è, quindi, equiparabile ad una ipotesi di violazione del diritto di difesa: in questo caso, infatti, la parte non lamenta di non essersi potuta difendere nel corso del procedimento, ma lamenta un vizio che attiene al contenuto della decisione, che risulta incompleto rispetto ai motivi o alle domande proposte.

Diverso può essere il caso -la cui individuazione determinerebbe la regressione della causa al primo giudice- in cui manchi del tutto la pronuncia sulla domanda o il giudice pronunci su diversa domanda, ovvero sulla domanda fatta valere in giudizio il giudice di primo grado abbia pronunciato con motivazione inesistente o apparente.

In questi casi –i cui termini sono stati chiariti da questa Adunanza plenaria con le decisioni n. 10 e n. 11/2018, assunta all’esito della medesima udienza pubblica in cui è stata decisa la presente causa–, la rimessione al primo giudice si riscontra in ragione del ricorrere della fattispecie della nullità della sentenza, perché priva degli elementi minimi idonei a qualificare la pronuncia come tale.

6.2. – Costituisce un falso problema, già alla luce della esperienza maturata nel vigore dell’art. 35, l. 1034/1971, ed a più forte ragione grazie all’attuale formula del citato art. 105, co. 1, quello per cui le clausole contenute in esso siano “aperte”, anziché “chiuse” rispetto all’art. 354 c.p.c.

Anzitutto, affidare l’individuazione di una regola di procedura a clausole “aperte” o “indeterminate” è operazione incompatibile con quella già accennata esigenza di certezza e di prevedibilità che, in particolare nella materia processuale, dev’essere assicurata al più alto livello possibile.

In secondo luogo e tralasciando il caso contemplato nell’art. 353 che concerne il rinvio al primo Giudice nei casi di erronea declaratoria sulla giurisdizione, l’art. 354 dispone che «… (1) Fuori dei casi previsti nell'articolo precedente, il giudice di appello non può rimettere la causa al primo giudice, tranne che dichiari nulla la notificazione della citazione introduttiva, oppure riconosca che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte, ovvero dichiari la nullità della sentenza di primo grado a norma dell'articolo 161 secondo comma. (2) Il giudice d'appello rimette la causa al primo giudice anche nel caso di riforma della sentenza che ha pronunciato sulla estinzione del processo a norma e nelle formedell'articolo 308…».

Ebbene, ad una loro serena lettura, la differenza tra i tre articoli citati è che l’art. 105, co. 1 è enunciato solo in forma di obbligo di rimessione se accadono taluni eventi (dato l’evento, allora la rimessione), mentre gli artt. 353 e 354 formulano un divieto di rimessione o quando non accadono gli eventi stessi (se non c’è l’evento, allora l’effetto sostitutivo dell’appello) o, a seconda dei casi, quando uno di tali eventi accade. Le formule son diverse o miste, il risultato è identico (dato l’evento, si ha rimessione), tant’è che è stata superata e non più riprodotta la clausola di chiusura ex art. 35, III co. della l. 1034/1971 («… In ogni altro caso, il Consiglio di Stato decide sulla controversia…»), di fatto ormai superflua.

Non serve più di tanto discettare quindi se fosse stata possibile una diversa formulazione dell’art. 105, co. 1 o se esso sia stato, o no, in sede di redazione del Codice, una sorta di compromesso tra i citati principi costituzionali e si sia ispirato agli artt. 353 e 354 c.p.c. In realtà, l’una disposizione e le altre sono omeomorfe per espressa volizione dell’art. 44, co. 1 della l. 18 giugno 2009 n. 69. La riforma del processo amministrativo ha dovuto «… adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori (e) di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di princìpi generali…».

Ciò vuol dire che la struttura ed il significato dell’art. 105 esprimono concetti e valori condivisi, già ancor prima dell’emanazione del Codice, nell’ordinamento generale e nell’unitarietà del processo, pur nelle definite e differenti declinazioni di questo. Si ha così non già un insieme disorganico di tante discipline separate quante sono le leggi processuali, ma un’unitaria regolazione per principi, tra cui quello in virtù del quale la sentenza di appello si sostituisce alla sentenza di primo grado ed il Giudice di appello decide nel merito. E tutto ciò pure quando il Giudice d’appello rilevi un vizio del processo o di detta sentenza laddove, sia pur errando, il Giudice di prime cure abbia esaurito la sua potestà decisoria, tanto nel processo civile, quanto in quello amministrativo.

In particolare, la terza proposizione dell’art. 105, co. 1 coincide con l’ultima proposizione del I co. dell’art. 354, proprio per il caso di nullità della sentenza di cui all’art. 161, II c., c.p.c. Il significato di quest’ultimo è di rendere inapplicabile la regola di conversione delle cause di nullità in motivi d'impugnazione, non solo per l’omessa sottoscrizione della sentenza, ma anche in vari e molteplici casi di grave patologia di quest’ultima.

S’avrà, dunque, che in entrambi i regimi processuali, siffatte patologie [sentenza con dispositivo assurdo, incomprensibile o incerto; sentenza emessa nei confronti di parti inesistenti o decedute prima dell'instaurazione del giudizio; sentenza pronunciata a non judice; sentenza resa da un collegio giudicante illegittimamente composto (cfr. Cons. St., ad. plen., 19 luglio 1982 n. 13, per cui era da assimilare al caso di nullità della sentenza, per difetto di sottoscrizione del Giudice, ogni altro caso di nullità della sentenza di primo grado derivante dalla violazione delle norme che prescrivono per tale atto giurisdizionale determinati requisiti di forma, ovvero da difetti di carattere sostanziale, tra cui quello dipendente dall’irregolare costituzione del giudice, la sentenza sottoscritta da parte di giudici diversi da quelli avanti ai quali si è svolta la discussione o dal solo presidente non relatore, ecc.)] coprono una vasta congerie di fattispecie non tipizzate a priori, ma evidenziate grazie ad una appropriata lettura, da parte dell’interprete, sulle garanzie dell’integrità della sentenza.

Non v’è, quindi, un dato testuale che abiliti l’interprete a sfuggire da una tassatività del rinvio al primo Giudice, che condivide non solo il principio generale d’eccezionalità della regressione della causa al grado inferiore, ma pure un insieme di presupposti ben definiti e non altrimenti valutabili (e, dunque, neppure estensibili a vicende che ontologicamente ne divergano).

6.3. – Questo concetto non collide affatto col principio reso dall’Adunanza plenaria (cfr. Cons. St., ad. plen., 27 ottobre 1987 n. 24, citata nella sentenza di rimessione), che tuttavia va contestualizzato con riguardo alla struttura, quella sì aperta, dell’art. 35 della l. 1034/1971: non a caso la Sezione remittente ha definito tal arresto il culmine dell’elaborazione pretoria sull’istituto.

Ora, l’art. 35 imponeva al Consiglio, per un verso (I co.) ed in caso di accoglimento del «… ricorso per difetto di procedura o per vizio di forma della decisione di primo grado… (di annullare)… la sentenza impugnata e rinvia(re) la controversia al tribunale amministrativo regionale…» e, per altro verso (II co.), di rinviare al primo grado «… anche quando il Consiglio di Stato accoglie il ricorso contro la sentenza con la quale il tribunale amministrativo regionale abbia dichiarato la propria incompetenza…».

A quel tempo, l’Adunanza plenaria, nel definire il rapporto tra le norme speciali del processo amministrativo e l’applicazione analogica di quelle specifiche e tassative previste per il processo civile, aveva messo in risalto la diversità tra le due tecniche legislative, collegata alla differenza strutturale dei due processi. L’Adunanza affermò la natura aperta e di clausola generale della formula prevista per il giudizio amministrativo, perché in quel tempo si poté predicare lecitamente che il paragone con l’art. 354 c.p.c. fosse sì consentito nel quadro di un’interpretazione armonica e coordinata dell’ ordinamento giuridico, ma non poteva essere rigido e meccanico. La ragione è ben chiara: come ancor oggi accade in base al rinvio esterno ex art. 39 c.p.a., l’applicazione analogica delle norme della procedura civile non operava né quando nel sistema della giustizia amministrativa vi fosse stata già una norma espressa, né soprattutto perché l’istituto dell’annullamento con rinvio, appunto per la tecnica legislativa adoperata nella legge n. 1034, era stata fondata su una clausola generale e aperta. Sicché l’art. 35, a quel tempo, era, o comunque così fu reputato, idoneo ad essere riempito di contenuti ad opera dell’interprete e, quindi, tale da consentire il riconoscimento in via pretoria di ulteriori ipotesi. È da notare, peraltro, che l’oggetto del contendere, nel caso trattato dalla Plenaria n. 24/1987, fu l’erronea assunzione in decisione, da parte del TAR, d’una causa nel merito, per la quale il ricorrente aveva chiesto (e fatto constare nel verbale d’udienza) il differimento della trattazione per proporre motivi aggiunti.

Sennonché la stessa Adunanza plenaria, in una più matura riflessione (cfr. Cons. St., ad. plen., 8 novembre 1996 n. 23), affermò, da un lato, la necessità dell’annullamento con rinvio, ai sensi dell’art. 35, II co. della l. 1034/1971 (difetto di competenza, sub specie della “competenza” giurisdizionale), della sentenza con cui il TAR aveva erroneamente declinato la giurisdizione. Dall’altro lato, essa precisò che la rimessione della causa al primo giudice rivestisse il carattere di principio generale comune al processo civile e a quello amministrativo, ogni qual volta la pronuncia impugnata fosse inidonea ad esaurire il primo grado di giudizio.

Come si vede, ove più ove meno, i casi elaborati dall’Adunanza plenaria sotto la vigenza del ripetuto art. 35, furono tutti oggetto d’interpretazione implementativa di clausole generali, mai d’un tentativo d’inferirvi qualcosa che, per quanto ampie queste ultime fossero, esse non esprimessero, neppure per implicito. Cambiato il contesto storico e venutosi a creare, nel tempo, per imitazione o per l’avvertita esigenza d’una regolazione unica di istituti affini, un corpo normativo omogeneo e rigoroso tra i processi, è cessata la latitudine delle clausole del difetto di procedura e del vizio di forma della sentenza del TAR e l’art. 105, nel migliorare la concisa formulazione dei primi due commi dell’art. 35 della legge n. 1034, ha voluto rafforzare la tassatività dei casi d’annullamento con rinvio.

6.4. – Soprattutto nelle espressioni «mancanza del contraddittorio» e «lesione del diritto di difesa», che, più delle altre, hanno sollevato sospetti d’indeterminatezza, l’art. 105 individua, senza bisogno di ricorrere alla tecnica normativa sulla descrizione analitica delle singole fattispecie, un insieme chiuso, determinato e tipico di vizi.

Le formule «lesione del diritto di difesa» e «mancanza del contraddittorio», pur non costituendo un’endiadi (perché ciascuna nozione ha un suo significato autonomo che non si risolve in quello dell’altra), sono ambedue riconducibili alle menomazione del contraddittorio lato sensu inteso. In entrambi i casi è mancata la possibilità di difendersi nel giudizio-procedimento, nel senso che lo svolgimento del giudizio risulta irrimediabilmente viziato, onde il Giudice è pervenuto a una pronuncia la cui illegittimità va vista non per il suo contenuto, ma per il sol fatto che essa sia stata resa, senza che la parte abbia avuto la possibilità di esercitare il diritto di difesa o di beneficiare dell’integrità del contraddittorio. Nell’ambito di questa macro-categoria, l’ulteriore distinzione, fatta propria dal testo dell’art. 105 c.p.a., tra mancanza del contradditorio in senso stretto e violazione del diritto di difesa attiene alla natura “genetica” o “funzionale” del vizio che ha inficiato lo svolgimento del giudizio-procedimento.

