Cons. St., sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482

In tema di colpa della pubblica amministrazione dopo la sentenza della Corte di Giustizia che ha affermato la irrilevanza della colpevolezza nella responsabilità delle pubbliche amministrazioni per violazione di norme comunitarie sugli appalti

Con la sentenza in rassegna il Consiglio di Stato fa il punto della situazione in materia di criteri di imputazione soggettiva della responsabilità dello Stato (id est, della pubblica amministrazione) per i danni cagionati ai singoli in violazione del diritto comunitario, prendendo posizione circa le ricadute sul piano interno della recente sentenza della Corte europea di Giustizia con cui si è affermato che la direttiva 89/665/CEE, in tema di procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, “osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad avere un risarcimento (...) al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità di far valere le proprie capacità individuali, e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata”.
 
Premessa. Il contesto comunitario. Com'è noto l'importante pronuncia della Corte di Giustizia europea del 2010 (resa nel caso Graz Stadt) aveva sancito che la responsabilità dello Stato per violazione di norme in materia di appalti pubblici di derivazione comunitaria deve prescindere dall'accertamento della colpevolezza dell'amministrazione[1].
Questo importante precedente comunitario aveva ingenerato il problema interpretativo di stabilire se il principio della irrilevanza dell'elemento soggettivo ivi affermato fosse suscettibile di applicazione generalizzata per tutto il sistema della responsabilità civile delle pubbliche amministrazioni, ovvero fosse da ritenersi valido solamente con riguardo alle violazioni delle norme comunitarie in materia di appalti.
 
Inoltre, la giurisprudenza comunitaria in materia di responsabilità dello Stato verso i singoli per violazione del diritto comunitario si è assestata su un criterio di imputazione soggettiva della responsabilità fondato sul concetto di violazione grave e manifesta del diritto comunitario. In particolare la Corte di Giustizia ha affermato che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai soggetti dell’ordinamento da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema dei Trattati, e conseguentemente ha sempre riconosciuto ai soggetti lesi un diritto al risarcimento, purché siano soddisfatte tre condizioni:


  1. che la norma giuridica comunitaria violata sia preordinata a conferire loro diritti;
  2. che la violazione di tale norma sia sufficientemente qualificata;
  3. che esista un nesso causale diretto tra la violazione in parola e il danno subito da tali soggetti (cfr. Corte giust. CE, 19 novembre 1991, C-6/90 e C-9/90, Francovich; id., 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame; id., 23 maggio 1996, C-5/94, Hedley Lomas; id., 8 ottobre 1996, C-178/94, C-179/94 e da C-188/94 a C-190/94, Dillenkofer).

Quanto al requisito sub 2) la Corte ha precisato in più occasioni che la violazione del diritto comunitario è sufficientemente qualificata quando essa è grave e manifesta.
Tale requisito è integrato da una pluralità di indici rivelatori, che devono essere valutati caso per caso dal giudice interno applicando la disciplina nazionale in materia di responsabilità dello Stato (tra cui a titolo di esempio la chiarezza del precetto normativo violato, l'inescusabilità dell'errore di diritto, l'assenza di contrasti interpretativi, etc.)[2].
 
Alla luce di questo complessivo quadro giurisprudenziale taluno ha prospettato che anche nel diritto interno sia ormai configurabile una responsabilità della pubblica amministrazione di tipo oggettivo, con la conseguenza che non sia più indispensabile fornire la prova di un coefficiente soggettivo minimo per accedere ad una pronuncia di condanna al risarcimento del danno a carico della amministrazione.
I sostenitori di questa tesi evolutiva sulla irrilevanza della colpevolezza si dividono fra quanti sostengono che tale regime di responsabilità riguardi la violazione di qualsiasi norma derivante dal diritto comunitario e quanti sostengono che in realtà tale regime valga esclusivamente per quelle violazioni del diritto comunitario che hanno ad oggetto la disciplina interessata dalla precedente della Corte di Giustizia del 2010, cioè la disciplina degli appalti pubblici.
In dottrina peraltro ci si è interrogati circa la possibile estensione del principio della irrilevanza dell'elemento soggettivo ad ogni ipotesi di violazione di norme giuridiche, indipendentemente dalla natura comunitaria meno delle stesse. Non è mancato chi ha prospettato infatti che la validità di regole diverse in ordine alla prova dell'elemento soggettivo in ragione del tipo di norma violata reca con sé tutta una serie di implicazioni e di perplessità sotto il profilo della compatibilità con il principio di eguaglianza e ragionevolezza di cui all'articolo 3 della Costituzione.
Al Consiglio di Stato è quindi richiesto sostanzialmente di sciogliere il dubbio interpretativo quanto all'ubi consistam del criterio di imputazione soggettivo della responsabilità della pubblica amministrazione per danni ai singoli derivanti dalla violazione del diritto comunitario, dopo la sentenza Graz Stadt.
 
 
La pronuncia del Consiglio di Stato. Il Consiglio di Stato, per risolvere la questione circa la portata dei principi affermati dalla recente pronuncia della Corte di Giustizia (con particolare riguardo alla loro portata espansiva), nonché la compatibilità rispetto a tali principi del tipo di colpevolezza richiesta dalla giurisprudenza interna ai fini della sussistenza della responsabilità delle pubbliche amministrazioni per lesione di interessi legittimi, ripercorre le vicende giurisprudenziali in tema di colpevolezza della pubblica amministrazione.
 
