A quattro mesi dall’approvazione (e contestuale entrata in vigore) del Nuovo Codice dei contratti pubblici possiamo affermare che la rivoluzione del settore sia ancora in rodaggio. In questa fase, si registra una, quantomeno percepita, riduzione del numero di gare lanciate dalle amministrazioni pubbliche, che non corrisponde ad una effettiva riduzione della necessità di tali soggetti di acquisire commesse di lavori, servizi o forniture; bensì tale fenomeno parrebbe da attribuire ad una difficoltà delle P.A. di rapportarsi con le nuove architetture normative dettate dal legislatore.

Del resto, come in ogni periodo di sostanziale e sostanziosa riforma, gli operatori del settore interessato devono innanzitutto avere il tempo di studiare e soprattutto metabolizzare le nuove regole, farle proprie e – solo dopo – applicarle o farle applicare. Ciò vale ancora di più se si considera la particolarità e l’importanza del settore in questione (quello della contrattualistica pubblica) e la storia legislativa dello stesso: ossia un ultimo decennio a suo modo anch’esso costellato di rivoluzioni (piccole o grandi che fossero) che, tuttavia, hanno conferito una instabilità di fondo al sistema di affidamento e gestione delle commesse delle P.A..

In quest’ottica, a dieci anni dalla sua originaria approvazione il legislatore ha deciso di archiviare (o, utilizzando un verbo politicamente attivo in questi anni, ‘rottamare’) il primo Codice unico dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163.

In una chiave di lettura generale, un deciso intervento governativo-parlamentare era di certo necessario.  Ciononostante, non sempre l’approvazione di nuove norme, che in questo caso arrivano sino alla integrale variazione della disciplina di riferimento, è sinonimo di automatico miglioramento. Del resto, è proprio dall’esperienza applicativa del Codice del 2006 che discende questa conclusione. In effetti, il primo Codice ha nel tempo manifestato un duplice limite: per un verso, un’assoluta instabilità della disciplina dovuta alle continue modifiche (riforme o, appunto, rivoluzioni) che, come noto, si sono succedute in questi due lustri terremotando di continuo il quadro normativo di riferimento; per un altro verso, un’eccessiva regolamentazione - non richiesta dagli standard comunitari - che ha imbrigliato negativamente il sistema degli appalti e, in molti casi, agevolato sacche illegalità e certamente di inefficienza ammnistrativa.

L’approvazione del Nuovo Codice ha rappresentato, rappresenta e (si spera) rappresenterà una chance primaria per superare i limiti della previgente disciplina e per consentire una svolta, in primis, normativa, ma in definitiva economica, al mercato nazionale dei contratti pubblici. E anche la previsione di una sostituzione pressoché integrale di una (all’apparenza più rassicurante) normativa di attuazione di tipo regolamentare con degli innovativi strumenti di soft law (c.d. linee guida), frutto di una precedente prassi sperimentata dall’Autorità di vigilanza del settore (e oggi esplicitamente affidata dal legislatore proprio a quest’ultima), non deve ‘spaventare’ gli operatori; ma deve essere vista come una prima opportunità di confronto, allo scopo di costruire una fase di normogenesi collaborativa tra i destinatari delle norme e il soggetto tenuto prima di tutto a dettarle e poi a vigilare sulla loro applicazione.

In una prospettiva di questo tipo, tuttavia, non possono non residuare dubbi circa l’opzione perseguita dal legislatore e diretta ad una immediata entrata in vigore della nuova disciplina primaria, in una corsa che ha condotto: (i) a una serie di errori e refusi nello stesso testo codicistico, emendati di recente – come noto – attraverso un avviso di rettifica in Gazzetta Ufficiale che assomiglia più a un vero e proprio decreto correttivo; (ii) ad una normazione priva di – in questo caso e rispetto al passato – effettivamente essenziali disposizioni esecutive (le richiamate linee guida); (iii) a una conseguente incertezza applicativa che sta – in parte – rischiando di ingessare ancora di più il sistema degli affidamenti.

Non potendo tornare indietro e modificare – se necessario – il passato, possiamo tuttavia auspicare che gli attori a cui il legislatore ha consegnato il testimone della regolazione e dei controlli sul settore (il giudice amministrativo e l’ANAC) operino uno sforzo ulteriore, e probabilmente nemmeno previsto dalle competenze dettate tra gli articoli e i commi del nuovo Codice, al fine di conferire a stazioni appaltanti e altri operatori quelle certezze che – di fronte alla rivoluzionata disciplina primaria – ancora non hanno, e non hanno potuto maturare, in assenza di un compiuto periodo ‘cuscinetto’ di vacatio legis.

In particolare, si auspica che l’ANAC – attraverso un accorto esercizio del proprio rinnovato (e, in certo modo, paralegislativo) potere regolatorio che si affianca alle potenziate competenze di vigilanza e di alternative dispute resolution – sappia dare ordine al sistema, divenendo una sorta di ‘custode’ delle norme che contribuirà essa stessa a dettare attraverso lo strumento delle linee guida e – assieme al giudice amministrativo – il primo garante della loro corretta applicazione.

Per adesso, dalla lettura delle prime linee guida frutto dell’elaborazione dell’ANAC, la strada intrapresa sembra indirizzarsi nella direzione giusta. Si spera solo che non si registri più la stessa ‘fretta’ nel chiudere il complessivo ‘cantiere normativo’ della riforma per rispettare (o comunque non allontanarsi più di tanto) dai forse troppo stretti termini dettati dal nuovo Codice.

Oggi, come non mai, chi svolge il difficile mestiere di affidare commesse pubbliche (e, per loro, l’intero settore dei contratti pubblici) non domanda solo norme; bensì fa richiesta al legislatore e, lato sensu, al regolatore (attraverso le future linee guida e il pronosticato decreto correttivo) di norme che siano ‘buone norme’ e – come tali – che siano in grado di divenire stabili nel tempo. Solo attraverso un quadro positivo stabile, infatti, si potranno generare quelle prassi fisiologiche standard e quello che potremmo definire un ‘circolo applicativo virtuoso’ che costituisca il primo contrasto a manifestazioni corruttive. Se le norme sono chiare e di agevole applicazione, più evidenti risulteranno le azioni di coloro che vorranno violarle, e più facile l’individuazione degli illeciti, il loro contrasto e, in definitiva, la loro repressione.

 

Roma, 17 agosto 2016