Le ipotesi sono tipiche e presuppongono la violazione di norme che prevedono poteri o garanzie processuali strumentali al pieno esercizio del diritto di difesa, tra cui: a) la mancata concessione d’un termine a difesa (cfr. Cons. St., V, 12 giugno 2009 n. 3787); b) l’omesso avviso della data d’udienza (cfr. Cons. St., V, 10 settembre 2014 n. 4616; id., IV, 26 luglio 2017 n. 3683); c) l’erronea fissazione dell’udienza durante il periodo feriale (cfr. Cons. St., VI, 25 novembre 2013 n. 5601); d) la violazione dell’art. 73, co. 3, c.p.a. per aver il Giudice posto a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio e non prospettata alle parti (ex multis, Cons. St., VI, 14 giugno 2017 n. 2921; id., 19 giugno 2017 n. 2974; id., IV, 26 luglio 2017 n. 3683); e) la definizione del giudizio in forma semplificata senza il rispetto delle garanzie processuali prescritte dall’art. 60 c.p.a. (cfr. Cons. St., VI, 25 novembre 2013 n. 5601); f) la sentenza pronunciata senza che fosse dichiarata l’interruzione nonostante la morte del difensore (CGA, 10 giugno 2011 n. 409).

Dal canto suo, la «mancanza del contraddittorio» è essenzialmente riconducibile al caso in cui si sarebbe dovuto integrare il contraddittorio o non si sarebbe dovuto estromettere una parte. Il vizio è, quindi, genetico, nel senso che a causa della mancata integrazione del contraddittorio o dell’erronea estromissione, una o più parti vengono in radice e sin dall’inizio private della possibilità di partecipare al giudizio-procedimento. Peraltro, in applicazione del c.d. “principio della ragione più liquida”, l’art. 49, co. 2, c.p.a., applicabile anche nel giudizio di appello per evitare un inutile annullamento con rinvio, consente al Giudice di secondo grado di statuire pure a contraddittorio non integro, qualora il ricorso risulti manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato. Ben si vede la ragione d’economia processuale su cui si fonda tal norma e che consente di prescindere da incombenti inutili (l’integrazione del contraddittorio o il rinvio al primo Giudice affinché disponga quest’ultimo), quando le risultanze già acquisite consentano di definire il giudizio in senso sfavorevole per la parte ricorrente (v. Cons. Stato, ad. plen. 27 aprile 2015, n. 5; id., IV, 1° giugno 2016 n. 2316; CGA, 17 giugno 2016 n. 172).

Del pari, di per sé – come già detto - neppure la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato potrebbe giustificare la rimessione al primo Giudice, essendo dirimente la constatazione che, una volta che il Giudice dichiari la domanda irricevibile, inammissibile o improcedibile, la pronuncia v’è stata, ancorché vi ravvisi un ostacolo processuale che gli impedisce l’esame del merito. Ove il Giudice ometta di pronunciarvisi, normalmente vi provvede, nei limiti del principio devolutivo, il Giudice d’appello, tranne in quelle ipotesi patologiche descritte infra, al §7).

6.5. – Dice la Sezione remittente che l’art. 105, co. 1 s’ispira sì all’art. 354 (il che, come s’è visto, è vero e non sarebbe stato possibile altrimenti), ma con taluni aspetti di oscurità, se non di evidente irrazionalità, come nel caso d’erronea dichiarazione d’estinzione del processo (artt. 35, co. 2 e 85 c.p.a.). L’art. 105, co. 1 recita infatti «… Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se... ha dichiarato l'estinzione o la perenzione del giudizio…». La Sezione IV non vede perché mai un errore di giudizio su tali aspetti, quantunque preclusivo della pronuncia sul merito, implichi la regressione al primo grado e ciò non accada anche, coeteris paribus, ad ogni erronea declaratoria d’inammissibilità o d’irricevibilità.

Al contrario, è appunto la tassatività, che caratterizza l’elenco dell’art. 105, a trovare un’ulteriore conferma nel riferimento esplicito e puntuale che la norma fa ai casi d’erronea declaratoria circa l’estinzione o la perenzione del giudizio.

Detta norma, stavolta analitica, esprime, oltre che una volontà “positiva” (includere la perenzione e l’estinzione tra i casi di regressione), pure una chiara volontà “negativa”, la scelta, cioè, d’escludere dai casi dell’annullamento con rinvio tutte le ipotesi di erronea chiusura in rito del processo (irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità), diverse rispetto a quelle espressamente tipizzate (estinzione e perenzione).

La Sezione remittente ammette in modo fermo che, nella giurisprudenza della Plenaria ante-Codice, «… mai si è creduto di includere l’erronea declaratoria di inammissibilità, irricevibilità o decadenza del ricorso. Si riteneva, infatti, che siffatta pronuncia, benché idonea ad arrestare in punto di rito il processo, consumasse irreversibilmente quel grado di giudizio e comportasse, allo stesso tempo, la ritenzione della causa da parte del giudice di secondo grado per la definizione del merito, scrutinandosi solo in quel momento, e per la prima volta, le censure proposte…». Ebbene, questa frase si può scrivere tal quale pure oggi giacché essa ben rappresenta la struttura e lo scopo stesso della norma ex art. 105, co. 1, c.p.a.

Alla luce delle considerazioni svolte, si può ora rispondere al quesito, posto all’inizio del § 6), che è solo apparente la similitudine tra l’erronea dichiarazione d’estinzione del processo (artt. 35, co. 2 e 85 c.p. a., che esclude la pronuncia sul merito della lite e comporta rimessione al primo giudice) e l’erronea declaratoria di inammissibilità o d’irricevibilità (che, a parità d’omessa pronuncia sul merito, non determina tal rimessione).

Più semplicemente, la ragione risiede nello stesso dato normativo del citato art. 35 che è diviso in due parti ben distinte, la prima (co. 1) inerente alle declaratorie circa la patologia o l’estinzione dell’interesse ab origine (tardività, inammissibilità delle varie specie) o in corso di giudizio (improcedibilità per sopravvenuta carenza d’interesse), la seconda (co. 2) relativa alle estinzioni (non della situazione soggettiva sostanziale, ma) del giudizio in sé, a causa dei vari tipi d’inerzia processuale o per rinuncia al ricorso.

Sicché non tutte le vicende colà indicate, ancorché sussunte nell’unica categoria delle pronunce in rito, determinano la rimessione al primo giudice, ma solo quelle che non hanno già comportato una previa delibazione sulla natura dell'interesse azionato (se tutelabile, o no) e sulla tempestività dell’azione. Si tratta di accertamenti che danno luogo sì ad una sentenza di rito (che si pronuncia sulla domanda proposta, ma ravvisa la carenza di una delle condizioni per l’esame del merito), ma esprimono pure un giudizio, già rettamente instaurato, svolto regolarmente e portato a conclusione, sull’esistenza, l’attualità e la meritevolezza della situazione soggettiva vantata e fatta valere in via d’azione. E tal giudizio sarà possibile poiché il processo s’instaura (sussistendone i c.d. presupposti processuali) e s’esprime sull’apprezzamento dei motivi di doglianza, in relazione al bene della vita che si vorrebbe così conseguire. In questo senso vi è una perfetta specularità tra un processo erroneamente dichiarato estinto (e/o perento) ed un processo erroneamente mai nato per la ritenuta assenza di giurisdizione o di competenza, mentre così non è, come s’è visto, per la erronea declaratoria d’irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità di detto ricorso.

Come già detto, l’onere di riproposizione delle domande o eccezioni assorbite o non esaminate (art. 101, co. 2 c.p.a.) non avrebbe senso se non nel quadro applicativo del principio devolutivo dell’appello.

Del resto, sul piano della teoria generale del processo, tale differenza di trattamento trova ulteriore conferma nella tradizionale distinzione che la dottrina ha elaborato tra presupposti processuali e condizioni dell’azione. I primi (fra cui si annoverano giurisdizione e competenza) condizionano l’instaurazione stessa del processo (che, quindi, non può considerarsi validamente “nato” in loro assenza); le seconde, invece, incidono soltanto sulla possibilità di decidere nel merito la domanda proposta all’esito di un processo che si è validamente instaurato, con la conseguente consumazione della potestas iudicandi e del grado di giudizio.

La scelta legislativa trova ancora giustificazione nel generale principio processuale (sancito dall’art. 310, co. 1, c.p.c.) secondo cui «l’estinzione del processo non estingue l’azione». Da ciò discende che la relativa pronuncia giudiziale, che dichiara l’estinzione, non consuma a sua volta la potestas iudicandi del Giudice di prime cure.

Né un buon argomento a contrario è ricavabile dalla formulazione (o “nomenclatura”) dell’art. 105, co. 1, c.p.a. con particolare riguardo alla categoria della lesione dei diritti di difesa, con conseguente perdita del doppio grado di giudizio in caso d’omesso rinvio al primo giudice. Tranne i vari casi di motivazione assurda o inesistente o basata su fatti o questioni avulsi dal concreto oggetto della lite (e non pare tutto ciò riferibile alla sentenza appellata), non è logicamente lecito asserire che una pronuncia d'inammissibilità per difetto d’interesse sia emanabile senza una ricognizione, sia pur sommaria, dei motivi dedotti che quell’interesse giustificano in sé e per pretendere protezione.

Che i due sottoinsiemi nella categoria delle sentenze di rito siano oggetti giuridici diversi ben lo si comprende da una circostanza: per esistere ed esser valide ed efficaci, l’inammissibilità, la tardività e l’improcedibilità sono dichiarate tout court e con pronunce che non hanno bisogno d’ulteriore specificazione e men che mai d’affermare un’“estinzione” del relativo giudizio. Per contro, la mancata riassunzione d’un giudizio, la perenzione di esso e la rinuncia implicano estinzione del giudizio medesimo e di tali eventi le relative pronunce devono dare specifico atto. Persino in caso d’estinzione dichiarata ritualmente, l’azione potrebbe, in ipotesi, esser riproposta innanzi al Giudice di primo grado (sebbene, in diritto amministrativo, tale eventualità sia difficilmente compatibile con la natura decadenziale dei termini per proporre il ricorso), a maggior ragione non v’è consumazione del diritto di azione della parte (e del potere decisorio del Giudice) laddove la dichiarazione di estinzione sia avvenuta erroneamente. Ciò non accade per i casi in cui il Giudice di prime cure erroneamente dichiari l’irricevibilità, l’inammissibilità o l’improcedibilità, in quanto esse, come s’è detto, estinguono l’azione e consumano la potestas iudicandi.