Il collegio rileva che nella sostanza si è passati da un criterio di imputazione sostanzialmente oggettiva (c.d. culpa in re ipsa), affermato in un contesto che non riconosceva la responsabilità delle pubbliche amministrazioni per violazione di interessi legittimi, ad un criterio di imputazione soggettiva che al riguardo non già alla colpevolezza del singolo funzionario, ma ad un concetto di colpa di tipo organizzativo (ciò è stato affermato per la prima volta nella storica pronuncia n. 500/1999 con cui le Sezioni unite della Corte di cassazione per la prima volta riconobbero che la atipicità dell'illecito extra contrattuale di cui all'articolo 2043 c.c. è idonea a ricomprendere fra le situazioni giuridiche meritevoli di tutela risarcitoria anche l'interesse legittimo).
 
Posto che dunque la colpa va riferita alla amministrazione in quanto organizzazione, si è registrata una evoluzione ulteriore volta ad ancorare la colpevolezza a parametri maggiormente controllabili rispetto all'ipotizzata colpa di apparato di cui alla sentenza n. 500/1999, ricollegandola al tipo di violazione perpetrata dall'amministrazione, ed a semplificare l'onus probandi posto a carico del singolo che invoca la tutela risarcitoria.
 
Come ricorda la IV sezione nella decisione odierna, "la giurisprudenza successiva [...] ha operato soprattutto sul terreno del regime probatorio della responsabilità, al fine di bilanciare la necessità di introdurre un “filtro”, idoneo a impedire quella proliferazione di azioni risarcitorie che sarebbe derivata da una totale identificazione della responsabilità della p.a. con la stessa illegittimità degli atti impugnati, con l’esigenza di non rendere eccessivamente gravoso l’onere di allegazione imposto al privato danneggiato".
 
Pur non aderendo a quell'indirizzo per vero minoritario (cui alcune pronunce isolate del Consiglio di Stato avevano dato ingresso) che intravedendo nella responsabilità della pubblica amministrazione per attività provvedimentale una forma di responsabilità da contatto sociale[3], prospettava una vera e propria inversione dell'onere della prova a favore del ricorrente, si è pervenuti a un sostanziale alleggerimento dell’onere probatorio incombente al privato in forza del quale – e ciò sostanzia l’elemento di “atipicità” di tale regime rispetto a quello generale ex art. 2043 cod. civ. – una volta accertata l’illegittimità dell’azione della p.a., è a quest’ultima che spetta di provare l’assenza di colpa, attraverso la deduzione di circostanze integranti gli estremi del c.d. errore scusabile, ovvero l’inesigibilità di una condotta alternativa lecita[4].
 
Il Collegio rileva che a ben vedere l'orientamento giurisprudenziale interno appena esposto, che semplifica il quadro probatorio per finalità di tutela delle ragioni del privato, pur garantendo all'amministrazione la possibilità di dimostrare la scusabilità dell'errore e di andare di conseguenza esente da responsabiità, è perfettamente in linea con le indicazioni provienenti dal diritto comunitario.
 
Osserva peraltro che la stessa giurisprudenza della Corte europea di Giustizia in materia di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario non esaspera l'oggettivizzazione della responsabilità prescindendo in toto dall'accertamento delle circostanze che hanno accompagnato la violazione della norma giuridica, ma assegna rilievo alla integrale vicenda lesiva nella sua complessità.
In altre parole, il giudice comunitario non ricollega per una sorta di automatismo sanzionatorio la responsabilità alla mera violazione di legge (risultato che in fondo realizzava il tradizionale orientamento interno della culpa in re ipsa) ma da valore decisivo “al grado di chiarezza e precisione della norma violata, all’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità nazionali o comunitarie, al carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, alla scusabilità o inescusabilità di un eventuale errore di diritto, alla circostanza che i comportamenti adottati da un’istituzione comunitaria abbiano potuto concorrere alla violazione”.
 
Il concetto di colpevolezza insito in quello di violazione "particolarmente qualificata" (id est, grave e manifesta), dunque, finisce per coincidere largamente con quello adoperato dalla giurisprudenza interna che spesso richiama expressis verbis taluni indici rivelatori come quello dall'atto chiaro ovvero quello che valorizza la latitudine della sfera di discrezionalità riconosciuta alla pubblica amministrazione.
 
