CGARS, sez. Giurisd., 9 giugno 2025, n. 448

(…) anche in tema di documentazione antimafia, pur in presenza della discrezionalità di cui gode in materia l’amministrazione, la tutela giurisdizionale piena ed effettiva richiede un sindacato del giudice amministrativo completo e penetrante, che può estendersi sino al controllo dell’analisi dei fatti posti a fondamento del provvedimento, al fine di verificare se il potere attribuito all’autorità amministrativa sia stato correttamente esercitato o presenti elementi di irragionevolezza o, soprattutto, di erronea assunzione dei fatti storici (che, cioè, non risultino effettivamente verificatisi) su cui si innesta la valutazione discrezionale – questa effettivamente assai lata – di competenza dell’amministrazione.

(…) non può ritenersi che un fatto non sia sufficientemente provato in sede cautelare penale e, sulla base delle identiche emergenze indizianti (e, come si è visto, alla stregua del medesimo criterio probatorio) sia invece ritenuto accertato in sede di adozione dell’informazione interdittiva antimafia, altrimenti incorrendosi in un deficit sistemico di ragionevolezza dell’ordinamento giuridico inteso nel suo complesso.

Ovviamente, fatto salvo l’accertamento del fatto nella sua oggettiva fatticità e identicità, possono ben divergere, invece, le valutazioni, sullo stesso fatto, formulate dal giudice penale (anche cautelare) e dalla p.a., in prima battuta, e dal giudice amministrativo dopo.

(…) il Prefetto, nel formulare il proprio giudizio prognostico (certamente discrezionale), deve compiere una valutazione globale degli elementi fattuali che vengono in evidenza, ma, specifica il Collegio, la valutazione deve tenere ragionevolmente conto di tutti gli elementi, che vanno acquisiti nella loro globalità e poi valutati. Costituisce un insuperabile vulnus motivazionale del provvedimento prefettizio ancorare lo stesso a un provvedimento adottato dal giudice penale senza dar conto (e senza valutarli) degli ulteriori provvedimenti che siano stati adottati nell’ambito dello stesso procedimento (e sugli stessi fatti) in epoca antecedente all’adozione dell’informazione interdittiva antimafia.

Guida alla lettura

L’interdittiva antimafia, istituto, come noto, teso a contrastare l’infiltrazione della criminalità organizzata nel tessuto economico e nella pubblica amministrazione, continua ad essere attenzionata sia dalla giurisprudenza sia dalla dottrina a fronte del rilevante impatto che ha sulle attività d’impresa.

È facile ricordare come diversi sono stati gli aspetti affrontati negli anni dai Tribunali Amministrativi Regionali e dal Consiglio di Stato[1].

Il CGARS, Sezione giurisdizionale, con la sentenza n. 448 del 9 giugno 2025 ne ha delineato i tratti fondamentali rapportandola con il giudizio penale.

Nel caso di specie, a seguito di un diverbio per l’occupazione del suolo pubblico con mezzo per la vendita di prodotti alimentari, la persona offesa aveva sporto denuncia. Per tali fatti veniva formulata l’imputazione da parte della Procura della Repubblica competente per i reati di estorsione aggravata dal metodo mafioso con applicazione della misura cautelare da parte del GIP.

A seguito di ricorso al Tribunale del Riesame, l’ipotesi di reato veniva derubricata in quella meno grave di violenza privata, variazione che aveva trovato conferma anche da parte della Cassazione, ma con una ulteriore importante modifica, ovvero l’esclusione dell’aggravante del metodo mafioso; sicché il Tribunale del Riesame, a seguito di tale ultima decisione, annullava l’ordinanza di applicazione della misura di prevenzione.

Nel frattempo, però, il GUP, prima dell’adozione delle decisioni da parte della Corte di Cassazione e del Tribunale del Riesame, rinviava a giudizio l’imputato senza poter tenere conto, avendo provveduto prima, delle sostanziali modifiche del capo di imputazione.

