Cons. di Stato, Sez. VI, ord. 10 dicembre 2024, n. 9928

1. La vicenda e lo svolgimento del processo; 2. La normativa unionale di riferimento e la normativa interna potenzialmente in contrasto; 3. La formulazione dei quesiti pregiudiziali e la posizione del Consiglio di Stato; 3.1. Il primo quesito;  4. Considerazioni conclusive

1. La vicenda e lo svolgimento del processo

L’ordinanza di rimessione ex art. 267 del TFUE in commento ha a oggetto l’applicazione della disciplina in materia di affidamento di contratti e concessioni a organismi in house[1] al settore del trasporto pubblico locale[2], e consta di due quesiti, entrambi inerenti l’art. 5, paragrafi 1 e 2, del Regolamento (CE) 2007/1370, come modificato dal Regolamento (UE) 2016/2338, in materia di servizi pubblici di trasporto passeggeri, l’uno meramente interpretativo della succitata disposizione, l’altro di raffronto della stessa con la disciplina nazionale dettata dal previgente codice dei contratti pubblici, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, applicabile ratione temporis al caso de quo.

Essa origina dal ricorso presentato da una società privata operante nel settore del TPL in area sudtirolese per contestare il parziale affidamento diretto del servizio di autolinee pubbliche da parte della Provincia di Bolzano a una società in house[3].

Nel ricorso – rectius, in quella parte del ricorso che ha dato poi origine al rinvio pregiudiziale – si contesta l’affidamento in house ex art. 5, paragrafo 2, del Regolamento cit. poiché non sussisterebbe alcun rapporto concessorio in quanto all’organismo affidatario non sarebbe stato trasferito il rischio dell’operazione, per cui dovrebbe applicarsi l’art. 192, comma 2, del codice, relativo ai contratti di servizi. La rigorosa applicazione al caso di specie dell’art. 192, comma 2, d.lgs. 50/2016, renderebbe illegittima l’impugnata delibera.

L’impianto difensivo fa leva su una lettura del Regolamento europeo per cui i commi da 2 a 6 del cit. art. 5 si applicherebbero, nell’eventualità dell’in house – così come inequivocabilmente è negli altri casi –, ai soli contratti di concessione[4].

Il Tribunale di giustizia amministrativa di Bolzano, come sintetizzato nell’ordinanza, ha escluso che le disposizioni nazionali di cui all’art. 192, comma 2, e all’art. 16, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175[5] – le quali prevedono un onere di motivazione rafforzata per giustificare il ricorso all’in house – non si applichino alla materia del TPL, di talché la scelta dell’Amministrazione di internalizzare il servizio piuttosto che di ricorrere al mercato non sarebbe vincolata alla dimostrazione dell’incapacità di quest’ultimo di erogare il servizio stesso secondo l’ordinario regime commerciale della domanda e dell’offerta[6].

Le norme eurounitarie, infatti, secondo il Verwaltungsgericht, «deroga[no] alla disciplina dei servizi di interesse economico generale» che non consentirebbe la remunerazione dei fattori di produzione secondo le correnti logiche di mercato[7].

In conclusione, facendo leva altresì su alcune norme provinciali attributive alla Provincia autonoma della facoltà di esercizio in house del trasporto passeggeri, considerate legittime, il Collegio bolzanino ha ritenuto applicabile l’art. 5, paragrafo 2, del Regolamento, escludendo che «lo schema di gestione dell’in house providing, applicato al comparto del TPL passeggeri, costituisca modalità eccezionale di affidamento della concessione di servizi e che sia, per ciò, soggetto ad oneri motivazionali “rinforzati” circa le ragioni del mancato ricorso al mercato»[8].

Della sentenza in questione è stata chiesta la riforma al Consiglio di Stato con ricorso contenente istanza di rinvio pregiudiziale, che è stata accolta pur dando conto che su questione molto simile e originata dalle stesse parti in giudizio era stata sollevata analoga questione pregiudiziale la quale tuttavia «ha risposto solo ad alcuni dei quesiti […] e non anche a quello di interesse per il presente giudizio»[9].