7. – La Sezione remittente (pagg. 30/31 della sentenza) identifica poi quattro gruppi di pronunce di questo Consiglio, a suo avviso tanto peculiari da poter esser distinte da altre situazioni e tali, così, da sollecitare una maggior larghezza nell’identificazione delle ipotesi d’annullamento con rinvio:

A) l’omessa considerazione di una memoria difensiva (Cons. St., VI, 20 febbraio 2014 n. 841), che determina una «… lesione del diritto di difesa (che) concretizza quel "difetto di procedura" della sentenza appellata (ex art. 35 della legge n. 1034), che non consente di trattenere in decisione la causa per l'effetto devolutivo dell'appello, tenuto conto dell'esigenza di non sottrarre ad entrambe le parti le garanzie del doppio grado di giudizio (a differenza di quanto avviene in caso di erronee declaratorie di inammissibilità, irricevibilità o decadenza del ricorso, identificate come contenuto della sentenza appellata)…»;

B) la carenza di motivazione (Cons. St., VI, 4 ottobre 2013, n. 4914), per la quale il TAR ha deciso, con sentenza in forma semplificata, recando una motivazione priva anche dei minimi requisiti ex art. 60 c.p.a. e tale, perciò, da violare il diritto di difesa della P.A. e d’impedirle d’articolare adeguate ragioni sostanziali di critica avverso la sentenza impugnata (quantunque, nel caso colà esaminato, la motivazione, sia pur telegrafica, era sussistente e si basava sulla mera tardività del parere reso dalla Soprintendenza, ma era sbagliato in diritto e non in rito, non avendo ben esaminato il quadro normativo di riferimento), da distinguere dall’errore materiale (Cons. St., IV, 12 maggio 2014 n. 2416, per la quale non v’è nullità ex art. 87, co. 1, c.p.a. qualora, per omessa conversione del rito da camerale a ordinario, la causa sia stata trattata in camera di consiglio, ma nella pienezza e nella completezza del contraddittorio processuale, con la presenza dei difensori che vi dispiegarono i loro poteri e facoltà defensionali);

C) la totale omessa pronuncia (cfr. Cons. St., IV, 25 novembre 2013 n. 5595, per cui va annullata con rinvio la sentenza con cui il TAR ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso il silenzio della P.A., estendendo però la declaratoria d’inammissibilità anche alla domanda di risarcimento del danno, mentre avrebbe dovuto rimettere la causa all’udienza pubblica per l'esame, nel merito, di tal distinta domanda; id., 31 luglio 2017 n. 3809, per cui, ai sensi degli artt. 99 e 112 c.p.c., sia nel processo civile che in quello amministrativo, il principio della domanda e quello di corrispondenza tra chiesto e pronunciato hanno dignità di clausole generali e comportano il divieto di attribuire un bene della vita non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, onde va annullata con rinvio la sentenza che, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi identificativi dell'azione, cioè il petitum e la causa petendi, attribuendo quindi un bene della vita diverso da quello richiesto o ponendo a fondamento della sua decisione fatti o situazioni estranei alla materia del contendere, salvo il potere di qualificazione giuridica dei fatti e della domanda giudiziale);

D) l’insanabile contraddittorietà tra motivazione e dispositivo (così Cons. St., VI, 9 aprile 2009 n. 2190, ma solo laddove tal discrasia rivesta un carattere obiettivamente insanabile e non consenta in alcun modo d’individuare la statuizione del Giudice attraverso la prevalenza d’una delle contrastanti affermazioni, né di ricorrere all'interpretazione complessiva della decisione).

7.2. – I casi testé descritti non appaiono congruenti con la tesi propugnata dalla Sezione remittente, poiché essi hanno affermato principi pacifici (anche nella vigenza dell’art. 35 della l. 1034/1971) in tema di violazione dei diritti della difesa (caso sub A e primo caso sub C) o in tema di nullità della sentenza (caso sub B, ove tuttavia la vicenda pare più un manifesto errore di diritto, che una motivazione incomprensibile; secondo caso sub C; e caso sub D, ove, però, l’eccepita discrasia è stata rigettata dalla VI Sezione).

Anzi, nel caso sub C), l’annullamento con rinvio ha autonomamente (e correttamente, peraltro con ampia citazione di molti passi di Cons. St., ad. plen., 27 aprile 2015 n. 5) rinvenuto nell’art. 105 c.p.a. l’ipotesi della nullità della sentenza ma non per una mera distonia tra quanto chiesto e quanto pronunciato dal TAR. La verità è che quest’ultimo ha completamente omesso di affrontare quella che era l'unica domanda proposta, ossia valutare l’atto emesso in esito ad un’istanza del privato di autotutela nei confronti d’un precedente provvedimento negativo, non gravato. La IV Sezione ha così desunto dal concetto di nullità della sentenza un caso, veramente paradigmatico, di radicale omessa pronuncia sulla domanda.

È interessante notare che, fatte le debite differenze tra i due casi, quello testé evidenziato non è meno peculiare della vicenda giudicata da Cons. St., IV, 21 aprile 2008 n. 1781 con la rimessione al TAR, poiché questo sostituì una propria ricostruzione delle ragioni per cui la P.A., diversamente da quanto scritto nel provvedimento impugnato, avrebbe dovuto comunque rigettare la pretesa del privato, argomento, questo, mai tenuto presente dalla P.A. stessa e sul quale non vi fu neppure una domanda impugnatoria specifica.

7.3. – Non è, però, chi non veda come, a fronte di tali casi così stravaganti dal principio dispositivo, l’art. 105, co. 1 già sarebbe stato da solo utile, senza forzarne le clausole chiuse e tipizzate, a darne acconcia soluzione, rimediandole appunto con la remissione al primo Giudice, stante la motivazione di fatto inesistente, tale, quindi, da vulnerare il diritto di difesa delle parti.

È ben vero che la categoria della nullità degli atti processuali soggiace ad un principio di tassatività tendenziale, che si rinviene nell’art. 156, I co., c.p.c., che si può reputare principio generale del processo (ai sensi del citato rinvio esterno ex art. 39 c.p.a.) ed in virtù del quale la nullità può esser dichiarata solo se è comminata dalla legge (nullità testuale). La rigida tassatività delle nullità processuali è, tuttavia, ridimensionata dal II co. dello stesso art. 156, il quale consente di pronunciare comunque la nullità (pur in assenza di una puntuale previsione testuale), «… quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo…», sì da introdurre, pure in materia processuale, un’ipotesi di nullità “virtuale”. Non sfugge il carattere eccezionale della nullità processuale virtuale, la quale richiede la carenza di requisiti formali, opera perciò soltanto per le nullità formali (e non per quelle c.d. extraformali) e postula, inoltre, che la forma mancata sia indispensabile ai fini del raggiungimento dello scopo cui l’atto è preordinato.

Ma nei casi testé visti, proprio grazie al richiamo all’art. 161, II co. c.p.c. che fa il successivo art. 354, sul punto identico alla terza proposizione dell’art. 105, co. 1, c.p.a., tal nullità della sentenza è determinata dal difetto sostanziale di motivazione, la quale appare, ma non v’è e, comunque, non è autosufficiente.

Il difetto assoluto di motivazione integra allora un caso di nullità della sentenza, per il combinato disposto degli artt. 88, co. 2, lett. d) e 105, co. 1, c.p.a., non rimediabile attraverso il potere di correzione spettante al Giudice d’appello. Anche alla luce del principio processuale di cui all’art. 156, co. 2, c.p.c., d’altronde, la motivazione rappresenta l’indispensabile requisito formale / sostanziale affinché la sentenza raggiunga il suo scopo. Certo, il difetto assoluto di motivazione non s’identifica con la motivazione illogica, contraddittoria, errata, incompleta o sintetica, ma è un vizio di ben più marcata gravità, che dà luogo ad una sentenza abnorme ancor prima che nulla.

Esclusa, perciò, qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficiente motivazione”, la grave ed irrimediabile anomalia motivazionale s’identifica sia nella mancanza assoluta di motivi sotto gli aspetti materiale e grafico, sia nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica, oppure obiettivamente incomprensibile (cfr. così Cass., sez. un., 7 aprile 2014 n. 8053; id., 3 novembre 2016 n. 22232; id., VI, 22 febbraio 2018 n. 4294).

La motivazione apparente non è sindacabile dal giudice, in quanto essa costituisce un atto d’imperio immotivato, e dunque non è nemmeno integrabile, se non con il riferimento alle più varie, ipotetiche congetture, ma una sentenza “congetturale” è, per definizione, una non-decisione giurisdizionale – o, se si preferisce e all’estremo opposto, un atto di puro arbitrio – e, quindi, un atto di abdicazione alla potestas iudicandi.

8. – La Sezione remittente è ben edotta della costante esclusione, anche di recente, da parte di questo Consiglio di Stato, dell’annullamento con rinvio nel caso di erronea dichiarazione d’irricevibilità, inammissibilità o decadenza del ricorso (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 20 aprile 2016 n. 1558) o per omessa valutazione d’uno o più motivi di esso (cfr. id., IV, 5 gennaio 2017 n. 11; id., 23 ottobre 2017 n. 4860).

Ciò discende, invero, non già dalla sola casistica, bensì dall’insegnamento ritraibile, che è quello che s’è cercato di far constare all’inizio del precedente § 6.3), dalla ratio che accomuna l’art. 105, co. 1 agli artt. 353 e 354 c.p.c. ed all’art. 35 della legge n. 1034.

La sentenza di rimessione, in realtà e pur conscia di quanto fin qui detto, esprime una tensione verso una più sostanziosa tutela dell’effettività del doppio grado di giudizio, tensione che, per il Collegio, però non è nei fatti, né s’appalesa discendere da una non felice formulazione dell’art. 105 c.p.a. e men che mai da inappaganti sue applicazioni. Non a caso, essa vuol richiamare l’attenzione dell’Adunanza affinché faccia confluire nella nozione di “diritti della difesa” casi assimilabili all’erronea declaratoria dell’estinzione o della perenzione del giudizio, che però, come s’è detto dianzi, nulla hanno a che vedere con questi ultimi. Ma una tal pretesa è, a sua volta, erronea, specie quando vuol inferire l’ingiustizia sostanziale, se non un caso di rifiuto di giurisdizione, invece del tutto esclusi dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e dalla Corte regolatrice, da tutti i casi o ipotesi che la Sezione IV sottopone all’esame della Plenaria.

È interessante notare la citazione che la sentenza stessa fa di CGA, sez. giurisd., n. 33/2018 cit., la cui statuizione giustifica, quale violazione dei diritti di difesa l’annullamento con rinvio per erronea declaratoria sulla tardività di un’azione risarcitoria proposta innanzi a questo Giudice come unica domanda. Detta sentenza afferma, tra l’altro, che «… l'individuazione di uno spazio per la giurisprudenza amministrativa più ampio di quello ricavabile dagli indirizzi sul processo nella giurisprudenza civile trova conferma, in una prospettiva di sistema, anche nella recente riforma del processo contabile, con l'adozione del… d.lgs. 174/2016, come documenta l'art. 199 di tale codice, il cui co. 2 dispone che "quando senza conoscere del merito del giudizio, il giudice di primo grado ha definito il processo decidendo soltanto altre questioni pregiudiziali o preliminari, su queste esclusivamente si pronuncia il giudice dell'appello. In caso di accoglimento del gravame proposto, rimette gli atti al primo giudice per la prosecuzione del giudizio sul merito e la pronuncia anche sulle spese del grado d'appello"...».

Pare di capire che, avendo il codice del processo contabile una norma espressa sul rinvio al primo giudice quando erroneamente questi pronunci su questioni pregiudiziali senza delibare il merito di quella causa, ciò corrobora, al di là d’ogni dato testuale presente nel c.p.a., il rinvenimento, per la giurisprudenza amministrativa, di spazi ulteriori di annullamento con rinvio. È da dire, piuttosto, che il Giudice contabile ha più poteri di quello amministrativo sol perché il Codice di rito del primo è diverso rispetto a quello del secondo, onde a più forte ragione occorrerebbe una novella all’art. 105. Non è sembra veramente possibile inferire automaticamente dal citato art. 119 c.p.cont. un concetto valido per reinterpretare l’art. 105, co. 1, c.p.a., non solo per la stratificazione di pronunce in senso contrario a quanto auspicato dal CGA (pronunce che, a tutto concedere, potrebbero ormai suonare ripetitive), ma perché il GA, come l’AGO, è Giudice dell’interesse e la Corte dei conti ha altre funzioni.

Ora, la Sezione remittente (pagg. 41 e ss. della sentenza) s’interroga sul rapporto tra, da un lato, la riscontrata erronea declaratoria d’inammissibilità del ricorso al TAR e, dall’altro, la conseguente violazione sia del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sia dell’obbligo di effettiva motivazione, invocato perché la sentenza di primo grado impugnata è stata resa ai sensi dell’art. 74 c.p.c. (motivazione in forma semplificata).

La Sezione afferma, giustamente, che di per sé la forma semplificata ex art. 74 c.p.a. non esime dall’obbligo della motivazione, la quale al più può esser alleggerita col «… sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme…». Poi afferma che il TAR non avrebbe seguito il dato normativo, non avendo operato alcun riferimento, nemmeno sintetico, a fatti o circostanze di causa ritenuti decisivi o risolutivi.