Quanto alla pretesa forza espansiva delle statuizioni contenute nella sentenza del 2010, non è possibile, secondo il Consiglio di Stato, accogliere la tesi della generalizzazione del  criterio di imputazione affermato in tema di violazione di norme del diritto comunitario degli appalti.
La Corte europea di Giustizia, invero, ha con tale pronuncia delineato un sistema di responsabilità civile affatto peculiare, che in considerazione della necessità di apprestare una tutela di tipo effettivo a fronte di violazioni di norme comunitarie volte alla garanzia della libera concorrenza nelle gare di appalto e del favor partecipationis cui è improntato l'intero complesso di norme di diritto derivato che regolano le relative procedure, scolpisce un criterio di imputazione più marcatamente oggettivo rispetto all'ordinario criterio della violazione grave e manifesta[5].
Il nostro sistema della responsabilità civile si fonda generalmente sulla necessaria imputazione sotto il profilo soggettivo dell'evento dannoso, con la conseguenza che ogni forma di deviazione dal canone della rilevanza dell'elemento psicologico della colpevolezza (non importa se riferibile alle persone fisiche ovvero giuridiche) deve essere univoco nella sua affermazione.
Il Consiglio di Stato non esclude che la sentenza Graz Stadt possa aver dato vita ad una forma di responsabilità completamente sganciata dall'imputazione a titolo di colpa, ma allo stesso tempo afferma che anche in tale evenienza (tutta da dimostrare, dunque) "è del tutto ragionevole che esso debba restare circoscritto al settore degli appalti pubblici, come si desume non solo dal richiamo alla disciplina europea specifica in materia di ricorsi giurisprudenziali in materia di procedure di aggiudicazione (la citata direttiva 89/665/CEE come modificata dalla direttiva 2007/66/CE), ma anche dall’evidente tensione della Corte all’effettività della tutela in un settore oggetto di particolare attenzione da parte delle istituzioni comunitarie per la sua incidenza sul corretto funzionamento del mercato e della concorrenza".   
 

 



[1]    Corte giust., 30 settembre 2010, in causa C-314/09, in Foro amm. TAR., 2010, 180 ss. Fra i commenti, in dottrina, S. Cimini, La colpa è ancora un elemento essenziale della responsabilità da attività provvedimentale della P.A.?, in Giur. it., 2011, 664 ss.,
[2]    In particolare gli indici rivelatori attengono“al grado di chiarezza e precisione della norma violata, all’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità nazionali o comunitarie, al carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, alla scusabilità o inescusabilità di un eventuale errore di diritto, alla circostanza che i comportamenti adottati da un’istituzione comunitaria abbiano potuto concorrere alla violazione” (cfr. Brasserie du pêcheur e Factortame, cit.; negli stessi termini, Dillenkofer, cit.).
[3]    Su tale orientamento, C. Castronovo, Responsabilità civile della pubblica amministrazione, in Jus, 1998, 653; M. Protto, Responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi: alla ricerca del bene perduto, in Urb. e app., 2000, 1005; D. Vaiano, Pretesa di provvedimento e processo amministrativo, Milano, 2002, 270; S. Giacchetti, La responsabilità patrimoniale dell'amministrazione nel quadro del superamento della dialettica diritti soggettivi interessi legittimi, in Cons. Stato, 2000, II, 2037; L. Montesano, I giudizi sulla responsabilità per danni e sulle illegittimità della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 2001, 592.
[4]    Cfr. Cons. St., sez. V, 6 dicembre 2010, n. 8549; id., 18 novembre 2010, nr. 8091; Cons. Stato, sez. VI, 27 aprile 2010, nr. 2384; id., sez. VI, 11 gennaio 2010, nr. 14; Cons. Stato, sez. V, 8 settembre 2008, nr. 4242).
[5]    Si noti che il Consiglio di Stato non afferma ex professo la natura oggettiva del regime di responsabilità elaborato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Graz Stadt.

 

CONSIGLIO DI STATO, Sez. IV , 31 gennaio 2012, n. 482 - Pres. f.f. Leoni – est. Greco
 
SENTENZA
sul ricorso in appello nr. 3799 del 2011, proposto da YESMOKE TOBACCO S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Enrico Morello e Gianluca Contaldi, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, via Pierluigi da Palestrina, 63,
 
contro
la AZIENDA AUTONOMA DEI MONOPOLI DI STATO (AAMS), in persona del legale rappresentante pro tempore, e il MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, rappresentati e difesi ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliati per legge presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12,
 
nei confronti di
BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA S.p.a, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita,
 
per l’annullamento
della sentenza del T.A.R. del Lazio, Sezione Seconda, nr. 866/2011, resa sul ricorso nr. 6498/08 R.G.
 
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio delle Amministrazioni appellate;
Viste le memorie prodotte dalla appellante (in data 10 dicembre 2011) e dall’Amministrazione (in date 24 giugno e 18 luglio 2011) a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, all’udienza pubblica del giorno 10 gennaio 2012, il Consigliere Raffaele Greco;
Uditi l’avv. Contaldi per la appellante e gli avv.ti dello Stato Gabriella Palmieri e Amedeo Elefante per l’Amministrazione;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
 
