Cassazione Civile Sez. I, 7 febbraio 2017, n. 3196 - Pres. Aniello, Est. Ferro
In tema di società partecipate dagli enti locali, anche nella forma della società in house, la scelta del legislatore di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità.
Sommario: 1. Le questioni; 2. Il requisito soggettivo del fallimento: tra teoria funzionalista e tipologica; 3. La discussa fallibilità della società in house.
Guida alla lettura
1. Le questioni.
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione ha espressamente affermato la fallibilità delle società in house, per la prima volta argomentando anche a partire dalle disposizioni del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, pur non applicabile ratione temporis alla fattispecie.
La Suprema Corte rileva che la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza.
Diversamente opinando, sarebbero infatti violati i principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto, nonché disattesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità.
Proprio dall’esistenza di specifiche normative di settore che, negli ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato, può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica.
La Suprema Corte valorizza, onde pervenire a tale approdo ermeneutico, taluni rilevanti dati positivi.
Si fa riferimento, anzitutto, all’art. 1 della Legge Fallimentare che, nel determinare l’ambito di esenzione dalle procedure concorsuali, discorre esclusivamente di “enti pubblici” e non di “società pubbliche”.
Inoltre, l’art. 14 del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, eloquentemente precisa che “le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi”.
La complessità della questione, anche alla luce dei profili sistematici interessati, merita un’analisi ricostruttiva che, a partire dall’esame delle posizioni sostenute da dottrina e giurisprudenza, pervenga all’inquadramento delle novità recate dal recente decreto legislativo in materia di società pubbliche.
2. Il requisito soggettivo del fallimento: tra teoria funzionalista e tipologica.
Il menzionato art. 1 della legge fallimentare, nell’escludere dal perimetro applicativo della relativa disciplina gli “enti pubblici”, è alla base della distinzione tra le teorie tipologica e funzionalista, rilevanti al fine di individuare il fondamento dell’assoggettabilità o meno delle società pubbliche al fallimento .
Secondo l’impostazione tradizionale, il requisito negativo di cui all’art. 1 l.f. è fondato su una valutazione legislativa di “essenzialità” dell’ente pubblico economico, che è in tal modo posto al riparo dall’applicazione tout court della disciplina di diritto comune, salvaguardandone l’esistenza anche in caso di incapacità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni (Toriello, 2016). Le società partecipate, d’altra parte, rappresentano in misura consistente la continuazione con altri mezzi del medesimo fenomeno costituito dagli enti pubblici economici, dopo il compimento del processo di privatizzazione formale.
Secondo l’orientamento tipologico (Bassi, 1969; Galgano, 1974; Romagnoli, 2006; Fimmanò, 2011; Sorci, 2011), dunque, una società commerciale riveste ipso iure natura privatistica, a prescindere dalle funzioni ad essa affidate e dall’intensità del collegamento che la avvince alla Pubblica Amministrazione.
In una recente sentenza, la Corte di Cassazione afferma la fallibilità delle società pubbliche, a prescindere dalla funzione esercitata, «non potendosi al contempo disconoscere che il modello societario è andato negli anni assumendo connotati sempre più elastici, sostanzialmente svincolandosi dalla tradizionale alternativa fra causa di lucro e causa mutualistica, sino a divenire un contenitore adattabile a diverse finalità (si pensi, ad es., alle società sportive di cui alla I. n 91/81), l'eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo non appare sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile»[1].
Nella medesima pronuncia, tuttavia, la Suprema Corte pone implicitamente le basi per il superamento di tale orientamento, ove osserva che ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell'applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale non è il tipo dell'attività esercitata, ma la natura del soggetto: proprio della natura privatistica è lecito dubitare con riferimento ad alcune società che, investite dell’esercizio di pubbliche funzioni e legate alla P.A. da un rapporto di delegazione interorganica, si atteggiano ad “organo esterno” della Pubblica Amministrazione.
Secondo differente orientamento (Renna, 1997; Marzuoli, 2000; Napolitano, 2003; D’Attorre, 2007; Id., 2009; Id., 2013) di matrice funzionalistica, la questione dell’assoggettabilità a fallimento delle società partecipate deve essere risolta sulla base delle funzioni attribuite alle medesime, non essendo appagante il criterio della mera appartenenza ad un tipo codicistico[2].
