Cass., Sez. Un., 20 ottobre 2016, n. 21260
L'attore che abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato a interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto.
Sommario: 1. È inammissibile la contestazione in appello della giurisdizione da parte del ricorrente originario, soccombente nel merito. Rilievi introduttivi. - 2. L’evoluzione della giurisprudenza amministrativa. - 3. L’articolo 9 del Codice del processo amministrativo. - 4. Il révirement delle Sezioni Unite.
1. È inammissibile la contestazione in appello della giurisdizione da parte del ricorrente originario, soccombente nel merito. Rilievi introduttivi.
Con la decisione in epigrafe, la Corte regolatrice affronta la questione concernente la possibilità che il ricorrente in primo grado, soccombente nel merito, contesti in sede di gravame la giurisdizione del Giudice amministrativo dallo stesso adito.
Le Sezioni Unite, risolvendo un complesso contrasto giurisprudenziale, affermano che, dinanzi ad una sentenza di rigetto della domanda, non è ravvisabile una soccombenza del ricorrente anche sulla questione di giurisdizione.
Ciò discende dalla qualificazione della statuizione sulla giurisdizione come autonomo “capo” della sentenza, con la conseguenza che in relazione ad esso il ricorrente va considerato a tutti gli effetti vincitore, avendo il giudice riconosciuto la sussistenza del proprio dovere di decidere il merito della causa, così come implicitamente o esplicitamente sostenuto dal ricorrente medesimo, che a quel giudice si è rivolto, con l’atto introduttivo della controversia, per chiedere una risposta al suo bisogno individuale di tutela.
Conseguentemente, il Giudice del riparto ritiene inammissibile l’appello con cui il ricorrente in primo grado, soccombente nel merito, censura la sentenza, affermando che la potestas iudicandi pertiene ad un plesso giurisdizionale diverso da quello adito.
La soluzione fornita dalla Corte regolatrice converge, superando il precedente orientamento di legittimità, con l’indirizzo ermeneutico fatto recentemente proprio dal Consiglio di Stato. Tuttavia, per quanto la Corte di Cassazione qualifichi, al pari del Giudice amministrativo, come inammissibile l’appello sulla giurisdizione proposto dal ricorrente in primo grado, la ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia in commento è parzialmente diversa da quella valorizzata dal Consiglio di Stato, incentrata invece sulla teoria dell’abuso del processo.
2. L’evoluzione della giurisprudenza amministrativa.
Giova, in primo luogo, ricostruire l’evoluzione della giurisprudenza amministrativa, da cui è gemmata la questione problematica risolta dal Giudice del riparto.
In una prima fase, precedente alla pronuncia delle Sezioni Unite 9 ottobre 2008, n. 24883, in materia di statuizione implicita sulla giurisdizione, e dunque precedente anche all’introduzione del Codice del processo amministrativo, il Consiglio di Stato riteneva pienamente deducibile in appello, da parte dell’originario ricorrente, il difetto di giurisdizione.
A fondamento di tale posizione stava l’orientamento secondo cui il difetto di giurisdizione, ai sensi dell’art. 37 c.p.c., è sempre rilevabile d’ufficio, anche in grado di appello, indipendentemente dalla circostanza che la sentenza del Tar avesse affrontato il tema in modo espresso (Ad. Plen. n. 42 del 1980).
Tale approdo ermeneutico era altresì corroborato dalla circostanza che la questione di giurisdizione ha valenza di ordine pubblico, anche in funzione del rispetto del principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge ed è sottratta alla disponibilità delle parti, nel quadro di un ordinamento che, anteriormente alla pronuncia della Corte costituzionale 12 marzo 2007, n. 77, enfatizzava la separazione della giurisdizione amministrativa da quella ordinaria.
In seguito, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza 5 dicembre 2008, n. 6049[1], ha affermato che la statuizione del giudice di primo grado sulla giurisdizione è riesaminabile in appello allorché la relativa questione sia stata sollevata in termini, e ciò a prescindere dall’avere l’appellante prescelto con il ricorso di primo grado il giudice che poi contesta.
La menzionata decisione valorizza, in particolare, la sussistenza dell’interesse ad impugnare nei casi in cui il ricorrente, soccombente nel merito, abbia visto risolta in suo favore una questione pregiudiziale di rito rilevabile d’ufficio, che, risolta diversamente, gli consentirebbe la riproposizione della domanda. Il riconoscimento normativo di tale utilità si è ritenuto fosse palesato, d’altra parte, proprio dal meccanismo processuale della translatio iudicii. Ciò in virtù del fatto che “dall’eventuale accoglimento del pertinente motivo di gravame, discenderebbe l’annullamento, senza rinvio al Tar ex art. 34 l. n. 1034 del 1971, dell’impugnata sentenza per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e la translatio iudicii davanti al giudice ordinario”.
Tale orientamento è stato oggetto di rimeditazione da parte della Consiglio di Stato che, con le sentenze 10 marzo 2011, n. 1537, e 7 giugno 2012, n. 656[2], ha ritenuto il contegno processuale della parte appellante, ricorrente in primo grado, contrastante con i principi di correttezza ed affidamento, nonché con il divieto di venire contra factum proprium.