Tuttavia, non si può seguire l’assunto della Sezione remittente, poiché il concetto espresso dal TAR non può dirsi estraneo alla vicenda da esso esaminata, né estraneo o abnorme rispetto all’esperienza giuridica sugli effetti immediatamente lesivi, o meno, d’un progetto preliminare. E tal concetto resta autoconsistente, quand’anche le citazioni indicate dal TAR fossero state sbagliate o non calzanti, in quanto l’art. 74 c.p.a. concede sì di far riferimento a precedenti conformi, ma prim’ancora al «… sintetico riferimento al punto… di diritto ritenuto risolutivo…». Ebbene, la succinta motivazione del TAR Liguria, che poi s’è rivelata erronea in diritto, appare comunque sussistere, onde non si ha nella specie un caso di totale omessa pronuncia, ma al più una pronuncia assertiva, ma così precisa e così comprensibile dagli appellanti, che essi l’hanno potuta aggredire senza soverchi problemi in sede d’appello.

Ed è facile concludere sul punto riaffermando il principio per cui l’omessa pronuncia su una o più censure proposte col ricorso giurisdizionale, denunciato anche ai sensi dell’art. 112 c.p.c., non configura un error in procedendo tale da comportare l’annullamento della decisione, con rinvio contestuale della controversia al Giudice di primo grado, ma solo un vizio dell’impugnata sentenza, che il Giudice d’appello ben può eliminare integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo del merito della causa (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 27 gennaio 2015 n. 376; id., 5 gennaio 2017 n. 11; id., 20 marzo 2017 n. 1230; id., 23 ottobre 2017 n. 4860; id., III, 7 febbraio 2018 n. 782).

9. – Sulla scorta di tali dati, l’Adunanza così risponde ai quesiti posti dalla Sezione remittente:

a) l’art. 105, co. 1, c.p.a. indica talune specifiche categorie inderogabili di casi d’annullamento con rinvio, ognuna delle quali è implementabile nel suo specifico ambito dalla giurisprudenza attraverso una rigorosa interpretazione sistematica del testo vigente del Codice, senza possibilità alcuna di pervenire o di tendere alla creazione surrettizia d’una nuova categoria (e, dunque, d’una nuova norma processuale) o, peggio, all’arbitraria interpretazione motivata senza passare al previo vaglio del Giudice delle leggi, dalla prevalenza del solo principio del doppio grado di giudizio rispetto ad altri parametri costituzionali;

b) la nuova nomenclatura contenuta nel vigente art. 105 c.p.a. non ammette tout court l’erronea declaratoria d’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse quale sussumibile nella categoria della lesione dei diritti della difesa, sol perché su talune questioni di merito non si attua il doppio grado di giudizio. Per contro, l’annullamento della sentenza con rinvio al primo Giudice può conseguire, nel caso indicato dalla Sezione remittente, solo a fronte di evidenti ed irrimediabili patologie del complesso della motivazione e non di singole distonie tra il chiesto e il pronunciato, ossia a fronte di quei, per vero, marginali casi in cui è inutilizzabile il decisum (che ridonda quindi nella nullità della sentenza) e sono stati conculcati i diritti di difesa di tutte le parti (P.A. inclusa);

c) è sempre possibile, in linea di principio, riconoscere al Giudice d’appello il potere di sindacare il contenuto della motivazione dell’impugnata sentenza, affinché si possa riqualificare il dispositivo delle sentenze in rito ex art. 35, co. 1, c.p.a., ove s’accerti la patologica eversione del Giudice di prime cure dall’obbligo della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) o dall’obbligo di motivazione (artt. 74 e 88 c.p.a.) –trattandosi, com’è noto, di vicende che impingono sulla struttura inderogabile ed essenziale della sentenza, rispetto all’oggetto del processo–, a condizione, però, che tal patologia, foss’anche per evidenti errori sui fatti di causa tali da alterare la stessa possibilità di difesa delle parti, investa il complesso della motivazione stessa e non una sola sua parte (invece emendabile nei modi ordinari) o, peggio, il punto di diritto affermato (specie se questo, al di là della precisione semantica o d’una buona forma espositiva, sia fedele agli indirizzi consolidati o prevalenti della giurisprudenza di questo Consiglio);

b.3) è evidente che dette ultime ipotesi costituiscano, ovviamente alle condizioni testé evidenziate, tanto una lesione dei diritti della difesa sostanziale delle parti nel grado di riferimento, quanto una vicenda di nullità della sentenza ed implicano, per forza di cose, l’annullamento con rinvio ex art. 105, co. 1, c.p.a.

L'attività di contestualizzazione e di sussunzione dei principi di diritto testé enunciati ai sensi dell’art. 99, co. 4, c.p.c. in relazione alle peculiarità del caso concreto spetta alla Sezione cui è rimessa la decisione definitiva del ricorso.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sui riuniti appelli in epigrafe, enuncia i principi di diritto di cui ai punti 9.a), 9.b). 9.c) e 9.b.3) della motivazione e rimette la causa alla Sezione remittente per la decisione definitiva del ricorso.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 13 giugno 2018, con l'intervento dei sigg. Magistrati:

 

 

Franco Frattini, Presidente

Giuseppe Severini, Presidente

Luigi Maruotti, Presidente

Lanfranco Balucani, Presidente

Antonino Anastasi, Presidente

Roberto Giovagnoli, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere

Bernhard Lageder, Consigliere

Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere

Umberto Realfonzo, Consigliere

Silvestro Maria Russo, Consigliere, Estensore

Oberdan Forlenza, Consigliere

Massimiliano Noccelli, Consigliere

 

 

 

 

 

 

Guida alla lettura

Le sentenze recano uguali principi di diritto.

A seguito di un innovativo orientamento giurisprudenziale[1], in base al quale era stato disposto l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al primo giudice, sebbene ricorressero ipotesi non testualmente ricomprese nel catalogo dell’art. 105 c.p.a., l’Adunanza plenaria è stata investita della questione della tassatività dei casi di annullamento con rinvio di cui al menzionato art. 105 c.p.a.

Quattro sono state le rimessioni all’Adunanza plenaria[2].

Quest’ultima si è pronunciata nel senso di dare continuità al consolidato orientamento interpretativo il quale, anche dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, afferma il carattere tassativo ed eccezionale dei casi di rimessione al giudice di primo grado, oggi descritti dall’art. 105 dello stesso codice.

Anzitutto, è stato escluso che tra i casi di annullamento con rinvio possa rientrare l’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità della domanda, oppure l’ipotesi in cui il giudice di primo grado abbia totalmente omesso di esaminare una delle domande proposte (anche per ragioni diverse dall’accoglimento di una eccezione pregiudiziale di rito).

Vari i motivi che hanno indotto il Collegio a condividere l’orientamento indicato.

Invero, tenuto conto in sede di riassetto della disciplina del processo amministrativo del previsto “coordinamento con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali” (art. 44, comma 1, l. 18 giugno 2009, n. 69), sia del rinvio esterno contenuto nell’art. 39 c.p.a., oggi il vincolo interpretativo derivante dai principi generali del processo civile è più forte rispetto al passato (Corte cost., sentenza 26 giugno 2018, n. 132).

Al riguardo come principi generali vengono in rilievo quello del c.d. effetto devolutivo dell’appello e quello, strettamente correlato, della conversione delle nullità processuali in motivi di appello (art. 161, comma 1, c.p.c.), salvo i casi estremi di c.d. nullità-inesistenza (che l’art. 161, comma 2, individua nel difetto di sottoscrizione).

Il principio dell’effetto devolutivo fa dell’appello una impugnazione sostitutiva che di regola conduce, sia pure subordinatamente all’onere della formulazione di specifici motivi, ad una sentenza che ridefinisce integralmente (per la parte impugnata: tantum devolutum quantum appellatum) la causa pendente, ripronunciandosi sullo stesso oggetto della sentenza di primo grado.

Pertanto, l’oggetto del giudizio di appello si sovrappone all’oggetto del processo di primo grado, sì che la nuova sentenza di regola avrà carattere sostitutivo.

L’art. 105 c.p.a. si colloca in questo quadro normativo-sistematico, recependo, anche nel processo amministrativo, la regola dell’effetto devolutivo/sostitutivo dell’appello e codificandone il principale corollario applicativo, che si traduce nella limitazione dei casi di annullamento con rinvio ad un numero limitato ed eccezionale di ipotesi.

Sul piano testuale, ’utilizzo dell’avverbio “soltanto” conferma con nettezza la natura eccezionale dei casi di rinvio.

D’altronde, per i casi di rinvio l’art. 105 non utilizza clausole “indeterminate” o “aperte”, che consentirebbero maggiori margini di flessibilità con conseguente ampliamento degli stessi.

In particolare, le espressioni “mancanza del contraddittorio” e “lesione del diritto di difesa” rinviano a criteri determinati e identificabili attraverso le singole e puntuali norme processuali che prescrivono, con sfumature diverse secondo l’incedere del processo, le garanzie del contraddittorio e del diritto di difesa.

La tassatività che caratterizza l’elenco dell’art. 105 trova poi una ulteriore conferma nel riferimento esplicito e puntuale che la disposizione fa ai casi di erronea dichiarazione di estinzione e di perenzione.

La norma, in questo caso analitica, esprime, oltre che una volontà “positiva” (includere perenzione ed estinzione tra i casi di regressione), anche una chiara volontà “negativa”: la scelta, cioè, di escludere dai casi di annullamento con rinvio tutte le ipotesi di erronea chiusura in rito del processo (irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità) diverse rispetto a quelle espressamente tipizzate (estinzione e perenzione).

Il diverso trattamento processuale che così viene a determinarsi tra l’ipotesi dell’estinzione e quelle della irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità non risulta arbitrario o ingiustificato.

Le vicende anomale del processo – e, in particolare, l’interruzione e l’estinzione del giudizio – sono spesso indissolubilmente legate al diritto di difesa o alla violazione del contraddittorio in danno di una parte, colpita da un evento che non le ha consentito di prendere parte o di dare impulso al processo, e la violazione delle relative disposizioni finisce per privare effettivamente la parte di un grado del giudizio, analogamente a quanto accade quando il giudice dichiara erroneamente il difetto di competenza e di giurisdizione.

Coerente con la tassatività dei casi di annullamento con rinvio è, infine, il riferimento che l’art. 105 fa alla “nullità della sentenza”, sia pure, in questo caso, con qualche profilo di maggiore criticità.

La categoria della nullità degli atti processuali soggiace, invero, ad un principio di tassatività tendenziale, enunciato dall’art. 156, primo comma, c.p.c. (da ritenersi principio generale del processo ai sensi del rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a.) in forza del quale la nullità può essere dichiarata solo se è comminata dalla legge (nullità testuale).

La tassatività dei casi di annullamento con rinvio riceve conferma anche sul piano sistematico e dei principi, in quanto si ricollega a sostanziali esigenze di effettività della tutela e di ragionevole durata del processo, evitando che gli errori del giudice possano determinare, a danno delle parti, l’azzeramento del processo e la moltiplicazione dei gradi di giudizio.

Va, inoltre, evidenziato che la natura eccezionale dei casi di annullamento con rinvio non trova alcun ostacolo nel principio del doppio grado di giudizio.

Invero, il doppio grado di giudizio non richiede una doppia pronuncia sul merito, ma semplicemente che il giudice valuti gli atti processuali ed emetta un giudizio.

Ciò avviene, oltre che quando entra nel merito dell’affare, anche in quei casi in cui il rapporto processuale si chiude con una pronuncia dichiarativa dell’assenza di un presupposto processuale o di una condizione dell’azione. Alla luce del carattere rinnovatorio del giudizio di appello, il rinvio al primo giudice, invocato ad apparente tutela del doppio grado, in realtà si atteggia come eccezione a tale principio, perché contraddice la plena cognitio del giudice di appello una volta che il primo giudice abbia consumato il proprio grado di giurisdizione.

