Tar Sardegna, sez. I, 13 luglio 2016, n. 675
1. Nei rapporti di diritto pubblico, stante la particolare natura degli interessi coinvolti, l'art. 1227 c.c. ha una portata applicativa più ampia rispetto a quella propria dei rapporti paritetici e l'interessato ha l'onere di esperire, con la massima diligenza e tempestività, tutti gli strumenti apprestati dall'ordinamento al fine di scongiurare il verificarsi “in forma specifica” del pregiudizio di cui intenda chiedere il ristoro “per equivalente” (1).
2. Il mancato esperimento dei rimedi giurisdizionali di tutela in forma specifica, quali la mancata proposizione del ricorso avverso il silenzio della Stazione appaltante in relazione alle richieste di stipula del contratto, recide il nesso causale tra danno ingiusto e condotta illegittima dell'Amministrazione, precludendo all'interessato il risarcimento per equivalente (2).
(1) conformi: Consiglio di Stato, sez. III, 20 aprile 2016, n. 1565; Consiglio di Stato, sez. V, 31 marzo 2016, n. 1267.
(2) conforme: Tar Sardegna, sez. I, 8 giugno 2016, n. 487; parzialmente difforme: C.G:A.R.S., 2 agosto 2016, n. 250; difforme: Consiglio di Stato, sez. VI, 15 settembre 2015, n. 4283.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 22 del 2011, proposto da:
Impresa Loi Giuseppe, rappresentata e difesa dagli avvocati Sergio Segneri e Rosanna Patta, con domicilio eletto presso lo studio del primo, in Cagliari, via Sonnino n.84;
contro
Abbanoa s.p.a., rappresentata e difesa dall'avvocato Massimo Lai, con domicilio eletto presso il suo studio, in Cagliari, via Leonardo Alagon n. 1;
nei confronti di
Fallimento SACOP s.r.l., non costituito in giudizio;
per il risarcimento:
- dei danni cagionati dalla mancata tempestiva consegna dei lavori di costruzione di un impianto depurativo fognario.
Visti il ricorso e i relativi allegati.
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Abbanoa s.p.a.
Viste le memorie difensive.
Visti tutti gli atti della causa.
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 luglio 2016 il dott. Antonio Plaisant e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale.
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
L’Impresa Loi Giuseppe era risultata aggiudicataria di una licitazione privata indetta dal Consorzio per l’Acquedotto sul rio Govossai, per la realizzazione di un impianto di depurazione delle acque fognarie di vari comuni della zona, con importo a base d’asta di 3.394.500.000 di lire.
Poiché il bando richiedeva, ai fini della partecipazione alla gara, l’iscrizione all’Albo nazionale costruttori, ovvero all’Albo nazionale appaltatori, per la categoria Xa di “importo adeguato”, la SACOP s.r.l. -concorrente non vincitrice- aveva impugnato innanzi a questo Tribunale l’aggiudicazione dei lavori all’Impresa Loi Giuseppe, sul presupposto che quest’ultima, insieme ad altre 14 partecipanti, avrebbe dovuto essere esclusa perché in possesso dell’iscrizione nella categoria Xa soltanto sino a 3.000.000.000 di lire, non potendosi tenere conto, a tal fine, dell’aumento del quinto di cui all’art. 5 della legge n. 57/1962; con ordinanza 15 gennaio 1998, n. 36, questa Sezione aveva accolto la relativa istanza cautelare e, in esecuzione, la stazione appaltante aveva escluso l’Impresa Loi Giuseppe dalla gara, aggiudicandola a SACOP s.r.l. dopo aver rideterminato la soglia di anomalia delle offerte.
Con separato ricorso l’Impresa Loi Giuseppe aveva impugnato questi ultimi provvedimenti, ma la relativa istanza cautelare era stata respinta da questa Sezione, dapprima con ordinanza 26 febbraio 1998, n. 147, e poi con sentenza 13 ottobre 1998, n. 1062; tuttavia, a seguito di appello dell’interessata, la VI Sezione del Consiglio di Stato aveva dapprima accolto l’istanza cautelare dell’Impresa Loi Giuseppe con ordinanza 21 aprile 1998, n. 824, e poi riformato nel merito la pronuncia di primo grado, prima sospendendola con ordinanza della VI Sezione 27 novembre 1998, n. 1803, infine annullandola con sentenza 22 ottobre 1999, n. 2037.