Si afferma, infatti, che il difetto di giurisdizione non è più sollevabile dalla parte che vi ha dato causa agendo in primo grado mediante la scelta del giudice del quale, poi, nel contesto dell’appello disconosce e contesta la giurisdizione. Ritenere il contrario, d’altra parte, si porrebbe in contrasto con i principi di correttezza e affidamento che modulano il diritto di azione e significherebbe, in caso di domanda proposta a giudice carente di giurisdizione, non rilevata d’ufficio, attribuire alla parte la facoltà di ricusare la giurisdizione a suo tempo prescelta, in ragione dell’esito negativo della controversia.
In particolare, la menzionata sentenza n. 656 del 2012 fonda l’inammissibilità del motivo di appello sulla giurisdizione, formulato dall’originario ricorrente, sul del c.d. divieto di abuso del processo, “in funzione del principio generale che vieta, anche in sede processuale, ogni condotta integrante abuso del diritto, quale è da ritenersi, a guisa di figura paradigmatica, il venire contra factum proprium dettato da ragioni meramente opportunistiche”[3].
Il divieto di abuso del processo rinviene il proprio fondamento costituzionale nel principio di solidarietà, atteso che “ogni soggetto di diritto non può esercitare un'azione con modalità tali da implicare un aggravio della sfera della controparte, sì che il divieto di abuso del diritto diviene anche divieto di abuso del processo Si giunge, così, all'elaborazione della figura dell'abuso del processo quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa (conf. Cass., sez. I, 3 maggio 2010, n. 10634, che applica il principio del divieto di abuso del processo ai fini della liquidazione delle spese giudiziali; per un ancoraggio dell'abuso del processo, in correlazione agli artt. 24, 111 e 113 Cost. nonché ai principi del diritto europeo, si vedano gli articoli 88, 91, 94 e 96 del codice di rito civile e gli artt. 1, 2 e 26 del codice del processo amministrativo)”.
Nella successiva giurisprudenza del Consiglio di Stato, la preclusione per il ricorrente in primo grado di sollevare in appello il difetto di giurisdizione è stata fondata anche sui convergenti principi di autoreponsabilità e ragionevole durata del processo, nonché sul progressivo ridimensionamento della questione di giurisdizione, specie alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale in materia di giudicato implicito e di translatio iudicii.
Occorre soggiungere che un recente orientamento del Giudice amministrativo[4] ha sposato un indirizzo intermedio, alla cui stregua l’impugnazione della sentenza di primo grado per difetto di giurisdizione da parte dell’originario ricorrente non configura sempre un abuso del diritto, dovendosi verificare la sussistenza o meno di un dubbio ragionevole sulla questione di giurisdizione.
3. L’articolo 9 del Codice del processo amministrativo.
La questione della deducibilità in appello del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo da parte dell’originario ricorrente che, adito il Tar, sia rimasto soccombente nel merito, ha ricevuto nuova linfa alla luce dell’art. 9 cod. proc. amm.. Tale norma dispone che nel giudizio di impugnazione il difetto di giurisdizione, rilevabile in primo grado anche d’ufficio, è rilevato solo se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione.
Il menzionato art. 9 solleva peculiari profili problematici atteso che, da un lato, non esclude espressamente la legittimazione dell’originario ricorrente. Dall’altro, però, non prevede espressamente che l’appello sia proponibile da “ciascuna delle parti” del giudizio di primo grado, come invece dispone l’art. 41 c.p.c., con riferimento al regolamento di giurisdizione.
L’art. 9 cod. proc. amm. testualmente qualifica, inoltre, la statuizione sulla giurisdizione come “capo” della sentenza. Tale espressa qualificazione consente di esaminare sotto un diverso angolo visuale la questione della deducibilità del difetto di giurisdizione da parte dell’originario ricorrente, soccombente nel merito.
Nella teoria del processo, i capi della sentenza sono altrettante decisioni autonome (nel processo civile e amministrativo normalmente corrispondenti ad altrettante domande proposte, nel processo penale alle singole imputazioni); i punti, invece, sono i temi o le questioni decisi nell’ambito di ciascun capo.
La soccombenza, di conseguenza non si valuta rispetto ai singoli punti (cioè alle singole questioni, di rito e di merito, esaminate per statuire sulla fondatezza della domanda proposta), ma rispetto ai capi.
Nei confronti del ricorrente originario emerge, dunque, una scissione tra l’interesse ad appellare, che si può ritenere sussistente in quanto volto a trasformare il più grave pregiudizio derivante da una reiezione nel merito nel rimediabile svantaggio di una decisione negativa in rito, e la specifica condizione dell’appello che consiste nella soccombenza, che sul capo della giurisdizione difetta.
D’altra parte il ricorrente, qualora nutrisse dubbi sulla sussistenza della giurisdizione, ben potrebbe chiedere il regolamento preventivo ex art. 41 c.p.c., avendo in tal modo la possibilità di risolvere sin da subito la questione della giurisdizione provocando sulla stessa la pronuncia definitiva ed irrevocabile delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
D’altra parte lo strumento del regolamento preventivo, praticabile sin quando la causa non sia decisa nel merito in primo grado, mette significativamente in luce il principio di autoresponsabilità che grava sulle parti del processo.
4. Il révirement delle Sezioni Unite.
La Corte regolatrice, mediante la decisione in commento, supera il precedente orientamento di legittimità, che ammetteva il cosiddetto pentimento secundum eventum litis, ritenuto espressione del diritto di avere torto, nonché della valenza pubblicistica della questione di giurisdizione.
