L’interferenza tra diritto nazionale e comunitario è da sempre oggetto dell’incessante attenzione dell’elaborazione dottrinaria e pretoria: il principio di integrazione tra ordinamento nazionale e comunitario spesso si scontra con la necessità di ridurre ad unità regole e sistemi spesso incentrati su regole e principi difformi. Tale continuo confronto tra primato europeo e necessità di salvaguardare le specificità ordinamentali nazionali è vieppiù sentita in materia di contratti pubblici, da sempre oggetto di una disciplina multilivello che richiede il costante confronto tra fonti sovranazionali e istanze ordinamentali, al fine di ridurre ad unità un sistema disciplinatorio spesso di non facile composizione. Di qui l’importanza centrale di una riflessione sul principio della primazia del diritto comunitario e sulle modaltà e limiti con il quale esso è chiamato ad impattare sul nostro ordinamento nazionale1.
1. Lo scritto riproduce, con l’aggiunta di alcuni riferimenti bibliografici e giurisprudenziali, la relazione svolta al convegno L'integrazione degli ordinamenti giuridici in Europa, tenutosi a Lecce il 23 e 24 maggio 2014, i cui atti (a cura di P. L. Portaluri) sono pubblicati dalla ESI, 2014, spec. p. 125 ss.
Successivamente al convegno, inoltre, la Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione) si pronunciata sulla OMT-Beschluss, citata alla nota 5, con sentenza 16 giugno 2015 in C‑62/14, nella quale, dopo aver respinto le varie eccezioni d’irricevibilità della questione, non ha preso posizione sulla portata dell’articolo 4, secondo paragrafo, del Trattato di Lisbona. Ha invece affermato, conformemente alle conclusioni dell’Avvocato generale, presentate all’udienza del 14 gennaio 2015, che rientra nelle attribuzioni del Sistema europeo di banche centrali (SEBC) l’adozione di un programma di acquisto di titoli di Stato sui mercati secondari, trattandosi di uno strumento di politica monetaria (e non di politica economica).
Sommario: 1. Resistenza alla primauté attraverso i «controlimiti». – 2. Ascesa e caduta della «europeizzazione dei “controlimiti”». – 3. Il «dialogo tra Corti» fuori dal mito. – 4. Strumenti dialogici e partecipativi: the Italian way.
1. Il tema che mi è stato assegnato è stato approfondito ovviamente innanzitutto dagli studiosi di diritto internazionale e, in particolare, di diritto comunitario, oggi dell’Unione europea, e di diritto costituzionale, più che dagli amministrativisti, che solo di recente si sono sistematicamente interessati dell’influenza europea sull’ordinamento italiano, quando è risultata evidente l’incisività di una serie di norme e di principi importati dall’Europa in settori tradizionalmente considerati oggetto di potestà pubbliche.
Questa premessa non rappresenta solo lo specchio della distinzione tra diverse aree disciplinari, ma anche il frutto di un’impostazione delle questioni che ha messo in evidenza, soprattutto nel rapporto fra Stato e Unione europea, non l’intero (e a volte conflittuale) quadro delle relazioni, bensì prevalentemente lo sviluppo dialettico delle sentenze della Corte di giustizia, da un lato, e della Corte costituzionale italiana, dall’altro.
La prima impegnata a garantire la dignità dell’organizzazione sovranazionale quale comunità di diritto, il rispetto delle sue regole e dei relativi effetti, nonché l’uniformità dell’interpretazione nei vari Stati membri.
La seconda preoccupata di assicurare che le limitazioni di sovranità consentite dall’articolo 11 della Costituzione[1] non conducessero ad una cancellazione dei principi fondanti la Carta italiana.
Tale percorso si è sviluppato nella coerente negazione, da parte del Giudice di Kirchberg, della dualità degli ordinamenti (europeo e statale) e della contestuale affermazione del primato del diritto comunitario[2], opposta ad una visione che inizialmente ricostruiva il rapporto tra ordinamenti come di distinzione e di separazione, per poi giungere all’idea di un coordinamento tra i medesimi che conservi in ogni caso un argine all’indiscriminato recepimento delle norme sovranazionali, argine costituito dai cosiddetti «controlimiti».
Questi ultimi sono definiti attraverso il rinvio ai «principi fondamentali della Costituzione» e ai «diritti inalienabili della persona»[3].
Non è difficile riscontrare il nucleo argomentativo della resistenza della Corte costituzionale italiana in altre parallele esperienze costituzionali, come quella tedesca[4], polacca[5], britannica[6] e cecoslovacca[7].
Si tratta di traiettorie accomunate, oltre che dai passaggi nel ragionamento giuridico, dal punto di arrivo: una rivendicazione astratta del potere di dire l’ultima parola sull’innesto di norme e principi europei nell’ordinamento nazionale[8] che già, sin dall’origine, sembra enunciata nella prospettiva di non realizzarsi mai nella realtà[9].
2. La difesa dei valori fondamentali interni (o, se vogliamo, della residua sovranità statale) sembrava aver trovato nuova linfa nell’articolo 4, secondo paragrafo, del Trattato dell’Unione[10].
Partendo dall’implicito presupposto che la pura contrapposizione in nome della sovranità – comportante in teoria, nei suoi esiti estremi, la rottura del stesso patto comunitario –, si sostanzi in un atteggiamento sterile, lo stesso Bundesverfassungsgericht, che si è sempre contraddistinto nel difendere la propria Costituzione, valorizzando proprio la tutela (anche sovranazionale) dell’identità nazionale, è in effetti approdato a un approccio più dialogico rispetto al diritto europeo e alla Corte di giustizia che ne impersona il primato, in nome del principio della Europarechtsfreundlichkeit[11].
In questa logica s’inserisce la Lissabon-Urteil (paragrafo n. 240), secondo la quale la garanzia dell’identità costituzionale assicurata all’interno dello Stato membro va «mano nella mano» con quella del rispetto, dovuto dall’Unione, all’identità nazionale insita nella struttura fondamentale, politica e costituzionale degli Stati membri.
Il diverso approccio[12] s’inserisce nel solco di una serie di studi dedicati al «dialogo tra Corti»[13], ovvero al Kooperationsverhältnis e alla Gerichtsverbund (nelle sue accezioni di «collegamento», «connessione», «combinazione», «unione») e segna la nuova direzione intrapresa dalla giurisprudenza costituzionale tedesca, espressa in modo più deciso rispetto a quella italiana, nella quale pure si registrano i rinvii pregiudiziali operati con le ordinanze n. 183 del 2008 e n. 207 del 2013.
Il riferimento alle identità nazionali come valore da tutelare a livello europeo, nel senso indicato, è stato però criticato da quella dottrina che ha ricostruito l’articolo 4, secondo paragrafo, soprattutto tenendo conto della genesi della clausola di salvaguardia[14] e delle sue interrelazioni con altri principi enunciati nel Trattato.
Nell’articolo F del TUE (Maastricht) fu introdotta tale clausola (così formulata: «L’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri»). Sullo stesso modello venne redatto poi l’articolo 6 del Trattato di Amsterdam e di quello di Nizza. Si trattava di un’affermazione di respiro ampio (ma, appunto per questo, di sfumata portata cogente, se non del tutto inoperante, perché non giustiziabile dinanzi alla Corte CE[15]) tesa a proteggere il pluralismo costituzionale all’interno dell’Unione, anche in sinergia con l’opera della Corte di giustizia impegnata a costruire un catalogo di diritti fondamentali traendo spunto pure dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri.
Nel corso dei lavori del Trattato costituzionale, il concetto delle identità nazionali fu richiamato nell’ambito del gruppo di lavoro della convenzione che si occupava delle «competenze complementari», presieduto da Henning Christophersen. Il gruppo si poneva il problema delle interferenze delle competenze complementari (ad esempio, l’istruzione, la cultura, la salute pubblica, etc., in cui l’Unione esercita poteri di sostegno e coordinamento delle azioni statali, oggi con espressa esclusione di misure di armonizzazione) con altri settori affidati all’Organizzazione sovranazionale. Fu scartata la soluzione di redigere (accanto all’elenco delle competenze esclusive dell’Unione e di quelle condivise tra Stati membri e Unione) una lista delle competenze esclusive degli Stati membri. Rispetto a tale opzione (non compatibile con i principi del diritto internazionale dei trattati, perché trattava, in pratica, quello statale come un ordinamento derivato) fu preferita l’idea del Presidente Christophersen[16] di richiamare, specificandola, la formula sul rispetto delle identità nazionali degli Stati membri, contenuta nell’articolo 6 del TUE, e di renderla vincolante. In tal modo, attraverso la «identità nazionale», venivano individuate le prerogative statuali che non potevano essere incise dall’azione europea.
La clausola è infine trasmigrata nel Trattato di Lisbona[17].
Di conseguenza, secondo questa lettura storica, essa a rigore integrerebbe solo un’applicazione del principio di attribuzione delle competenze (in un’ottica quindi di riserva e di separatezza); non dunque un parametro qualitativo al quale l’Unione debba attenersi nell’emanazione dei propri atti che limiti la sfera del primato del diritto dell’Unione[18].
Anche chi ricostruisce l’articolo 4, paragrafo 2, come baluardo dinanzi alla forza invasiva dell’ordinamento comunitario, comunque riconosce che l’identità nazionale non corrisponde al mero recepimento dei controlimiti[19].
Questo, in primo luogo, perché l’identità nazionale diviene un concetto di diritto dell’Unione, la cui interpretazione è quindi autonoma.