Successivamente l’Impresa Loi Giuseppe ha invitato l’Amministrazione resistente a consegnarle i lavori oggetto di causa e tale richiesta è stata accolta il 25 giugno 2000, data a partire dalla quale l’interessata è subentrata alla SACOP s.r.l nell’esecuzione dell’appalto, ovviamente per la parte di lavori ancora da eseguire.
Su tali presupposti la stessa Impresa Loi Giuseppe, con il ricorso ora in esame, chiede la condanna di Abbanoa s.p.a. -nel frattempo subentrata nelle competenze del disciolto Consorzio che aveva indetto la gara- a risarcirle i danni patiti a causa del ritardo con cui è stata data esecuzione alle sopra descritte pronunce del Consiglio di Stato.
Si è costituita in giudizio Abbanoa s.p.a., sollecitando la reiezione del gravame.
È seguito lo scambio di memorie difensive con cui ciascuna delle parti ha ulteriormente argomentato le proprie tesi.
Alla pubblica udienza del 13 luglio 2016 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
Secondo la tesi della ricorrente sussisterebbero, nel caso di specie, tutti i presupposti dell’invocata tutela risarcitoria per equivalente, in particolare:
la condotta illecita, rappresentata dall’ingiustificato ritardo nell’esecuzione di tre pronunce d’appello a sé favorevoli; in specie -a fronte di una prima pronuncia cautelare del Consiglio di Stato 21 aprile 1998, n. 824 (con cui era stata ripristinata l’efficacia dell’originaria aggiudicazione all’Impresa Loi), dell’ulteriore ordinanza cautelare 27 novembre 1998, n. 1803 (con cui era stata sospesa l’efficacia della sopravvenuta sentenza di primo grado favorevole a controparte) e della definitiva (e conforme) sentenza d’appello del 22 ottobre 1999, n. 2037- la stazione appaltante ha consegnato i lavori alla ricorrente solo in data 25 giugno 2000, con oltre due anni di ritardo rispetto alla prima delle citate pronunce e con circa otto mesi di ritardo dall’ultima;
la colpa dell’Amministrazione resistente, considerato il notevole ritardo con cui la stessa ha eseguito le citate pronunce d’appello, a fronte della particolare tempestività con cui aveva aggiudicato i lavori alla SACOP s.r.l., in attuazione dell’ordinanza cautelare di questo Tribunale;
un danno ingiusto causalmente ricollegabile a tale condotta illecita, scomponibile in tre distinte voci: in primo luogo il danno emergente, rappresentato dall’inutile immobilizzazione delle risorse aziendali in vista dell’esecuzione dell’appalto quanto meno a partire dalla prima pronuncia favorevole del Consiglio di Stato del 21 aprile 1998 (o, in subordine, dalla sentenza di merito dello stesso Giudice d’appello in data 22 ottobre 1999, n. 2037), che avevano ingenerato nell’Impresa Loi Giuseppe un oggettivo affidamento sulla possibilità di subentrare nell’esecuzione dell’appalto (per tale voce di danno spetterebbe una somma pari al 13% dell’importo a base d’asta -percentuale in cui la stessa stazione appaltante aveva quantificato l’ammontare delle spese generali- diminuita in misura equa così da tenere conto dell’utilizzo dei beni e personale aziendali in altre attività produttive e, infine, rivalutata in base all’indice ISTAT relativo al periodo gennaio 1998 - giugno 2000); in secondo luogo il lucro cessante, consistente nel profitto non conseguito relativamente alla parte di opere già eseguite da SACOP s.r.l. al 25 giugno 2000, data in cui i lavori erano stati riconsegnati alla ricorrente (cui spetterebbe, per tale voce, una somma superiore al 10% dell’importo dei lavori non eseguiti, questi ultimi pari a 264.909.748 lire, considerato che proprio quei lavori erano i più redditizi perché ubicati in zone periferiche e perciò meno soggetti a rallentamenti legati al traffico cittadino); infine il danno curricolare, legato al ritardo (di circa due anni) con cui l’Impresa Loi ha potuto far valere l’aggiudicazione di un appalto di lavori pubblici di importo superiore a 3.000.000.000 di lire, il che le avrebbe impedito di partecipare a gare pubbliche di relativo importo in quel lasso di tempo.