FATTO
La Yesmoke Tobacco S.p.a. ha impugnato, chiedendone la riforma, la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio, pur dopo aver accolto il ricorso dalla stessa proposto quanto alla domanda di annullamento del decreto dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS) che determinava il prezzo minimo di vendita delle sigarette dalla stessa società prodotte, ha respinto la domanda di risarcimento danni formulata in via consequenziale.
A sostegno dell’appello, la predetta società ha dedotto:
1) violazione di legge, e in particolare degli artt. 11 e 117 Cost., in relazione ai presupposti per l’accoglimento di domande di risarcimento danni per violazione del diritto dell’Unione Europea (con riferimento alla necessità, ritenuta dal giudice, che nella specie per configurare l’illecito fosse necessario l’elemento della colpa dell’Amministrazione);
2) violazione di legge, in riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., in relazione ai presupposti per il risarcimento danni da violazione del diritto comunitario (con riferimento, in ogni caso, alla sussistenza nella specie dei presupposti per affermare la sussistenza della colpa);
3) motivazione illogica e contraddittoria; incompatibilità con il diritto dell’Unione Europea delle disposizioni nazionali che condizionano il risarcimento dei danni ad un comportamento colpevole dell’Amministrazione (con riferimento al contrasto della sentenza impugnata con la più recente giurisprudenza della Corte di giustizia UE).
Di conseguenza, la appellante ha reiterato la domanda risarcitoria riproducendo i calcoli e gli elementi che hanno indotto a quantificare il danno risarcibile in € 6.164.000.
Si sono costituiti in resistenza il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’AAMS, riproducendo le preliminari eccezioni di inammissibilità del ricorso di primo grado (non esaminate dal giudice) e opponendosi all’accoglimento dell’appello.
Con successive memorie, le parti hanno ulteriormente sviluppato le rispettive tesi.
All’udienza del 10 gennaio 2012, la causa è stata trattenuta in decisione.
 