In secondo luogo, perché, in quanto norma contenuta nel Trattato, la sua interpretazione, la sua applicazione e la verifica del suo rispetto compete alla Corte di giustizia a norma dell’articolo 19 del TUE.
In altri termini, per mettere subito in evidenza il punto più spinoso della questione, è stato da più parti osservato che la tutela dell’identità nazionale (nelle sue espressioni significative) è un concetto di diritto europeo, autonomo rispetto alla sua percezione interna all’ordinamento statale, che dev’essere delineato dalla Corte di giustizia in funzione della ripartizione delle competenze e delle funzioni tra Unione e Stati membri.
In base alla delimitazione siffatta, dunque, la Corte potrà esercitare i propri poteri o annullando l’atto comunitario o giustificando l’inadempienza dello Stato membro (avendo riscontrato una lesione dell’assetto costituzionale fondamentale) ovvero pronunciandosi sull’interpretazione e sull’applicazione degli atti dell’Unione (in modo che essi possano essere ricondotti al Trattato comprensivo della clausola di salvaguardia delle costituzioni nazionali), in sede di rinvio pregiudiziale.
In questo senso, sembrerebbe – ad avviso di chi scrive – che l’identità sia divenuta un oggetto di tutela non solo del diritto nazionale ma anche del diritto dell’Unione (così da potersi considerare un’espressione di un costituzionalismo composito, multilivello) e può anche ritenersi che il concetto sia aperto al contributo delle Corti nazionali cui principalmente spetta l’individuazione del contenuto strutturale che costituisce il nucleo della «identità nazionale».
Una volta acquisito questo dato, si dovrebbe però ammettere che la Corte di giustizia rimanga libera di considerare l’elemento evidenziato come rilevante ai fini di definire la «identità nazionale» comunitarizzata.
Finora, però, la Corte ha manifestato una certa ritrosia ad esplicitare il concetto e la valenza della «identità nazionale»; può però dedursi dalle scarne indicazioni giurisprudenziali che essa (ai fini di riscontrare un’effettiva violazione dell’articolo 4, paragrafo 2) non consideri la «identità nazionale» isolatamente, ma, in quanto principio comunitario, la rapporti sia al principio di uguaglianza degli Stati membri, sancito anch’esso dall’articolo 4, paragrafo secondo, sia ai principi «costituzionali», di cui all’articolo 2 del TUE[20], sia ancora ai principi del diritto dell’Unione europea[21] e, in primis, al principio di proporzionalità, per verificare la sostenibilità dell’eccezione al rispetto del diritto dell’Unione sollevata in nome della salvaguardia della propria identità nazionale.
In sostanza, se questa lettura è corretta, i fondamenti politico-costituzionali di una struttura statale sarebbero rilevanti in quanto percepiti tali anche a livello europeo; al riconoscimento esplicito dell’identità nazionale e alla prospettiva di tutela a livello sovranazionale corrisponderebbe allora – ancora – un rafforzamento della Corte di giustizia, competente oggi a valutare la rilevanza degli elementi identitari di un singolo Stato membro[22].
In tale quadro, l’espressione «europeizzazione dei controlimiti», coniata per sottolineare il significato dell’articolo 4 del TUE, si rivela assai ambigua, potendo essere intesa sia come riconoscimento giuridico dell’identità nazionale (e correlata tutela giurisdizionale) a livello europeo sia come rielaborazione, sempre a livello europeo, del contenuto proprio delle caratteristiche costituzionali dei singoli Stati[23].
Il meccanismo così delineato porterebbe a confinare il controllo delle Corti nazionali in uno spazio marginale e residuale, limitando l’intervento delle stesse a casi di violazione dell’assetto costituzionale così gravi da potersi ritenere eccezionali e del tutto improbabili.
Tale conclusione si deve peraltro ricollegare anche al criterio di selezione che gli stessi giudici costituzionali europei hanno applicato nell’individuazione del nucleo dei propri principi fondamentali.
È infatti opinione piuttosto diffusa che né i controlimiti né il concetto d’identità nazionale sembrano consentire una difesa di quei diritti socio-economici che pure hanno rivestito una grande importanza nelle Costituzioni successive alla seconda guerra mondiale, reputati, nell’interpretazione a livello europeo dei Trattati della Comunità e dell’Unione[24], diritti sempre soccombenti rispetto alle libertà economiche[25]. Essi d’altronde non integrano una tradizione costituzionale comune (ex articolo 6, terzo paragrafo, del TUE e articolo 52, quarto paragrafo, della Carta dei diritti fondamentali UE) e neppure sono definiti dalla Corte di giustizia in termini di veri diritti fondamentali.
Non si può allora ignorare quanto suggerito da molti Autori, per i quali il cosiddetto costituzionalismo composito o multilivello[26], invece di assicurare un livello di garanzia più esteso e più complesso attraverso l’integrazione dei vari cataloghi dei diritti, tenda invece a un impoverimento dei valori e contemporaneamente, stanti la pluralità degli ordinamenti e la diversità degli stessi, non consenta di operare un bilanciamento di valori di varia provenienza, restringendo così ulteriormente il ruolo del giudice costituzionale nazionale[27].
Oltretutto il self-restraint cui si attiene il giudice interno che voglia improntare il rapporto con l’UE a un metodo dialogico e al principio della Europarechtsfreundlichkeit non può che condurre a opporre l’identità nazionale solo con riferimento a quei profili comuni o tradizionali nell’esperienza costituzionale europea (sì da evidenziare esclusivamente le violazioni «rilevanti» ex articolo 4 del TUE). Tale tendenza, se non appiattisce nell’uniformità i differenti punti di vista, sicuramente rischia di scarnificare i contenuti delle varie Carte costituzionali, soprattutto sottraendo quegli aspetti di solidarietà e di promozione sociale ed economica, che, ad esempio, nella nostra Costituzione sono racchiusi nell’articolo 3, comma 2[28].
3. Le tappe sopradelineate (che portano a un intrecciarsi tra norme, principi e pronunce giurisdizionali di provenienza diversa) possono spiegare in definitiva l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale tedesca, che, partita da una posizione di difesa del proprio ordine costituzionale affidata al Bundesverfassungsgericht (in Solange I del 1974), è poi approdata, attraverso passaggi successivi, a decidere il primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, riconoscendola competente poiché l’oggetto del giudizio non è tanto il mancato rispetto dell’unità nazionale, in sé isolatamente e autonomamente considerata, quanto la violazione del Trattato.
Secondo un’opinione molto diffusa tra i commentatori tedeschi, tale ammissione da parte del Bundesverfassungsgericht non sottintende affatto un atto di sottomissione, visto che il Tribunale federale chiede sostanzialmente alla Corte la mera ratifica del giudizio che ha già espresso sul comportamento della Banca centrale europea: quest’ultima, secondo il Tribunale tedesco, avrebbe agito ultra vires, ossia in contrasto con il canone di cui all’articolo 4, secondo paragrafo, travalicando le proprie attribuzioni. Anzi, la vicenda, complessivamente intesa, non costituisce affatto un ammorbidimento da parte del Giudice di Karlsruhe, bensì un diverso atteggiamento altrettanto deciso, che è quello non più di dire l’ultima parola ma di far sentire comunque la propria voce (dissonante), anche quando si discute della validità di atti internazionali (come quello del programma OMT – Outright monetary transactions – della BCE) e addirittura quando si tratta di atti politici[29]. Nello stesso tempo, la decisione può essere anche intesa come una sfida alla Corte di giustizia ad applicare lo stesso rigore utilizzato per affermare il primato dell’ordinamento sovranazionale quando si tratta invece di limitare, sempre in forza del Trattato di Lisbona, i poteri dell’Unione (e di sanzionare il relativo travalicamento)[30].
Queste premesse inducono a guardare con occhi diversi il processo cui si è prima accennato, quello del dialogo tra Corti, che, al di là delle idilliache immagini evocate dall’espressione, rimane pur sempre l’estrinsecarsi, seppure con l’adozione di un diverso metodo, di una contrapposizione tra primato dell’ordinamento europeo e sovranità nazionale.
Non a caso, nel discorso di apertura del XVI Verwaltungsgerichtstag[31], Andreas Voßkuhle, già professore di diritto pubblico all’Università di Friburgo e attuale Presidente della Corte costituzionale tedesca, ha evocato la lotta per il diritto, richiamando Kantorowicz[32], che afferma la forza esercitata dal «diritto libero» (freies Recht), ovvero da quello prodotto dall’opinione giuridica dei membri della società, dalle sentenze dei giudici e dalla scienza giuridica, sul diritto testuale.
Il riferimento disvela i tre aspetti fondamentali del «dialogo tra Corti».
Il primo è che, sul piano giuridico, il dialogo tra Corti è in sé profondamente squilibrato dallo stesso meccanismo del rinvio pregiudiziale (e questo prima ancora della rigorosa interpretazione e applicazione data allo stesso dalla Corte di giustizia)[33], che ha sempre rappresentato il canale comunicativo per eccellenza.
Non può quindi meravigliare che soprattutto in Francia[34], dopo la teoria dell’acte clair si stia sviluppando un atteggiamento di resistenza nei confronti del controllo giurisdizionale, reputato accentrato e dirigistico, della Corte di giustizia. Invocando i principi di proporzionalità e sussidiarietà, si sostiene che il rinvio debba rappresentare l’extrema ratio[35], mentre ordinariamente la legalità «comunitaria» dovrebbe essere garantita dagli stessi giudici nazionali[36].