Sulla base di ciò, la Prefettura, non considerando anch’essa le decisioni della Corte di Cassazione (prima) e del Tribunale del Riesame (poi), adottava l’interdittiva antimafia con effetti negativi sulla licenza dell’appellante.

In primis, i Giudici amministrativi, nel decidere sull’appello, puntualizzano che se è vero che il procedimento amministrativo sotteso all’adozione dell’interdittiva antimafia è caratterizzato da discrezionalità, lo stesso è sottoposto, in linea con il principio di legalità, al sindacato del giudice che deve essere “completo e penetrante” e può riguardare anche i fatti sulla base dei quali il provvedimento è stato adottato; ciò al fine di verificare che il potere di cui è munita l’Amministrazione sia stato correttamente esercitato.

In seconda analisi, la sentenza si sofferma sulle distinzioni tra giudicato penale e giudicato amministrativo – valutazione della Pubblica Amministrazione e le rispettive connessioni; e fa ciò stigmatizzando l’utilizzo della classica distinzione che gli operatori del settore fanno tra diritto penale e diritto amministrativo relativamente al grado di certezza della prova, affermando, invece, che l’“oltre ogni ragionevole dubbio” non deve diventare una “stanca e comoda affermazione” per far sì che l’Amministrazione e il giudice amministrativo non tengano conto delle valutazioni compiute dal giudice in sede penale sugli stessi fatti considerati nella loro “oggettiva fatticità.

Come risaputo, il giudicato penale può essere di merito o cautelare: solo il primo richiede una certezza della prova “oltre ogni ragionevole dubbio”.

Il diritto amministrativo “della prevenzione, invece, non richiede tale certezza in merito all’infiltrazione mafiosa, ma si basa su “un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico che implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere ‘più probabile che non’ il pericolo di infiltrazione mafiosa.

Stessi presupposti possono valere anche per il giudicato penale cautelare in cui viene richiesta non la certezza della prova, bensì la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e una qualificata probabilità della responsabilità dell’indagato.   

Benché la terminologia “indizio” sia propria del diritto processuale penale, in realtà la si trova anche nel diritto civile per il tramite della presunzione di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c., con conseguente applicazione anche al diritto amministrativo, sicché anche il giudice amministrativo dovrà tenere conto di quegli indizi che costituiscono una “pluralità” e siano “specifici e conducenti, nonché risultare univoci tra loro (…)”.

Sulla scorta di tali considerazioni, il Consiglio ritiene che se un fatto non sia ritenuto provato in sede cautelare penale deve essere ritenuto altrettanto in sede amministrativa ai fini dell’adozione dell’interdittiva antimafia altrimenti si incorrerebbe “in un deficit sistemico di ragionevolezza dell’ordinamento giuridico inteso nel suo complesso.

Così considerato il fatto “nella sua oggettiva fatticità e identicità”, la pubblica amministrazione e il giudice amministrativo potranno, però, dare una rilevanza diversa allo stesso rispetto a quanto deciso dal giudice penale (sia in fase di merito che cautelare) e, quindi, giungere a conclusioni diverse.

Infine, il Prefetto, per l’adozione dell’interdittiva, dovrà tenere conto di tutti gli elementi fattuali e considerarli nella loro globalità, ovvero complessivamente. Contrariamente, una considerazione individuale degli stessi o la mancata considerazione di alcuni, come ad esempio i provvedimenti adottati dal giudice penale, costituirebbero una lesione alla motivazione del provvedimento antimafia.

Sulla scorta di tali presupposti il Consiglio ha annullato il provvedimento prefettizio impugnato.

 

Pubblicato il 09/06/2025

N. 00448/2025REG.PROV.COLL.

N. 01330/2024 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA

Sezione giurisdizionale

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1330 del 2024, proposto dal signor
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Carmelo Barreca, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Ministero dell'interno, Ufficio territoriale del Governo di Catania, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura distrettuale dello Stato domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale, 6;

per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Quinta) n. 03602/2024, resa tra le parti.