DIRITTO
 
1. La società Yesmoke Tobacco S.p.a., operante nel settore della produzione e del confezionamento di sigarette con marchio proprio, ha impugnato dinanzi al T.A.R. del Lazio il decreto del 4 ottobre 2008, col quale l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS) ha aumentato – fissandolo in € 3,50 per il pacchetto da 20 sigarette e in € 1,75 per quello da 10 sigarette - il prezzo minimo di vendita delle sigarette con le modalità di cui al precedente decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 25 luglio 2005, adottato a sua volta ai sensi dell’art. 1, comma 486, della legge 30 dicembre 2004, nr. 311.
Avverso il predetto provvedimento, è stata dedotta la violazione della disciplina comunitaria riveniente dalla direttiva 95/59/CE, in tema di imposte diverse dall’imposta sul volume d’affari gravanti sul consumo dei tabacchi lavorati, come modificata dalla direttiva 2002/10/CE.
Nelle more del giudizio di primo grado, è intervenuta la sentenza della Sezione Terza della Corte di giustizia CE del 24 giugno 2010, con la quale, a conclusione della procedura avviata dalla Commissione europea ai sensi dell’art. 226 del Trattato CE (oggi art. 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) contro la Repubblica italiana, è stato accertato che quest’ultima, prevedendo un prezzo minimo di vendita per le sigarette, è venuta meno agli obblighi rivenienti dall’art. 9, nr. 1, della direttiva suindicata.
Di conseguenza il T.A.R., indipendentemente dai provvedimenti assunti a seguito della decisione testé richiamata (con l’art. 4 del decreto legislativo 29 marzo 2010, nr. 48, è stato abrogato il precitato comma 486 dell’art. 1 della legge nr. 311 del 2004, e contestualmente è stato introdotto il sistema delle “Tariffe di vendita” di cui al nuovo art. 39 quater del decreto legislativo 26 ottobre 1995, nr. 504), ha in ogni caso ritenuto di dover disapplicare la previgente normativa siccome confliggente col diritto comunitario, e pertanto, in accoglimento della domanda attorea, ha annullato l’impugnato decreto.
Il primo giudice, invece, ha respinto la domanda di risarcimento danni formulata dalla ricorrente in via consequenziale, assumendo l’insussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, tali da consentire di configurare una responsabilità aquiliana delle Amministrazioni intimate: in particolare, nella specie è stata esclusa la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa dell’Amministrazione.
L’appello oggi proposto ha a oggetto solo quest’ultima statuizione, di cui l’originaria ricorrente sostiene l’erroneità sotto molteplici profili.
2. In via preliminare, la Sezione deve rilevare che nelle difese scritte delle Amministrazioni appellate, pur dichiarandosi di riproporre tutte le eccezioni preliminari non esaminate dal primo giudice, vengono sostanzialmente riprodotti ex extenso gli argomenti svolti in prime cure a sostegno della legittimità del provvedimento impugnato.
Tuttavia, è evidente che per rimettere in discussione le statuizioni del T.A.R. in punto di illegittimità del decreto impugnato col ricorso introduttivo – ammesso che tale fosse l’intento dell’Amministrazione, e al di là della plausibilità di siffatta linea di difesa – sarebbe stato necessario alla difesa erariale appellare in parte qua la sentenza di primo grado, ciò che non risulta avvenuto con conseguente formarsi del giudicato sul punto.
Ne discende che, alla stregua dei comuni principi, l’unica eccezione formulata in primo grado non esaminata dal T.A.R., e che pertanto può essere delibata in questa sede, è quella afferente alla asserita inammissibilità del ricorso introduttivo, avendo l’istante impugnato – come detto – soltanto il decreto del 4 ottobre 2008, di adeguamento del prezzo minimo delle sigarette, e non anche il precedente d.m. del 25 luglio 2005, col quale per la prima volta tale prezzo minimo era stato fissato.
L’eccezione va respinta, atteso che – come documentato e ribadito anche in sede di discussione orale – l’odierna appellante risulta entrata sul mercato italiano soltanto nel 2007, e pertanto le prime determinazioni per essa lesive vanno individuate appunto in quelle del 2008 (non potendosi escludere, peraltro, che il paventato pregiudizio patrimoniale derivasse alla istante solo dal maggior prezzo imposto con tali ultimi provvedimenti, e non anche da quello precedentemente in vigore).
3. Nel merito, l’appello è infondato e va conseguentemente respinto.
4. Col primo e col terzo dei motivi d’appello, la società istante assume – in modo per vero suggestivo, ed evocando problematiche non prive di interesse – l’erroneità della sentenza impugnata sulla scorta del principio, ricavabile dalla giurisprudenza della Corte di giustizia CE, secondo cui la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario non sarebbe mai subordinata all’accertamento dell’elemento soggettivo della colpa dell’Amministrazione.
4.1. Senza pregiudizio di quanto appresso si osserverà nel merito, la Sezione non può però esimersi dal rilevare che le doglianze così articolate possono suscitare dubbi di ammissibilità nella misura in cui, da una attenta lettura del ricorso introduttivo del giudizio, emerge che in primo grado l’istante ha articolato la domanda risarcitoria in via strettamente consequenziale a quella di annullamento del decreto impugnato, e quindi riconducendola a un’ipotizzata responsabilità aquiliana delle Amministrazioni convenute secondo i comuni principi (sia pure con le ovvie peculiarità connesse all’essere la condotta illecita in ipotesi consistente nell’adozione di un provvedimento illegittimo, segnatamente il decreto censurato).
Al contrario, con i motivi qui in esame la domanda risarcitoria viene articolata – sia pure con richiamo alla giurisprudenza europea in materia – come riferita a una responsabilità di fatto oggettiva, ossia connessa alla sola materiale violazione di norme e svincolata da ogni considerazione di profili psicologici: ciò che, comportando una diversità sostanziale nel titolo della responsabilità di cui si chiede l’accertamento, potrebbe ritenersi configurare una mutatio libelli non consentita in grado d’appello, ai sensi dell’art. 104 cod. proc. amm.
4.2. Ciò premesso, al fine di meglio comprendere la natura e la portata delle richieste di parte appellante nonché le conclusioni cui questa Sezione ritiene di dover pervenire, giova richiamare sinteticamente i principali approdi della giurisprudenza comunitaria in tema di responsabilità degli Stati per violazione del diritto europeo.