Il secondo è che si tratta di un dialogo competitivo, che naturalmente non può che portare alla prevalenza di un’impostazione rispetto a un’altra. È in questa chiave che devono essere intese le varie definizioni del fenomeno.
Secondo queste descrizioni, il dialogo dovrebbe consistere in un confronto costruttivo, un circolo virtuoso, una offene Gesellschaft der Verfassungsinterpreten[37] che si appunti sulla sostanza dei principi giuridici propri della grande tradizione europea e ancora sviluppabili attraverso una meditazione e una costruzione comune in cui acquistino significato gli scambi d’idee più che il posizionamento istituzionale dei giudici.
Questo percorso non riguarda però solo il rapporto istituzionale tra le corti costituzionali degli stati membri e la Corte di giustizia (e la Corte europea dei diritti dell’uomo), ma anche reciprocamente l’interazione personale dei loro giudici, così come la reciproca recezione della giurisprudenza.
Verrebbe a configurarsi in sostanza «una disputa discorsiva per raggiungere la “migliore soluzione”, che rende in definitiva tali rapporti un “circuito di apprendimento” sfociante in uno sviluppo progressivo della cultura costituzionale europea, ma anche di occasioni di confronto personale tra le diverse impostazioni giuridico-culturali (considerate come una ricchezza e non come un ostacolo[38]), che per definizione sono all’incessante ricerca di un reciproco arricchimento e di un nuovo equilibrio»[39].
È stato sottolineato poi che il confrontarsi quotidianamente con l’applicazione di norme comuni, a loro volta originate in differenti ambienti giuridici ma anche trasformate dall’interagire delle varie influenze delle diverse tradizioni nell’elaborazione di principi e norme valide per tutta l’Europa, spinga ad abbandonare preconcetti e aprioristiche chiusure per adottare un atteggiamento di maggiore tolleranza prodotto proprio dalle necessità della pratica e dall’abitudine al costante confronto non astratto con l’altro da sé[40].
Da queste ultime osservazioni emerge il terzo aspetto del dialogo tra corti, che (anche per la rigidità del principale meccanismo legale) si sviluppa in realtà soprattutto in una dimensione informale ed extra-istituzionale[41].
I meccanismi che coinvolgono direttamente sia le Corti (anche di livello sub-costituzionale) sia gli studiosi e gli operatori giuridici tutti necessitano naturalmente di una spinta dal basso, alimentata dalla consapevolezza di dover innestare principi, istituti e metodi interpretativi che fanno parte della propria tradizione in un circuito culturale di elaborazione del diritto in modo che l’apporto alla scienza giuridica delle singole sensibilità nazionali divenga patrimonio comune per ricadere arricchito nei singoli ordinamenti statuali[42].
4. Per ritornare alle osservazioni iniziali, è chiaro da quest’esposizione che il problema della difesa dell’identità nazionale di fronte alla pervasività del diritto europeo non si ferma a una contrapposizione tra primato delle fonti sovranazionali e controlimiti che si declini come rapporto tra Corti costituzionali e Corte di giustizia.
I livelli dell’interazione invero passano da quello classico, di diritto internazionale dei trattati, attraverso le riserve e le dichiarazioni al momento della conclusione di accordi, alle procedure di comunicazione, di consultazione e di confronto, che costituiscono un tratto distintivo del Trattato di Lisbona – tese ad attenuare il problema del deficit democratico e a dare comunque un significato alle spinte politiche che avevano condotto a intraprendere la strada del Trattato costituzionale e che erano rimaste deluse dall’esito dell’operazione[43] –, e infine al dialogo giurisprudenziale.
In particolare, in questo contesto, il ruolo del giudice amministrativo nella costruzione dello spazio giuridico europeo è fondamentale, se si considera l’impatto della regolamentazione non nazionale sul diritto pubblico. Essa riguarda sempre più non solo la disciplina materiale in molti settori di cui si occupa del giudice amministrativo (ambiente, trasporti, appalti, energia), ma anche quella procedimentale e processuale.
L’incisività di tali interventi è legata anche all’istituzione di corti e tribunali, come la Corte di giustizia e il Tribunale dell’Unione Europea, per il cui accesso non è più previsto alcun meccanismo di tipo diplomatico-convenzionale, essendo deputati ad assicurare il rispetto (più o meno uniforme) degli atti delle stesse organizzazioni, anche attraverso l’impulso del soggetto che si ritiene leso nella sfera giuridica tutelata da tali atti «europei».
Solo limitandosi ad alcune delle manifestazioni più significative di questo impatto, si deve ricordare il ruolo assunto dalle sentenze della Corte di giustizia da Francovich[44] in poi per l’ampliamento della risarcibilità, gli interventi relativi alla responsabilità nell’attività giurisdizionale[45], all’elemento soggettivo nella configurazione del danno per violazione della normativa sugli appalti[46] e infine alla stessa disciplina del processo amministrativo sempre in materia di contratti pubblici[47] (con particolare riferimento al ricorso incidentale)[48]. Né si può ignorare il peso decisivo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul discusso istituto dell’occupazione acquisitiva[49] e sulle regole processuali, oggi anche costituzionalmente soggette al principio del giusto processo e a quello della sua ragionevole durata[50].
Attualmente, in definitiva, come già detto, la questione non è solo e non tanto quella dei limiti costituzionali all’ingerenza dell’Unione europea, quanto quella di creare in Europa un luogo culturale, aperto ed efficace, di circolazione di principi, istituti e metodi interpretativi.
Le lacune e le assenze della giustizia amministrativa in questo circuito (e quindi la sua incapacità di fornire il contributo della propria specialità nell’elaborazione del diritto europeo) non possono essere occultate e riguardano vari aspetti cui in quest’occasione posso solo accennare.
Si va dalla mancanza dei giudici amministrativi italiani nella composizione delle Corti (Corte di giustizia, Tribunale dell’Unione europea, Tribunale della funzione pubblica e dei brevetti) e nelle relative strutture, quali referendari e lettori, alla loro assenza dalla Rappresentanza permanente italiana presso l’Unione europea in qualità di esperti, dalle stesse articolazioni dell’Unione europea e, in primis, dalla struttura della Commissione e in particolare da quelle Direzioni (giustizia, trasporti, ambiente, concorrenza, servizio affari legali) e Agenzie, come quella per i diritti dell’uomo, d’interesse per i giudici amministrativi[51].
Neppure è stato compiuto nell’ambito della giustizia amministrativa un vero sforzo organizzativo, paragonabile a quello di altri Paesi[52], per rispondere adeguatamente alla sfida della dimensione europea del diritto, attraverso un’opera capillare di approfondimento dei profili sovranazionali e comparati e di diffusione della propria giurisprudenza[53]. Non si è tentato d’instaurare un rapporto diretto con la Direzione della Ricerca e Documentazione della Corte di giustizia che raccoglie e fornisce ai propri Organi giurisdizionali informazioni sugli sviluppi giuridici che presentano un interesse per l’Unione, anche mediante il bollettino periodico Reflets, in particolare sulla giurisprudenza dei principali Organi giurisdizionali degli Stati membri riguardante il diritto dell’Unione o di assicurare un apporto sistematico alla banca dati (JURIFAST) dell’Associazione dei Consigli di Stato e dei Supremi giudici amministrativi dell’Unione europea – A.C.A. (Association des Conseils d’État et des juridictions administratives suprêmes de l’Union européenne/Association of the Councils of State and Supreme Administrative Jurisdictions of the European Union). Non è rientrata neppure nelle priorità organizzative un’attività più continua di contatti, inviti e scambi con le organizzazioni internazionali e con i plessi giurisdizionali degli Stati europei, attività realizzabili anche in occasione dell’ospitalità offerta ai giudici stranieri in visita con gli exchange EJTN o, eventualmente, attraverso il canale offerto dai nostri magistrati in posizione END. Così come si è prestata (a mio parere) un’attenzione insufficiente alle iniziative di formazione europea[54] e di scambio tra giudici[55], nonché ad altre possibilità di incontro che si stanno sempre più strutturando[56].
Tali relazioni presuppongono ovviamente un potenziamento della formazione innanzitutto linguistica (e non limitata esclusivamente all’inglese) per superare le barriere che si frappongono nella comunicazione e che rappresentano il vero limite del giudice (non solo amministrativo) italiano.
Tra le varie lacune, una delle più gravi è quella che riguarda la CEPEJ, che, pur incardinata nel Consiglio d’Europa, svolge un’attività di grande rilevanza che si riflette sulle politiche dell’Unione europea relative allo spazio giudiziario europeo (Spazio di giustizia, libertà e sicurezza).
La Commissione europea per l’efficacia della giustizia (appunto CEPEJ) ha come obiettivo il miglioramento del funzionamento della macchina giudiziaria negli Stati membri attraverso un sistematico monitoraggio dei sistemi giuridici nazionali, nonché la definizione di strumenti concreti che migliorino i servizi offerti ai cittadini, curando in particolare la pubblicazione di report, aventi cadenza biennale a partire dal 2006[57], sono frutto di un’approfondita raccolta di dati e dello studio dei sistemi giudiziari europei. Rappresentano, perciò, per la loro autorevolezza, la base conoscitiva di ogni iniziativa non solo del Consiglio d’Europa, ma anche dell’Unione europea.
Ebbene, i dati relativi alla giustizia amministrativa semplicemente non ci sono, laddove il rapporto riserva una specifica attenzione agli administrative cases.