In considerazione del valore costituzionale dell’effettività della tutela, in passato l’Adunanza generale del Consiglio di Stato si è pronunciata negativamente sull’istituto dell’annullamento con rinvio nel giudizio amministrativo[3].

Pertanto, l’esigenza di evitare inutili e defatiganti allungamenti dei tempi del processo assume un ruolo centrale per escludere interpretazioni dell’articolo 105 non consentite dalla sua puntuale portata letterale.

Non è giustificato l’ampliamento dei casi di annullamento con rinvio in caso di erronea dichiarazione di inammissibilità, irricevibilità o improcedibilità neppure in relazione ai seguenti profili:

a) rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità (irricevibilità o improcedibilità) del ricorso e la possibile lesione dei diritti della difesa, sub specie di violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e di privazione delle parti del doppio grado di giudizio nel merito;

b) rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità (irricevibilità o improcedibilità) del ricorso e la nozione di “rifiuto di giurisdizione”, come emergente da alcune pronunce delle sezioni unite della Corte di cassazione rese in sede di ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato per motivi di giurisdizione;

c) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la possibile violazione dell’obbligo di motivazione della sentenza.

L’erronea dichiarazione di inammissibilità, irricevibilità o improcedibilità non determina, di per sé, una lesione del diritto di difesa o una violazione del contraddittorio.

Va, anzitutto, evidenziato che le formule “lesione del diritto di difesa” e “mancanza del contraddittorio”, pur non costituendo un’endiadi (perché ciascuna nozione ha un suo significato autonomo che non si risolve in quello dell’altra) sono ambedue riconducibili alla menomazione del contraddittorio lato sensu inteso. In entrambi i casi, infatti, è mancata la possibilità di difendersi nel giudizio-procedimento.

Tuttavia, la “mancanza del contraddittorio”, intesa come ipotesi in cui doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte, è un vizio genetico, nel senso che a causa della mancata integrazione del contraddittorio o della erronea estromissione, una o più parti vengono in radice e sin dall’inizio private della possibilità di partecipare al giudizio-procedimento.

La “lesione del diritto di difesa” fa riferimento, invece, ad un vizio (non genetico, ma) funzionale del contraddittorio, che si traduce nella menomazione dei diritti di difesa di una parte, che ha, tuttavia, preso parte al giudizio, perché nei suoi confronti il contraddittorio iniziale è stato regolarmente instaurato, ma, successivamente, nel corso delle svolgimento del giudizio, è stata privata di alcune necessarie garanzie difensive.

Le ipotesi sono tipiche e presuppongono la violazione di norme che prevedono poteri o garanzie processuali strumentali al pieno esercizio del diritto di difesa[4].

La violazione del diritto di difesa in tutte queste ipotesi avviene nel giudizio-procedimento, dove la parte non ha potuto difendersi; l’errore si annida nella procedura, e non nel contenuto della sentenza.

L’effetto devolutivo e il sindacato sostitutivo fanno sì che il giudice d’appello, una volta ritenuta erronea la declaratoria di inammissibilità, di improcedibilità o di irricevibilità, possa e debba entrare nel merito della causa, proprio per garantire alla parte che si sia vista negare dal primo giudice, sulla base di ragioni erronee, una pronuncia sui motivi dedotti, il formarsi di una pronuncia stabile e definitiva su tali motivi.

Quanto all’asserita violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, è dirimente la constatazione che, dichiarando la domanda irricevibile, inammissibile o improcedibile, il giudice si pronuncia su di essa, ravvisando la sussistenza di un ostacolo processuale che impedisce l’esame del merito. Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato è, quindi, rispettato, perché esso postula che ogni domanda venga decisa, ma non necessariamente con una sentenza di merito. 

La tesi ampliativa dei casi di rimessione al primo giudice non può essere condivisa neanche quando prospetta la possibilità di qualificare l’erronea dichiarazione di inammissibilità, irricevibilità, improcedibilità del ricorso in termini di sostanziale “rifiuto di giurisdizione” e, quindi, alla stregua di una pronuncia che abbia erroneamente declinato la giurisdizione, rifiutandone l’esercizio.

Anzitutto, la tendenza volta ad estendere i limiti esterni della giurisdizione (fino a farvi ricomprendere talune particolari ipotesi di erronea dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità) è stata espressamente disattesa dalla Corte costituzionale[5].

D’altronde, la dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso postula l’affermazione implicita della giurisdizione di chi l’ha emessa e non è, quindi, riconducibile all’ipotesi dell’erronea declinatoria di giurisdizione cui fa riferimento l’art. 105 come ipotesi di rinvio a primo giudice.

Per quanto riguarda il rapporto tra l’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del giudizio e l’obbligo di motivazione della sentenza, occorre evidenziare che errore di giudizio e difetto di motivazione non sono necessariamente sovrapponibili (potendo l’uno sussistere senza l’altro) e, in ogni caso, che il difetto di motivazione non costituisce un caso di rinvio al primo giudice.

Il carattere sostitutivo dell’appello consente sempre al giudice di secondo grado di correggere, integrare e completare la motivazione carente, contraddittoria o insufficiente e di pronunciarsi sul merito della causa.

Ferma la distinzione tra motivazione viziata (perché incompleta o contraddittoria), motivazione radicalmente assente (o meramente apparente), l’assenza o il difetto assoluto della motivazione, quale elemento indefettibile che consenta di rinvenire un concreto esercizio di potestas iudicandi (art. 88 c.p.a.), impedisce al giudice di appello di esercitare un qualsivoglia sindacato di tipo sostitutivo per essere mancata, nella sostanza, una statuizione sulla quale il medesimo possa incidere, seppure nella forma di integrazione/emendazione delle motivazioni.

Non è possibile, infatti, lasciare al giudice dell’impugnazione il compito di integrare la motivazione sostanzialmente mancante con le più varie, ipotetiche congetture.

Il difetto assoluto di motivazione integra allora un caso di nullità della sentenza, per il combinato disposto degli artt. 88, comma 2, lett. d) e 105, comma 1, c.p.a. Anche alla luce del principio processuale di cui all’art. 156, comma 2, c.p.c.  la motivazione rappresenta un requisito formale (oltre che sostanziale) indispensabile affinché la sentenza raggiunta il suo scopo.

La nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione riguarda non solo le sentenze di rito (irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità), ma anche quelle che recano un dispositivo di merito (accoglimento o rigetto del ricorso) non sorretto da una reale motivazione[6]. Rispetto al difetto assoluto di motivazione, invero, la nullità della sentenza prescinde dalla differenza tra pronunce di rito e pronunce di merito.

Il difetto assoluto di motivazione, poi, deve essere valutato e apprezzato con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso, e non in maniera parcellizzata o frammentata, facendo riferimento ai singoli motivi o alle singole domande formulate all’interno di esso.

Peraltro, non può trascurarsi di considerare che a fronte dell’omesso esame di una delle domande è impossibile frazionare il presupposto e gli effetti del rinvio.

In altre parole, sarebbe incongruo ipotizzare, sul piano dell’economia del giudizio e della sua ragionevole durata, un rinvio limitato alla parte di giudizio relativo all’azione su cui non vi è stata pronuncia (nella specie, la domanda risarcitoria connessa all’azione di annullamento) con contestuale sospensione della parte di giudizio su cui si è esplicato appieno il doppio grado.

Pertanto, la tassatività dei casi di annullamento con rinvio di cui all’art. 105 esclude la possibilità di equiparare situazioni processuali diverse sul presupposto della pari o maggiore gravità che caratterizzerebbe l’omessa decisione rispetto alla “decisione a sorpresa” adottata in violazione dell’art. 73, comma 3, c.p.a.

Non può non rilevarsi, sotto altro profilo, che se si adottasse il criterio “sostanzialistico” (opinabile ed incerto) della “gravità” del vizio, risulterebbe difficile spiegare la differenza con altre ipotesi in presenza delle quali anche le recenti letture “ampliative” dell’articolo 105 escludono l’annullamento con rinvio.

È evidente allora che pretendere di isolare o selezionare, nell’ambito della vasta gamma di situazioni che possono determinare l’omesso esame di una domanda proposta in primo grado, una o alcune ipotesi che si differenzierebbero dalle altre perché caratterizzate da connotati di maggiore gravità in concreto, rischia di diventare un’operazione sterile sul piano teorico e potenzialmente foriera, sul piano pratico, del rischio di introdurre una sostanziale incertezza nella delimitazione delle ipotesi di annullamento con rinvio.

Per completezza, evidenzia l’Alto Consesso, la disciplina dei rapporti tra giudice di primo grado e giudice di appello e dei casi di annullamento con rinvio di cui all’articolo 105 presenta evidenti profili di indisponibilità, perché è diretta a tutelare interessi di ordine pubblico che attengono al regolare svolgimento del processo, realizzando un delicato bilanciamento di valori costituzionali (fra i quali, in primis, quelli del giusto processo e della sua ragionevole durata).

Deve escludersi, quindi, che in tale materia la volontà delle parti possa condizionare l’esercizio dei poteri del giudice.

Ciò implica, fermo restando ovviamente l’onere di articolare specifici motivi di appello e il generale principio di conversione della nullità in motivi di impugnazione, che, in presenza di una delle ipotesi di cui all’art. 105 c.p.a., il giudice d’appello deve procedere all’annullamento con rinvio anche se la parte omette di farne esplicita richiesta o, addirittura, formula una richiesta contraria, chiedendo espressamente che la causa sia direttamente decisa dal giudice di appello.

Viceversa, ma per ragioni speculari, nei casi in cui non si applica l’art. 105 c.p.a., la possibilità per il giudice di appello di pronunciarsi sulla domanda o sulle domande non esaminate in primo grado o erroneamente dichiarate irricevibili, inammissibili o improcedibili presuppone necessariamente che, ai sensi dell’art. 101, comma 2, tali domande siano oggetto di rituale riproposizione, operando altrimenti la presunzione di rinuncia stabilita dallo stesso articolo.


[1] Cons. G.A. Reg. Sic., 24 gennaio 2018, n. 33; Cons. St., Sez. IV, 12 marzo 2018, n. 1535.

[2] Cons. Stato, Sez. IV, 5 aprile 2018, n. 2122 (l’ipotesi era l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse); Cons. Stato, Sez. V, 10 aprile 2018, n. 2161 (erroneità della dichiarazione di irricevibilità del ricorso di primo grado); Cons. G.A. Reg. Sic., 17 aprile 2018, n. 223 (erroneità della declaratoria di inammissibilità e/o di irricevibilità del ricorso di primo grado, lesiva del diritto di difesa per omessa trattazione del merito della causa); Cons. Stato, Sez. III, 24 aprile 2018, n. 2472 (totale omessa pronuncia del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente come lesiva del diritto di difesa con effetti equivalenti a quelli di una decisione adottata d’ufficio, in violazione del contraddittorio tra le parti, stabilito dall’art. 73, comma 3, c.p.a.).

Sui quattro deferimenti, v. L. Grassucci, L’Adunanza plenaria si pronuncerà a proposito delle conseguenze processuali, in relazione all’art. 105 c.p.a., derivanti da errate declaratorie del giudice di primo grado di inammissibilità, di improcedibilità o di irricevibilità del ricorso, ovvero da omissione totale su un’intera domanda, in www.italiappalti.it, 30 aprile 2018.

[3] Parere n. 236/94 del 6 ottobre 1994, reso sullo schema di disegno di legge sulla riforma del processo amministrativo; parere n. 16/89 dell’8 febbraio 1990 su analogo disegno di legge di riforma del processo amministrativo.