Tale indirizzo è confortato dalle più recenti pronunce del Giudice amministrativo, ad avviso del quale «Nell’ambito delle società pubbliche occorre distinguere le società che svolgono attività di impresa da quelle che esercitano attività amministrativa. Le prime sono assoggettate, in linea di principio, allo statuto privatistico dell’imprenditore, le seconde allo statuto pubblicistico della pubblica amministrazione. Per stabilire quando ricorre l’una o l’altra ipotesi, occorre aver riguardo: i) alle modalità di costituzione; ii) alla fase dell’organizzazione; iii) alla natura dell’attività svolta; iv) al fine perseguito»[3].
Proprio a partire da tale orientamento del Consiglio di Stato è possibile superare la bipartizione tra teoria tipologica e funzionalista, atteso che, con riferimento alle società pubbliche e per effetto determinante del diritto europeo, è proprio la funzione che fa il tipo.
L’art. 1 della legge fallimentare, allorché esenta gli enti pubblici dalle procedure concorsuali, può dunque essere interpretato attraverso il prisma di quella che il Consiglio di Stato ha denominato nozione “funzionale” e “cangiante” di ente pubblico, tale da ricomprendere quelle società che, in ragione delle funzioni esercitate e dei legami con la Pubblica Amministrazione, sono da considerarsi “organi indiretti” della medesima.
3. La discussa fallibilità della società in house.
Problema peculiare si pone con riferimento alle società in house, soprattutto nel caso in cui siano affidatarie di servizi pubblici; pochi dubbi, infatti, sussistono in ordine alla fallibilità di società partecipate da enti pubblici che esercitano in una logica di mercato attività commerciali. A tali società ben si attaglia il condivisibile dictum della Corte di Cassazione, secondo cui «la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali – e dunque a perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico – comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e dell’affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dell’ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con le stesse forme e le stesse modalità»[4].
Correlativamente, pochi dubbi si appuntano sulla sottrazione al fallimento dei c.d. “enti pubblici in forma societaria” (Caringella, 2016), tra cui ex pluribus Anas S.p.A., che esercitano propriamente funzioni pubbliche e non attività economica: per tali enti difetterebbe, in ogni caso, il requisito oggettivo del fallimento.
Con riferimento, invece, alle società in house, dottrina e giurisprudenza appaiono divise tra un orientamento che fa leva sulla non alterità della società rispetto alla Pubblica Amministrazione[5] ed un altro orientamento che, al contrario, si fonda sul principio generale della assoggettabilità alle procedure concorsuali delle imprese che abbiano assunto la forma societaria, iscrivendosi nell’apposito registro e quindi volontariamente assoggettandosi alla disciplina privatistica[6].
La questione problematica si pone proprio in ragione dei connotati strutturali delle società in house[7]: la giurisprudenza di legittimità, nell’affermare in generale la fallibilità delle società pubbliche, statuisce che l’applicazione del diritto comune trova «fondamento nell'incontestabile rilievo che il rapporto tra società ed ente pubblico è di assoluta autonomia»[8]; inoltre «una società per azioni il cui statuto non evidenzi poteri speciali di influenza ed ingerenza dell'azionista pubblico, ulteriori rispetto a quelli previsti dal diritto societario, ed il cui oggetto sociale non contempli attività di interesse pubblico da esercitarsi in forma prevalente, comprendendo, invece, attività di impresa pacificamente esercitabili da società di diritto privato, non perde la sua qualità di soggetto privato — e, quindi, ove ne sussistano i presupposti, di imprenditore commerciale fallibile - per il fatto che essa, partecipata da un comune, svolga anche funzioni amministrative e fiscali di competenza di quest'ultimo» (Cass. n. 21991/2012).
L’autonomia di cui discorre la Suprema Corte, fondata sull’assenza di poteri di influenza e ingerenza ulteriori rispetto a quelli riconosciuti dal diritto societario, è all’evidenza difettante nelle società in house, le quali contemplano invece l’elemento costitutivo del “controllo analogo”[9]. Proprio il requisito del “controllo analogo” è interpretato dalla giurisprudenza nazionale ed europea come la combinazione della dipendenza formale, economica e amministrativa, tale da far apparire la società in house come “longa manus” della Pubblica Amministrazione (Salerno, 2016). D’altra parte, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, soltanto un tale rapporto di sostanziale delegazione interorganica giustificherebbe per le società in house l’affidamento diretto di commesse pubbliche, in deroga alla regola generale della gara ad evidenza pubblica[10] (Urso, 2006; Capacci, 2007; Piperata, 2008; Gaeta, 2012).