 

2. La normativa unionale di riferimento e la normativa interna potenzialmente in contrasto

Norma fondamentale e di partenza nella materia in oggetto è l’art. 106, paragrafo 2, del TFUE, disposizione che stabilisce una deroga generica alle regole di concorrenza per consentire gli affidamenti diretti. Essa, tuttavia, non viene direttamente in rilievo nella vicenda.

La questione pregiudiziale è imperniata, piuttosto, sull’art. 5, paragrafi 1 e 2, del Regolamento (CE) 2007/1370, come modificato dal Regolamento (UE) 2016/2338, in materia di TPL, il quale dispone: (a) che i contratti di servizio che assumano la forma della concessione a norma delle cd. Direttive appalti[10] siano aggiudicati secondo le disposizioni del Regolamento; (b) che i restanti contratti siano affidati nel rispetto delle suddette direttive; (c) infine, che le autorità locali possano affidare direttamente contratti di servizi a soggetti costituiti in house, sui quali cioè tali autorità esercitino il cd. controllo analogo[11], senza tuttavia differenziare esplicitamente fra contratti e concessioni.

Seguendo la tesi della ricorrente, la facoltà di cui al secondo paragrafo (sub lettera c) sarebbe anch’essa limitata ai contratti in cui vi è passaggio del rischio economico, pertanto a quelli che, ai sensi della normativa eurounitaria, si definiscono come concessioni.

Diversamente, come anche sostenuto dal giudice di primo grado, l’art. 5, paragrafo 2, consentirebbe l’affidamento in house anche dei contratti diversi dalle concessioni, quindi pure in mancanza del trasferimento del rischio operativo.

Il rinvio dà modo di riflettere sulle esigenze di coerenza dell’ordinamento giuridico unionale. Infatti, se la norma del Regolamento non prescinde, nel consentire l’affidamento diretto, dal requisito del trasferimento del rischio operativo anche nel caso dell’in house, allora essa assume che sussista un’alterità sostanziale fra l’Amministrazione e l’organismo la quale rischia di contrapporsi alla definizione sostanzialistica di società in house data dallo stesso ordinamento.

In mancanza di un’alterità, infatti, il trasferimento sarebbe arduo a configurarsi, proprio perchè occorre che le due entità si atteggino a centri di imputazione di interessi autonomi e distinti, da comporre mediante il contratto quale tipico strumento di regolamento del conflitto patrimoniale.

L’impianto interpretativo che offrirà la Corte dovrà infatti presupporre la definizione di società in house data dall’ordinamento europeo, il quale, come più volte chiarito da solida giurisprudenza eurounitaria, concepisce questo modello quale scelta di autoproduzione, in cui la struttura che eroga il servizio è solo formalmente distinta dall’Autorità affidante, nonostante il controllo analogo che quest’ultima esercita sulla prima[12].

Si deve infine valorizzare, sul piano sovranazionale, il Considerando n. 18 del Regolamento (CE) 2007/1370, il quale sottolinea la facoltà delle Autorità locali di «decidere se fornire […] i servizi pubblici di trasporto di passeggeri […] o se affidarli a un operatore interno senza ricorrere a procedure di gara».

A livello interno sono varie le disposizioni che il Consiglio di Stato individua come rilevanti[13]. In questa sede acquista centralità l’(abrogato) art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, il quale, col fine di limitare il ricorso all’autoproduzione dei servizi da parte delle Amministrazioni, condiziona(va) l’utilizzabilità dell’in house providing alla dimostrazione, da parte delle stesse, di un fallimento del mercato nel settore in cui intende(va) fare ricorso all’affidamento diretto. A norma di tale articolo, infatti, «ai fini dell’affidamento in house di un contratto avente a oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell’offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche».