Il Collegio preliminarmente osserva che la domanda risarcitoria ha a oggetto il danno ingiusto che la ricorrente avrebbe subito a partire dalla prima pronuncia cautelare del Consiglio di Stato (in data 21 aprile 1998), con cui era stata riformata l’ordinanza cautelare con cui questo Tribunale aveva sospeso l’originaria aggiudicazione in favore della stessa Impresa Loi Giuseppe, mentre nella fase precedente -quella compresa tra la stessa ordinanza di primo grado e la sospensione della stessa in appello- non è neppure astrattamente concepibile alcun danno ingiusto, avendo in quella fase l’Amministrazione doverosamente eseguito l’ordinanza cautelare del TAR, attribuendo i lavori alla SACOP; in sostanza la ricorrente invoca il danno cagionato dal ritardo con cui la stazione appaltante ha eseguito le pronunce del Consiglio di Stato che, in riforma della citata ordinanza cautelare del TAR, avevano restituito valore all’originaria aggiudicazione, imponendo la consegna dei lavori alla stessa Impresa Loi Giuseppe.
Ciò premesso, tale domanda risarcitoria, ancorché nei termini dianzi precisati, non merita accoglimento.
Difatti, secondo un notissimo e condivisibile orientamento giurisprudenziale, il nesso causale tra danno ingiusto e condotta illegittima dell’amministrazione deve considerarsi “giuridicamente spezzato” laddove l’interessato non abbia esercitato -con la massima diligenza e tempestività- tutti i mezzi processuali che l’ordinamento pone a sua disposizione per evitare “in forma specifica” il pregiudizio di cui poi invoca ristoro per equivalente e questo per effetto di un’applicazione della norma di cui all’art. 1227 cc. che, nei rapporti di diritto pubblico, assume portata più estesa che in quelli autenticamente paritetici, in considerazione della particolare natura degli interessi coinvolti.
Orbene tale evenienza è proprio quella verificatasi nel caso ora in esame, posto che l’Impresa Loi Giuseppe -una volta ottenuta dal Consiglio di Stato la sospensione della sfavorevole pronuncia cautelare di primo grado, con la conseguente riacquisita efficacia dell’originaria aggiudicazione- non ha esperito alcun rimedio giurisdizionale in forma specifica, come ben avrebbe potuto; in particolare l’interessata ha omesso di esercitare il proprio diritto potestativo di sciogliersi da ogni possibile “vincolo precontrattuale” una volta scaduto il termine per la stipula del contratto, così come non ha proposto ricorso avverso il silenzio tenuto dalla stazione appaltante in ordine alla proprie richieste di stipula del contratto (cfr., su questi aspetti, T.A.R. Roma, Sez. II, 3 novembre 2015, n. 12400).
Viceversa l’interessata si è affidata a semplici solleciti alla stipula del contratto nei confronti della stazione appaltante (cfr. docc. 5 e segg. di parte ricorrente), dalla cui lettura, peraltro, traspare implicitamente l’intento di regolare i rapporti con la parte pubblica in forma sostanzialmente “concordata”, piuttosto che con mezzi coercitivi: emblematico, al riguardo, il sollecito inviato in 30 marzo 2000 (doc. 9), con cui “si chiede di sapere se Codesto Consorzio abbia già provveduto a prendere atto della citata sentenza del Consiglio di Stato e adottato gli opportuni provvedimenti conseguenziali, preordinati alla stipulazione del contratto e alla successiva assegnazione dei lavori”. Atteggiamento, questo, probabilmente giustificato dalla consapevolezza, da parte della stessa ricorrente, della notevole complessità dell’operazione di subentro in lavori già da tempo iniziati da parte della SACOP s.r.l. (il che richiedeva il ritiro delle attrezzature utilizzate da quest’ultima e l’esatta determinazione delle opere già eseguite, così da circoscrivere con precisione l’oggetto della prestazione ancora spettante alla nuova aggiudicataria) e che spiega, altresì, la cautela tenuta, a sua volta, dalla stazione appaltante, la quale -prima di procedere a tale complessa operazione di subentro- ha preferito attendere la definitiva pronuncia del Consiglio di Stato nel merito, poi intervenuta nell’ottobre 1999, all’esito della quale ha accolto con relativa tempestività le richieste dell’Impresa Loi Giuseppe, consegnandole i lavori a giugno 2000, a pochi mesi di distanza dal sopra citato sollecito.