Ulteriore argomento valorizzato dall’opzione interpretativa favorevole ad estendere l’applicabilità della disciplina concorsuale anche alle società in house si fonda sulla circostanza che tali società, nonostante la peculiare governance, si pongono nei rapporti con i terzi come soggetti imprenditoriali non diversi dagli altri operatori commerciali e dunque a rischio di insolvenza[11]. Escludere le società in house dal novero delle imprese fallibili equivarrebbe, dunque, secondo tale orientamento a violare i principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto, attesa la necessità del rispetto delle regole di concorrenza, che impone la parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità.
Tale argomento, tuttavia, non si attaglia ad un elemento strutturale delle società in house, costituito dal c.d. asservimento funzionale o dedizione prevalente ai bisogni dell’ente pubblico (Caringella, 2016; Garofoli-Ferrari, 2016).
Alla stregua del menzionato requisito, enucleato dalla giurisprudenza europea, la società in house deve svolgere la “parte più importante” della propria attività nei confronti dell’ente pubblico (così nella già menzionata sentenza Teckal, 18 novembre 1999, C-107/98, e nella sentenza Stadt Halle, 11 gennaio 2005, C-26/03); la Corte di Lussemburgo, ad ulteriore chiarimento di tale requisito, ha precisato che la società in house deve essere “sostanzialmente destinata in via esclusiva all’ente locale in questione” (Corte Giust. Ce, sent. Carbotermo, 11 maggio 2006, C-340/04, punto 62)[12].
Si può ritenere, dunque, che l’argomento facente leva, nel sostenere l’applicabilità della disciplina fallimentare, sul coinvolgimento del mercato nell’attività delle società in house è distonico rispetto all’esclusiva destinazione di tali enti alla Pubblica Amministrazione controllante.
Tale considerazione mantiene la sua validità anche a fronte del disposto dell’art. 16 del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, il quale, nel disciplinare le società in house in attuazione della normativa europea, stabilisce che i relativi statuti devono prevedere che oltre l'ottanta per cento del loro fatturato sia effettuato nello svolgimento dei compiti a esse affidati dall'ente pubblico o dagli enti pubblici soci e che la produzione ulteriore rispetto al suddetto limite di fatturato sia consentita solo a condizione che la stessa permetta di conseguire economie di scala o altri recuperi di efficienza sul complesso dell'attività principale della società.
Ulteriore argomento valorizzato ai fini dell’estensione della disciplina concorsuale alle società in house viene tratto dall’art. 4 l. 20 marzo 1975, n. 70, secondo cui “nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge”. Può rilevarsi, tuttavia, che la società in house non dà luogo ad un “nuovo” ente pubblico, ma ad un’articolazione, una modalità organizzatoria del medesimo ente che la costituisce e controlla, potendo essere – come ripetutamente affermato in dottrina – assimilata ad un suo organo.
L’assoggettabilità al fallimento apparirebbe da ultimo non coerente con la reiterata affermazione della giurisdizione contabile a fronte della mala gestio degli amministratori di una società in house, fondata proprio sulla considerazione che tale società non è un soggetto distinto dall’ente pubblico, ma una mera articolazione interna del medesimo (Salvago, 2009; Sinisi, 2010; Torchia, 2012; Del Gatto, 2014)[13]. Non sussiste, di conseguenza, una distinzione tra i relativi patrimoni e gli amministratori della società altro non sarebbero che organi dell’ente, ad esso legati da un rapporto di servizio e, dunque, assoggettabili alla responsabilità amministrativa.
Con riguardo alle società in house, a differenza delle altre società partecipate, la mala gestio degli amministratori provoca quindi un danno diretto al patrimonio dell’ente pubblico di riferimento. In tal modo, valorizzando l’assenza di una sostanziale alterità soggettiva, la Suprema Corte supera il diaframma rappresentato dalla presenza di una società di capitali formalmente distinta dalla Pubblica Amministrazione[14].
Ciò posto, non si comprende come possa sostenersi, da un lato, che società in house e PA sostanzialmente si compenetrano (ammettendosi dunque un danno diretto al patrimonio pubblico in caso di mala gestio degli amministratori) e, dall’altro, che tali società si atteggiano come ordinari operatori commerciali esposti a fallimento.
Autorevole dottrina (Fimmanò, 2014) offre un’altra ricostruzione dell’assoggettamento delle società in house – a differenza delle società meramente partecipate – alla giurisdizione della Corte dei Conti. Si afferma, in particolare, che l’estensione della giurisdizione contabile si fonda sulla natura oggettivamente pubblica del danno provocato dalla mala gestio degli amministratori, conseguente all’affidamento di un servizio pubblico ad un soggetto esterno, per tal via inserito nell’organizzazione funzionale dell’ente pubblico a prescindere dalla sua qualificazione soggettiva.