Prima di procedere, va dato conto che, a oggi, il riferimento alle «ragioni del mancato ricorso al mercato» contenuto nell’art. 192, comma 2, è scomparso, eppur rimane, nell’art. 7, d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, un onere di dar conto della valutazione di congruità economica dell’offerta, pertanto la motivazione del provvedimento di affidamento diretto resta analitica[14].

 

3. La formulazione dei quesiti pregiudiziali e la posizione del Consiglio di Stato

Semplificando al massimo, le questioni sottoposte al setaccio della Corte di giustizia riguardano l’ampiezza di due condizioni: (a) l’una, quella del trasferimento del rischio operativo, posta dalla normativa unionale affinché possa parlarsi di concessione anziché di contratto di servizi, della quale andrà valutata la applicabilità al caso dei servizi di trasporto passeggeri affidati in house; (b) l’altra, quella del dimostrato fallimento del mercato, posta dalla normativa interna per il ricorso all’affidamento in house dei contratti in generale, della quale dovrà valutarsi la compatibilità con la disciplina unionale in quanto, ove applicata nel senso proposto dall’appellante, essa sarebbe derogatoria del diritto UE in materia di TPL.

 

3.1. Il primo quesito verte sulla interpretazione da dare all’art. 5, paragrafi 1 e 2, del Regolamento (CE) 2007/1370, o meglio sull’estensione del relativo ambito operativo: si interroga infatti la Sezione circa l’applicabilità o meno della disposizione, limitatamente all’in house, ai contratti di servizi piuttosto che alle sole concessioni, come nella prospettazione dell’appellante. Considerata la definizione di concessione di cui sopra, il quesito concerne pertanto la necessità di verificare il trasferimento del rischio d’impresa quale presupposto della concessione anche nel caso dell’affidamento diretto. In tale caso, l’art. 5, paragrafo 2 non si applicherebbe ai casi, pur concernenti affidamenti in house, in cui il passaggio del rischio rimanga indimostrato, come nel giudizio a quo.

Si rimarca che il quesito riguarda i soli casi di affidamento diretto, poiché nei restanti è inequivoca la formulazione del paragrafo 1 dell’art. 5, il quale fa rinvio alle Direttive appalti per i contratti diversi dalla concessione. Il dubbio interpretativo concerne dunque l’assoggettabilità di tutti i contratti di servizio pubblico di trasporto di passeggeri aggiudicati direttamente a un operatore interno alle previsioni di cui all’art. 5, paragrafo 2, del Regolamento (CE) 2007/1370, ossia l’opportunità di far operare distintamente i regimi di tale Regolamento e delle Direttive appalti anche nei casi di affidamento in house.

Per l’effetto, ove affidato a una società in house, il contratto di servizi – non qualificato come concessione in quanto rimanga indimostrato il passaggio del rischio operativo – sarebbe comunque soggetto alla disciplina derogatoria prevista dal Regolamento in materia di TPL.

Sulla questione la Corte di giustizia si era già espressa affermando che le aggiudicazioni dei contratti rientranti nell’ambito applicativo delle (odierne) Direttive appalti «che hanno a oggetto servizi di trasporto pubblico di passeggeri con autobus e che non assumono la forma di contratti di concessione ai sensi di queste direttive non sono soggetti all’art. 5, paragrafo 2, del Regolamento (CE) 2007/1370, ma al regime delle aggiudicazioni dirette che si è sviluppato sulla base di tali direttive»[15].

Eppure, la Corte non si è mai puntualmente espressa sull’«effettiva possibilità di operare una distinzione tra contratti di appalto e contratti di concessione nel caso si sia in presenza di un cd. affidamento diretto a un operatore interno» ex art. 5, paragrafo 2, del cit. Regolamento, rimanendo la summenzionata pronuncia circoscritta all’ipotesi del ricorso al mercato.