 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'interno e dell’Ufficio territoriale del governo di Catania;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 aprile 2025 il Cons. Antonino Caleca e uditi per le parti gli avvocati come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO e DIRITTO

1. Viene alla decisione di questo CGA l’appello avverso la sentenza indicata in epigrafe che ha respinto il ricorso dell’appellante volto all’annullamento dell’informazione interdittiva antimafia adottata dal Prefetto di Catania in data 2 novembre 2023.

2. Nel proporre il ricorso introduttivo di primo grado l’appellante rappresentava che, nell’esercizio della sua attività di vendita ambulante di generi alimentari con camion attrezzati per la vendita di panini, a causa dell’asserita attività di concorrenza sleale esercitata da P. G. (individuato in ricorso e nel provvedimento impugnato), esercente in maniera abusiva la medesima attività nello stesso piazzale in cui era posizionato il proprio camion, aveva avuto un alterco con quest’ultimo e con P.O. S. (individuato in ricorso e nel provvedimento impugnato),

Per tali fatti iniziava un procedimento penale, scaturito dalla denuncia a carico del ricorrente per tentata estorsione, per cui il GIP di Catania aveva applicato misure cautelari personali con provvedimento del 29 ottobre 2019.

Il Tribunale di Catania, in sede di riesame, derubricava il tentativo di estorsione, originariamente contestato dalla Procura, in tentata violenza privata.

L’appellante ricorreva in Cassazione avverso il provvedimento del Tribunale del riesame.

La Cassazione accoglieva il ricorso giusta ordinanza n° -OMISSIS- del 25 febbraio 2020 annullando con rinvio tale provvedimento.

Con la citata ordinanza la Cassazione escludeva che nella presente fattispecie potesse ritenersi la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’ art. 416 bis 1 c.p.

Con la stessa ordinanza la Cassazione penale la Corte riteneva insussistente anche la gravità indiziaria del reato p. e p. dall’ art. 513 bis c.p. mantenendo solo il capo di accusa di “violenza privata” ex art. 610 c.p.

In seguito alla citata pronunzia della Cassazione, il Tribunale del riesame, nuovamente adito in sede di rinvio, preso atto delle statuizioni contenute nella suddetta sentenza della Cassazione, annullava l’ordinanza applicativa della misura cautelare di prevenzione, giusta ordinanza n. -OMISSIS- del 13 luglio 2020

Prima della pubblicazione dell’ordinanza della Cassazione e della successiva ordinanza del Tribunale del Riesame, nel frattempo il GUP accogliendo la richiesta del PM disponeva in data 31 gennaio 2020 il rinvio a giudizio del ricorrente senza, ovviamente, tener conto delle sostanziali modifiche dell’originaria contestazione a seguito delle citate pronunzie cautelari.

Sottolinea, ora, l’appellante a pag. 5 dell’atto di gravame che, invece, “il contenuto di tali pronunzie giurisdizionali doveva essere ben noto alla Prefettura allorquando, in data 3 Agosto 2023 veniva emanata la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato all’adozione dell’interdittiva, in cui si faceva esclusivo riferimento al provvedimento di rinvio a giudizio del GIP del 31.1.2020, ignorando e pretermettendo totalmente l’esistenza delle pronunzie favorevoli successive (Cassazione inclusa)”.

3. Con il ricorso di primo grado venivano dedotti plurimi motivi di doglianza.

4. Nel primo grado di giudizio si costituiva l’amministrazione intimata per resistere al ricorso.

5. Il primo giudice respingeva il ricorso e compensava le spese del grado.

6. Propone appello la parte soccombente in primo grado con motivi che, unitamente alla memoria della difesa erariale costituita per l’amministrazione appellata, sostanzialmente devolvono al giudice d’appello l’intero thema decidendum del primo grado (la difesa erariale invero anche formalmente, perché si è limitata a richiamare la propria memoria depositata innanzi al Tar).