Tale questione, alla stregua del precedente orientamento[5], poteva essere sempre posta, anche nel giudizio di cassazione, purché almeno una delle parti l'avesse sollevata tempestivamente nel giudizio di appello, con ciò impedendo la formazione del giudicato sul punto. In presenza di tale condizione, la questione di giurisdizione poteva essere posta anche dalla stessa parte che aveva adito un giudice e ne aveva successivamente contestato la giurisdizione in base all'interesse derivante dalla soccombenza nel merito; in questo caso, però, il giudice ben poteva condannare tale parte alla rifusione delle spese del giudizio di impugnazione anche se la stessa fosse risultata vincitrice in punto di giurisdizione, potendo ravvisarsi in simile comportamento la violazione del dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88 c.p.c..
Le Sezioni Unite del 2016 fanno invece ricorso, come principale ratio decidendi, alla qualificazione della statuizione sulla giurisdizione come autonomo “capo” della sentenza, contenuta nell’esaminato art. 9 cod. proc. amm..
Da ciò consegue, dunque, che “di fronte ad una sentenza di rigetto della domanda non è ravvisabile una soccombenza dell'attore anche sulla questione di giurisdizione: rispetto al "capo" relativo alla giurisdizione egli va considerato a tutti gli effetti vincitore, avendo il giudice riconosciuto la sussistenza del proprio dovere di decidere il merito della causa, così come implicitamente o esplicitamente sostenuto dallo stesso attore, che a quel giudice si è rivolto, con l'atto introduttivo della controversia, per chiedere una risposta al suo bisogno individuale di tutela”.
D’altra parte, la Cassazione ritiene che precludere la deducibilità del difetto di giurisdizione all’originario ricorrente non vulnera il valore costituzionale del giudice precostituito per legge, che è presidiato dall'obbligo del giudice di procedere d'ufficio in primo grado alla verifica della potestas iudicandi e va bilanciato con quello dell'ordine e della speditezza del processo.
Un esame sistematico dei rimedi posti a disposizione delle parti consente, peraltro, di ritenere che il ricorrente in primo grado non resti privo di tutela processuale a fronte di un dubbio sulla giurisdizione, potendo far ricorso al regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c.
Tale rimedio, infatti, consiste in uno strumento non impugnatorio diretto ad una pronuncia con efficacia panprocessuale ed è significativamente diverso dall'appello per difetto di giurisdizione che consiste, invece, in un rimedio impugnatorio, volto “a fare pronunciare una sentenza endoprocessuale di difetto di giurisdizione e così senza effetto di sbarramento alla riproposizione della domanda dinanzi ad un diverso giudice (al giudice ordinario anziché al giudice amministrativo inizialmente adito, o viceversa)”.
Il Giudice del riparto, conclusivamente, converge con il Consiglio di Stato, nel ritenere che il ricorrente soccombente nel merito non è legittimato a interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto. Tuttavia, le Sezioni Unite non attribuiscono rilievo dirimente alla questione concernente la lealtà processuale e il divieto di venire contra factum proprium, soffermandosi invece sulla questione strutturale della qualificazione come “capo” della statuizione, anche implicita, sulla giurisdizione.
In tal modo, nella pronuncia in commento sembra riecheggiare quell’orientamento interpretativo restio a far discendere da un principio generale, quale l’abuso del diritto, una conseguenza patologica così rilevante come l’inammissibilità, che dovrebbe invece fondarsi – anche in ragione della ritenuta tassatività delle cause d’inammissibilità – su un preciso ancoraggio normativo, rinvenuto dalla Cassazione nell’art. 9 cod. proc. amm..
Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 20 ottobre 2016, n. 21260
Presidente: Rordorf - Estensore: Giusti
FATTI DI CAUSA
1. Francesco A. e Gabriele A., quest'ultimo anche in qualità di legale rappresentante della Laboratori Isarco e A. Sabin s.r.l., hanno impugnato, dinanzi al Tribunale regionale di giustizia amministrativa per il Trentino-Alto Adige, sezione di Bolzano, chiedendone l'annullamento, la deliberazione in data 11 giugno 2007, n. 1999, della Giunta provinciale di Bolzano, recante l'interruzione, a decorrere dal 10 luglio 2007, dei rapporti contrattuali con i laboratori privati operanti per conto e a carico del Servizio sanitario provinciale, nonché la nota del 12 agosto 2007 con cui il direttore generale dell'Azienda sanitaria della Provincia autonoma di Bolzano comunicava la mancata proroga degli attuali accordi per prestazioni ambulatoriali di laboratorio con le strutture private convenzionate. Il Tribunale regionale adito, con sentenza in data 22 aprile 2008, ha respinto il ricorso nel merito.
2. Avverso la sentenza di primo grado gli A. hanno proposto appello, sollevando censure di merito ma lamentando anche, in via pregiudiziale, il difetto di giurisdizione dell'adito giudice amministrativo, sul rilievo che il rapporto non sarebbe qualificabile come di accreditamento, ai sensi degli artt. 8 e ss. del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), bensì come rapporto convenzionale, ai sensi dell'art. 48 della l. 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale).
Il Consiglio di Stato, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 7 febbraio 2014, ha respinto l'appello.
Il Consiglio di Stato ha escluso che possa trovare ingresso la censura con cui gli appellanti si sono doluti del mancato rilievo, da parte del Tribunale regionale di giustizia amministrativa, della carenza di giurisdizione, e ha richiamato, al riguardo, l'orientamento secondo cui integra abuso del processo la contestazione della giurisdizione da parte del soggetto che abbia optato per quella giurisdizione e che, pur se soccombente nel merito, sia risultato vittorioso, in forza di una pronuncia esplicita o di una statuizione implicita, proprio sulla questione di giurisdizione.