Non si vede tuttavia come tale ricostruzione sia compatibile con l’ordito motivazionale di quella giurisprudenza che afferma la sussistenza della giurisdizione contabile sulla base dell’assenza di alterità soggettiva tra ente pubblico e società in house, per cui «è giocoforza concludere che anche la distinzione tra il patrimonio dell'ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità» (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sent. 25 novembre 2013, n. 26283).
D’altra parte, l’esplicito riferimento recato alle società in house dalla Relazione del Presidente Rordorf, preso in considerazione nel primo paragrafo, se è espressione di un chiaro orientamento della Commissione – ed a prescindere dalla successiva vicenda parlamentare del disegno di legge delega sulla riforma delle procedure concorsuali – deve essere tuttavia confrontato con il parametro normativo ed il formante giurisprudenziale, anche europei, sì da ritenere il requisito negativo di cui all’art. 1 della legge fallimentare esteso anche alle società in house.
L’assimilazione di tali società agli enti pubblici, di cui discorre il menzionato art. 1 l.f., non lascia, peraltro, i creditori privi di ogni tutela, atteso che in caso di insolvenza appare comunque percorribile la strada del ricorso a procedure di liquidazione (Salerno, 2016). Con la conseguenza che i creditori insoddisfatti possono rivalersi sull’ente pubblico controllante, ex art. 2495 cod. civ., “fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi”.
Cassazione Civile Sez. I, 7 febbraio 2017, n. 3196 - Pres. Aniello, Est. Ferro
IL PROCESSO
Con distinti ricorsi L'area verde di V.T. & co. S.n.c. (per prima notificante e dunque ricorrente in via principale) e M.M. (ricorrente in via incidentale) impugnano la sentenza App. Milano 17.7.2014 n. 2773/14 in R.G. 892 e 893/2014, resa al termine del giudizio in cui tanto la prima (insieme ad altri creditori) quanto il secondo (nella qualità di ex amministratore) contestavano la sentenza Trib. Como 17.2.2014 n. 16 dichiarativa del fallimento della società (OMISSIS) s.r.l.
La corte d'appello, nel rigettare i reclami interposti L. Fall., ex art. 18, superata l'eccezione del difetto di legittimazione degli impugnanti, confermò la fallibilità della società (OMISSIS) s.r.l., nonostante la partecipazione al rispettivo capitale del Comune di Mozzate, tenuto conto della qualità di società commerciale della medesima, così realizzandosi in capo ad essa l'assunzione, con l'iscrizione al registro delle imprese, della qualità di imprenditore commerciale. Condividendo l'indirizzo che esclude una possibile indifferenza, ai fini fallimentari, della natura di soggetto privato delle citate società, precisò la corte che nessuna influenza poteva ascriversi all'attività svolta, allo scopo perseguito, all'organizzazione interna. E pur considerando in ipotesi gli eventuali limiti allo statuto privatistico in caso di società in house - cioè la società istituita per finalità di gestione di pubblici servizi, con soci pubblici, attività in prevalenza verso gli stessi e soggetta a controllo analogo a quello che questi esercitano sui propri uffici -, doveva nel caso concreto escludersi che (OMISSIS) s.r.l. rivestisse tale natura, per difetto del requisito caratterizzante il citato controllo analogo da parte del Comune, socio al 97,76%, ciò sulla base di quanto accertato dalla Corte dei Conti in sede di diniego dei presupposti dell'affidamento diretto di servizi comunali.
Il ricorso di L'area verde di V.T. & co. S.n.c. è su due motivi, quello di M.M. su due motivi, ad essi resistendo con controricorso il fallimento e il Comune di Mozzate. Tutte le parti hanno depositato memoria, il fallimento in via ulteriore.
DIRITTO
I FATTI RILEVANTI DELLA CAUSA E LE RAGIONI DELLA DECISIONE
Sul ricorso principale di L'area verde di V.T. & co. S.n.c..
Con il primo motivo si deduce la violazione dellA L. Fall., art. 1, mancando i requisiti soggettivi di fallibilità in capo alla società debitrice, perchè organismo di diritto pubblico non fallibile ovvero società in house providing.
Con il secondo motivo viene dedotto il vizio di motivazione sugli stessi punti, non essendo stato esaminato il fatto della tipologia di società in house della fallita, come determinatasi in particolare a seguito dei contratti di servizio con il Comune partecipante.
Sul ricorso incidentale di M.M..
Con il primo motivo si deduce la violazione della L. Fall., art. 1, mancando i requisiti soggettivi di fallibilità in capo alla società debitrice, perchè in house providing sin dal 2012 e di fatto avente natura giuridica pubblica.