Chiarite la natura e la sostanza del quesito interpretativo, si esamini ora la posizione del Consiglio di Stato.

Nell’illustrare la motivazione del rinvio pregiudiziale, il Collegio sembra mettere in dubbio che fra l’ente concedente o appaltante e l’organismo in house possa instaurarsi un rapporto contrattuale in termini sostanziali, apparendo piuttosto che fra tali due soggetti un vero contratto, per come definito dalle Direttive appalti, manchi.

Questi dubbi potevano sembrare risolti negativamente dall’esito del giudizio C-186/22 avanti la Corte di giustizia[16], tuttavia il Consiglio di Stato ha ritenuto la risposta di Lussemburgo non idonea a risolvere il nuovo caso concreto[17].

Nell’esame delle potenziali criticità che esiterebbero dall’accoglimento della lettura data dall’appellante, il giudice remittente ritiene che «proprio l’assenza di una alterità sostanziale tra le parti giustifica la sottrazione dell’affidamento al soggetto controllato al previo confronto competitivo e, dunque, alla disciplina unionale in materia di aggiudicazione di appalti pubblici»[18].

Il Consiglio di Stato sembra sposare la lettura sostanzialistica – affermatasi nella giurisprudenza comunitaria – secondo cui, nel caso dell’in house, mancherebbe del tutto un contratto a titolo oneroso fra le parti, pertanto, «non emergendo un appalto, non potrebbero neppure applicarsi le procedure europee di affidamento previste per gli appalti pubblici». Infatti, nel caso dell’affidamento diretto mancano tanto l’onerosità del contratto quanto l’alterità sotto il profilo economico fra i due soggetti, che consente di escludere in ogni caso (e non caso per caso) il trasferimento del rischio operativo[19].

L’ordinanza valorizza anche il Considerando n. 5 della Direttiva (UE) 2014/24, ivi rinvenendo la norma che dà la potestà alle Amministrazioni di organizzare i servizi «con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva», norma che non s’intende svuotare del suo significato sostanziale[20].

Il giudice del rinvio conclude quindi, in merito a questo primo quesito, che l’art. 5, paragrafo 2 del Regolamento 1370, nella parte in cui richiama la distinzione fra concessioni e contratti di appalto ai fini dell’applicazione o meno del medesimo, sembrerebbe riferirsi ai soli casi «in cui l’aggiudicazione avvenga a favore di un operatore sostanzialmente [e formalmente] distinto dall’ente affidante, ma non anche qualora si faccia questione di un affidamento a un operatore interno quale una società in house»[21].

 

3.2. Il secondo quesito verte invece sull’ammissibilità nell’ordinamento, a norma dei Trattati, dell’art. 192 del previgente codice dei contratti pubblici, che continua ad applicarsi ratione temporis ai contratti stipulati sulla base di bandi di gara emessi entro il 30 giugno 2023.

Segnatamente, il dubbio di conformità concerne la parte dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 nella quale si prevede che una stazione appaltante possa ricorrere all’affidamento diretto a un organismo in house solamente previa «valutazione sulla congruità economica dell’offerta […] avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta […]».

È proprio il riferimento alle «ragioni del mancato ricorso al mercato», le quali, se indimostrate, costituiscono uno sbarramento al ricorso all’in house, a dare origine al dubbio di conformità con il Regolamento UE sollevato dal Consiglio di Stato.

Infatti, come si è detto introducendo, la norma prescrive una motivazione analitica della scelta di non ricorrere al mercato, così imponendo all’ Amministrazione una istruttoria sul cd. fallimento del mercato di riferimento dell’affidamento che s’intende operare senza bandire la gara.