Secondo il Consiglio di Stato, la sollevazione di tale sorta di auto-eccezione in sede di appello integra trasgressione del divieto di venire contra factum proprium - paralizzabile con l'exceptio doli generalis seu presentis - e arreca un irragionevole sacrificio alla controparte, costretta a difendersi nell'ambito del giudizio da incardinare innanzi al nuovo giudice.
3. Per la cassazione della sentenza del Consiglio di Stato Francesco e Gabriele A. hanno proposto ricorso, con atto notificato il 19 settembre 2014, sulla base di due motivi.
L'intimata Provincia autonoma di Bolzano ha resistito con controricorso, mentre l'Azienda sanitaria della Provincia autonoma ed il controinteressato Laboratorio Druso non hanno svolto attività difensiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La controricorrente Provincia autonoma ha eccepito l'inammissibilità del ricorso, sostenendo che l'atto di impugnazione, in violazione dell'art. 366, n. 3, c.p.c., non conterrebbe l'esposizione sommaria dei fatti della causa.
1.1. L'eccezione è infondata.
Il requisito dell'esposizione sommaria dei fatti di causa - prescritto, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, dall'art. 366, n. 3), c.p.c. - può ritenersi nella specie osservato dalla riproduzione, nel ricorso, del testo della sentenza impugnata, il quale contiene la descrizione dello svolgimento del processo.
È bensì vero che i ricorrenti, dopo avere riprodotto, in limine, il testo della sentenza impugnata, hanno anche provveduto all'assemblaggio di parti eterogenee del materiale di causa (il ricorso introduttivo al Tribunale regionale di giustizia amministrativa) e di atti relativi ad altro giudizio (la domanda proposta dai Laboratori e dal suo legale rappresentante, anche in proprio, dinanzi al Tribunale del lavoro di Bolzano, con le successive decisioni intervenute); ma il coacervo di documenti integralmente trascritti, essendo facilmente individuabile ed isolabile, può essere separato ed espunto dal ricorso per cassazione, la cui autosufficienza è assicurata dall'inserimento, in esso, della sentenza impugnata, recante una corretta ed essenziale narrazione dei fatti processuali.
2. Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano violazione dell'art. 360, n. 1, c.p.c., per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alla verifica della esistenza e della validità di una convenzione ex art. 48 della l. n. 833 del 1978; conseguente competenza del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro. I ricorrenti escludono preliminarmente di avere abusato del processo sottoponendo al Consiglio di Stato la questione di giurisdizione, e sostengono di avere impugnato l'atto dinanzi al giudice amministrativo "per non creare preclusioni" e di avere chiesto al giudice amministrativo, sin dal ricorso introduttivo, di verificare la sua competenza. D'altra parte, la dimostrazione che la materia del contendere imponesse il duplice binario, emergerebbe, ad avviso dei ricorrenti, dalla sentenza n. 264/09 del Tribunale ordinario di Bolzano, in funzione di giudice del lavoro, che, giudicando sulla domanda della Laboratori e del suo legale rappresentante Gabriele A. di accertamento della persistente operatività della convenzione inter partes e di condanna della ASL al pagamento dei compensi, ha dichiarato la propria giurisdizione, pur rigettando nel merito la domanda, nonché dall'ordinanza della Corte d'appello di Bolzano, sezione lavoro, che, investita del gravame, ha disposto la sospensione del processo in attesa della definizione del procedimento davanti alla giustizia amministrativa. Quanto al merito della questione di giurisdizione, i ricorrenti affermano che il rapporto instaurato tra i laboratori ed i loro professionisti, da una parte, ed il Servizio sanitario nazionale, dall'altro, è di tipo convenzionale exart. 48 della l. n. 833 del 1978: i ricorrenti infatti non esercitano una professione sanitaria e non sono annoverabili tra le strutture. Da tale natura del rapporto deriverebbe, ad avviso dei deducenti, la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria e il potere della stessa di disapplicare, ai sensi dell'art. 5 della l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, l'atto impugnato, anche quando il sanitario intenda conseguire l'accertamento della illegittimità del mancato conferimento dell'incarico, in violazione del proprio diritto, ed ottenere il risarcimento del danno sofferto.
Con il secondo mezzo, i ricorrenti lamentano difetto di giurisdizione ed insufficiente, contraddittorietà ed illogicità della motivazione della sentenza in riferimento alla applicabilità dell'art. 48 della l. n. 833 del 1978 ed alla inapplicabilità al caso di specie del d.lgs. n. 502 del 1992.
3. I motivi possono essere esaminati congiuntamente, stante la stretta connessione.
4. Essi pongono la questione se la parte che abbia incardinato la causa presso un plesso giurisdizionale (nella specie, dinanzi al giudice amministrativo), risultando poi soccombente nel merito, possa appellare sostenendo che il giudice avrebbe dovuto rilevare il proprio difetto di giurisdizione, e ricercare così, attraverso la proposizione dell'impugnazione, la sostituzione di una sentenza sfavorevole nel merito con una sentenza sfavorevole in punto di rito.
5. Allo scrutinio dei motivi non è di ostacolo la deduzione della difesa della controricorrente, secondo cui l'interposto ricorso per cassazione - mirando a censurare la ravvisata improponibilità della questione di giurisdizione in appello da parte di chi quello stesso giudice aveva scelto - sarebbe volto a denunciare semplicemente il superamento dei limiti interni della giurisdizione amministrativa (quindi, un error in procedendo).