Con il secondo motivo viene dedotto il vizio di motivazione sugli stessi punti, non essendo stato esaminato il fatto della tipologia di società in house della fallita, come determinatasi in particolare a seguito dei contratti di servizio con il Comune partecipante, che dal 2012 istituivano il controllo analogo con l'ente pubblico.
1. I motivi di entrambi i ricorsi, da trattare congiuntamente per l'intima connessione, sono infondati. Sulla premessa che i termini di diritto pubblico corrispondenti sono, ratione temporis, anteriori alla rinnovata legislazione in tema di appalti (varata con il D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50) e di società pubbliche (D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175), la questione concerne la fallibilità o meno di una società, costituita secondo le forme della società a responsabilità limitata, affidataria da parte dell'ente territoriale pubblico partecipante di plurimi servizi di gestione del relativo patrimonio, nell'ambito di un rapporto disputato quanto alla prossimità al controllo analogo, proprio delle società in house. Ritiene il Collegio, in conformità al precedente n. 22209 del 2013, che debba andar ribadito il principio per cui "In tema di società partecipate dagli enti locali, la scelta del legislatore di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità.". Osserva invero il citato arresto, con notazione pertinente ad una possibile risposta anche alle contestazioni degli odierni ricorrenti, che "proprio dall'esistenza di specifiche normative di settore che, negli ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato... può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica.". Vanno così respinte le suggestioni dirette ad una compenetrazione sostanzialistica tra tipi societari e qualificazioni pubblicistiche, al di fuori della riserva di legge di cui alla L. n. 70 del 1975, art. 4 che vieta la istituzione di enti pubblici se non in forza di un atto normativo, così ponendo un argine ad una ricognizione interpretativa che assuma dai tratti materiali dell'attività quel titolo ad ogni effetto nei rapporti con i terzi. E per vero, va anche ricordato che lo stesso L. Fall., art. 1 disegna l'area di esenzione dalle procedure concorsuali attorno agli "enti pubblici", non alle società pubbliche. D'altronde lo stesso legislatore ha avuto modo di chiarire, al D.L. n. 95 del 2012, art. 4, comma 13, (cd. spending review) (vigente all'epoca della dichiarazione di fallimento Trib. Como 17.2.2014 e poi abrogata, per il periodo d'interesse, dal D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175), la sussistenza di una norma generale di rinvio alla disciplina codicistica, secondo cui "le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina dettata dal codice civile in materia di società di capitali". Tale norma può essere richiamata come ulteriore conferma dell'indirizzo qui applicato, dunque in chiave di concorrente interpretazione autentica e chiusura. Essa poi è stata ripresa dal D.Lgs. n. 175 del 2016, nuovo art. 1, comma 3 ("Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato"). Il D.Lgs. n. 175 del 2016, art. 14 infine, con disposizione che prende atto di un indirizzo maturato nella giurisprudenza concorsuale, ha a sua volta precisato che "Le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonchè ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi di cui al D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, e al D.L. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 febbraio 2004, n. 39.".
2. Nè possono soccorrere altri istituti che si voglia piegare nel senso della sollecitata sovrapposizione di norme e definizioni con oggetto l'attività (e non il soggetto che la esercita), mutuando categorie della giurisprudenza amministrativa. In particolare, per quel che qui giova indicare, il Collegio ribadisce la non appropriatezza del ricorso alla figura dell'organismo di diritto pubblico, che nasce a qualificare gli operatori al cospetto delle amministrazioni aggiudicatrici, tenute, nella scelta del contraente, al rispetto della normativa comunitaria e dei procedimenti di evidenza pubblica di fonte statale o regionale. L'art. 3, comma 26 codice degli appalti vigente pro temporis (D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, in vigore fino al 18.4.2016) ebbe chiaramente a statuire che, quanto a lavori, servizi e forniture, soltanto "ai fini del codice" stesso è dettata la definizione di "organismo di diritto pubblico... qualsiasi organismo, anche in forma societaria: - istituito per soddisfare, specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; - dotato di personalità giuridica; - la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d'amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico". Il profilo pubblicistico della società in house, in cui l'ente pubblico esercita sulla società un controllo analogo, quantomeno per prerogative ed intensità, a quello esercitato sui propri servizi ed uffici, appare allora ispirato - in realtà - dal mero obiettivo di eccettuare l'affidamento diretto (della gestione di attività e servizi pubblici a società partecipate) alle citate norme concorrenziali, ma senza che possa dirsi nato, ad ogni effetto e verso i terzi, un soggetto sovraqualificato rispetto al tipo societario eventualmente assunto. Su tale