7. Alla pubblica udienza dell’8 aprile 2025 la causa è stata trattenuta in decisione.

8. L’appello deve essere accolto e il provvedimento impugnato deve essere annullato.

9. Preliminarmente il Collegio ritiene indispensabile fare le tre seguenti precisazioni.

9.1. In primo luogo, che la presente delibazione è formulata alla stregua del principio secondo cui anche in tema di documentazione antimafia, pur in presenza della discrezionalità di cui gode in materia l’amministrazione, la tutela giurisdizionale piena ed effettiva richiede un sindacato del giudice amministrativo completo e penetrante, che può estendersi sino al controllo dell’analisi dei fatti posti a fondamento del provvedimento, al fine di verificare se il potere attribuito all’autorità amministrativa sia stato correttamente esercitato o presenti elementi di irragionevolezza o, soprattutto, di erronea assunzione dei fatti storici (che, cioè, non risultino effettivamente verificatisi) su cui si innesta la valutazione discrezionale – questa effettivamente assai lata – di competenza dell’amministrazione.

La migliore dottrina è ormai concorde nel ritenere che la costituzionalizzazione e l’europeizzazione del diritto amministrativo costituiscono oggi forse la cifra più rilevante di contesto di tale diritto.

A esso si accompagna la trasformazione e la valorizzazione del principio di legalità, il cui rispetto è comunque garantito dal vaglio finale del giudice: senza il quale tutto il sistema delle interdittive rese in sede amministrativa non potrebbe neppure fronteggiare il sindacato di costituzionalità.

Il giudicare (garantendo l’effettività della tutela, ossia che essa non sia ridotta a un suo simulacro) presuppone che si abbia piena ed esauriente cognizione dei fatti su cui si àncora il giudizio.

Nello scrutinare la sussistenza del fatto, ribadisce la migliore dottrina, il giudice amministrativo deve essere preciso fino in fondo ed essere sicuro che il fatto sia come è, senza fermarsi a come lo prospetta l’amministrazione.

Superata, senza eccessivi rimpianti, la stagione della diatriba sul sindacato debole o forte, estrinseco o intrinseco, deve ormai definitivamente affermarsi che il sindacato del giudice amministrativo deve bensì rispettare le scelte di merito dell’amministrazione, ma anche essere effettivo e soprattutto “pieno”, esteso cioè al fatto e alle valutazioni tecniche operate dall’amministrazione procedente.

9.2. In secondo luogo, in merito ai rapporti tra giudicato penale e giudizio prognostico – formulato in tema di documentazione antimafia dalla p.a. prima e, in seconda battuta, vagliato dal giudice amministrativo – occorre precisare – onde evitare che la usuale affermazione secondo cui il giudizio del giudice penale, a differenza di quanto avviene nell’ambito del diritto amministrativo della prevenzione, si forma secondo il principio di certezza “oltre ogni ragionevole dubbio” diventi un stanca e comoda affermazione per non tenere conto della verifica del giudice penale sugli stessi fatti oggetto di accertamento anche, nella loro oggettiva fatticità, della p.a. – quanto segue.

Nel processo penale si rinvengono due forme di giudicato: il giudicato di merito e il c.d. giudicato cautelare.

Solo il giudicato di merito postula la prova piena e l'accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale richiede di attingere un livello di certezza “oltre ogni ragionevole dubbio”.

Ovviamente tale livello di pienezza della prova non è richiesto dal diritto amministrativo della prevenzione per ritenere sussistente il "tentativo di infiltrazione", che deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere "più probabile che non", appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa (come puntualizzato da Cons. Stato, Ad. Plen. 6 aprile 2018, n. 3).

Viceversa, il giudicato penale cautelare, a differenza di quello di merito, non richiede la prova piena e non si forma alla stregua del principio di certezza “oltre ogni ragionevole dubbio”.