Al momento attuale, queste mancanze creano una falsa immagine della giustizia amministrativa italiana assorbita in quella della giustizia ordinaria, con le sue luci e le sue ombre.
La situazione è comunque probabilmente destinata ad aggravarsi: il circuito, che ruota intorno al Consiglio d’Europa e che si snoda attraverso le condanne (anche ai danni punitivi) della Corte europea dei diritti dell’uomo, il monitoraggio dell’esecuzione delle sentenze e le ulteriori condanne in caso di mancata esecuzione, gli studi comparativi sull’efficienza e la qualità dei sistemi giudiziari e infine le raccomandazioni relative all’amministrazione della giustizia e alla figura del giudice, porterà probabilmente a innescare meccanismi persuasivi, anche di tipo sostitutorio, suscettibili di condizionare le scelte interne di politica giudiziaria, riguardanti pure la giustizia amministrativa.
Oltretutto, gli studi del CEPEJ sono stati posti a base sia dell’elaborazione del programma (che seguirà quello di Stoccolma) per il periodo 2014-2020 del Commissario alla giustizia dell’Unione europea[58] che ha già individuato le relative direttive (giustizia per la crescita, giustizia per i cittadini)[59], sia di altre misure, anche tendenti a monitorare e a sollecitare le misure italiane per il contenimento del deficit pubblico[60].
Resta da rimarcare che la Commissione, proprio in vista dell’elaborazione del programma pluriennale ha indetto una consultazione aperta agli operatori della giustizia, conclusasi in un incontro tenuto il 21-22 novembre 2013, teso a raccogliere idee che possano contribuire, con l’apporto attivo diretto delle istituzioni e dei soggetti interessati, a delineare le politiche europee future nel campo della giustizia e anche in questa occasione non si è registrata alcuna voce proveniente dalla giurisdizione amministrativa italiana.
Il panorama neppure è incoraggiante sotto un diverso punto di vista.
È l’intero atteggiamento del mondo del diritto italiano nei confronti dell’ordinamento comunitario, che si presenta completamente diverso da quello tedesco. Quest’ultimo, in ogni occasione utile, manifesta l’orgogliosa convinzione che non possa riconoscersi una tradizione costituzionale europea se non con l’apporto decisivo e condizionante della scienza giuridica germanica. Invece, molti momenti del dialogo italiano con l’ordinamento dell’Unione europea paiono contrassegnati non dalla convinzione dell’importanza dell’apporto della scuola giuridica italiana all’evoluzione del diritto continentale – che si sostanzia anche nell’offerta di soluzioni univoche, scientificamente pregevoli e autorevoli – bensì piuttosto dalla volontà di ottenere dalla Corte di Lussemburgo quelle soluzioni ermeneutiche non accolte dalla prevalente giurisprudenza e dalle Corti superiori italiane.
In tal modo si rende arbitro assoluto un giudice esterno (meno consapevole del contesto in cui viene ad incidere una certa interpretazione e delle relative conseguenze sull’ordinamento nazionale), anche laddove non sarebbe necessario (e anzi altamente sconsigliabile) presentarsi come soggetti incerti nell’applicazione delle norme e perciò, di per sé, deboli. In molti casi, inoltre, i contrasti d’interpretazione scaturiscono non tanto dall’oscurità delle disposizioni quanto da scelte di politica legislativa o giudiziaria sottese alle opzioni ermeneutiche maggioritarie.
È sufficiente richiamare, quale esempio di tale atteggiamento, con specifico riferimento al giudice amministrativo, i rinvii operati in tema di ricorso incidentale[61] e di divieto dell’autorizzazione paesistica in sanatoria[62].
Nuoce soprattutto all’Italia e alla sua immagine in questo ambito un atteggiamento attendista - se non superficiale - connotato da una sistematica rimozione dei problemi in attesa di un’improbabile soluzione favorevole proveniente dall’Europa.
Di queste illusorie aspettative (con le quali si cerca di surrogare alla semplice ammissione della scorrettezza dei percorsi intrapresi) potrebbero essere esempi, con riferimento al diritto dell’Unione, le vicende delle quote latte (e della concreta restituzione degli aiuti) o dello status giuridico dei lettori di lingua straniera.
È questo un modo di relazionarsi che connota in genere il nostro Paese nei rapporti con le organizzazioni internazionali ed europee. La situazione (anche per la notorietà delle questioni) risulta particolarmente evidente soprattutto in quei casi in cui lo Stato italiano è stato impietosamente messo di fronte alle proprie difficoltà dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo; in realtà, non credo che fosse necessario il suo intervento per rendersi conto delle condizioni delle nostre carceri[63], della lunghezza dei nostri processi, dell’inadeguatezza della legge Pinto, in assenza di interventi strutturali sulla giustizia[64], della discutibilità dell’accessione invertita[65], del fatto che l’aver cancellato ogni effetto dell’autorizzazione amministrativa nella configurazione del reato di lottizzazione abusiva (formale) avrebbe portato a sanzioni senza colpa[66].
In termini pratici, l’incapacità di trovare autonome risposte ai nostri problemi ci ha condotti a subire condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2012 per un ammontare di euro 119.558.467 e nel 2013 di euro 71.284.302[67].
Da un punto di vista meno concreto ma non certo irrilevante, lo svolgersi di questi accadimenti mina la credibilità dell’Italia. In un mondo globalizzato in cui il rapporto sociale si vuole basato sulla competizione, in cui tutto si lascia misurare, compresi la legalità e il funzionamento della giustizia (considerata alla stregua di un servizio qualunque)[68], una grande tradizione e cultura giuridica perdono significato se non corrispondono ai primi posti di un ranking.
A questo declino, che è nei fatti, è necessario opporsi nella consapevolezza che il nostro contributo alla costruzione del diritto, anche sovranazionale, è tuttora prezioso e indispensabile e che, in definitiva, il paese del diritto romano, della prima università, di Cesare Beccaria, di Altiero Spinelli, De Gasperi e Martino, senza i quali ultimi l’Europa, come la conosciamo oggi, non esisterebbe, dovrebbe ricollocarsi nel dibattito giuridico europeo con la dignità che la sua storia gli attribuisce, dignità che però dev’essere rivendicata con un rinnovato impegno di studio, di disciplina e di partecipazione.
[1] La scelta di descrivere la vicenda dell’invasività del diritto comunitario e dell’Unione sottolineando i tratti comuni con altre esperienze europee induce a non soffermarsi su questioni, pure importanti, come la base costituzionale delle limitazioni di sovranità derivanti dall’adesione all’organizzazione sovranazionale, il rapporto tra l’articolo 11 e l’articolo 117, come modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ed integrato dall’articolo 1 della relativa legge di adeguamento 5 giugno 2003, n. 131, e il rango dei trattati e del diritto derivato europeo; su tali temi, per tutti: G. Tesauro, Diritto dell’Unione europea, Padova, 2010, p. 201 ss.
[2] Nel rapporto con la Corte costituzionale italiana (e, in particolare, con riferimento alla sua sentenza n. 14 del 1964) rimane fondamentale la sentenza della Corte di giustizia CE, 15 luglio 1964, in C-6/64, Costa c. ENEL; illustra le soluzioni contenute nelle varie Carte costituzionali europee rispetto al primato dell’ordinamento comunitario, T. Groppi, La primauté del diritto europeo sul diritto costituzionale nazionale. Un punto di vista comparato, in Astrid Rass., 2005, n. 13.
[3] Le origini di tale posizione si rinvengono nella sentenza Corte costituzionale n. 98 del 1965 (nella quale è stata giudicata non contrastante con gli artt. 102 e 113 Cost. l’attribuzione di competenze giurisdizionali a organi diversi da quelli dello Stato – nella specie, alla Corte di giustizia –, purché ciò avvenga «senza pregiudizio del diritto del singolo alla tutela giurisdizionale» perché questo diritto è tra quelli inviolabili dell’uomo «che la Costituzione garantisce all’art. 2»). La costruzione è stata poi sviluppata nella sentenza n. 183 del 1973 (che affermava: «in base all’art. 11 della Costituzione sono state consentite limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate; e deve quindi escludersi che siffatte limitazioni possano comunque comportare per gli organi della CEE un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana. Ed è ovvio che qualora dovesse mai darsi dell’art. 189 una sì aberrante interpretazione, in tale ipotesi sarebbe sempre assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali»). Con la sentenza n. 170 del 1984 (Granital), pur riconoscendo l’efficacia diretta del diritto comunitario e, in specie, la non applicabilità della norma interna in contrasto con quella comunitaria (senza necessità di una pronuncia d’incostituzionalità), la Corte ha avvertito: «le osservazioni fin qui svolte non implicano tuttavia che l’intero settore dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno sia sottratto alla competenza della Corte» che ha già affermato come «la legge di esecuzione del trattato possa andare soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana». I principi supremi sono poi quelli «che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana» (sentenza n. 1146 del 1988). Tali fondamentali statuizioni sono state costantemente richiamate dalla Corte in numerose successive pronunce (sentenze nn. 203 del 1989, 232 del 1989, 168 del 1991, 117 del 1994, 509 del 1995, 126 del 1996, 93 del 1997, 73 del 2001, 284 del 2007; ord. n. 454 del 2006) adattate poi al rapporto con i precetti della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il giudice delle leggi ha peraltro, sin dall’inizio, assunto un atteggiamento molto prudente sul problema della compatibilità con il diritto comunitario, se si considera che, in radice, la stessa impostazione liberistica, basata sulla concorrenza, del Trattato di Roma incideva sul complesso dei diritti economici, in particolare sull’articolo 41, comma 3, della Costituzione e che le finalità dell’imponente politica agricola mal si conciliavano con la dichiarata volontà di aiutare «la piccola e la media proprietà» [contadina], espressa nell’articolo 44. La consapevolezza delle gravi conseguenze di una pronuncia che effettivamente dichiari l’inconciliabilità di atti europei con l’ordinamento italiano porta anche a escludere il controllo diffuso basato sui controlimiti; in particolare, non ha convinto la posizione assunta da Cons. St., V, 8 agosto 2005, n. 4207, su cui, ex multis, U. Villani, I «controlimiti» nei rapporti tra diritto comunitario e diritto italiano in www.europarights.eu, 2007, che offre un’accurata ricostruzione delle posizioni della Corte di giustizia e della Corte costituzionale.