A tale riguardo occorre considerare che è da intendere proposto per motivi inerenti alla giurisdizione, in base agli artt. 111, ultimo comma, Cost. e 362, primo comma, c.p.c., ed è perciò ammissibile, il ricorso per cassazione contro la decisione del Consiglio di Stato con cui è stato ritenuto precluso l'esame della questione di giurisdizione in quanto sollevata dalla parte che ha agito in primo grado mediante la scelta del giudice del quale, poi, nel contesto dell'appello, disconosce e contesta la giurisdizione.
Spetta infatti alle Sezioni Unite non soltanto il giudizio vertente sull'interpretazione della norma attributiva della giurisdizione, ma anche il sindacato sull'applicazione delle disposizioni che regolano la deducibilità ed il rilievo del difetto di giurisdizione (Cass., Sez. un., 23 novembre 2012, n. 20727; Cass., Sez. un., 9 marzo 2015, n. 4682).
6. Con l'impugnata sentenza, i giudici amministrativi hanno ritenuto che "non può trovare accoglimento" il motivo di impugnazione con il quale la parte ricorrente ha messo in discussione la giurisdizione del TAR, da lei stessa adito, al fine di ribaltare l'esito negativo nel merito del giudizio, ponendosi una siffatta prospettazione in contrasto con il divieto di venire contra factum proprium e con la regola di correttezza e buona fede prevista dall'art. 1175 c.c. Secondo il Consiglio di Stato, "integra un abuso del processo la contestazione della giurisdizione da parte del soggetto che abbia optato per quella giurisdizione e che, pur se soccombente nel merito, sia risultato vittorioso, in forza di una pronuncia esplicita o di una statuizione implicita, proprio sulla questione di giurisdizione".
La sentenza è espressione dell'orientamento invalso nella giurisprudenza del Consiglio di Stato dopo l'entrata in vigore del codice del processo amministrativo, e ribadito anche di recente (Sez. IV, 7 novembre 2015, n. 5484; Sez. VI, 29 febbraio 2016, n. 856).
Nella sentenza che ha dato avvio a questo indirizzo (Sez. V, 7 giugno 2012, n. 656) si afferma (valorizzando e sviluppando un obiter contenuto in Sez. VI, 10 marzo 2011, n. 1537) che il sollevare, per la prima volta in sede di appello, l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo da parte dell'originario ricorrente che si era rivolto a quel giudice, ma ne disconosce la giurisdizione visto l'esito negativo, nel merito, della controversia, integra abuso del processo. La sollevazione di detta auto-eccezione in appello - si fa rilevare - "arreca un irragionevole sacrificio alla controparte, costretta a difendersi nell'ambito del giudizio da incardinare innanzi al nuovo giudice in ipotesi provvisto di giurisdizione, adito secondo le regole in tema di translatio iudicii dettate dall'art. 11 cod. proc. amm.". Detto sacrificio non trova adeguata giustificazione nell'interesse della parte: questa ben può "difendersi nel merito in sede di appello al fine di ribaltare la statuizione gravata piuttosto che ripudiare detto giudice in funzione di un giudizio opportunistico circa le maggiori o minori probabilità di esito favorevole a seconda del giudice chiamato a definire la res litigiosa". Il disconoscimento della giurisdizione ab initio invocata - si osserva ancora - "si traduce in un prolungamento dei tempi della definizione del giudizio dettata da ragioni puramente utilitaristiche".
7. La tesi dell'inammissibilità dell'appello per ragioni di abuso da contraddittorietà discendente dal contrasto tra due atti processuali (il ricorso di primo grado al giudice amministrativo e l'appello per difetto di giurisdizione contro la sentenza del medesimo giudice) non trova riscontro nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice.
Si è infatti statuito (Sez. un., 27 dicembre 2010, n. 26129), in una vicenda sovrapponibile a quella che qui viene in esame, che l'eccezione di difetto di giurisdizione non è preclusa alla parte per il solo fatto di avere adito un giudice (nella specie, il TAR) che lo stesso attore ritiene successivamente privo di giurisdizione, e che ben può detta parte proporre l'eccezione per la prima volta in appello (nella specie, davanti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana), essendo la questione di giurisdizione preclusa solo nel caso in cui sulla stessa si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In questa stessa prospettiva:
- si è affermato che la questione di giurisdizione può essere sempre sollevata, anche in relazione alla sentenza di appello, quando una delle parti (non importa quale) abbia sollevato tempestivamente la questione stessa con i motivi di appello (Sez. un., 29 marzo 2011, n. 7097; Sez. un., 28 maggio 2014, n. 11916), e può posta pure dalla stessa parte che ha adito un giudice e ne ha successivamente contestato la giurisdizione in base all'interesse che deriva dalla soccombenza nel merito (Sez. un., 27 luglio 2011, n. 16391);
- si è ammessa (Sez. un., 20 gennaio 2014, n. 1006) la proponibilità della questione di giurisdizione con ricorso alla Corte regolatrice da parte di chi l'aveva sollevata, tempestivamente, dinanzi al Consiglio di Stato dopo avere invece, di fronte al giudice ordinario dove la causa era stata inizialmente proposta dall'altra parte, sostenuto la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo;
- si è sottolineato - con affermazione di carattere generale - che, purché almeno una delle parti l'abbia sollevata tempestivamente in appello (con ciò impedendo la formazione del giudicato sul punto), la questione di giurisdizione può essere posta in cassazione, "in funzione di interesse correlato alla posizione di merito", anche dalla parte che, nei pregressi gradi, abbia assunto in proposito opposta determinazione (Sez. un., 20 maggio 2014, n. 11022).