Giova preliminarmente specificare cosa s’intenda con l’espressione fallimento del mercato. Tale condizione è stata definita dalla giurisprudenza come l’«incapacità del mercato di offrire il servizio […] alle medesime condizioni, qualitative, economiche e di accessibilità, garantite dal gestore oggetto del “controllo analogo”»[22]. Secondo l’art. 192, comma 2, pertanto, prima di affidare un servizio a una società in house, occorre dare dimostrazione del fatto che quel servizio, per come previsto dall’Amministrazione, non è erogabile in regime di libero mercato, in quanto il punto d’incontro fra domanda e offerta che connota l’azione dell’imprenditore non reggerebbe il ritmo imposto dagli obiettivi di interesse pubblico.

Al di là della gravosità dell’onere dimostrativo, la previsione in parola si pone in ogni caso come un ingombrante ostacolo al ricorso all’in house. Esso era stato previsto, come anche numerose disposizioni del Testo unico sulle società a partecipazione pubblica (d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175), non già col fine di incentivare la concorrenza in determinati mercati dei servizi pubblici (per così dire innalzando lo standard minimo comunitario), bensì allo scopo di evitare certi dissanguamenti delle finanze statali e soprattutto locali che l’esperienza italiana a cavallo fra i due millenni aveva prodotto per effetto del ricorso abusivo alle partecipazioni pubbliche, nonché per ridurre il rischio corruttivo, tanto che qualcuno ha parlato di una vera e propria cultura del sospetto[23].

Anche nell’ordinanza si parla infatti di uno «sfavore verso gli affidamenti diretti in regime di delegazione interorganica» che ha orientato le scelte legislative nazionali, individuando il comma 2 come «espressione di una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto» che il legislatore interno persegue da tempo[24].

Della legittimità di tale norma preclusiva o meglio limitativa dell’utilizzo dell’affidamento diretto non si è dubitato nel generico raffronto con la normativa eurounitaria, tanto che la Corte di giustizia l’ha già corroborata in nome del principio di libera autorganizzazione delle Autorità pubbliche, potendo gli Stati «subordinare la conclusione di un’operazione interna all’impossibilità di indire una gara d’appalto […]»[25].

Altresì la Corte costituzionale, esprimendosi su questione sollevata rispetto all’art. 76 Cost., ha ritenuto che la norma del codice, integrante una disciplina «pro-concorrenziale più rigorosa rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario, non è da questo imposta […] ma neppure si pone in contrasto […] con la citata norma comunitaria, che […] costituisce solo un minimo inderogabile»[26].

Se, quindi, in generale non vi è stata occasione di dubitare della conformità al diritto dell’UE della norma nazionale che limita a ipotesi residuali il ricorso all’in house, in materia di TPL l’operatività di una tale disposizione rischia di entrare in crisi in forza della previsione dell’art. 5, paragrafo 2, del Regolamento (CE) 2007/1370.

Pertanto, trattandosi nel caso a quo della materia del trasporto pubblico locale, il Consiglio di Stato ha ritenuto doversi sottoporre quesito pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo per saggiare la compatibilità dell’art. 192, comma 2 col Regolamento in materia, n. 1370 del 2007.

Un ipotetico contrasto escluderebbe in radice l’applicabilità della norma agli affidamenti regolati dal Regolamento; diversamente, invece, il Giudice nazionale dovrebbe raffrontare la stessa norma al principio di autorganizzazione.

Invero sul punto esiste già un orientamento del Consiglio di Stato, che con l’ordinanza in esame si intende vagliare nella sua solidità. Il consesso di Palazzo Spada ha, infatti, già ritenuto che, per gli affidamenti di servizi di TPL ai sensi del Regolamento (CE) 2007/1370, non trovi applicazione l’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, in quanto la fonte unionale porrebbe su un piano di parità il ricorso al mercato e l’affidamento in house[27].

In questo caso, le perplessità sorte in capo alla Sezione remittente sono legate, piuttosto, all’incipit dell’art. 5, paragrafo 2, del Regolamento, in cui si afferma che l’affidamento diretto è consentito dall’ordinamento unionale «a meno che non sia vietato dalla legislazione nazionale». Ci si chiede, cioè, se tale previsione «ponga il legislatore nazionale davanti a una rigida alternativa», potendo solo vietare del tutto ovvero consentire senza limiti il ricorso all’in house, oppure consentendogli anche di sottoporre la utilizzabilità dell’affidamento diretto a limitazioni, come fa l’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016[28].