[4] Le tappe del percorso del Bundesverfassungsgericht si snodano attraverso le sentenze Solange I (del 29 maggio 1974; BVerfGE 37, 271 ff.), Solange II (del 22 ottobre 1986; BVerfGE 73, 339), Maastricht (del 12 ottobre 1993; BVerfGE 89, 155), c.d. Bananen–Beschluss (del 7 giugno 2000; BVerfGE 102, 147), Lissabon (del 30 giugno 2009; BVerfGE 123, 267), Honeywell (del 6 luglio 2010; BVerfGE 126, 286), ESM-Vertrag/Fiskalpakt (del 12 settembre 2012, BVerfGE 132, 195; 18 marzo 2014, in https://www.bundesverfassungsgericht.de/entscheidungen/rs20140318_2bvr139012.html) e OMT-Beschluss (7 febbraio 2014, in http://www.bverfg.de/entscheidungen/rs20140114_2bvr272813.html). Le sentenze sono pubblicate sul sito www.bundesverfassungsgericht.de. Le pronunce più importanti, così come altre informazioni sull’istituzione, sono presenti nella versione inglese.
[5] Le posizioni del Tribunale costituzionale polacco [Trybunał Konstytucyjny] sono analizzate da O. Pollicino, Qualcosa è cambiato? La recente giurisprudenza delle Corti costituzionali dell’est vis à vis il processo di integrazione europea, in www.diritticomparati.it, novembre 2012.
[6] La High Court si è occupata recentemente di un caso di valutazione d’impatto ambientale su un collegamento ferroviario strategico (high speed rail link), che è stata effettuata nell’abito di un procedimento legislativo di tipo particolare, cosiddetto «hybrid bill procedure», in cui tra l’altro è possibile per i privati e le autorità legali intervenire ed essere ascoltati. Ha ammesso che il giudice possa verificare, in astratto, che attraverso la procedura possa perseguirsi lo scopo della direttiva 2011/92/EU di giungere a una valutazione del progetto preceduta da una fase informativa il più possibile completa, ma ha escluso l’esame dell’adeguatezza del procedimento, in concreto, nella fase successiva all’adozione del provvedimento. Ciò perché sarebbe così violato l’articolo 9 del Bill of Rights del 1689, che sancisce l’insindacabilità degli interna corporis parlamentari [R (HS2 Action Alliance Ltd) v. Secretary of State for Transport (2014) UKSC 3]. Su questa pronuncia: L. Testa, I controlimiti d’oltremanica e la sovranità di Westminster, in www.diritticomparati.it, marzo 2014.
[7] La Corte costituzionale ceca, con sentenza 2012/01/31 – PL ÚS 5/12, Holubec, in http://www.concourt.cz/tisk/6415, ha dichiarato emessa ultra vires la decisione della Corte di giustizia del 22 giugno 2011, in C-399/09, Landtovà (reperibile alla pagina http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:62009CJ0399:IT:HTML); la vicenda delle pensioni ceco-slovacche è dettagliatamente riportata da M. Asero, Brevi note sulla Europarechtsfreundlichkeit del Tribunale costituzionale tedesco e la dottrina dei controlimiti della Corte costituzionale ceca nella sentenza sulle pensioni slovacche, in www.unikore.it/index.php/numero-3/massimo-angelo-asero.
[8] I controlimiti finiscono così per integrare «una specie di riserva aurea da non intaccare; oppure un’arma atomica da tenere ben sigillata nel deposito militare», come conclude R. Caponi, Addio ai «controlimiti» (Per una tutela della identità nazionale degli Stati membri dell’Unione europea nella cooperazione tra le Corti), in www.europarights.eu, 2011; ciò perché «al fondo delle cose, la costruzione dell’edificio europeo non impone semplicemente una limitazione del vecchio concetto di sovranità, chiusa dall’orgoglio nazionalistico, ma implica una sovranità statale nuova, che presuppone e contemporaneamente richiede l’inserimento dello Stato in più vaste comunità internazionali e sovranazionali», cit. p. 14. Scettico sul funzionamento della clausola di difesa dell’identità nazionale dopo il Trattato di Lisbona, pur riconoscendo l’innovatività della disposizione A. Randazzo, La teoria dei controlimiti riletta alla luce del Trattato di Lisbona: un futuro non diverso dal presente?, in www.diritticomparati.it, febbraio 2011.
[9] Ad eccezione del caso della pronuncia citata della Corte costituzionale della Repubblica ceca relativa alle pensioni.
[10] Per il quale letteralmente «L’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali. Rispetta le funzioni essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia dell’integrità territoriale, di mantenimento dell’ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale. In particolare, la sicurezza nazionale resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro». La dottrina aveva parlato di «europeizzazione dei controlimiti» già in relazione all’art. I-5 del Trattato di Parigi che costituisce l’immediato antecedente della norma sovrariportata (A. Ruggeri, Trattato costituzionale, europeizzazione dei «controlimiti» e tecniche di risoluzione delle antinomie tra diritto comunitario e diritto interno (profili problematici), in www.forumcostituzionale.it/site/index3.php?, 2005), nel senso che gli elementi fondamentali, caratterizzanti un determinato assetto statale, divenivano in forza di tale previsione valori della stessa Unione europea e, come tali, tutelati ad un livello ulteriore rispetto a quello statale.
[11] Questo concetto, sviluppato nella Lissabon-Urteil e precisato nella sentenza Honeywell viene interpretato «in senso giuridico, come dovere di essere favorevoli allo sviluppo all’integrazione nei limiti, solo eccezionali, che pone a tutti il nostro dovere di garantire l’identità costituzionale, di essere civilmente e costituzionalmente insieme europei e tedeschi, italiani, francesi ecc. ... » da J. Luther, Il trattato di Lisbona trattato a Karlsruhe: just law in the books?, in Aa.Vv., Relazioni ed interventi al seminario di Astrid su «La sentenza del Bundesverfassungsgericht sulla costituzionalità del Trattato di Lisbona e i suoi effetti sulla costruzione dell’Unione europea», Roma, 21 settembre 2009, disponibile sul sito http://www.astrid-online.it/Riforma-de/Documenti/Corte-cost/La-sentenz/Relazioni_Seminario-BVG_21_09_09.pdf, p. 111. Il medesimo A. osserva: «Il nuovo termine Europarechtsfreundlichkeit è un neologismo che sembra derivato dalla terminologia giusinternazionalista della “Völkerrechtsfreundlichkeit” (cfr. A. Bleckmann, Der Grundsatz der Völkerrechtsfreundlichkeit in der deutschen Rechtsordnung, in DÖV, 1996, p. 137 ss.) nella quale riecheggia l’elemento della “gentilezza”. Potrebbe avere radici anche nel principio giuspubblicistico della “Bundesfreundlichkeit”, rielaborazione smendiana del concetto della “Bundestreue” (cfr. H. Bauer, Die Bundestreue, Mohr Siebeck, Tübingen, 1992, p. 139) a cui si ricollega il principio della “leale collaborazione”. Viene tradotto nella traduzione semiufficiale inglese come “openness”, cioè “apertura”, verso il diritto comunitario. “Apertura” tuttavia è ritraducibile con “Offenheit” e termine utilizzato nella produzione scientifica del giudice relatore Di Fabio. Essendo la versione più letterale “amichevolezza/amicabilità” riferibile invece a persone e ritraducibile piuttosto come “Freundschaftlichkeit”, si preferisce il termine più generico di “favore” inteso come preferenza applicativa», in Traduzione della sentenza del Bundesverfassungsgericht, secondo senato, del 30 giugno 2009, sul Trattato di Lisbona, in www.associazionedeicostituzionalisti.it/giurisprudenza/cortistraniere1/tedesca/KarlsruheLisbona.pdf.
[12] Già prefigurato in M. Cartabia, Principi inviolabili e integrazione europea, Milano, 1995, e presente nella giurisprudenza costituzionale in cui si è finito per riconoscere la priorità della Corte di giustizia nell’interpretazione delle norme dell’Unione europea e del sindacato di validità delle norme interne rispetto al parametro sovranazionale, riservando alla Corte costituzionale uno spazio residuo (ed eccezionale) per l’ipotesi che, dopo l’annullamento comunitario, «la non applicazione della disposizione interna determini un contrasto, sindacabile esclusivamente dalla Corte costituzionale, con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale ovvero con i diritti inalienabili della persona» (Corte cost. n. 454 del 2006).