Secondo l'orientamento delle Sezioni Unite, quindi, l'altalenante condotta della parte non invalida l'atto e non è fonte di effetti preclusivi dell'impugnazione per motivi di giurisdizione.
Il pentimento secundum eventum litis è dichiarato ammissibile quale esercizio del diritto di avere torto: si richiamano, al riguardo, la natura oggettiva dell'interesse sotteso all'universalità della legittimazione a proporre ricorso per regolamento preventivo ex art. 41 c.p.c., la sufficienza di un interesse impugnatorio correlato alla posizione di merito e l'irrilevanza della rinuncia nella materia indisponibile della giurisdizione. L'incoerenza del comportamento processuale, quando è idonea a pregiudicare il diritto fondamentale della controparte ad una ragionevole durata del processo ai sensi dell'art. 111 Cost., può essere stigmatizzata con il governo delle spese, per trasgressione al dovere di lealtà e probità ex art. 88 c.p.c., secondo la disciplina dettata dall'art. 92, primo comma, ultima parte, c.p.c.
8. Recentemente, peraltro, nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite si registra un mutamento, essendosi pervenuti all'elaborazione di una soluzione diversa, non più di ammissibilità con sanzione delle spese, ma di ammissibilità condizionata alla giustificazione della parte istante. In una pronuncia resa su impugnazione avverso una sentenza del Consiglio di Stato che aveva dichiarato inammissibile perché abusiva l'auto-eccezione di difetto di giurisdizione in appello, la Corte regolatrice (Sez. un. 19 giugno 2014, n. 13940) non ha negato in generale la forza preclusiva dell'abuso, ma ha escluso in concreto l'abuso del ricorrente, giacché, per un verso, l'eccezione sollevata dal resistente aveva giustificato "il ripensamento e la necessità di chiarimento sulla questione di giurisdizione", e, per l'altro verso, la "complessità della materia del contendere che dava corpo al ricorso iniziale" impediva di "addebitare il successivo ripensamento in sede di appello a una manifestazione di abuso del processo".
Un ulteriore passo in direzione della configurabilità di una preclusione a cambiamenti di strategia processuale è possibile cogliere nella sentenza con cui le Sezioni Unite (14 maggio 2014, n. 10414) hanno dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 362 c.p.c. proposto avverso il decreto del Presidente della Repubblica dallo stesso ricorrente in via straordinaria che, soccombente nel merito, contestava la giurisdizione amministrativa costituente indefettibile presupposto della sua stessa originaria iniziativa. Richiamata la necessità del bilanciamento tra il valore costituzionale del giudice naturale e quello della ragionevole durata del processo, contemperamento sotteso all'evoluzione giurisprudenziale dell'art. 37 c.p.c. e alla conseguente emanazione dell'art. 9 cod. proc. amm., le Sezioni Unite hanno osservato che la deducibilità piena e assoluta della questione di giurisdizione consentirebbe a una parte - che abbia promosso o accettato il rimedio semplificato del ricorso straordinario allegando il presupposto della giurisdizione del giudice amministrativo o non contestando tale allegato presupposto - di giocare la carta di un'altra giurisdizione secundum eventum litis, ancorché la parte stessa non sia affatto soccombente sulla questione di giurisdizione, ma lo sia nel merito del ricorso straordinario".
9. Alla base della tesi, prevalente nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite, che ammette l'attore, soccombente nel merito, a proporre appello contestando la giurisdizione da lui stesso prescelta, vi è l'idea che in capo a costui vi sia l'interesse ad impugnare per chiedere una diminuzione della propria soccombenza, perché la decisione negativa in punto di giurisdizione, rispetto alla pronuncia negativa di merito, comporta un vantaggio giuridicamente rilevante che si concreta nella possibilità di proporre nuovamente la domanda dinanzi ad un giudice appartenente ad un diverso plesso giurisdizionale.
Appellando per difetto di giurisdizione, l'attore in primo grado che ha visto rigettata la propria domanda nel merito (con una pronuncia suscettibile di passare in giudicato sostanziale che preclude la riproponibilità della domanda) ambisce infatti alla translatio iudicii, che implica la rimozione della sentenza negativa e la rivalutazione del merito della domanda in una giurisdizione diversa.
10. Questa premessa, ad avviso del Collegio, merita di essere ripensata.
10.1. Occorre muovere dalla considerazione che, nell'esperienza giurisprudenziale conseguente alla sentenza delle Sezioni Unite 9 ottobre 2008, n. 24883, l'art. 37 c.p.c. vive come una norma che preclude, in assenza di un apposito motivo di gravame, il rilievo officioso del difetto di giurisdizione se la controversia sia stata decisa nel merito nel grado precedente, anche in mancanza di una esplicita statuizione sulla sussistenza della giurisdizione (da ultimo, Cass., Sez. un., 7 ottobre 2016, n. 20191).
In sostanza, il regime cronologico e modale del difetto di giurisdizione è il seguente: il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall'art. 38 c.p.c., fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; la sentenza di appello è impugnabile per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; il giudice può rilevare anche d'ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando al riguardo non si sia formato il giudicato esplicito o implicito.