Precisa, in proposito, la Corte di Cassazione penale (proprio nell’ordinanza con cui è stata parzialmente annullata la misura cautelare irrogata all’appellante): “nella fase cautelare, si richiede non la prova piena del reato contestato (secondo i criteri di cui all'articolo 192 cod. proc. pen.) ma solo la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Pertanto ai fini dell'adozione di una misura cautelare è sufficiente qualunque elemento probatorio idoneo a fondare un giudizio di qualificata probabilità sulla responsabilità dell'indagato in ordine ai reati addebitatigli e gli indizi non devono essere valutati secondo gli stessi criteri richiesti per il giudizio di merito dall'articolo 192 comma 2 cod. proc. pen., come si desume dell'articolo 273 comma uno bis cod. proc. pen. che richiama i commi terzo e quarto dell'articolo 192 citato, ma non il comma due dello stesso articolo, che richiede una particolare qualificazione degli indizi”.

Prevede il citato comma 2 dell’art.192: “L'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti”.

In buona sostanza, unicamente la prova indiziaria è richiesta per l’accertamento del fatto in sede penale cautelare; è sufficiente, cioè, la sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti per ritenere provato il fatto oggetto del giudizio cautelare.

Alla stessa stregua, per costante giurisprudenza amministrativa, deve essere ricostruito il fatto cui ancorare il giudizio prognostico della Prefettura nell’adottare la misura interdittiva.

A tal fine deve evidenziarsi che il termine “indizio” (e la sua regolamentazione) si rinviene solo nell’ambito del diritto processuale penale, ma non nel diritto amministrativo, così che non può ritenersi che la ricostruzione dei fatti alla stregua della prova indiziaria possa essere valutata attraverso “strumenti” propri di tale giurisdizione che differiscano dal quelli utilizzati dal giudice penale in sede cautelare.

In realtà, la prova c.d. indiziaria trova ingresso anche nel processo civile – da cui transita, necessariamente tal quale, in quello amministrativo – alla stregua dell’art. 2729 cod. civ., secondo cui “le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi precise e concordanti”.

Orbene – giacché, ex art. 2727 cod. civ., “le presunzioni sono le conseguenze che … il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato” – se ne ricava che la prova presuntiva nel giudizio civile (e, dunque, anche amministrativo) è quella tratta in via critica dal giudice mediante la valutazione degli elementi indiziari di cui dispone, dei quali però non può tener conto ove essi non siano gravi, precisi e concordanti: dunque essi devono costituire una pluralità, devono essere specifici e conducenti, nonché risultare univoci tra loro (ossia nel loro significato inferenziale).

In difetto di tali condizioni – e ovviamente di altre prove – il fatto (che, di norma, nel giudizio civile è un elemento della fattispecie su cui si fonda l’azione o l’eccezione di parte) non può ritenersi sussistente, perché non provato (giacché quod non est in actis non est in mundo), con rinveniente necessario rigetto della domanda o dell’eccezione che su tale fatto o fattispecie si fondi.

Per concludere sul punto, non può ritenersi che un fatto non sia sufficientemente provato in sede cautelare penale e, sulla base delle identiche emergenze indizianti (e, come si è visto, alla stregua del medesimo criterio probatorio) sia invece ritenuto accertato in sede di adozione dell’informazione interdittiva antimafia, altrimenti incorrendosi in un deficit sistemico di ragionevolezza dell’ordinamento giuridico inteso nel suo complesso.