[4]  Al riguardo, si citano quali esempi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa: a) la mancata concessione di un termine a difesa (Cons. Stato, Sez. V, 12 giugno 2009, n. 3787); b) l’omessa comunicazione della data dell’udienza (Cons. Stato Sez. V, 10 settembre 2014, n. 4616; Id., 28 luglio 2014 n. 4019; Cons. Stato, Sez. IV 12 maggio 2014, n. 2416; Cons. Stato, Sez. V, 27 marzo 2013, n. 1831); c) l’erronea fissazione dell’udienza durante il periodo feriale (Cons. Stato, Sez. VI, 25 novembre 2013, n. 5601); d) la violazione dell’art. 73, comma 3, c.p.a. per aver il giudice posto a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio e non prospettata alle parti (Cons. Stato, Sez. VI, 19 giugno 2017, n. 2974; Id., 14 giugno 2017, n. 2921; Cons. Stato, Sez. IV, 8 febbraio 2016, n. 478; Id., 26 agosto 2015, n. 3992; Cons. Stato, Sez. III, 19 marzo 2015, n. 1438); e) la definizione del giudizio in forma semplificata senza il rispetto delle garanzie processuali prescritte dall’art. 60 c.p.a. (Cons. Stato, Sez. VI, 9 novembre 2010, n. 7982; Id., VI, 25 novembre 2013, n. 5601); f) la sentenza pronunciata senza che fosse dichiarata l’interruzione nonostante la morte del difensore (Cons. giust. amm. Reg, sic. 10 giugno 2011, n. 409).

[5] Corte cost., 18 gennaio 2018, n. 6, secondo la quale “l’eccesso di potere giudiziario», denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici”.

[6] Dà luogo a nullità della sentenza solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé. Esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica, oppure obiettivamente incomprensibile (in senso conforme anche l’orientamento della giurisprudenza civile: cfr. Cass., S.U., 7 aprile 2014, n. 8053; Cass., S.U., 3 novembre 2016, n. 22232; Cass. civ., Sez. VI, 22 febbraio 2018, n. 4294).

Leggi Adunanza plen., 30 luglio 2018, n. 10

Leggi Adunanza plen., 30 luglio 2018, n. 11

Leggi Adunanza plen., 5 settembre 2018, n. 14

Leggi Adunanza plen., 28 settembre 2018, n. 15

 

N. 00014/2018REG.PROV.COLL.

N. 00009/2018 REG.RIC.A.P.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso NRG 9/2018 A.P. (NRG 8424/2015), proposto da Giustiniano Chiarella, rappresentato e difeso dall'avv. Giacomo Carbone, con domicilio eletto in Roma, via A. Gramsci n. 9, presso l’avv. A. Guzzo,

contro

– il Comune di Borgia (CZ), in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio e
– il Ministero dell'interno, in persona del Ministro pro tempore e l’U.T.G. - Prefettura di Catanzaro, in persona del Prefetto pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12,

per la riforma

della sentenza del TAR Calabria – Catanzaro, sez. I, n. 367/2015 e concernente la nota interdittiva antimafia, adottata il 30 maggio 2014 dalla Prefettura di Catanzaro, nella parte in cui il TAR, dopo aver accolto la domanda per l’annullamento di quest’ultima, ha omesso di pronunciarsi anche sulla domanda attorea di risarcimento dei danni, per il ristoro del pregiudizio derivante dalla contestata interdittiva e del provvedimento comunale di revoca della SCIA per l’apertura di un esercizio di vendita di frutta e verdura;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio delle sole Amministrazioni statali intimate;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore all'udienza pubblica dell’11 luglio 2018 il Cons. Silvestro Maria Russo, nessuno presente per le parti costituite;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

 


FATTO e DIRITTO

1. – Nel luglio 2010, fu sciolto il Consiglio comunale di Borgia (CZ) per infiltrazione mafiosa, al cui posto fu insediato un commissario prefettizio.

Nel maggio 2012 il sig. Giustiniano Chiarella propose al commissario stesso una SCIA, al fine di ottenere l’apertura d’un esercizio di vendita al dettaglio di frutta e verdura. Decorsi i termini ex art. 19 della l. 7 agosto 1990 n. 241, il sig. Chiarella diede avvio a tal attività commerciale.

Sennonché la nuova Amministrazione comunale eletta, reputando che tal vicenda rientrasse tra le autorizzazioni indicate nell’art. 67 del D.lgs. 6 settembre 2011 n. 159 (codice delle leggi antimafia), chiese alla Prefettura di Catanzaro, ai sensi del successivo art. 100, un’informativa antimafia sulla posizione del sig. Chiarella. Il 30 maggio 2014 la Prefettura ha adottato un’interdittiva antimafia ex art. 91, co. 6 del decreto n. 159 nei confronti del medesimo sig. Chiarella. Pertanto, con ordinanza n. 14 del 12 giugno 2014, il Sindaco di Borgia, nella sua qualità di Autorità ex lege di PS e tenuto conto dell’interdittiva citata, ha disposto la revoca della SCIA per l’esercizio di vicinato in capo al sig. Chiarella.

2. – Questi ha allora impugnato i testé citati provvedimenti innanzi al TAR Catanzaro, col ricorso NRG 1016/2014, chiedendone l’annullamento per erronea applicazione degli artt. 67 e 100 del D.lgs. 159/2011 e per eccesso di potere sotto vari profili. Il ricorrente ha chiesto altresì, con separata ma contestuale domanda, il risarcimento dei danni patiti a causa della chiusura di tale esercizio di vicinato e del danno non patrimoniale (quantificati in complessivi € 35.000,00).

L’adito TAR, con sentenza n. 367 del 26 febbraio 2015, ha accolto il ricorso e ha annullato i citati provvedimenti, ma ha omesso del tutto di pronunciarsi, neppure per implicito o per meri accenni, sulla domanda risarcitoria.

Ha appellato quindi il sig. Chiarella, col ricorso NRG 8424/2015 (sez. III), chiedendo la riforma in parte qua della gravata sentenza laddove non ha disposto alcunché sulla predetta domanda, tant’è che ha dedotto la violazione dell’art. 112 c.p.c e, comunque, la fondatezza della pretesa risarcitoria nel merito ove la si ritenga per implicito respinta senza motivazione, per la quale sussistono invece gli elementi, oggettivo (pregiudizio economico e nesso eziologico coi provvedimenti illegittimi) e soggettivo, della responsabilità di entrambe le Amministrazioni intimate.

Investita della trattazione del ricorso NRG 8424/2014, la sez. III di questo Consiglio, con la ordinanza collegiale n. 2472 del 24 aprile 2018 ed ai sensi dell’art. 99, co. 1, c.p.a. ha rimesso alla Adunanza plenaria la portata applicativa del successivo art. 105, co. 1, ai fini della risoluzione del contrasto giurisprudenziale in atto tra le Sezioni.

Tal ultima disposizione prevede che il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado «… soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio…».

Fissata l’udienza pubblica dell’11 luglio 2018, il 9 giugno u.s. l’Avvocatura erariale ha tempestivamente depositato una memoria difensiva nel giudizio n. 9/2018 R.G. pendente presso la VI Sezione e diverso da quello di cui si discute in questa sede, dotato del numero di ruolo n. 9/2018 dell’Adunanza Plenaria e non di una sezione semplice.

La stessa Avvocatura ha, peraltro, successivamente depositato la memoria nel ricorso n. 9/2018 dell’Adunanza Plenaria; in ritardo, tuttavia, rispetto all’udienza pubblica fissata dinanzi a quest’ultima, alla quale non ha, peraltro, preso parte l’Avvocato dello Stato.

3.  Va innanzi tutto osservato che l’Amministrazione è incorsa in errore nella esatta identificazione del ricorso n. 9/2018 R.G., depositando la memoriain quello dotato di tale numero ma pendente presso la VI Sezione e non in quello pendente presso l’Adunanza Plenaria; trattandosi, peraltro, di mero errore materiale, il Collegio gliene riconosce la scusabilità ed ammette la memoria al proprio esame.

4. – Tanto premesso, la Sezione remittente reputa necessario definire l’esatto ambito di operatività del citato art. 105, co. 1, c.p.a., con riguardo alla vicenda al suo esame, connotata da una totale e immotivata omissione di pronuncia sulla domanda risarcitoria, seppur correlata all’esito vittorioso dell’azione di annullamento contro i provvedimenti lesivi della posizione giuridica del ricorrente in primo grado.

Ad avviso della Sezione remittente, dunque, la vicenda in esame differisce molto da altri e coevi casi oggetto di rinvio all’Adunanza plenaria, pronunciate dalla Quarta e dalla Quinta Sezione, nonché dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana.

Tanto perché viene qui in rilievo la stretta connessione tra il vizio procedurale e la lesione del diritto difesa, rilevante ai fini del rinvio ex art. 105 c.p.a. A tal ultimo riguardo, l’ordinanza di rimessione in oggetto prende le mosse da un dato di fatto in sé evidente già dalla semplice lettura della sentenza appellata. È invero mancata del tutto la pronuncia sulla domanda risarcitoria ritualmente proposta in primo grado e non v’erano (né, allo stato, vi sono) motivi d’ordine processuale o sostanziale che avrebbero potuto inibire al TAR di delibare la fondatezza, o meno, della relativa azione. Non è possibile configurare alcuna pronuncia implicita nella specie e, anzi, della domanda risarcitoria il TAR non ha fatto cenno nell’esposizione dello svolgimento del processo.

Sicché la vicenda de qua manifesta la violazione della disposizione di cui all’art. 112 c.p.c., che, com’è noto, esprime il principio generale dell’obbligo, gravante sul Giudice, di «corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato». Donde la necessità, ad avviso della Sezione remittente, di stabilire in via pregiudiziale se il vizio di mancata totale pronuncia sulla domanda rientri, o no, tra quelli che, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., comportino la regressione del giudizio dal grado d’appello al primo grado, in caso contrario e per l’effetto devolutivo dell’appello dovendo questo Consiglio trattenere la causa e deciderla nel merito.

L’ordinanza di rimessione passa quindi in rassegna l’evoluzione normativa dell’istituto a partire dall’art. 35 della l. 6 dicembre 1971 n. 1034, nonché le varie ipotesi formulate dalle altre Sezioni remittenti per le vicende esaminate all’udienza di questa Adunanza plenaria in data 13 giugno 2018. Si sofferma poi, per quel che qui più rileva, sulla nozione di «lesione del diritto di difesa» (riconnettendola al principio del doppio grado di giudizio). In particolare, essa rammenta come l’ordinamento della giustizia amministrativa s’incentri sul principio del doppio grado di giurisdizione, sancito dall’art. 125 Cost. ed attuato con l’istituzione dei TAR nel 1971. Ma rammenta altresì come la regola costituzionale non imponga affatto che la legge processuale debba garantire sempre alle parti il diritto d’un doppio esame di ogni questione di rito o di merito proposta nel corso del giudizio, all’uopo essendo necessario e sufficiente che ciascuna domanda od eccezione sia potenzialmente esaminabile in due diversi gradi di giudizio, tenuto conto per vero del rapporto di pregiudizialità logica tra le diverse questioni. Dal che l’avvenuto contemperamento, nel c.p.a., tra le regole costituzionali sul doppio grado e sulla ragionevole durata del processo, grazie alla precisa e rigorosa delimitazione dei casi di rinvio al primo giudice, che si pone come eccezione rispetto alla regola dell’effetto devolutivo dell’appello.

La Sezione remittente afferma di non aver motivo di discostarsi dall’orientamento tradizionale, più fedele alla lettera dell’art. 105 c.p.a. ed all’evidente sua finalità d’accelerazione del giudizio, nel rispetto delle prerogative tipicamente processuali in cui si sostanzia il diritto di difesa; reputa, tuttavia, peculiare la vicenda di cui oggi si discute, ossia la totale omissione di pronuncia su una intera domanda (quella risarcitoria), a suo dire direttamente lesiva del diritto di difesa (a differenza dell’erronea declaratoria d’inammissibilità, irricevibilità o improcedibilità), perché ha provocato, nei confronti della parte ricorrente, effetti equivalenti a quelli della c.d. “pronuncia a sorpresa” di cui all’art. 73 c. p.a. Già quando il Giudice pone a base della propria decisione una questione rilevata d’ufficio, senza prospettarla preventivamente alla dialettica tra le parti, arreca un sicuro pregiudizio al diritto di difesa dell’interessato, impedendogli di manifestare in contraddittorio la propria posizione. A più forte ragione si deve concludere per la totale omessa ed immotivata pronuncia del Giudice sull’azione proposta dal ricorrente, ove si verifica in modo ancora più vistoso la lesione del diritto di difesa, poiché la parte si vede privata d’ogni possibilità di difesa in ordine ad una pronuncia sfavorevole, adottata al di fuori del prescritto contraddittorio.