[13] Per riferimenti bibliografici più completi rispetto al presente scritto mi permetto di rinviare a G. Adamo, Stretta è la via del giurista europeo, in www.federalismi.it, giugno 2010.
[14] B. Guastaferro, Il rispetto delle identità nazionali nel Trattato di Lisbona tra riserva di competenze statali e «controlimiti europeizzati», in www.forumcostituzionale.it, dicembre 2011.
[15] A. von Bogdandy, S. Schill, Overcoming absolute primacy: respect for national identity under the Lisbon Treaty, in Comm. mark. law rev., 2011, 48, 1.
[16] Da qui denominata «Christophersen clause».
[17] M. Cartabia, Art. 4, par. 2, in A. Tizzano (a cura di), Trattati dell’Unione europea, Milano, 2014, p. 23.
[18] La limitazione del concetto di «identità nazionale» a quel nucleo insito (o «espresso», come nella versione tedesca) nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale esclude dall’ambito di tutela gli aspetti culturali, oggi invece confinati nel preambolo al TUE («ispirandosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, della cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza dello Stato di diritto»), che pure funge da base per l’interpretazione teleologica delle norme, e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (fondata su valori comuni che ne costituiscono il «suo patrimonio spirituale e morale»), e nell’articolo 3, terzo paragrafo («L’Unione […] rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo»). Sul punto: L. Fumagalli, Preambolo e Art. 3, in A. Tizzano (a cura di), Trattati, cit.
[19] La visione di un rafforzamento delle identità nazionali è stata altresì collegata all’espulsione dal testo del Trattato di Lisbona della positiva statuizione del principio (giurisprudenziale) del primato del diritto dell’Unione, che è stato relegato alla Dichiarazione n. 17 (secondo cui «La conferenza ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea, i trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza. Inoltre, la conferenza ha deciso di allegare al presente atto finale il parere del Servizio giuridico del Consiglio sul primato, riportato nel documento 11197/07 (JUR 260): “Parere del Servizio giuridico del Consiglio del 22 giugno 2007”. Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia si evince che la preminenza del diritto comunitario è un principio fondamentale del diritto comunitario stesso. Secondo la Corte, tale principio è insito nella natura specifica della Comunità europea. All’epoca della prima sentenza di questa giurisprudenza consolidata (Costa contro ENEL, 15 luglio1964, causa 6/64) non esisteva alcuna menzione di preminenza nel trattato. La situazione è a tutt’oggi immutata. Il fatto che il principio della preminenza non sarà incluso nel futuro trattato non altera in alcun modo l’esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia»), pur essendo stato previsto espressamente nell’articolo I-6 della naufragata Costituzione europea. Ora, a prescindere dal valore giuridico delle dichiarazioni, si deve constatare la netta presa di posizione della Corte di giustizia (Grande Sezione, 26 febbraio 2013, in C-399/11, Melloni), la quale ha ribadito: «Secondo una giurisprudenza consolidata, infatti, in virtù del principio del primato del diritto dell’Unione, che è una caratteristica essenziale dell’ordinamento giuridico dell’Unione […], il fatto che uno Stato membro invochi disposizioni di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, non può sminuire l’efficacia del diritto dell’Unione nel territorio di tale Stato» (punto 59).
[20] In base a tale disposizione, «L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini».
[21] Come noto, sono principi di creazione pretoria, costruiti sui «principi generali comuni ai diritti degli Stati membri», in base all’odierno articolo 340 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
[22] La sentenza 22 dicembre 2010 in C-208/09, Sayn-Wittgenstein, valutando le ragioni d’identità nazionale come giustificazioni a limitazioni delle libertà nel mercato interno, non le ha considerate in modo assoluto ma sempre nel bilanciamento dei principi tradizionalmente applicati in materia (in sintesi quelli espressi nella formula Cassis de Dijon, secondo la quale una restrizione può essere giustificata da motivi imperativi d’interesse generale e deve soddisfare il test di proporzionalità, in relazione sia all’obiettivo perseguito sia alle possibili misure alternative – il c.d. «less restrictive alternative test»). Su tale formula (espressa nella sentenza 20 febbraio 1979 in C-120/78, Rewe): G. Tesauro, Diritto dell’Unione europea, Padova, 2010, p. 439. Tale evoluzione era stata prefigurata come incombente già da G. Guzzetta, Costituzione e regolamenti comunitari, Milano, 1994, p. 183 ss.
[23] Si deve ricordare che l’articolo 67, primo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea impone il «rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti e tradizioni giuridiche degli Stati membri» cui è tenuta l’UE, al fine di «realizza[re] uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia», ma tali espressioni, che manifestano soprattutto la difficoltà di comunitarizzare il c.d. terzo pilastro, non hanno impedito alla Corte di giustizia di adoperare la formula minimizzandone il contenuto (Grande Sezione, 26 febbraio 2013 in C-399/11, Melloni).
[24] Per la Corte costituzionale italiana gli esempi possono essere tratti dalla precedente nota 3.
[25] D. Grimm, The Basic Law at 60 – Identity and change, in German Law Journal, 2009, 11, 33.
[26] I. Pernice, Multilevel costitutionalism in European Union, in http://whi-berlin.de/documents/whi-paper0502.pdf, 2002.
[27] Per tutti: S. Gambino, Identità costituzionali nazionali e primauté eurounitaria, in Quad. cost., 2012, p. 533, spec. pp. 543 ss.; M. Bignami, Costituzione, Carta di Nizza, CEDU e legge nazionale: una metodologia operativa per il giudice comune impegnato nella tutela dei diritti fondamentali, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2011, 1.
[28] Un percorso analogo, che conduce a un bilanciamento verso il basso, si può osservare nel quadro dell’interpretazione dell’articolo 53 della Carta dei diritti fondamentali il cui significato tende ad allontanarsi sempre più da quello dell’articolo 53 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (la cui formulazione invero in gran parte riprende). Quest’ultimo, infatti, funziona in assoluto come limite minimo di garanzia derogabile solo verso l’altro (E. Crivelli, sub Art. 53 in S. Bartole, P. de Sena, V. Zagrebelsky, Commentario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, 2012). Tale tendenza è esemplificata dalla sentenza della Grande Sezione, 26 febbraio 2013 in C-399/11, Melloni, sulla quale criticamente A. di Martino, Mandato d’arresto europeo e primo rinvio pregiudiziale del TCE: la via solitaria della Corte di giustizia, in www.diritticomparati.it, aprile 2013; già sull’argomento O. Pollicino, Incontri e scontri tra ordinamenti e interazioni tra giudici nella nuova stagione del costituzionalismo europeo: la saga del mandato di Arresto europeo come modello di analisi, in Rivista dell’Istituto Universitario di Fiesole, www.EJLS.com, 2008, p. 220.
[29] È questo il tentativo più recente del Bundesverfassungsgericht, con l’ordinanza OMT, assai criticata in dottrina (I. Pernice, Karlsruhe wagt den schritt nach Luxerbourg, in http://www.whi-berlin.eu/tl_files/WHI-Papers%20ab%202013/WHI-Paper%202014-03.pdf), poiché essa riguarderebbe una lesione puramente ipotetica delle prerogative nazionali, con la conseguenza di formulare un quesito del tutto astratto (l’atto su cui si appunta l’attenzione della Corte di Karlsruhe è infatti il comunicato stampa di Draghi del 2 agosto 2012, che preannuncia l’acquisto di titoli pubblici); nello stesso senso: F. Vecchio, La pagliuzza nell’occhio della Banca centrale europea e la trave nell’occhio del Bundesverfassungsgericht, in www.diritticomparati.it, marzo 2014. La critica si è appuntata poi in particolare sull’estensione della legittimazione al ricorso, fino a configurare un’azione popolare basata sul diritto di voto che radica un vero e proprio Grundrecht auf Demokratie (tale allargamento costituisce invece, secondo P. Ridola, «Karlsruhe locuta causa finita?» Il Bundesverfassungsgericht, il fondo salva-stati e gli incerti destini della democrazia federalista in Europa, in www.federalismi.it, settembre 2012, una scelta coraggiosa, pur in un contesto in cui le esigenze dei mercati finanziari inducono non solo al sacrificio dello storico potere dei parlamenti di decidere sui bilanci, ma più in generale mettono a rischio la tenuta dei principi basilari della democrazia negli Stati membri nella stessa Unione, nonostante quanto previsto dall’articolo 10 del TUE-Lisbona). Un mese dopo, con sentenza 18 marzo 2014, il Bundesverfassungsgericht, pur non allontanandosi sostanzialmente dai criteri di selezione degli interessi tutelabili già enunciati, è giunto a rigettare tutti i ricorsi proposti (compreso lo Organstreit, analogo al conflitto di attribuzione), dichiarandoli nella gran parte inammissibili. In questo caso, è stata esclusa la lesione del principio democratico e dell’autonomia finanziaria e di bilancio del Parlamento per il fatto che le misure previste nell’ambito del MES comportavano un impegno finanziario e un rischio economico determinato o perlomeno prevedibile, già valutato favorevolmente dal Parlamento, nella sua sfera riservata di discrezionalità. Sull’atteggiamento della Corte costituzionale tedesca raffrontato alla situazione italiana: L. Barra Caracciolo, Euro e (o?) democrazia costituzionale, Roma, 2013, pp. 211 ss., spec. p. 242.
[30] Potrebbe così interpretarsi il commento di U. di Fabio, Karlsruhe Makes a Referral, in German Law Journal, 2014, in http://www.germanlawjournal.com/index.php?pageID=11&artID=1612, 107.