Per quanto premesso il ricorso non merita accoglimento, ancorché con integrale compensazione delle spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Prima), definitivamente pronunciando, respinge il ricorso in epigrafe proposto.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Cagliari nella camera di consiglio del giorno 13 luglio 2016 con l'intervento dei magistrati:
Caro Lucrezio Monticelli, Presidente
Antonio Plaisant, Consigliere, Estensore
Guida alla lettura
La sentenza in commento esamina il complesso tema della concreta portata applicativa dell'art. 1227 c.c. nell'ambito dei giudizi risarcitori in materia di rapporti di diritto pubblico e delinea, in particolare, i caratteri dell'onere di diligenza gravante sul soggetto che agisca in giudizio per il risarcimento del danno derivante dall'illegittima condotta della P.A.
Al fine di inquadrare compiutamente la vicenda, occorre una sintetica ricostruzione dei fatti di giudizio. L'impresa ricorrente, aggiudicataria dell'appalto, veniva esclusa dalla Stazione appaltante per effetto dell'ordinanza cautelare di sospensione disposta dal Tar sul ricorso proposto da un'altra partecipante cui era conseguentemente affidata l'esecuzione dei lavori. L'esclusione veniva successivamente impugnata nanti il Tar con autonomo ricorso e contestuale istanza di sospensiva, rigettata con ordinanza poi riformata in sede di appello cautelare. Stessa sorte caratterizzava il ricorso avverso l'esclusione, rigettato dal Tar con sentenza dapprima sospesa e poi definitivamente riformata dal Consiglio di Stato. A seguito di tale ultima pronunzia l'impresa aggiudicataria subentrava nell'esecuzione della parte dei lavori ancora da realizzarsi. Da qui la richiesta, proposta nel giudizio in oggetto, del risarcimento dei danni patiti dall'impresa nel periodo compreso tra la sospensione, da parte del Consiglio di Stato, dell'ordinanza cautelare di rigetto disposta dal Tar sull'istanza formulata dall'impresa con il ricorso di primo grado e l'effettiva consegna dei lavori residui.
La pronunzia in esame si incentra sulla complessa tematica degli oneri di diligenza in materia di giudizi risarcitori per condotta illegittima della P.A., oggetto di una costante e rilevante evoluzione giurisprudenziale.
All'indomani dell'entrata in vigore del codice del processo amministrativo, la giurisprudenza ha chiarito che sebbene sia venuta meno, nel nostro ordinamento, la c.d. “pregiudiziale amministrativa” e sia stata legislativamente sancita l'autonomia tra rimedio risarcitorio e azione di annullamento, l'applicazione dell'art. 30, comma 3, del Codice di rito -secondo cui “Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti”- che costituisce norma ricognitiva di principi già evincibili in forza di un'interpretazione estensiva dell'art. 1227 c.c., comporta che il danneggiato debba adottare i rimedi volti a evitare o ridurre il danno. Tra questi ultimi rientra, innanzitutto, l'azione di annullamento dell'atto lesivo, ove utilmente esperibile (ex plurimis Cons. Stato n. 1565/16).
Sin dalla sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 3/2011 si è, peraltro, affermato che, nell'ambito dei rapporti pubblicistici, il canone di diligenza alla stregua del quale deve essere valutata la condotta del danneggiato ha una differente connotazione rispetto alla tradizionale concezione privatistica. In particolare, alla luce delle previsioni di cui agli artt. 30 e 124 del Codice di rito e 243-bis del D.Lgs. n. 163/06, ai fini della verifica in ordine alla sussistenza del nesso eziologico, dovrà essere valutato anche l'utilizzo, da parte del danneggiato, di rimedi e condotte distinti rispetto all'azione caducatoria ma comunque potenzialmente idonei ad evitare il danno, quali ricorsi amministrativi e istanze di autotutela o riesame.
Chiarita la sostanziale imprescindibilità, nella maggior parte delle ipotesi, della preventiva proposizione dell'azione caducatoria, l'evoluzione giurisprudenziale successiva si è sviluppata nel senso di individuare gli strumenti di tutela approntati dall'ordinamento richiamati dal terzo comma dell'art. 30 del Codice di rito.
Parte della giurisprudenza ha ulteriormente esteso la definizione del canone di diligenza del danneggiato annoverando, tra i rimedi il cui mancato esperimento determina la sua violazione, tutti i mezzi processuali che l'ordinamento appresta per scongiurare la produzione “in forma specifica” del danno di cui si intende chiedere il ristoro “per equivalente”.