5. – Tutto ciò premesso, la Sezione remittente chiede dunque a questa Adunanza se, «… qualora il giudice di primo grado abbia omesso del tutto la pronuncia su una delle domande del ricorrente (nella specie l’azione di risarcimento del danno, conseguente all’annullamento dei provvedimenti impugnati), la controversia debba essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado, in coerenza con l’effetto devolutivo dell’appello e con la regola della tassatività delle ipotesi di rinvio al primo giudice, oppure, in alternativa, la causa debba essere rimessa al TAR, valorizzando la portata anche sostanziale della nozione di “violazione del diritto di difesa” e il principio costituzionale del doppio grado, anche alla luce della circostanza che la radicale e immotivata omissione di pronuncia avrebbe effetti equivalenti a quelli di una decisione adottata d’ufficio, in violazione del contraddittorio con le parti, stabilito dall’art. 73, comma 3, del CPA…».

6. – Fin d’ora, l’Adunanza ben può rispondere al quesito così posto, ritenendone corretta, anche alla luce d’una consolidata lettura del medesimo art. 105, co. 1, c.p.a., la prima alternativa prospettata con l’ordinanza di rimessione e ciò pur a fronte della singolarità della lite all’esame della Sezione stessa.

Quanto alle questioni sulla portata applicativa dell’art. 105, poste da altre Sezioni, cui l’ordinanza in esame fa riferimento o cenno, esse sono state esaminate con altra pronuncia ispirata a una rigorosa delimitazione dell’ambito oggettivo della menzionata disposizione, con riferimento, peraltro, a quesiti e vicende differenti dalla questione oggi in esame.

Al riguardo, è appena da rammentare, anche alla luce dell’art. 44, co. 1 della l. 18 giugno 2009 n. 69, come l’art. 105 c.p.a. sia sostanzialmente omeomorfo agli artt. 353 e 354 c.p.c., non solo per ragioni semantiche, ma soprattutto perché la riforma del processo amministrativo ha provveduto ad “… adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori” ed a “coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di princìpi generali…”.

Ecco, la struttura ed il significato dell’art. 105 esprimono, fatte le debite differenze, concetti e valori propri dell’ordinamento generale, nella tendenziale unitarietà del processo, pur nelle sue definite e differenti declinazioni. Questi valori e concetti provvedono a delineare un sistema tendenzialmente comune ed unitario del processo, specie oggi che (cfr. i principi delineati da Cons. St., ad. plen., 29 luglio 2011 n. 15) il c.p.a., nel dar attuazione armonica ai principi costituzionali e comunitari in materia di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale previsti nella delega legislativa di cui alla l. 69/2009, supera la tradizionale limitazione della tutela dell'interesse legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo la esperibilità di azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa.

Si ha così un’unitaria regolazione per principi, nella specie quello per cui la sentenza d’appello si sostituisce alla sentenza di primo grado ed il giudice di appello decide nel merito, anche quando rileva un vizio del procedimento o della sentenza di primo grado, qualora, sia pur errando, il Giudice di prime cure abbia esaurito la sua potestà decisoria.

La rigidezza dei casi di rimessione al primo giudice serve, in tutti i giudizi a duplice grado, a limitare la discrezionalità dell’interprete nell’“invenzione”, nel senso proprio di rinvenimento, di fattispecie ulteriori (cioè, diverse e distinte da tutti i casi implicati) di regressione dall’appello al primo grado, la tassatività delle categorie esistenti essendo indubbia pure per la remittente.

Sicché la pronuncia che dichiara erroneamente l’irricevibilità, l’inammissibilità o l’improcedibilità di un ricorso giurisdizionale, consuma il potere decisorio da parte del primo Giudice e, stante l’effetto devolutivo dell’appello, impone al secondo Giudice, una volta riscontrato tale error in iudicando, di pronunciarsi nel merito. È, questo, un orientamento consolidato, certo a partire dalla sentenza che l’Adunanza plenaria resa nel 1978 (cfr. Cons. St., ad. plen., 30 giugno 1978 n. 18): già quarant’anni fa, essa aveva precisato che, quando il Giudice abbia erroneamente definito il giudizio dichiarando inammissibile o improcedibile il ricorso, «…in tale ipotesi il vizio fatto valere investe soltanto il contenuto della pronunzia impugnata e non il processo che ha condotto alla sua emanazione…». Si tratta d’un principio che non v’è ragione di rimettere in discussione nel suo impianto, nemmeno, anzi proprio alla luce del dato normativo dell’art. 105 c.p.a., ben più preciso e compiuto rispetto alla formulazione dell’art. 35 dell’abrogata l. 1034/1971.

Esiste, peraltro, un orientamento giurisprudenziale alla stregua del quale tali erronee pronunce sul rito potrebbero essere considerate nel contenuto e nell’effetto, a guisa di pronunce declinatorie della giurisdizione.

Tale modo di pensare non coglie, peraltro, le implicazioni dirette della questione, ossia la ricorribilità per cassazione di tali pronunce ed una non appropriata considerazione del principio del doppio grado. Quanto al primo aspetto, pare sufficiente considerare che, anche nella pacifica giurisprudenza della Corte regolatrice, non si è mai affermato che l’erronea statuizione sulla inammissibilità o improcedibilità possa dar luogo a un’errata pronuncia sulla giurisdizione ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 della Costituzione. In ordine al secondo aspetto, si deve osservare che il Giudice di primo grado, nel ritenere la sussistenza d’una ragione che escluda la delibazione d’una controversia nel merito, non ha abdicato alla sua potestas iudicandi, ma ha valutato, per quanto erroneamente, che ricorra una questione preliminare o pregiudiziale idonea a definire il giudizio avanti a sé.

E un giudizio può, com’è noto, esser definito con l’accoglimento d’una questione, preliminare o pregiudiziale, che impedisce l’esame nel merito, in quanto non è vero che la parte abbia diritto sempre e comunque ad un doppio grado nel merito, ove al merito non si possa giungere (si pensi, p. es., a tutte le preclusioni o decadenze in cui s’incorre per la violazione di termini processuali).

Il doppio grado nel merito costituisce, infatti, il punto di arrivo –eventuale– del processo, non la sua premessa necessaria e indefettibile. Il bene al quale aspira la parte ed al quale tende il giudizio è il giudicato sulla sua pretesa. Il passaggio attraverso più gradi di giudizio è il veicolo, peraltro non sempre necessario (si pensi, p. es., ai casi di unico grado di giudizio avanti al Consiglio di Stato), il quale conduce a questo risultato, verso la stabilità della cosa giudicata (art. 2909 c.c.).

7. – Con l’ordinanza di rimessione oggi all’esame del Collegio, la III Sezione del Consiglio di Stato ha pertanto affermato di considerare preferibile la tradizionale interpretazione dell’art. 105 c.p.a., ritenuta più fedele alla lettera della norma ed alla sua evidente finalità di accelerazione del giudizio; ha, invece, ritenuto di sottoporre all’attenzione dell’Adunanza il quesito se la totale omissione di pronuncia su una intera domanda (nella specie, quella risarcitoria) possa comportare, a differenza dell’erronea declaratoria di irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità, una diretta lesione del diritto di difesa, potendo una situazione del genere provocare, nei confronti della parte interessata, effetti equivalenti a quelli della c.d. “pronuncia a sorpresa”, che l’art. 73 c.p.a. tende, appunto, ad evitare. Poiché, infatti, il porre a base della decisione del giudice una questione rilevata d’ufficio non preventivamente sottoposta al contraddittorio delle parti costituirebbe un pregiudizio del diritto di difesa dell’interessato, potrebbe essere plausibile ritenere, secondo la Sezione, che, quando il giudice disattende del tutto, senza alcun esame, la domanda del ricorrente, si sia di fronte ad una ancor più grave lesione del diritto di difesa della parte interessata.

Non sfugge, peraltro al Collegio, lo si è già accennato, la differenza tra il caso prospettato dalla Sezione remittente e quelli di cui si occupano, in altro e diverso contesto, le altre ordinanze di rimessione. In queste ultime, in vario modo, gli interessati lamentano non che il Giudice di prime cure abbia abdicato alla propria potestas iudicandi, ma che questi abbia ritenuto il ricorso non meritevole d’esame nel merito a causa delle più svariate pregiudiziali in rito. In base a tale constatazione, l’appellante chiede al Giudice d’appello, nei limiti della devoluzione, di sostituirsi al TAR in tal esame sulla sostanza della lite. E tale sostituzione costituisce un potere/dovere del Giudice d’appello, laddove emerga l’erroneità della statuizione del TAR e si riapra interamente davanti a lui la cognizione del merito, senza che un tal risultato possa mai non solo implicare, ma proprio ipotizzare un’ipotesi di rinvio ex art. 105, co. 1, c.p.a.

A ben vedere, la vicenda adesso rimessa all’esame dell’Adunanza da parte della III Sezione non rientra affatto tra i casi cui fa riferimento il dato testuale del citato art. 73, co. 3 c.p.a., per l’evidente ragione che il Giudice di prime cure non ha impedito alle parti di difendersi in contraddittorio su tutte le questioni dedotte innanzi a lui. L’art. 73, co. 3, se impone al Giudice di provocare il contraddittorio sulla questione rilevata d’ufficio e sebbene non sanzioni in modo espresso di nullità la sentenza resa, in realtà fa un rinvio implicito al successivo art. 105, co. 1, poiché così è mancato il contraddittorio, ossia la prima nell’elenco delle ragioni che impongono il rinvio al primo Giudice. Si badi: il dovere del Giudice stabilito dall'art. 73, co. 3, non tutela affatto un inesistente “diritto” delle parti ad esser previamente informate su come questi vorrà qualificare giuridicamente i fatti portati alla sua attenzione, ma costituisce un mezzo di garanzia del contraddittorio, diretto ad evitare pronunce su profili aventi un’influenza decisiva sul giudizio quali, per esempio, la tardività, il difetto dell’interesse protetto, la perenzione del giudizio. Pertanto, il dovere ex art. 73, co. 3 risponde alla chiara finalità di contrastare, in ossequio al fondamentale principio del contraddittorio enunciato dall'art. 2, co. 1, c.p.a., il fenomeno delle c.d. decisioni a sorpresa, tant’è che la sua omissione trova la sanzione endoprocessuale nell'art. 105, co. 1 (arg. ex Cons. St., IV, 8 febbraio 2016 n. 478). D’altra parte, l’analogia (a volte prospettata della violazione dell’art. 112 c.p.c.: cfr., ad esempio, Cons. St., sez. III, ord. 24 aprile 2018, n. 2472) con l’ipotesi della “decisione a sorpresa” (adottata in violazione dell’art. 73, comma 3, Cod. proc. amm.), non risulta persuasiva.

Nel caso dell’art. 73, comma 3, infatti, il giudice ha deciso la domanda e la parte lamenta che l’abbia fatto ritenendo dirimente una questione, di rito o di merito, non sottoposta al contraddittorio processuale: il vizio attiene, quindi, al procedimento (la questione non è stata previamente sottoposta al contraddittorio nel corso del processo) non al contenuto della sentenza (che potrebbe essere anche “giusta” nella sua portata decisoria).