società, in questi casi, per quanto intesa come articolazione organizzativa dell'ente, ove posta in una situazione di delegazione organica o addirittura di subordinazione gerarchica, alla luce di una disamina materiale, si determina solo una responsabilità aggiuntiva (contabile) rispetto a quella comune - secondo i dettami di Cass. s.u. 26283/2013, poi ripresi dal D.Lgs. n. 175 del 2016, art. 12 - ma senza il prospettato effetto di perdere l'applicazione dello statuto dell'imprenditore. Le norme speciali volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non possono dunque incidere - come parimenti notato in dottrina - sul modo in cui essa opera nel mercato, nè possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell'affidamento di terzi contraenti contemplate dalla disciplina civilistica. Sul punto già Cass. 21991/2012 aveva precisato che, ai fini dell'esclusione di una società mista dal fallimento, non è di per sè rilevante la soggezione al potere di vigilanza e di controllo pubblico, che consista nella verifica della correttezza dell'espletamento del servizio comunale svolto, riguardando, pertanto, la vigilanza l'attività operativa della società nei suoi rapporti con l'ente locale o con lo Stato, non nei suoi rapporti con i terzi e le responsabilità che ne derivano. Il sistema di pubblicità legale, mediante il registro delle imprese, determina invero nei terzi un legittimo affidamento sull'applicabilità alle società ivi iscritte di un regime di disciplina conforme al nomen juris dichiarato, affidamento, che, invece, verrebbe aggirato ed eluso qualora il diritto societario venisse disapplicato e sostituito da particolari disposizioni pubblicistiche. Va così tuttora ripetuto il senso della L. n. 70 del 1975, art. 4 che nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, mostra altresì di richiedere che la qualità di ente pubblico, ove non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba almeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco. Ne consegue che anche una disamina sulla motivazione con cui pur App. Milano 17.7.2014, escludendo il controllo analogo, ha negato la sussistenza di una società in house providing, alla stregua di una esplicita recezione della puntuale analisi parimenti negativa condotta dalla Corte dei Conti (con delibera del 2013, aggiornata al periodo successivo al 2010-2011, cioè al referto sul partecipante Comune di Mozzate), risulta superflua. Così come non appare utile una verifica del postulato di una società a partecipazione pubblica che, rivestendo un carattere necessario per l'ente pubblico in ragione dell'attività svolta, non potrebbe essere dichiarata fallita in virtù della oggettiva incompatibilità fra tutela dell'interesse pubblico e normativa fallimentare, tenuto conto che alla (OMISSIS) s.r.l. era stato affidato in gestione e manutenzione il patrimonio immobiliare sia proprio che del socio pubblico.
3. Nè la supposta ed eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo appare sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile: ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell'applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale non è il tipo dell'attività esercitata, ma la natura del soggetto. Le società nascono infatti per limitare la responsabilità rispetto ai soci secondo un proprio ordinamento, mentre la organizzazione prescelta per l'attività è appunto il mero riflesso della nascita di un soggetto giuridicamente diverso dai soci e dunque senza che a loro volta le regole di organizzazione di questi valgano in modo diretto a disciplinare il funzionamento e le obbligazioni di quello. Una volta adottato, anche da parte dell'ente pubblico, il blocco-sintagma societario, nella fattispecie della società a responsabilità limitata, la scelta di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali (e dunque di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico) comporta per un verso che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza. Per altro verso, nemmeno potrebbe darsi la paradossale conclusione che anche le società a capitale interamente privato cui sia affidata in concessione la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale siano esentate dal fallimento: lo escludono la necessità di preindividuazione certa del regime delle responsabilità e di quel rischio per cui l'ente pubblico-socio risponde, salvi altri regimi di concorrente responsabilità dei suoi organi (Cass. s.u. 5491/2014, 26936/2013), nei soli limiti del capitale di investimento immesso nella società divenuta insolvente. L'annullamento ad ogni effetto della soggettività dell'esaminata società, a ben vedere, procurerebbe altresì l'altro paradosso di un'azione dei creditori sociali della società in house che diverrebbero tutti creditori diretti dell'ente pubblico, con possibilità di azione esattamente ed invece scongiurata laddove l'ente pubblico abbia scelto, come visto, di delimitare la responsabilità per le obbligazioni assunte dalla società partecipata. Ciò convince che anche l'intento di Cass. s.u. 26283/2013 (conf. 5491/2014) è solo quello di preservare l'erario dalla mala gestio degli organi sociali di società strumentali, in un'ottica selettiva e per quanto di rafforzamento della responsabilità che ne investe gli organi, come poi recepito dal cit. legislatore del 2016.