Il quesito rimesso alla Corte di giustizia si scinde secondo un criterio di subordinazione: il dubbio interpretativo del Consiglio di Stato circa la possibilità di limitare il ricorso all’in house nel TPL non verrebbe infatti integralmente soddisfatto dall’eventuale risposta affermativa della Corte, residuando l’interrogativo: se lo Stato può, quanto può? Resta cioè comunque da comprendere – laddove si ritenga configurabile quest’ultima opzione, che la Sezione remittente ha qualificato come la “via mediana” – quali sarebbero «la natura e il grado delle limitazioni che il diritto nazionale può […] imporre al ricorso all’in house providing».

La graduazione del quesito interpretativo è congeniale a rimuovere il dubbio se il legislatore statale italiano potesse o meno legittimamente prevedere la dimostrazione del fallimento del mercato di riferimento come stringente requisito d’accesso all’affidamento diretto quale forma di gestione di un servizio di trasporto passeggeri, anziché limitarsi a imporre una motivazione sulla sola base della valutazione di convenienza economico-amministrativa, certamente meno onerosa[29].

 

4. Considerazioni conclusive

In ordine al primo quesito di cui è investita la Corte di giustizia, l’interpretazione fornita dal Consiglio di Stato appare maggiormente affine alla ratio stessa della differenziazione fra contratti di appalto e di concessione di servizi operata dall’art. 5. Infatti, l’esigenza di «evitare una indebita compressione dell’ambito di applicazione delle direttive nn. 24 e 25 del 2014», in maniera da non sottoporre alla disciplina dettata dal Regolamento n. 1370 fattispecie negoziali da aggiudicare secondo le direttive in materia di appalti pubblici per l’assenza del trasferimento del rischio operativo, «non sembra porsi per gli affidamenti in house» in quanto «comunque esclusi dall’ambito di applicazione delle direttive» suddette (cfr. gli artt. 28 della n. 25 e 12 della n. 24) e pertanto assoggettati all’art. 5, paragrafo 2 del Regolamento cit. «a prescindere dalla questione del cd. trasferimento del rischio operativo»[30].

Quanto invece al secondo quesito, il rinvio pregiudiziale impone di evidenziare, come in parte si è fatto, come differisca la ratio di due previsioni pur apparentemente affini nell’intento. Da un lato, non solo l’art. 5, paragrafo 2, del Regolamento (CE) 2007/1370, ma l’intero impianto dei Trattati e della normativa europea – per come interpretata dalla giurisprudenza a partire dalla cit. causa Teckal – prevedono che le Amministrazioni degli Stati possano ricorrere all’in house providing rispettando il “limite” del controllo analogo. Dall’altro, la normativa nazionale limita lo strumento dell’affidamento diretto ponendovi il limite d’accesso ulteriore del fallimento del mercato, in mancanza della cui dimostrazione è doveroso ricorrere al mercato stesso, in quanto presuntivamente idoneo a fornire il servizio.

Ambo le disposizioni disincentivano il ricorso indiscriminato all’affidamento diretto. Eppure, l’art. 192, comma 2, muove da un presupposto almeno in parte differente rispetto al diritto europeo, animato da uno spirito puro di tutela della concorrenza. Sostenere che la fonte eurounitaria attribuisca allo Stato la potestà di porre limiti ulteriori al ricorso all’in house sottenderebbe una comunanza di scopo – quello di una maggior tutela della concorrenza nel mercato interno – che, tuttavia, nell’art. 192, comma 2, non è certo che possa riscontrarsi[31]. La questione, però, non è stata affrontata nell’ordinanza di rimessione, sicché pare il caso di archiviarla in favore dei temi che sono stati oggetto di più attenta analisi da parte del Collegio[32].