Alla base di questo approdo vi è non soltanto il rilievo che "in ogni processo vanno individuati due distinti e non confondibili oggetti del giudizio, l'uno (processuale) concernente la sussistenza o meno del potere-dovere del giudice di risolvere il merito della causa e l'altro (sostanziale) relativo alla fondatezza o no della domanda", e che la statuizione sul merito contiene "implicitamente quella sull'antecedente logico da cui è condizionata e, cioè, sull'esistenza della giurisdizione, in difetto della quale non avrebbe potuto essere adottata". Vi è anche la sottolineatura che "l'accertamento della giurisdizione non rappresenta un mero passaggio interno della statuizione di merito, ma costituisce un capo autonomo che è pienamente capace di passare in giudicato anche nel caso in cui il giudice si sia pronunciato solo implicitamente sul punto".
10.2. Il diritto vivente formatosi sull'art. 37 c.p.c. è stato recepito dal codice del processo amministrativo. Ai sensi dell'art. 9, «Il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d'ufficio. Nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione». Una previsione di contenuto identico è dettata dall'art. 15 del codice di giustizia contabile, approvato con il d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174: «Il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d'ufficio. Nei giudizi di impugnazione, il difetto di giurisdizione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione».
10.3. Tanto l'elaborazione giurisprudenziale formatasi sull'art. 37 c.p.c. quanto la lettera dell'art. 9 cod. proc. amm. e dell'art. 15 cod. giust. cont. qualificano in termini di "capo" la statuizione sulla giurisdizione contenuta nella sentenza di primo grado che decide il merito della causa. Si tratta di un aspetto non nuovo nel processo civile, ma che presenta elementi di continuità con l'esperienza delle sentenze non definite su questioni, nelle quali - come la dottrina non ha mancato di rilevare - è isolabile una singola questione come contenuto di pronuncia: in esse, infatti, il "capo" non è corrispondente ad una domanda, ma si identifica, appunto, nella soluzione di una questione.
10.4. Il "capo" sulla sussistenza della giurisdizione che accompagna la decisione sul merito è non solo suscettibile di giudicato interno in mancanza di un'apposita attività di parte rivolta a denunciare con specifico motivo di gravame la carenza di giurisdizione.
Esso si presenta altresì come termine di riferimento da cui desumere una soccombenza sulla questione di giurisdizione autonoma rispetto alla soccombenza sul merito. È significativo al riguardo, ancora una volta, il confronto con la disciplina dell'appello contro le sentenze parziali, dove il codice di procedura civile (art. 340), nel fare riferimento alla «parte soccombente», correla il dato attributivo di questa definizione, nell'ipotesi delle sentenze previste dal n. 4 del secondo comma dell'art. 279, proprio alla soluzione di una questione.
Di fronte ad una sentenza di rigetto della domanda non è ravvisabile una soccombenza dell'attore anche sulla questione di giurisdizione: rispetto al "capo" relativo alla giurisdizione egli va considerato a tutti gli effetti vincitore, avendo il giudice riconosciuto la sussistenza del proprio dovere di decidere il merito della causa, così come implicitamente o esplicitamente sostenuto dallo stesso attore, che a quel giudice si è rivolto, con l'atto introduttivo della controversia, per chiedere una risposta al suo bisogno individuale di tutela.
L'attore non è pertanto legittimato a contestare il capo sulla giurisdizione e a sostenere che la potestas iudicandi spetta ad un giudice diverso, appartenente ad un altro plesso giurisdizionale: relativamente ad una tale pronuncia a contenuto processuale di segno positivo, non è configurabile, per l'attore, soccombenza, che del potere di impugnativa rappresenta l'antecedente necessario; la soccombenza nel merito non può essere trasferita sul (e utilizzata per censurare il) diverso capo costituito dalla definizione endoprocessuale della questione di giurisdizione, trattandosi di aspetto non destinato, per sua natura, a differenza di ciò che avviene con riguardo ad altre questioni pregiudiziali di rito, a condizionare l'efficacia e l'utilità stessa della decisione adottata.
Rispetto al capo sulla giurisdizione che accompagna la statuizione di rigetto nel merito della domanda è configurabile esclusivamente la soccombenza del convenuto, sempre che a sua volta non abbia chiesto al giudice di dichiararsi munito di giurisdizione. Il vincitore pratico della causa, se non ha interesse a impugnare per primo sul capo della giurisdizione, perché il passaggio in giudicato della statuizione di rigetto gli assicura una utilità maggiore di quella che potrebbe ottenere dalla declinatoria di giurisdizione, ha tuttavia interesse ad impugnare dopo e per effetto della impugnazione principale sul merito da parte del soccombente pratico e così in via incidentale per il caso di suo accoglimento (Cass., Sez. un., 6 marzo 2009, n. 5456).
11. La soluzione della inammissibilità dell'appello proposto dall'attore soccombente nel merito il quale sostenga che la sentenza è stata emanata da un giudice privo di giurisdizione, non si pone in contrasto con la garanzia del giudice naturale precostituito per legge o in contraddizione con l'attinenza del riparto di giurisdizione all'ordine pubblico processuale.
Infatti, il valore costituzionale del giudice precostituito per legge è presidiato dall'obbligo del giudice di procedere d'ufficio in primo grado alla verifica dellapotestas iudicandi e va bilanciato con quello dell'ordine e della speditezza del processo. Pertanto, la quaestio iurisdictionis ben può non solo trovare anticipata soluzione endoprocessuale, ma anche conoscere una preclusione alla possibilità della relativa deduzione in appello ad opera di chi, avendo adito il giudice appartenente a quel dato plesso giurisdizionale, non è soccombente al riguardo.