In particolare, ponendo in primo piano l’esigenza di assicurare la massima effettività del diritto dell’Unione Europea, la Corte di giustizia CE ha costantemente affermato che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai soggetti dell’ordinamento da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema stesso del Trattato CE, e conseguentemente ha sempre riconosciuto ai soggetti lesi un diritto al risarcimento, purché siano soddisfatte tre condizioni: 1) che la norma giuridica comunitaria violata sia preordinata a conferire loro diritti; 2) che la violazione di tale norma sia sufficientemente qualificata; 3) che esista un nesso causale diretto tra la violazione in parola e il danno subito da tali soggetti (cfr. Corte giust. CE, 19 novembre 1991, C-6/90 e C-9/90, Francovich; id., 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame; id., 23 maggio 1996, C-5/94, Hedley Lomas; id., 8 ottobre 1996, C-178/94, C-179/94 e da C-188/94 a C-190/94, Dillenkofer).
Più specificamente, con riguardo al presupposto sopra indicato sub 2, la Corte ha ulteriormente chiarito che esso ricorre allorché la violazione sia “grave e manifesta” sulla base di una pluralità di indici rivelatori, che devono essere valutati caso per caso dal giudice interno applicando la disciplina nazionale in materia di responsabilità dello Stato (cfr. Corte giust. CE, Brasserie du pêcheur e Factortame, cit.).
In questa sede, può prescindersi dalla questione – che pure ha per lungo tempo affaticato la giurisprudenza interna – se, ai fini dell’affermazione della responsabilità in discorso, possa qualificarsi come illecita l’attività del legislatore nell’ipotesi in cui la violazione del diritto europeo discenda dall’adozione di normative interne di rango primario confliggenti con i superiori principi comunitari: infatti, se è vero che tale era la situazione nel caso che qui occupa, può però sul punto convenirsi con l’avviso di parte appellante, la quale sottolinea come, al di là delle iniziative assunte per la rimozione dal mondo del diritto delle norme contrastanti col diritto europeo, ciò che viene in luce è l’obbligo di una loro immediata disapplicazione, un obbligo incombente non solo al giudice ma anche all’amministrazione pubblica che si trovi a doverle attuare.
Il punto centrale della presente controversia, invece, deriva dalla considerazione che fra gli elementi costitutivi della responsabilità dello Stato da violazione del diritto comunitario, per come costantemente individuati dalla Corte europea, non vi è un elemento di natura soggettiva afferente alla natura dolosa o colposa della condotta illecita posta in essere dagli organi statuali; laddove, al contrario, fin da quando nel nostro ordinamento interno è stata per la prima volta affermata la responsabilità delle amministrazioni pubbliche per lesione di interessi legittimi da attività provvedimentale (cfr. Cass. civ., sez. un., 22 luglio 1999, nr. 500), detta responsabilità è stata prevalentemente inquadrata nello schema della responsabilità aquiliana con la conseguente necessità di individuare tutti gli elementi dell’illecito extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ., ivi compreso quello soggettivo.
Tuttavia, una più approfondita analisi dei presupposti e dei parametri in base ai quali si giunge ad affermare, nei due diversi ordinamenti (interno e comunitario), la responsabilità dello Stato induce a escludere – salvo quanto di seguito si rileverà in ordine ai più recenti arresti della Corte europea in materia di appalti pubblici - che possa pervenirsi a una semplicistica dicotomia tra il sistema comunitario, nel quale detta responsabilità avrebbe carattere oggettivo, e il sistema italiano, nel quale invece sarebbe sempre essenziale l’elemento psicologico dell’illecito; ciò che, a tacer d’altro, non potrebbe non ingenerare seri dubbi sulla compatibilità comunitaria dello stesso assetto generale della responsabilità aquiliana ricavabile dal già citato art. 2043 cod. civ., ove riferito ai rapporti tra amministrazione pubblica e amministrati.
4.3. Per chiarire le ragioni che inducono la Sezione a escludere una tale incompatibilità, occorre richiamare il dibattito sorto, all’interno della dottrina e della giurisprudenza che si sono occupate della responsabilità da lesione di interessi legittimi, sull’elemento della colpa dell’amministrazione.
Su tale versante, superati i più risalenti indirizzi che consideravano la colpa in re ipsa per effetto della stessa illegittimità del provvedimento lesivo, la S.C. ha chiarito che nella specie la colpa va riferita non al funzionario agente, bensì alla “p.a. intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato), sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione (...) quali limiti esterni alla discrezionalità” (cfr. Cass. civ., nr. 500/1999, cit.).
Se tale ricostruzione dell’elemento soggettivo dell’illecito come “colpa di apparato” nasceva dall’evidente esigenza di evitare al danneggiato la probatio diabolica connessa alla necessità di dimostrare l’atteggiamento psicologico colpevole (o doloso) del singolo funzionario o dei funzionari che avevano posto in essere il provvedimento lesivo, tuttavia il riferimento quale parametro essenziale alla violazione di “regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione”, e soprattutto ai “limiti esterni alla discrezionalità”, comportava il rischio di una nuova immedesimazione della colpa, in questo senso intesa, con gli stessi vizi di legittimità in ipotesi ravvisati nel provvedimento lesivo.
Per questa ragione la giurisprudenza successiva, sia ordinaria che amministrativa, senza soffermarsi troppo su questioni di inquadramento teorico, ha operato soprattutto sul terreno del regime probatorio della responsabilità, al fine di bilanciare la necessità di introdurre un “filtro”, idoneo a impedire quella proliferazione di azioni risarcitorie che sarebbe derivata da una totale identificazione della responsabilità della p.a. con la stessa illegittimità degli atti impugnati, con l’esigenza di non rendere eccessivamente gravoso l’onere di allegazione imposto al privato danneggiato.