Secondo un filone interpretativo meno rigoroso, il mancato esperimento dei rimedi giudiziali ulteriori rispetto all'azione di annullamento non esclude il nesso causale, ma determina, comunque, comportamento valutabile ai fini della determinazione dell'ammontare del risarcimento. In particolare, l'omessa proposizione del ricorso per ottemperanza costituisce circostanza suscettibile di incidere soltanto sulla misura del danno risarcibile, non escludendo, tuttavia, la configurabilità del danno stesso (C.G:A.R.S. n. 250/16).
Secondo l'indirizzo più restrittivo, di converso, l'omessa attivazione dei rimedi processuali, quale l'azione di ottemperanza a seguito dell'ottenimento di una pronunzia di annullamento, è idonea a costituire comportamento contrario all'onere di diligenza e recide, dunque, il nesso causale tra condotta illegittima e danno, precludendo qualsiasi risarcimento (Tar Sardegna n. 487/16).
Entrambi i succitati indirizzi, peraltro, contrastano con il recente orientamento proposto dal Consiglio di Stato con la pronunzia n. 4283/15, che ha sancito che gli oneri di diligenza gravanti sul danneggiato debbono ritenersi assolti anche mediante l'impiego di soli strumenti di natura extraprocessuale. Ciò in quanto l’utilizzo nel secondo periodo del terzo comma dell’art. 30 c.p.a. della formula al plurale “strumenti di tutela previsti” implica che il privato danneggiato possa attivare, per sottrarsi alla regola del concorso di colpa, mezzi di tutela, anche di natura stragiudiziale -tra i quali l'istanza di autotutela, il ricorso amministrativo o la sollecitazione mediante diffida- diversi e meno onerosi rispetto ai rimedi strettamente processuali, quale il ricorso per ottemperanza. In caso contrario, infatti, si rischierebbe di introdurre una “pregiudiziale amministrativa” maggiormente severa di quella precedentemente elaborata dal dibattito dottrinale e giurisprudenziale.
La sentenza in commento si pone nel solco dell'impostazione giurisprudenziale maggiormente restrittiva poc'anzi citata, con la peculiarità, tuttavia, di includere nel novero delle condotte non aderenti al canone di diligenza, il mancato esperimento dell'azione avverso il silenzio della P.A. Secondo il Collegio, infatti, non è sufficiente ad integrare l'assolvimento degli oneri di cooperazione del debitore ai sensi degli artt. 30, comma 3, c.p.a. e 1227 c.c., il reiterato utilizzo di strumenti stragiudiziali quali le richieste di affidamento dei lavori trasmesse dall'impresa alla Stazione appaltante. Invero, l'omessa proposizione di un'azione, quella avverso l'inerzia dell'Amministrazione, che l'impresa avrebbe potuto e dovuto coltivare, integra la violazione del canone di diligenza e recide, pertanto, il nesso causale tra comportamento illegittimo della P.A. e danno ingiusto.
La pronunzia in esame parrebbe, dunque, dilatare ulteriormente l'ampiezza degli oneri di diligenza del danneggiato, il quale, nell'ambito di una situazione processuale non ancora compiutamente definita in senso a sé favorevole sotto il profilo della sicura spettanza del bene della vita, risulta onerato dell'esperimento di un ulteriore ed autonomo strumento processuale, al fine di non incorrere non già nella diminuzione del quantum risarcibile, ma nel radicale diniego del ristoro potenzialmente spettante.
Occorre interrogarsi sui riflessi che siffatta impostazione determina. Da un lato, infatti, emergono potenziali profili di criticità in tema di effettività della tutela del danneggiato, il quale, in virtù di una concezione così rigorosa dell'onere di diligenza, potrebbe essere costretto a superare, al fine di non vedere pregiudicato il proprio diritto al risarcimento, il limite del c.d. “apprezzabile sacrificio” di matrice giurisprudenziale. Dall'altro lato, anche alla luce degli obblighi conformativi dell'Amministrazione a fronte di provvedimenti esecutivi dell'autorità giudiziaria, ci si domanda se una simile concezione non possa rischiare di legittimare condotte omissive della Stazione appaltante che non paiono pienamente orientate al concreto perseguimento dell'interesse pubblico.