[31] L’incontro si è svolto a Friburgo nei giorni 5, 6 e 7 maggio 2010. Si tratta dell’appuntamento triennale dei giudici amministrativi tedeschi, organizzato dal BDVR, Bund Deutscher Verwaltungsrichter und Verwaltungsrichterinnen, l’Unione dei giudici specializzati in Germania. Il discorso è pubblicato nel BDVR Rundschreiben, 2010, 2, p. 46 (http://www.bdvr.de/index.php/id-20102011.html) con il titolo Das Leitbild des «europäischen Juristen».
[32] H. Kantorowicz (pseud. Gnaeus Flavius), Der Kampf um die Rechtswissenschaft, Heidelberg, 1906 (trad. it. La lotta per la scienza del diritto, con prefazione di R. Majetti, Palermo, 1908).
[33] Da questo punto di vista l’atteggiamento della Corte di giustizia non sembra mostrare segni di elasticità, soprattutto quando è (anche indirettamente) in gioco la primauté du droit européen, come nella citata sentenza 23 febbraio 2013, Melloni.
[34] Lo stesso atteggiamento, seppure in toni più sfumati, è percepibile anche in Italia (v. Cons. St., VI, ord. 5 marzo 2012, n. 1244).
[35] Questo è il nucleo della posizione espressa dal Vice-Presidente del Conseil d’Etat, Jean-Marc Sauvé, nella veste di Presidente dell’ACA (Association of the Councils of State and Supreme Administrative Jurisdictions of the European Union) all’Assises de la Justice (nella sezione dedicata a EU Administrative law and national administrations), una consultazione organizzata nel 2013 dal Commissario alla giustizia UE per la definizione del programma della Commissione per gli anni 2014-2020; i lavori e i contributi sono consultabili nella pagina http://ec.europa.eu/justice/events/assises-justice-2013/index_en.htm.
[36] Non è da escludere che i quesiti proposti in sede di rinvio pregiudiziale, quando questo sia facoltativo (e quindi, nella nostra giurisdizione, principalmente attivato dai T.A.R.), non possano instaurare un circuito d’idee in cui il peso della tradizione giuridica italiana possa essere maggiormente valorizzato (come osservato da G. Gerbasi, Il contesto comunicativo euro-nazionale: alla ricerca di un ruolo (cooperativo) delle corti costituzionali nella rete giudiziaria europea, in www.federalismi.it, 2012, 20); non può essere sottovalutata la portata del rinvio pregiudiziale quale motore del dibattito giudiziario europeo, tenendo conto che la dinamicità nello sviluppo del diritto sovranazionale risente del fatto che è data a tutti i giudici (di qualunque grado) la possibilità di rimettere le questioni alla Corte di giustizia, la quale oltretutto, nelle sue raccomandazioni (2012/C 338/01, p. 24), prevede che il giudice remittente possa succintamente, se è in grado, esporre il proprio punto di vista sulle questioni sottoposte (la potenzialità, evidenziata da R. Conti, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Dalla pratica alla teoria, in www.osservatoriogiustizia.re.it, 2013, è ad esempio sfruttata dal T.A.R. Lombardia, Milano, I, ord. 15 gennaio 2013, n. 123, cui si accennerà in prosieguo). Da questo punto di vista, potrebbe comportare degli sviluppi (naturalmente in un contesto diverso) il protocollo n. 16 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per la quale il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha aperto la sottoscrizione. In base a tale atto sarà possibile, anche da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, pronunciarsi sul rinvio pregiudiziale (seppure di tipo volontario e consultivo, attivato dalle Corti supreme, tra le quali, in Italia, sarà sicuramente annoverata la Corte di cassazione).
[37] P. Häberle, Die offene Gesellschaft der Verfassungsinterpreten, in JZ, 1975, p. 297.
[38] A. von Bogdandy, The European Union as Situation, Executive, and Promoter of the International Law of Cultural Diversity – Elements of a Beautiful Friendship, Jean Monnet Working Paper 13/07, in http://centers.law.nyu.edu/jeanmonnet/paper.
[39] A. Voßkuhle, Der europäische Verfassungsgerichtsverbund, in Neue Zeitschrift für Verwaltungsrecht NVwZ, 2010, p. 1. Il percorso dottrinale, che teorizza altresì il superamento della rigida nozione di ordinamento comunitario per sostituirla con quella di Spazio giuridico europeo, come «ordinamento di ordinamenti» (M.P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, 4a ed., Milano, 2011, p. 50), va di pari passo con una serie di dichiarazioni contenute in vari atti europei (per maggiori dettagli mi permetto di rinviare a G. Adamo, Stretta è la via, cit.).
[40] J.H.H. Weiler, Federalism and Constitutionalism: Europe’s Sonderweg, Jean Monnet Working Paper 10/00, in http://centers.law.nyu.edu/jeanmonnet/paper, in particolare osserva: «What defines the European constitutional architecture is not the exception, the extreme case which definitively will situate the Grundnorm here or there. It is the quotidian, the daily practices, even if done unthinkingly, even if executed because the new staff regulations require that it be done in such a new way. This praxis habituates its myriad practitioners at all levels of public administration to their concealed virtues».
[41] T. Groppi, La primauté, cit., p. 17.
[42] Sullo stesso tema, A. von Bogdandy, Prospettive della scienza giuridica nell’area giuridica europea. Una riflessione sulla base del caso tedesco, in Foro it., 2012, n. 2, V, p. 54.
[43] Solo per citare gli snodi più importanti di tale percorso, si deve accennare al titolo secondo del Trattato sull’Unione (disposizioni relative ai principi democratici) e soprattutto all’articolo 11, che prevede sia forme di consultazione pubblica sulle azioni dell’Unione sia l’iniziativa popolare, e all’articolo 12, che si occupa della partecipazione dei parlamenti nazionali ai procedimenti legislativi in corso. Tali ultimi aspetti sono sviluppati nei protocolli n. 1 (sul ruolo dei parlamenti nazionali) e n. 2 (sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità); rilevanti (anche ai fini di prevenire contrasti, eventualmente da risolvere ricorrendo al concetto d’identità nazionale) sono i meccanismi d’allarme, previsti dall’articolo 48, secondo paragrafo (in tema di sicurezza sociale dei lavoratori), dagli articoli 83, 82 e 87 (in materia di cooperazione penale, giudiziaria penale e di polizia) e dall’articolo 86 (misure di contrasto dei reati che ledono gli interessi finanziari), che consentono agli Stati membri di opporsi agli atti comunitari già in fase di preparazione e proposta.
[44] Corte giust., 19 novembre 1991, in cause riunite C-6/90 e C-9/90; in seguito, id., 5 marzo 1996, in cause riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du Pecheur e Factortame LTD; id., 26 marzo 1996, in causa C-392/93, British Telecommunications; id., 8 ottobre 1996, in cause riunite C-178/94, C-179/94, C-188/94, C-189/94 e C-190/94, Dillenkofer.
[45] Corte giust., 30 settembre 2003, in causa C-224/01, Köbler; id., 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo; id., 24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione europea c. Repubblica italiana.
[46] Corte giust., 30 settembre 2010, in causa C-314/09, Stadt Graz; id., 28 gennaio 2010, in causa C-406/08, Uniplex (UK).
[47] Principalmente in questo settore è stato registrato il tramonto del principio di autonomia procedurale, enunciato nella sentenza della Corte di giustizia 16 dicembre 1976 in C-33/76, Rewe, per la quale, in mancanza di una specifica disciplina comunitaria di armonizzazione, è l’ordinamento giuridico interno di ciascuno stato membro che designa il giudice competente e stabilisce le modalità procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie aventi efficacia diretta, modalità che non possono, beninteso, essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale o rendere, in pratica, impossibile l’esercizio di diritti che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare. In ogni caso, si deve rimarcare che il contesto in cui si colloca il principio di autonomia procedurale si è profondamente modificato rispetto ai tempi in cui esso era stato compiutamente elaborato; tali modifiche, per quel che in questa sede rileva, culminano negli articoli 81 (sulla cooperazione giudiziaria nelle materie civili) e 82 (sulla cooperazione giudiziaria nelle materie penali) del Trattato di Lisbona. Sull’argomento: D.-U. Galetta, L’autonomia procedurale degli Stati membri dell’Unione europea: Paradise Lost?, Torino, 2009.
[48] Corte giust., 4 luglio 2013, in causa C-100/12, Fastweb SpA; anche in relazione ai termini d’impugnazione la Corte, pur con qualche oscillazione, si è espressa sostanzialmente confermando le scelte nazionali, come recentemente nella sentenza della sez. V, 8 maggio 2014, in causa C-161/13, Idrodinamica Spurgo Velox srl.
[49] Iniziando da Corte EDU, 30 maggio 2000, n. 24638/94, Carbonara e Ventura c. Italia, e id., 30 maggio 2000, n. 31524/96, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia; più di recente, id., 5 giugno 2012, n. 35683/03, Immobiliare Cerro c. Italia; id., 22 dicembre 2009, n. 58858/00, Guiso-Gallisay c Italia.