In punto di diritto ha affermato questo Consiglio che, “secondo un principio costituente jus receptum nell’Ordinamento (ed in parte sancito dagli artt.650 e 651 c.p.p. del c.p.p.), gli accertamenti di fatto cristallizzati nelle sentenze penali fanno stato in qualsiasi altro processo ed anche nei procedimenti amministrativi (quale è quello volto ad emettere l’informativa antimafia). Non si vede, del resto, come la esistenza (o inesistenza) di un fatto, accertata in un processo penale … potrebbe essere tralasciata (id est: non tenuta in alcuna considerazione) o addirittura smentita nell’ambito di una valutazione condotta da un’autorità pubblica. Sicché è evidente che allorquando il giudice penale afferma giudizialmente la sussistenza (o esistenza) o l’insussistenza (o inesistenza) del “fatto” (id est: della condotta) che integrerebbe il reato, o di un segmento della condotta descritta dalla norma incriminatrice, tale “accertamento” – che, a ben guardare, investe il “fatto” ancor prima che il “diritto” – non può essere ignorato o smentito dagli organi amministrativi di polizia” (CGA, sez. giuris., 22 novembre 2021, n. 1014).

Ovviamente, fatto salvo l’accertamento del fatto nella sua oggettiva fatticità e identicità, possono ben divergere, invece, le valutazioni, sullo stesso fatto, formulate dal giudice penale (anche cautelare) e dalla p.a., in prima battuta, e dal giudice amministrativo dopo.

9.3. In terzo luogo, va precisato che, per costante giurisprudenza amministrativa, il Prefetto, nel formulare il proprio giudizio prognostico (certamente discrezionale), deve compiere una valutazione globale degli elementi fattuali che vengono in evidenza, ma, specifica il Collegio, la valutazione deve tenere ragionevolmente conto di tutti gli elementi, che vanno acquisiti nella loro globalità e poi valutati.

Costituisce un insuperabile vulnus motivazionale del provvedimento prefettizio ancorare lo stesso a un provvedimento adottato dal giudice penale senza dar conto (e senza valutarli) degli ulteriori provvedimenti che siano stati adottati nell’ambito dello stesso procedimento (e sugli stessi fatti) in epoca antecedente all’adozione dell’informazione interdittiva antimafia.

10. Facendo applicazione dei principi appena enunciati, deve essere giudicato fondato il motivo addotto a sostengo del gravame.

Non è, infatti, assolutamente provato che l’appellante abbia pronunciato la frase che colora negativamente la sua condotta, a tal punto da farla ritenere idonea a provare la contiguità mafiosa: la spendita di qualifiche parentali con soggetti mafiosi (“-OMISSIS-”), e l’invito a fare intervenire soggetti malavitosi.

Su tale assunto la Corte di cassazione, già in sede cautelare, ha escluso la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’ art. 416.bis.1 c.p..

Di tale frase parlano solo le presunte persone offese e la Corte di Cassazione sul punto scrive quanto segue: “Il tribunale ha ritenuto la condotta ascritta ai due indagati aggravata dal metodo manosa, valorizzando due elementi, riferiti dalle persone offese: l'indagato, a dire di -OMISSIS-, l'8 febbraio 2019 si era presentato come nipote zia -OMISSIS-, che ha un'attività di ristorazione, il cui figlio e il cui genero risultano vicini a esponenti della criminalità mafiosa; Inoltre, a dire di -OMISSIS-, rivolgendosi al di lui -OMISSIS- l'8 febbraio, avrebbe utilizzato l'espressione: "se hai persone falle venire che la discutiamo", facendo verosimile riferimento al possibile intervento di appartenenti alla criminalità organizzata, che avrebbero potuto essere coinvolti nella diatriba”.

Afferma però il supremo giudice penale che dalle intercettazioni telefoniche era emersa una realtà totalmente differente rispetto a quella denunciata dai signori -OMISSIS-.

Aggiunge la Corte: “Non va poi trascurato che proprio -OMISSIS- aveva ammesso in sede di denunzia di avere in occasione della telefonata al 112 raccontato fatti non veri, enfatizzando il carattere estorsivo e mafioso della richiesta avanzata dallo -OMISSIS- ed evocando falsamente l'ipotesi della tangente imposta ai commercianti operanti su quella piazza”.