In tale prospettiva – se si eccettua un minoritario indirizzo che è giunto addirittura a “spostare” la responsabilità de qua al di fuori dell’alveo dell’illecito extracontrattuale utilizzando lo schema del “contatto sociale qualificato” tra p.a. e privato (cfr. Cass. civ., 10 gennaio 2003, nr. 157; Cons. Stato, sez. V, 2 settembre 2005, nr. 4461; id., 20 gennaio 2003, nr. 204; id., 6 agosto 2001, nr. 4239) – l’orientamento prevalente, fermo restando il carattere aquiliano della responsabilità, ha utilizzato il concetto di “errore scusabile”; più specificamente, facendo ricorso al meccanismo delle presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 cod. civ., si è giunti ad affermare che l’illegittimità del provvedimento amministrativo, quand’anche acclarata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità del fatto, il carattere pacifico della questione esaminata, il carattere vincolato o a bassa discrezionalità dell’azione amministrativa.
In questo modo, se non a una vera e propria sua inversione, si è pervenuti a un sostanziale alleggerimento dell’onere probatorio incombente al privato in forza del quale – e ciò sostanzia l’elemento di “atipicità” di tale regime rispetto a quello generale ex art. 2043 cod. civ. – una volta accertata l’illegittimità dell’azione della p.a., è a quest’ultima che spetta di provare l’assenza di colpa, attraverso la deduzione di circostanze integranti gli estremi del c.d. errore scusabile, ovvero l’inesigibilità di una condotta alternativa lecita (cfr. Cons. Stato, sez. V, 6 dicembre 2010, n. 8549; id., 18 novembre 2010, nr. 8091; Cons. Stato, sez. VI, 27 aprile 2010, nr. 2384; id., sez. VI, 11 gennaio 2010, nr. 14; Cons. Stato, sez. V, 8 settembre 2008, nr. 4242).
4.4. Le conclusioni appena richiamate della giurisprudenza interna, a ben vedere, in null’altro consistono che nel ricorso a parametri di natura oggettiva per la risoluzione dei problemi che si pongono, nello specifico settore della responsabilità delle amministrazioni pubbliche per lesione di interessi legittimi, in ordine all’individuazione e alla prova di quello che – in applicazione del regime normativo dell’art. 2043 cod. civ., cui comunque si continua a ricondurre la responsabilità in discorso – è qualificato come l’elemento “soggettivo” dell’illecito, ossia la colpa della p.a.
In tale prospettiva, gli orientamenti testé richiamati, piuttosto che discostarsene, si pongono in significativa convergenza con gli approdi della Corte di giustizia dell’Unione Europea in tema di accertamento degli elementi costitutivi della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario.
Infatti, un’analisi attenta della casistica giurisprudenziale in subiecta materia rivela che ben rare sono le ipotesi nelle quali la Corte ha affermato la responsabilità di uno Stato considerandola in re ipsa sulla scorta della mera violazione di una norma o di un principio comunitario; queste ipotesi, inoltre, sono sempre relative a fattispecie nelle quali la normativa comunitaria di riferimento, oltre che immediatamente applicabile all’interno degli Stati membri, era anche estremamente analitica e dettagliata, in modo da lasciare poco o nessun margine di discrezionalità agli Stati membri (ciò è avvenuto, ad esempio, nel settore degli appalti pubblici, sul quale pure in appresso si tornerà).
Più in generale, laddove si è posto il problema di individuare indici rivelatori del carattere “grave e manifesto” della violazione del diritto comunitario, e quindi di quella natura particolarmente qualificata della violazione che costituisce presupposto dell’affermazione della responsabilità dello Stato, la Corte ha fatto costantemente riferimento a elementi relativi “al grado di chiarezza e precisione della norma violata, all’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità nazionali o comunitarie, al carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, alla scusabilità o inescusabilità di un eventuale errore di diritto, alla circostanza che i comportamenti adottati da un’istituzione comunitaria abbiano potuto concorrere alla violazione” (cfr. Corte di giust. CE, Brasserie du pêcheur e Factortame, cit.; negli stessi termini, Corte di giust. CE, Dillenkofer, cit.).
Non v’è chi non veda come i concetti così enunciati dalla Corte europea in tema di “violazione grave e manifesta” si pongano in linea, in alcuni casi addirittura coincidendo letteralmente, con i parametri e i criteri individuati dalla nostra giurisprudenza interna al fine della definizione dei contorni della “colpa della p.a.”: in sostanza, identico – ancorché forse indotto da motivazioni diverse – è lo sforzo di individuare a livello oggettivo una serie di elementi destinati ad agire come presupposti o condizioni per il riconoscimento di una responsabilità del soggetto pubblico che non discenda sempre e comunque in modo automatico dalla mera illegittimità del suo operato.
In siffatta prospettiva, se la giurisprudenza interna séguita ad ancorare l’accertamento della responsabilità anche al requisito della colpa (o del dolo), ciò non comporta necessariamente una violazione dei principi del diritto europeo in subiecta materia, essendo soltanto la conseguenza dell’applicazione delle coordinate entro le quali la predetta responsabilità è inquadrata nell’ordinamento interno; ed è appena il caso di rammentare come la Corte europea abbia sempre ribadito che, una volta rispettati i parametri generali da essa fissati, è sulla base del diritto interno che il giudice nazionale deve accertare la sussistenza o l’insussistenza della responsabilità nei singoli casi.
4.5. Le conclusioni sopra raggiunte non mutano per effetto della recente sentenza della Corte di giustizia (sez. III, 30 settembre 2010, C-314/09, Graz Stadt) sulla quale l’odierna appellante concentra l’attenzione nel terzo motivo di impugnazione: in detta sentenza, effettivamente, la Corte ha configurato in modo molto più marcatamente oggettivo la responsabilità dello Stato da violazione del diritto comunitario, affermando che la direttiva 89/665/CEE, in tema di procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, “osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad avere un risarcimento (...)al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità di far valere le proprie capacità individuali, e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata”.
Al di là della questione più generale – che solo l’evoluzione giurisprudenziale futura potrà chiarire – di quali potranno essere le ricadute concrete del principio così enunciato, quand’anche esso dovesse essere inteso nel senso dell’affermazione di una vera e propria responsabilità oggettiva, è del tutto ragionevole che esso debba restare circoscritto al settore degli appalti pubblici, come si desume non solo dal richiamo alla disciplina europea specifica in materia di ricorsi giurisprudenziali in materia di procedure di aggiudicazione (la citata direttiva 89/665/CEE come modificata dalla direttiva 2007/66/CE), ma anche dall’evidente tensione della Corte all’effettività della tutela in un settore oggetto di particolare attenzione da parte delle istituzioni comunitarie per la sua incidenza sul corretto funzionamento del mercato e della concorrenza.