Nel caso di omesso esame, invece, il vizio risiede esclusivamente nel contenuto (incompleto) della decisione, mentre nel giudizio-procedimento non risulta violata alcuna specifica regola diretta a tutelare il diritto di difesa delle parti.

D’altro canto, la violazione del diritto di difesa presuppone che una pronuncia sia stata resa senza che siano state rispettate le garanzie difensive previste a favore di una delle parti (e la decisione, pertanto, è invalida per il solo fatto che è stata resa). La violazione del diritto di difesa si traduce, infatti, in un vizio del procedimento che porta alla decisione e presuppone che, alla fine, una decisione vi sia. Nel caso di omesso esame di una domanda la situazione è diametralmente opposta: la parte lamenta che il giudizio-procedimento (di per sé non viziato) si è concluso senza una decisione (su una delle domande), che, invece, avrebbe dovuto essere resa.

La tassatività dei casi di annullamento con rinvio di cui all’art. 105 esclude, pertanto, la possibilità di equiparare situazioni processuali diverse sul presupposto della pari o maggiore gravità che caratterizzerebbe l’omessa decisione rispetto alla “decisione a sorpresa” adottata in violazione dell’art. 73, comma 3, Cod. proc. amm.

8. - Ma, pur a seguire la tesi dell’ordinanza, una cosa è la decisione “a sorpresa”, ben altra è l’assenza di pronuncia, nel qual caso il TAR avrebbe violato un altro non sovrapponibile precetto, ossia quello ex art. 112 c.p.c., stante la mancata statuizione su tutte le domande poste, con conseguente violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Ora, la violazione dell’art. 112 c.p.c., di per sé sola, non costituisce una causa normale (predefinita ex lege) di rinvio al primo Giudice. Ciò vale certamente per l’esame di alcuni motivi dell’originario ricorso, come s’evince dall’onere di parte ex art. 101, co. 2, c.p.a. di riproposizione in forma espressa dei motivi assorbiti o non esaminati in primo grado, che dà luogo ad una decadenza o, se si vuole, ad una presunzione assoluta di rinuncia. Dal che è ben possibile evincere come, in generale, l’omesso esame di taluni motivi non determini la regressione della causa al primo Giudice. Anzi, se non v’è un impulso della parte pretermessa a volerli far constare dal Giudice d’appello, i motivi s’intendono rinunciati sic et simpliciter.

Del pari, non si può mai configurare tal rinvio, quando, pur a fronte d’un materiale omesso esame di alcune delle domande, dalla lettura della motivazione si comprenda comunque perché il Giudice non abbia pronunciato espressamente su queste ultime.

9. - Ma ad analoga conclusione deve pervenirsi anche quando, a causa d’una svista o di un errore di fatto, il primo Giudice non s’è materialmente accorto, nel leggere gli atti del giudizio, della formulazione d’una o più domanda (è il classico errore revocatorio, per c.d. “abbaglio dei sensi”). In tali casi, è utile ricordare che, secondo una pacifica giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. III, 1 aprile 2014, n. 1314), l’omesso esame di una delle domande (o di uno o alcuni dei motivi proposti) integra, quando deriva da un svista del giudice nella percezione degli atti processuali, un errore di fatto idoneo a fondare il rimedio della revocazione. Ma va avvertito che l’errore di fatto revocatorio non è un error in procedendo che integra una violazione del diritto di difesa, né un’ipotesi di nullità della sentenza, bensì (semplicemente) un errore che inficia il contenuto della sentenza. E allora, la qualificazione, ai sensi dell’art. 105, di tale situazione come ipotesi di nullità (o come violazione del diritto di difesa delle parti) determinerebbe profili di incoerenza anche rispetto al citato indirizzo giurisprudenziale maturato in materia di revocazione.

Per tali ragioni, deve allora ritenersi che la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (non importa se riferita a singoli motivi o a singole domande) non determina un’ipotesi di nullità della sentenza, né un caso di violazione del diritto di difesa idoneo a giustificare l’annullamento con rinvio della sentenza appellata.

10. - Tale conclusione si impone anche alla luce dell’art. 101, comma 2, Cod. proc. amm., il quale nel prevedere che «si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano espressamente riproposte nell’atto di appello», chiaramente esclude che l’omesso esame di una domanda (e a maggior ragione di un motivo) possa determinare una regressione al primo giudice.

Lo stesso articolo 101, comma 2, c.p.a. stabilisce che per le parti diverse dall’appellante principale la riproposizione delle domande non esaminate (o assorbite) può avvenire anche con semplice memoria difensiva, senza necessità di appello incidentale. Viene, in tal modo codificato, un indirizzo interpretativo che la giurisprudenza amministrativa aveva affermato anche prima dell’entrata in vigore del Codice, sul presupposto che in caso di omessa pronuncia su una specifica ed autonoma domanda (che implica la violazione della regola della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato) l’appellato –risultato vittorioso in ordine ad una domanda– non è costretto a cominciare ex novo un giudizio di primo grado e non è tenuto a proporre una formale impugnazione incidentale, perché manca il presupposto della soccombenza, e può, quindi, riproporre in grado di appello la domanda non esaminata, mediante uno scritto difensivo che la richiami esplicitamente e superi la presunzione di rinuncia (in questi termini cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 20 dicembre 2002, n. 8, che aveva già ritenuto applicabile l’art. 346 Cod. proc. civ., contenente una previsione analoga a quella ora inserita nell’art. 101, comma 2, Cod. proc. amm.).

La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato non è, quindi, equiparabile ad una ipotesi di violazione del diritto di difesa: in questo caso, infatti, la parte non lamenta di non essersi potuta difendere nel corso del procedimento, ma lamenta un vizio che attiene al contenuto della decisione, che risulta incompleto rispetto ai motivi o alle domande proposte.

Diverso può essere il caso -la cui individuazione determinerebbe la regressione della causa al primo giudice- in cui manchi del tutto la pronuncia sulla domanda o il giudice pronunci su diversa domanda, ovvero sulla domanda fatta valere in giudizio il giudice di primo grado abbia pronunciato con motivazione inesistente o apparente.

In questi casi –i cui termini sono stati chiariti da questa Adunanza plenaria con le decisioni n. 10 e n. 11/2018, assunta all’esito della medesima udienza pubblica in cui è stata decisa la presente causa–, la rimessione al primo giudice si riscontra in ragione del ricorrere della fattispecie della nullità della sentenza, perché priva degli elementi minimi idonei a qualificare la pronuncia come tale.

E così, per esempio, Cons. St., IV, 31 luglio 2017, n. 3809, ha ritenuto che, ai sensi degli artt. 99 e 112 c.p.c., sia nel processo civile che in quello amministrativo, il principio della domanda e quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato hanno dignità di clausole generali e comportano il divieto di attribuire un bene della vita non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda. Sicché va annullata con rinvio la sentenza che, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi identificativi dell'azione, cioè il petitum e la causa petendi, attribuendo quindi un bene della vita diverso da quello richiesto o ponendo a fondamento della propria decisione fatti o situazioni del tutto estranei o dalle parti non considerati, salvo comunque il potere del giudice adito di fornire la qualificazione giuridica dei fatti e della domanda giudiziale. Si tratta di ipotesi, ben note alla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Cons. St., VI, n. 4914/2013, cit.; id., IV, 12 maggio 2014 n. 2416; id., V, 28 luglio 2014, n. 4019, che cita tal quale la precedente; id., IV, n. 3809/2017, cit.), in cui si verifica la totale mancanza dell’esplicazione, neanche in minima parte o per accenni a principi di diritto, delle ragioni che hanno condotto alla decisione assunta. In tal caso, la sentenza appellata è nulla, risultando priva di uno degli elementi essenziali prescritti dall'art. 88 c.p.a. In tali ipotesi non trova applicazione il richiamato orientamento per cui l'accoglimento dell'impugnazione, per violazione dell'art. 112 c.p.c., non conduce all'annullamento della statuizione gravata ma implica la risoluzione della controversia nel merito da parte del Giudice d’appello (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 28 febbraio 2016, n. 846), in quanto, nelle su richiamate ipotesi affatto eccezionali, l’annullamento con rinvio consegue (anche alle luce dei molteplici principi di diritto enunciati da Cons. St., ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5) alla nullità della sentenza non già per una mera distonia tra quanto chiesto e quanto pronunciato dal TAR, ma perché quest’ultimo ha completamente tralasciato di affrontare la vera domanda proposta, onde vi fu il chiesto, ma non v’è mai stato alcun pronunciato.

Anche in questi casi, peraltro, è opportuno chiarire che l’omessa pronuncia o il difetto assoluto di motivazione, per poter determinare la nullità della sentenza ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 105 c.p.a., devono essere valutati e apprezzati con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso, e non in maniera parcellizzata o frammentata, facendo riferimento ai singoli motivi o alle singole domande formulate all’interno di esso.

Anche sotto tale profilo da ultimo evidenziato, deve osservarsi che l’ordinanza di rimessione, nel prospettare come causa di rinvio ex art. 105 l’omesso esame della domanda risarcitoria, non considera l’impossibilità di frazionare il presupposto e gli effetti del rinvio.

In altre parole, si prospetta una nullità della sentenza, ma solo in parte qua, ossia per l’omesso esame o il totale difetto di motivazione su una domanda risarcitoria non autonoma, ma strettamente dipendente da quella, poi accolta, d’annullamento. Ha ragione la Sezione remittente ad inferire la grave patologia della sentenza che non ha esaminato tale domanda pur a fronte della statuita illegittimità dell’atto; l’ordinanza, tuttavia, non può esser seguita quando, in base a tal inferenza, concludeper il rinvio di quest’ultima parte dell’azione nel complesso spiegata dal sig. Chiarella al TAR stesso. Infatti, se l’integrale violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato può rientrare nei casi in cui il principio devolutivo cede il passo al principio del doppio grado di giudizio, ciò può avvenire solo se il profilo di nullità nei termini sopra chiariti –omesso totale esame della domanda azionata o motivazione inesistente- coinvolga la sentenza nella sua interezza; mentre sarebbe davvero incongruo ipotizzare, sul piano dell’economia del giudizio e della sua ragionevole durata, un rinvio limitato alla parte di giudizio relativo all’azione su cui non vi è stata pronuncia (nella specie, la domanda risarcitoria connessa all’azione di annullamento) con contestuale sospensione della parte di giudizio su cui si è esplicato appieno il doppio grado.

11. - Deve in conclusione il Collegio enunciare, rispondendo all’ordinanza di rimessione, i seguenti principi di diritto, che possono esser in tal modo riassunti:

a) In coerenza con il generale principio dell’effetto devolutivo/sostitutivo dell’appello, le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall’art. 105 Cod. proc. amm. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive.

b) La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, anche quando si sia tradotta nella mancanza totale di pronuncia da parte del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente, non costituisce un’ipotesi di annullamento con rinvio; pertanto, in applicazione del principio dell’effetto sostitutivo dell’appello, anche in questo caso, ravvisato l’errore del primo giudice, la causa deve essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado.

Ai sensi dell’art. 99, co. 4, c.p.c. la decisione definitiva del ricorso è rimessa alla Sezione, alla luce dei princìpi di diritto testè enunciati e in relazione alle peculiarità del caso concreto.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), enuncia i principi di diritto di cui ai punti 11.a), 11.b) della motivazione e restituisce per il resto l’affare alla III Sezione, che definirà il giudizio nel merito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio dell’11 luglio 2018, con l'intervento dei sigg. Magistrati:

 

 

Alessandro Pajno, Presidente

Filippo Patroni Griffi, Presidente

Sergio Santoro, Presidente

Franco Frattini, Presidente

Giuseppe Severini, Presidente

Roberto Giovagnoli, Consigliere

Claudio Contessa, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere

Bernhard Lageder, Consigliere

Umberto Realfonzo, Consigliere

Silvestro Maria Russo, Consigliere, Estensore

Oberdan Forlenza, Consigliere

Massimiliano Noccelli, Consigliere