La Cassazione, per tali ragioni, ha annullato l’ordinanza applicativa della misura cautelare di prevenzione, giusta ordinanza n. -OMISSIS- del 13 luglio 2020, mantenendo unicamente il capo di accusa di “violenza privata” ex art. 610 c.p., non omettendo di rilevare, comunque, che, a differenza dell’appellante, “le persone offese non erano munite della licenza che li autorizzava a prestare attività di vendita ambulante sostando a tempo indeterminato sul piazzale da cui gli indagati volevano farli spostare”.

Risulta logicamente arduo ritenere legittima un’informazione interdittiva antimafia che risulti ancorata all’unico fatto provato (alla stregua della sola prova indiziaria) consistente nella presunta violenza privata, non qualificata da modalità o metodi mafiosi: condotta peraltro ascrivibile, sostiene ragionevolmente parte appellante, forse addirittura all’art. 393 c.p., più che all’art. 610 c.p..

11. Il Collegio ritiene fondato, e dirimente, il profilo di doglianza che censura il provvedimento del Prefetto per non avere tenuto conto e valutato (nemmeno per evidenziarne, ove fosse stato possibile, l’irrilevanza) il contenuto delle pronunzie del giudice penale rese nell’ambito della fase cautelare dello stesso processo, pronunzie giurisdizionali che avrebbero dovuto essere ben note alla Prefettura allorquando, in data 3 agosto 2023, veniva emanata la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato all’adozione dell’interdittiva, in cui si faceva invece esclusivo riferimento al provvedimento di rinvio a giudizio del GIP del 31 gennaio 2020, pretermettendo totalmente l’esistenza delle pronunzie favorevoli successive (Cassazione inclusa), ma tutte ampiamente antecedenti al provvedimento qui impugnato.

L’appellante già in sede procedimentale, con memoria del 7 agosto 2023, evidenziava la necessità che si tenesse conto di tali provvedimenti giurisdizionali favorevoli.

Il provvedimento impugnato in primo grado, che pur consta di 25 pagine, non menziona neanche le pronunzie del giudice penale che il Prefetto avrebbe certamente dovuto acquisire e di cui, comunque, era stato reso edotto dall’appellante in sede di contraddittorio procedimentale.

Ciò, si ribadisce, costituisce una insuperabile lacuna istruttoria, che integra un vizio della motivazione la cui gravità necessariamente determina l’annullamento del provvedimento impugnato.

12. Tanto basta per ritenere fondato il gravame e annullare il provvedimento prefettizio in disamina.

13. Le spese del doppio grado del giudizio, stanti in particolare i profili evidenziati nel superiore punto 11, seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, annulla il provvedimento impugnato in primo grado.

Condanna le amministrazioni appellate, in solido, a rifondere, a favore dell’appellante, le spese del doppio grado di giudizio, che liquida in complessivi euro 3.000,00 (tremila/00) oltre spese generali e accessori di legge, con rifusione dei c.u. se versati.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellante.

Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 8 aprile 2025 con l'intervento dei magistrati:

Ermanno de Francisco, Presidente

Giuseppe Chinè, Consigliere

Maurizio Antonio Pasquale Francola, Consigliere

Giovanni Ardizzone, Consigliere

Antonino Caleca, Consigliere, Estensore

 


[1] Mi sia consentito citare S.M. SISTO, Interdittiva antimafia: il diritto al contraddittorio è “espressione fondamentale di civiltà giuridica europea”?, nota a sentenza T.A.R. Puglia – Bari, Sez. III, 13 gennaio 2020, n. 28, Appalti&Contratti, 2020, n. 3; S.M. SISTO, L’informazione interdittiva antimafia tra princìpi di diritto internazionale e costituzionale, nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105, I contratti dello Stato e degli Enti pubblici, 2019, n. 4; S.M. SISTO, No al risarcimento del danno in caso di interdittiva antimafia: l’intervento dell’Adunanza Plenaria, nota a sentenza Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 6 aprile 2018, n. 3, www.italiappalti.it.