E, difatti, dalla lettura della sentenza de qua risulta che in essa il risarcimento del danno viene qualificato come “alternativa procedurale” al conseguimento del “bene della vita” auspicato dall’impresa ricorrente, ossia l’aggiudicazione, in tutti i casi in cui tale tutela specifica non possa essere accordata all’esito del giudizio: a conferma di come in questo caso la Corte assegni al risarcimento una funzione “riparatorio-compensativa” (oltre che sanzionatoria dell’illegittimo operato della p.a.) più che “retributiva”, ossia di ristoro patrimoniale di un pregiudizio patito, e quindi – per converso – laddove si versi in settori diversi da quello degli appalti pubblici, debbano tornare a trovare applicazione i comuni principi enunciati dalla stessa Corte europea in tema di responsabilità degli Stati da violazione del diritto comunitario.
Peraltro, la questione del carattere derogatorio o meno rispetto a tali principi di quanto affermato nella citata sentenza del 2010 è destinata a essere verosimilmente molto ridimensionata, se si considera che proprio nel settore delle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici la disciplina europea si connota ormai per sostanziale completezza e autoconclusività, oltre che per un estremo grado di dettaglio, tale da rendere estremamente raro il caso in cui una sua violazione da parte del diritto interno non risponda anche ai parametri generali cui la giurisprudenza comunitaria ha sempre condizionato la sussistenza della responsabilità dello Stato.
5. Disattese le più generali doglianze articolate dalla società appellante con riguardo alla necessità o meno di accertare l’elemento della colpa della p.a., va respinto anche il secondo mezzo, col quale è lamentata – in via, evidentemente, subordinata rispetto a quanto assunto con gli altri due motivi – l’erroneità della sentenza impugnata laddove ha escluso che nella specie potesse configurarsi la responsabilità dell’Amministrazione intimata per difetto del predetto presupposto.
Ed invero, sul punto appaiono pienamente condivisibili gli argomenti svolti dal primo giudice.
Innanzi tutto, va sottolineato che il già citato art. 9, nr. 1, della direttiva 95/59/CE, dopo aver stabilito che: “...I produttori (...)stabiliscono liberamente i prezzi massimi di vendita al minuto di ciascuno dei loro prodotti per ciascuno Stato membro in cui sono destinati ad essere immessi in consumo”, aggiunge però che detta previsione “non osta, tuttavia, all’applicazione delle legislazioni nazionali sul controllo del livello dei prezzi imposti, sempreché siano compatibili con la normativa comunitaria”.
In altri termini, nella stessa direttiva che nella fattispecie è stata violata dallo Stato italiano era contenuta un’espressa riserva in favore della legislazione interna degli Stati membri in materia di “prezzi imposti”, tale da non escludere in toto un intervento autoritativo dei legislatori e delle pubbliche amministrazioni nazionali nella determinazione del prezzo di vendita delle sigarette.
E, difatti, nella pure citata sentenza del 24 giugno 2010 la Corte di giustizia ha ritenuto che la normativa italiana in materia di prezzo minimo fosse confliggente col diritto comunitario non già per il fatto di esistere in quanto tale, ma siccome strutturata “in modo tale da escludere, in ogni caso, che risulti pregiudicato il vantaggio concorrenziale che potrebbe risultare, per taluni produttori o importatori di prodotti siffatti, da prezzi di costo inferiori e che, pertanto, si produca una distorsione della concorrenza”.
L’aver strettamente collegato l’illegittimità comunitaria del “sistema di prezzi imposti” ai suoi potenziali effetti anticoncorrenziali non è circostanza priva di significato, atteso che il giudizio di compatibilità comunitaria viene fatto discendere, fra l’altro, anche dall’analisi della situazione economica e delle condizioni di mercato in cui detto sistema viene a inserirsi: ciò che frustra il tentativo di chi, come si vorrebbe nel presente giudizio, intenda ricavare la prova certa della sussistenza dell’illecito dal fatto che la disposizione sopra richiamata era stata già in precedenza interpretata e applicata dalla Corte, che aveva condannato altri Stati dell’Unione per la sua violazione, essendo evidentemente ammissibile siffatta impostazione soltanto in presenza di una perfetta identità di situazioni fra dette fattispecie e quella oggi all’esame, ciò che non risulta affatto dimostrato.
Inoltre, con riferimento alle difese spiegate dalla Repubblica italiana nel corso della procedura d’infrazione, la Corte non ha affatto escluso che le invocate esigenze di tutela della vita e della salute umana giustificassero – ai sensi dell’art. 30 del Trattato CE (oggi art. 33 del Trattato sul funzionamento dell’UE) – un intervento anche penetrante dello Stato, ma ha chiarito che l’obiettivo di salvaguardare i predetti valori “può essere adeguatamente perseguito mediante l’aumento dell’imposizione fiscale su tali prodotti, dal momento che gli aumenti dei diritti di accisa devono prima o poi tradursi in un aumento dei prezzi di vendita al minuto, senza con ciò compromettere la libertà di determinazione del prezzo”.
In definitiva, ciò che emerge da una serena lettura della sentenza in discorso è che le istituzioni europee non hanno affatto escluso la possibilità di applicare un regime normativo di “prezzi imposti”, e nemmeno la legittimità delle finalità perseguite con la disciplina in contestazione, limitandosi a censurare – piuttosto – soltanto le modalità e gli strumenti tecnici con cui l’Amministrazione italiana ha proceduto; ciò che, come correttamente osservato dal primo giudice, è sufficiente a far ritenere scusabile l’errore di diritto in cui la medesima Amministrazione è incorsa, e pertanto inconfigurabile nella specie la sussistenza di un illecito idoneo a rendere accoglibile la domanda risarcitoria.
6. Alla luce dei rilievi fin qui svolti, s’impone una decisione di reiezione dell’appello e di integrale conferma della sentenza impugnata.
7. L’evidente complessità e la novità delle questioni di diritto esaminate giustificano la compensazione tra le parti delle spese di lite.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Compensa tra le parti le spese del presente grado del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.