Una interpretazione della norma unionale nel senso della necessità di dimostrare il trasferimento del rischio operativo ai fini dell’applicazione del Regolamento in materia di TPL – per cui il Regolamento stesso non farebbe distinzione a seconda della natura del soggetto affidatario, ma solamente a seconda del suddetto trasferimento del rischio –, farebbe pendere l’ordinamento verso una concezione dell’affidamento diretto come istituto eccezionale, in favore del regime delle Direttive appalti.

Nondimeno, il Consiglio di Stato non ha mancato, e proprio nell’ambito di una rimessione alla Corte di giustizia[33], di affermare la pari-ordinazione fra mercato e in house. Inoltre, l’art. 7 dell’ultimo codice dei contratti pubblici, quello vigente, d.lgs. n. 36 del 2023, ha posto in rapporto di tendenziale parità[34] il ricorso al mercato e l’internalizzazione del servizio, tanto che si è detto: «La divergenza di impostazione tra diritto nazionale e diritto europeo rispetto al modello in house è stata finalmente superata con il nuovo codice dei contratti pubblici», che ha rifiutato «l’opzione fortemente restrittiva del d.lgs. n. 50 del 2016, su cui si erano appuntati i dubbi di compatibilità comunitaria»[35].

Ancorché esistano pronunce che sembrano protendere per un ritorno dell’in house in posizione eccezionale fra gli strumenti di erogazione dei servizi[36], pare in questa sede che assicurerebbe una migliore continuità alla giurisprudenza della Corte di giustizia una pronuncia più prossima al principio per cui l’in house non ha natura straordinaria ma è uno un tipo canonico, alternativo al mercato e di pari dignità giuridica. Vale a dire, una pronuncia che accolga una interpretazione dell’art. 5, paragrafo 2, del Regolamento (CE) 2007/1370 secondo la quale la norma prescinda dall’analisi del trasferimento del rischio operativo in quanto la società in house è sostanzialmente una struttura dell’Amministrazione.

Quanto al secondo quesito, difficile ipotizzare, relativamente alla prima parte, che la Corte riterrà che l’art. 5, paragrafo 2, del Regolamento cit. osti al dispositivo dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui, pur senza inibirlo del tutto, pone un limite al ricorso all’affidamento diretto (la “via mediana”).

Con riferimento, invece, alla seconda parte del secondo quesito, la soluzione appare maggiormente incerta, atteso che essa menziona la particolare condizione del fallimento del mercato quale ostacolo legislativo nazionale piuttosto limitante all’utilizzo della società in house per i servizi di TPL.

Si attende di conoscere la pronuncia della Corte di giustizia anche per vagliare, nel caso degli affidamenti diretti, la solidità dell’indirizzo giurisprudenziale affermato dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 6 luglio 2020, n. 4310, per cui ove l’affidamento sia operato ex art. 5, paragrafo 2 del cit. Regolamento TPL, non trova applicazione nel diritto nazionale l’art. 192, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, e pertanto non va operata alcuna verifica del fallimento del mercato da parte dell’Amministrazione al fine di affidare direttamente il servizio[37].


[1] Di seguito anche solo affidamento in house, dovendosi intendere superata l’ambiguità terminologica fra tale espressione e l’omologa dicitura affidamento diretto a società in house, atteso che la duplicazione, presente anche nel d.lgs. 36/2023, è frutto di quella che la dottrina ha qualificato come una svista; cfr. B.G. Mattarella, Ambiguità e vicende degli affidamenti in house, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 3, 2023, pp. 1325-1326.

[2] Di seguito anche solo TPL. Il settore è regolato a livello eurounitario dal citato Regolamento, che ha abrogato i previgenti Regolamenti del Consiglio (CEE) nn. 1191 del 1969 e 1107 del 1970.