[50] Per tutte: Corte EDU, 19 marzo 2006, n. 64886/01, Cocchiarella c. Italia; id., 6 marzo 2007, n. 36813/97, Scordino c. Italia; id., 31 marzo 2009, n. 22644/03, Smaldone c. Italia. Il nostro Paese è stato poi destinatario della sentenza-pilota 21 dicembre 2010, Gaglione e altri c. Italia, che ha deciso su 475 ricorsi; la Corte, rimarcando la pendenza di 3.900 ricorsi dovuti ai ritardi nell’esecuzione delle sentenze interne, basati sulla legge Pinto, che liquidano gli indennizzi, spesso troppo esigui, per la durata eccessiva dei processi, ha chiesto all’Italia di adottare misure generali e strutturali, sia attraverso una modifica legislativa che segua i criteri fissati dal giudice europeo, sia provvedendo a fornire risorse adeguate per il pagamento degli indennizzi, così da consentire l’esecuzione rapida delle decisioni dei giudici nazionali. Un ulteriore peggioramento della situazione è registrato nel rapporto 2013 sulla supervisione dell’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo adottato dal Comitato dei Ministri (in http://www.coe.int/t/dghl/monitoring/execution/Source/Publications/CM_annreport2013_en.pdf). La Corte ha individuato quindi un’ipotesi di violazione «strutturale», tipologia per la quale viene emessa la sentenza-pilota (che si prefigge altresì di razionalizzare l’enorme carico di ricorsi, spesso ripetitivi, da cui è onerato il giudice di Strasburgo); su tali meccanismi, amplius: G. Adamo, Standard europei d’imparzialità e di efficienza nella realtà della giustizia amministrativa, in www.giustizia-amministrativa.it, febbraio 2011.
[51] La situazione non è più rosea nel Consiglio d’Europa: non si registrano designazioni di giudici amministrativi presso la Corte europea dei diritti dell’uomo; non sono presenti neppure nell’ambito delle varie figure di supporto, quali giuristi o «relatori» – non-judicial rapporteurs; né ancora tra il personale (funzionalmente dipendente dal Ministero degli affari esteri) che rappresenta lo Stato italiano raffrontandosi con questi Organi giurisdizionali (con le funzioni di Agente del Governo o di co-Agenti).
[52] Ad esempio, in Francia, dove il Conseil d’Etat che ha arricchito i compiti della Section du rapport et des études (SRE), affidandole il coordinamento delle iniziative di cooperazione internazionale e istituendo anche un’apposita delegazione per il diritto europeo, e ha dotato il Service de recherche juridique (SRJ) – facente parte del Centre de recherche et de diffusion juridiques (CRDJ) – di un nucleo per il diritto comparato. Inoltre ha reso il sito plurilingue con particolare attenzione alla versione inglese. Il Bundesverwaltungsgericht (il Tribunale amministrativo federale tedesco) invece ha scelto d’inserire nel proprio sito notizie in inglese sull’istituzione e la sua storia, nonché dossier monotematici che raccolgono le sentenze sull’argomento, debitamente tradotte; al momento è stato pubblicato uno studio sull’immigrazione e il diritto d’asilo.
[53] Nessun’attenzione è stata poi dedicata allo «identificatore europeo della giurisprudenza – (ECLI)», ovvero al nuovo sistema europeo di citazione della giurisprudenza, sia dell’Unione sia nazionale, il cui ufficio coordinatore per l’Italia è la Direzione generale dei sistemi informativi automatizzati del Ministero della Giustizia (maggiori indicazioni in https://e-justice.europa.eu/content_european_case_law_identifier_ecli-175-it.do).
[54] Per comodità mi permetto di rinviare alle più ampie indicazioni del mio scritto, pubblicato su www.federalismi.it, Stretta è la via, cit., pp. 10 ss.
[55] Attraverso la European Judicial Training Network (EJTN).
[56] Un forum permanente dei giudici amministrativi europei per scambiare liberamente i propri punti di vista è stato recentemente proposto da S. Cassese, Towards a more integrated European area of administrative justice, discorso alla assises de la justice del novembre 2013, in http://ec.europa.eu/justice/events/assises-justice-2013/files/interventions/cassese.pdf.
[57] Il rapporto del CEPEJ è stato definito la «fonte più autorevole per la stima delle condizioni di efficienza della funzione giudiziaria nazionale» da F. Auletta, La ragionevole durata del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2007, 4, pp. 959 ss., spec. p. 967. L’Autore sul problema sottolineava: «Ebbene, com’è stato puntualmente riferito dai rappresentanti dell’Associazione dei magistrati amministrativi europei che hanno preso parte alla VII assemblea plenaria della CEPEJ (tenutasi in Roma, 6-7 luglio 2006) si è “scoperto che l’Italia – pur avendo trasmesso tutti dati relativi alla giustizia ordinaria attraverso il Ministero della Giustizia – non ha comunicato quelli relativi alle giurisdizioni speciali, compresa quella amministrativa (correttamente trasmessi, invece dagli altri Stati membri)”. Ma, come pure assicurano i consiglieri R. Perna e A. Plaisant, è stato già “discusso della possibilità che per il prossimo anno, i dati in questione siano trasmesse al […] Ministero [della giustizia], che ne provvederà al successivo invio al[la] Cepej, da parte del […] Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (unico, per la sua veste istituzionale ad avere voce in capitolo)”».
[58] I risultati dei sistemi giudiziari europei, presentati a marzo 2014 dal Commissario alla giustizia sotto il titolo The 2014 EU Justice Scoreboard: Towards more effective justice systems in the EU (Quadro di valutazione UE della giustizia 2014: verso sistemi giudiziari più efficienti nell’Unione) sono reperibili alla pagina http://ec.europa.eu/justice/newsroom/effective-justice/news/140317_en.htm. Non è poi inutile ricordare che l’Unione, di fronte alla varietà dei sistemi giudiziari continentali, si limita a distinguere la giurisdizione tra civile e penale (articoli 81 e 82 del Trattato sul funzionamento dell’Ue) senza ulteriori distinzioni.
[59] V. Rending, Mapping the road towards a true European Area of Justice, in http://ec.europa.eu/justice/events/assises-justice-2013/index_en.htm.
[60] Raccomandazione del Consiglio sul programma nazionale di riforma 2013 dell’Italia e che formula un parere sul programma di stabilità 2012-2017 (COM(2013) 362 finale del 29 giugno 2013) in http://ec.europa.eu/europe2020/pdf/nd/csr2013_italy_it.pdf.
[61] Questione sulla quale si è pronunciata la Corte di giustizia, 4 luglio 2013, in causa C-100/12, Fastweb SpA (a seguito di TAR Piemonte, II, ord. 9 febbraio 2012, n. 208), a sua volta interpretata da Ad. plen., 25 febbraio 2014, n. 9; si è rivolta alla Corte lussemburghese anche TAR Piemonte, I, ord. 28 gennaio 2014, n. 161. Inoltre il CGA, sez. giur., 26 settembre 2013-17 ottobre 2013, n. 848, aveva rinviato alla Corte la questione della compatibilità dell’articolo 99, comma 3, del codice del processo amministrativo, visto che esso impedirebbe alle sezioni del Consiglio di Stato di applicare i principi rinvenienti dalla sentenza Fastweb, in quanto contrastanti con quelli della decisione dell’Adunanza plenaria 7 aprile 2011, n. 4.
[62] TAR Sicilia, Palermo, I, ord. 10 ottobre 2012-10 aprile 2013, n. 802, su cui si espressa Corte giust., sez. X, 6 marzo 2014, in causa C-206/13, Cruciano Siragusa; critico sull’ordinanza, P. Carpentieri, Paesaggio e Corti europee, in www.giustamm.it, maggio 2013. Diverso mi sembra il caso dell’ordinanza (emessa in sede di ottemperanza di una sentenza di accoglimento poi riformata dal Consiglio di Stato) TAR Lombardia, Milano, I, 15 gennaio 2013, n. 123. La questione riguarda il c.d. «falso innocuo» nelle dichiarazioni relative ai requisiti di partecipazione alla gara. La peculiarità qui consiste nel fatto che viene in rilievo proprio una certa incompatibilità culturale (che tra l’altro sicuramente inciderà sul recepimento, da compiersi entro il 18 aprile 2016, delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del 26 febbraio 2014, precipuamente volte alla semplificazione dei procedimenti) tra l’Unione europea e la sensibilità del giurista italiano, che ha portato a spostare l’attenzione dalla presenza dei requisiti, come dato sostanziale, cui si riferisce la direttiva 2004/17-18/CE, alla presenza delle dichiarazioni sui requisiti, ex articolo 38 del decreto legislativo 12 aprile 2006 n. 163 (sull’ordinanza S. Foà, Le nuove frontiere del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Il rinvio accelerato del TAR per «disapplicare» il giudicato del Consiglio di Stato, in www.federalismi.it, maggio 2013).
[63] Corte EDU, sez. II, 8 gennaio 2013, nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10, Torreggiani c. Italia (è questa una sentenza-pilota, in quanto il problema del sovraffollamento delle carceri è stato ritenuto strutturale).
[64] Cfr. nota 50.
[65] Cfr. nota 49.
[66] Corte EDU, sez. II, 20 gennaio 2009, n. 75909/01, Sud Fondi srl c. Italia.
[67] Dati tratti dall’ultimo rapporto annuale sulla supervisione dell’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo presentato dal Comitato dei Ministri (http://www.coe.int/t/dghl/monitoring/execution/Source/Publications/CM_annreport2013_en.pdf). L’Italia è lo Stato che ha versato la quota più elevata, seguita – ma a distanza – dall’Ucraina, alla quale le condanne di Strasburgo sono costate circa 33 milioni di euro.