D'altra parte, come è stato osservato in dottrina, il corretto riparto di giurisdizione, pur di interesse superindividuale, "non esprime più un valore processuale assolutamente imperativo, da garantire... a pena di veder nascere una sentenzainutiliter data"; e ciò a differenza di quanto avviene con riferimento ad altre questioni processuali "fondanti", le quali non si possono considerare implicitamente risolte, e sono soggette alla verifica dei giudici delle impugnazioni, perché servono a salvaguardare l'ordinamento dal disvalore "di sistema" costituito dall'emissione di sentenze instabili (così Cass., Sez. un., 4 marzo 2016, n. 4248).
11.1. E neppure appare decisiva l'obiezione circa la disarmonia sistematica che deriverebbe dal fatto che l'art. 41 c.p.c. (cui l'art. 10 cod. proc. amm. e l'art. 16 cod. giust. cont. rinviano) consente a ciascuna parte, e quindi anche all'attore, di rivolgersi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione per chiedere il regolamento preventivo di giurisdizione, quantunque né il convenuto né il giudice abbiano sollevato la relativa questione.
Infatti, la preclusione riguarda l'appello per difetto di giurisdizione proposto dall'attore dopo che il giudice ha deciso la causa nel merito: concerne, quindi, un rimedio impugnatorio rivolto a fare pronunciare una sentenza endoprocessuale di difetto di giurisdizione e così senza effetto di sbarramento alla riproposizione della domanda dinanzi ad un diverso giudice (al giudice ordinario anziché al giudice amministrativo inizialmente adito, o viceversa). Il regolamento preventivo di giurisdizione, invece, è un rimedio non impugnatorio diretto ad una pronuncia con efficacia panprocessuale.
Possono pertanto ben coesistere la facoltà, anche per l'attore, di accedere al giudice regolatore della giurisdizione finché la causa non sia decisa nel merito dal giudice adito, e la preclusione a interporre appello con un motivo di difetto di giurisdizione per chi ha promosso la controversia dinanzi ad un giudice e dallo stesso ha ricevuto un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale.
L'una via (il regolamento preventivo) è consentita in ragione della posizione istituzionale della Suprema Corte, della forza esterna della sua pronuncia e dello specifico impatto che essa esercita sulla ragionevole durata del processo: una possibilità, d'altra parte, che all'attore è data non ad libitum, ma solo in presenza di ragionevoli dubbi sui limiti esterni della giurisdizione del giudice adito, quindi di un interesse concreto ed immediato ad una risoluzione della quaestio da parte delle Sezioni Unite, in via definitiva ed immodificabile, onde evitare che la sua risoluzione in sede di merito possa incorrere in successive modifiche nel corso del giudizio, ritardando la definizione della causa, anche al fine di ottenere un giusto processo di durata ragionevole (Cass., Sez. un., 21 settembre 2006, n. 20504; Cass., Sez. un., 27 gennaio 2011, n. 1876; Cass., Sez. un., 12 luglio 2011, n. 15237; Cass., Sez. un., 16 dicembre 2013, n. 27990; Cass., Sez. un., 2 febbraio 2016, n. 1918).
L'altra via (l'appello per difetto di giurisdizione) è preclusa perché l'ordinamento processuale non consente all'attore, una volta che la causa sia stata decisa nel merito, la contraddittorietà rispetto all'originaria scelta di giurisdizione, e gli impedisce, attraverso la dichiarazione di inammissibilità del motivo di giurisdizione sollevato con il gravame (al netto, quindi, di eventuali concorrenti motivi di merito), di conseguire l'utilità discendente dal ripensamento secundum eventum. Una soluzione preclusiva, questa, che appare in linea con la considerazione della giurisdizione come risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione deve essere impiegata in maniera razionale, sì da preservare la possibilità di consentirne l'utilizzo anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli utenti che in futuro indirizzeranno le loro controversie alla cognizione del giudice statale.
12. Va pertanto affermato il seguente principio di diritto:
«L'attore che abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato a interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto».
13. È pertanto corretta la decisione del Consiglio di Stato di non dare ingresso alla censura con cui gli appellanti Francesco e Gabriele A. si sono doluti del mancato rilievo, da parte del Tribunale regionale di giustizia amministrativa, della carenza di giurisdizione del giudice amministrativo.
Resta assorbito l'esame della censura sul fondo della questione di giurisdizione.
14. Il ricorso è rigettato.
La complessità della questione trattata giustifica l'integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.
15. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è respinto, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell'art. 1, comma 17, della l. 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quaterall'art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell'obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
[1] In Foro it., 2009, III, 121, con nota di TRAVI.
[2] In Foro it. 2012, III, 200, con nota di TRAVI, ivi gli ulteriori riferimenti di dottrina e giurisprudenza e in Foro amm. CDS 2012, 7-8, 1994 con note di DINELLI e LO PRESTI.
[3] Gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto sono stati individuati da Cass., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, in materia di abusivo esercizio del diritto di recesso. Tali requisiti sono, nella specie: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.
[4] Si veda Cons. St., sez.V, 9 marzo 2015 (in Foro it., 2015, III, 408, con nota di CONDORELLI), nonché sez. V, 27 marzo 2015 n. 1605; sez. IV, 7 novembre 2015, n. 5484; Sez. VI, 29 febbraio 2016, n. 856.
[5] Per il quale si veda, ex pluribus, Cass. civ., s.u., 29 marzo 2011, n. 7097