4. Anche nella vicenda non è pertanto invocabile, a fronte della partecipazione dell'ente pubblico, un procedimento di riqualificazione della natura del soggetto partecipato, nemmeno all'insegna della categoria, di volta in volta da disvelare, di una società di diritto speciale. Come detto, solo quando ricorra una espressa disposizione legislativa, con specifiche deroghe alle norme del codice civile, potrebbe affermarsi la realizzazione di una struttura organizzata per attuare un fine pubblico incompatibile con la causa lucrativa prevista dall'art. 2247 c.c., con la possibile emersione normativa di un tipo con causa pubblica non lucrativa. In difetto di tale intervento esplicito, il fenomeno resta quello di una società di diritto comune, nella quale pubblico non è l'ente partecipato bensì il soggetto, o alcuni dei soggetti, che vi partecipano e nella quale, perciò, la disciplina pubblicistica che regola il contegno del socio pubblico e quella privatistica che attiene al funzionamento della società convivono. E se è vero che l'ente pubblico in linea di principio può partecipare alla società soltanto se la causa lucrativa sia compatibile con la realizzazione di un proprio interesse (secondo norme e vincoli resi più stringenti dal D.Lgs. n. 175 del 2016), una volta che comunque la società sia stata costituita, l'interesse che fa capo al socio pubblico si configura come di rilievo esclusivamente extrasociale, con la conseguenza che le società partecipate da una pubblica amministrazione hanno comunque natura privatistica (Cass. s.u. 17287/2006). Il rapporto tra società ed ente è perciò di assoluta autonomia, non essendo consentito al secondo di incidere unilateralmente sullo svolgimento dello stesso rapporto e sull'attività della società mediante poteri autoritativi, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario e mediante la nomina dei componenti degli organi sociali. Nè, si osserva ancora, un eventuale abuso di tali poteri pubblicistici ovvero la previsione di accordi anche contrattuali tra società ed ente, in costanza del tipo societario operativo, possono farne aggirare il modello di responsabilità con efficacia verso i terzi, ciò altrimenti dipendendo, sostanzialmente, da imprevedibili scelte di mera convenienza, ancora una volta incompatibili con l'adozione a monte dell'istituto societario. La disciplina di convivenza così sintetizzata permette, come efficacemente spiegato in dottrina, che le società a partecipazione pubblica siano assoggettate a regole analoghe a quelle applicabili ai soggetti pubblici nei settori di attività in cui assume rilievo preminente rispettivamente la natura sostanziale degli interessi pubblici coinvolti e la destinazione non privatistica della finanza d'intervento; saranno invece assoggettate alle normali regole privatistiche ai fini dell'organizzazione e del funzionamento. E ciò vale anche per l'istituzione, la modificazione e l'estinzione, ove gli atti propedeutici alla formazione della volontà negoziale dell'ente sono soggetti alla giurisdizione amministrativa, ma gli atti societari rientrano certamente nella giurisdizione del giudice ordinario.
I ricorsi vanno dunque rigettati, con condanna alle spese dei ricorrenti e liquidazione come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta entrambi i ricorsi; condanna i ricorrenti in solido al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate per ciascuno in Euro 10.200 (di cui 200 Euro per esborsi), oltre al 15% forfettario sui compensi e agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principale e incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i rispettivi ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 dicembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2017
[1] Così Cass., I sez., 27 settembre 2013, n. 22209 - Pres. R. Rordorf - Rel. M. Cristiano. In senso conforme: Cass., sez. I, 6 dicembre 2012, 21991 (parzialmente conforme); Trib. Santa Maria Capua Vetere, 24 maggio 2011; Corte di appello di Napoli, sez. I, 15 luglio 2009.
[2] Hanno escluso l’assoggettabilità al fallimento delle società pubbliche le seguenti recenti pronunce: Tribunale di S. Maria Capua Vetere, sez. III, 22 luglio 2009, n. 52; Corte d’appello di Torino, sez. I, 15 febbraio 2010; Trib. Patti, 6 marzo 2009; Trib. Catania, 26 marzo 2010.
Contra, l’impostazione funzionalistica è recisamente rifiutata da Cass., I sez., 27 settembre 2013, n. 22209, ove si afferma che «Il fallimento della partecipata, ancorché, in ipotesi, costituta all'unico scopo di gestire un determinato servizio pubblico, non preclude dunque all'ente locale, rimasto proprietario dei beni necessari all'esercizio di quel servizio, di affidarne la gestione ad un nuovo soggetto. Infine, il pericolo derivante dal rischio di interruzione del servizio, per il tempo necessario all'ente locale ad affidarlo ad un nuovo gestore, può essere evitato attraverso il ricorso all'istituto dell'esercizio provvisorio, previsto dall'art. 104 I. fall.. Va condivisa sul punto la tesi, avanzata in dottrina e seguita anche dalla giurisprudenza di merito, secondo cui nel valutare la ricorrenza di un danno grave, in presenza del quale autorizzare l'esercizio provvisorio, il tribunale può tenere conto non solo dell'interesse del ceto creditorio, ma anche della generalità dei terzi, fra i quali ben possono essere annoverati i cittadini che usufruiscono del servizio erogato dall'impresa fallita».
[3] Consiglio di Stato Sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 122 - Pres. Severini, Est. Lopilato.
[4] Cass., I sez., 27 settembre 2013, n. 22209.
[5] In tal senso, Corte App. L’Aquila, sent. 2.3.2015, n. 304; Trib. Verona, sent. 19.12.2013, n. 651; Trib. Napoli sent. 9.1.2014, n. 1097; Trib. Nola, sent. 30.1.2014.
[6] In tal senso si è espresso il Tribunale di Modena, decreto 10.1.2014. Analogamente, il Tribunale di Palermo, con sentenza del 13 ottobre 2014, ha statuito che le società costitute secondo i tipi codicistici ed aventi per oggetto un’attività commerciale sono assoggettabili alle procedure concorsuali a prescindere dall’effettivo esercizio di tale attività, atteso che è lo statuto sociale a rilevare in ordine all’assunzione della qualità di imprenditore. Nel medesimo senso, Corte App. Napoli, 27.5.2013, n. 346, 24.4.2013, 15.7.2009; Trib. Palermo, 11.2.2010; Trib. Velletri 8.3.2010; Trib. Pescara 1.4.2014.
[7] La giurisprudenza europea ha indicato, quali requisiti necessari ai fini della configurazione dell’in house: i) la partecipazione interamente pubblica; ii) l’esercizio da parte dell’amministrazione di un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; iii) lo svolgimento dell’attività prevalentemente a favore dell’amministrazione controllante.
[8] Cass., I sez., 27 settembre 2013, n. 22209.
[9] La Corte di Giustizia ha poi precisato che il controllo analogo deve consistere nella possibilità per l’amministrazione aggiudicatrice di esercitare un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti dell’entità affidataria e che il controllo esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice deve essere effettivo, strutturale e funzionale (si veda la sentenza Econord, C‑182/11 e C‑183/11, EU:C:2012:758, punto 27).
[10] Ex pluribus, Corte Ce 11 maggio 2006, C-340/04; Corte Giust., 12 dicembre 2002, C-470/99; Corte Giust. 10 aprile 2008, C-323/07; Corte Giust. Sent. 29 novembre 2012, n. 182; Corte Giust. 19 giugno 2014, n. 574.
[11] In tali termini il Tribunale di Reggio Emilia, sent. 18.12.2014, n. 150.
[12] Il punto 63 della medesima sentenza rileva che il requisito dell’asservimento funzionale sussiste “solo se l’attività di detta impresa è principalmente destinata all’ente in questione ed ogni altra attività risulta avere solo un carattere marginale”.
Nel medesimo senso, nella giurisprudenza interna si segnala, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 16 marzo 2009, n. 1555, in Foro amm., CDS 2009, 4, 1080, ove si sostiene la necessità che la società in house svolga i suoi compiti in via sostanzialmente esclusiva nei confronti dell’Amministrazione a monte.
[13] In tal senso, Cass., sez. un., 12 ottobre 2011 n. 20940 e n. 20941; Cass., sez. un., 15 gennaio 2010 n. 519; 23 febbraio 2010, n. 4309; 9 aprile 2010, n. 8429; 9 maggio 2011, n. 14655; 7 luglio 2011, n. 14957; Cass., I sez., 27 settembre 2013, n. 22209. Rilevante la massima di tale ultima sentenza: «Sussiste la giurisdizione della Corte dei conti nel caso di azione diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da essi cagionati ad una società in house per tale dovendosi intendere quella costituita da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi di cui esclusivamente tali enti possano essere soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalentemente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici».
[14] In tal senso, Corte Conti, sez. giur. Reg Marche, 15 luglio 2013, n. 80; Corte Conti, sez. giur. Reg. Lazio, 24 febbraio 2011, n. 339; Corte Conti, sez. giur. Reg. Lazio, 23 febbraio 2011, n. 327.