[3] Per completezza si chiarisce che gli atti impugnati precedono l’entrata in vigore del d.lgs. 23 dicembre 2022, n. 201 cd. decreto di riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.

[4] L’idea sottesa al ricorso è che la disciplina del Regolamento europeo e quella della normativa nazionale siano, nel caso dell’affidamento diretto (in house), esclusive l’una dell’altra: la prima si applicherebbe ai casi di concessioni di servizi – in ragione del trasferimento del rischio operativo dall’Amministrazione al concessionario – mentre la seconda si applicherebbe ai casi di contratti di servizi; in subordine, poi, si ritiene che l’art. 192 cit. sia conforme al Regolamento, per cui non sussisterebbe alcuna antinomia.

[5] Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica.

[6] La questione sarà più attentamente trattata infra, atteso che il secondo quesito dell’ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato attiene anche e proprio alla sussistenza del requisito del cd. fallimento del mercato quale possibile o non possibile barriera posta dall’ordinamento nazionale al ricorso all’affidamento diretto.

[7] TRGA Trentino-Alto Adige, Bolzano, 16 settembre 2021, n. 270, § 108.

[8] Ibid., § 126. Nel caso di specie il Giudice ha anche ritenuto sufficientemente motivati tutti i requisiti posti dall’ordinamento europeo per l’affidamento diretto, nonché sussistente il trasferimento del rischio operativo.

[9] Cfr. § 20. Si vedano le ordinanze 7 marzo 2022, n. 1620 e 25 gennaio 2023, n. 877 e la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 19 ottobre 2023, nella causa C-186/22.

[10] Si tratta delle Direttive europee in materia di contratti pubblici di appalto, (CE) 2004/17 e (CE) 2004/18, oggi sostituite dalle Direttive (UE) 2014/23, (UE) 2014/24 e (UE) 2014/25. La definizione di concessione di servizi è data dall’art. 5, n. 1, lettera b), della Direttiva (UE) 2014/23, per ciò intendendosi un «contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più amministrazioni aggiudicatrici […] affidano la fornitura e la gestione di servizi […] ad uno o più operatori economici, ove il corrispettivo consista unicamente nel diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o in tale diritto accompagnato da un prezzo»; l’art. 10, paragrafo 3, della medesima Direttiva, prevede che la stessa «non si applica […] alle concessioni di servizi di trasporto pubblico di passeggeri ai sensi del Regolamento (CE) 2007/1370»; ancora, l’art. 2, paragrafo 1, n. 5, della Direttiva (UE) 2014/24 e l’art. 2, paragrafo 1, n. 5, della Direttiva (UE) 2014/25, definiscono gli appalti pubblici come «contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto tra un’amministrazione aggiudicatrice e un operatore economico, aventi per oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi».

[11] Oltre ai restanti requisiti sanciti a partire dalla sentenza della Corte di giustizia del 18 novembre 1999, nella causa C-107/98, Teckal, e in altre, in particolare, 11 gennaio 2005, nella causa C-26/03, Stadt Halle (sulla partecipazione pubblica totalitaria) e 21 luglio 2005, nella causa C-231/03, Consorzio Coname.

[12] In proposito, si possono richiamare la storica sentenza già cit. 18 novembre 1999, nella causa C-107/98, Teckal, nonché 18 giugno 2020, nella causa C-328/19, Porin kaupunki, la quale al § 66 richiama e riordina le conformi pronunce precedenti sul punto (se ne dà conto anche nella sentenza in commento, al § 62).

[13] Per completezza, si vedano i §§ 28 ss. della sentenza in commento, in cui sono individuati anche l’art. 61, legge 23 luglio 2009, n. 99, l’art. 5, comma 1, e l’art. 18, comma 1, lettera a), d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, l’art. 16, comma 7, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, l’art. 20, legge provinciale di Bolzano 23 novembre 2015, n. 15, l’art. 7, comma 9, legge provinciale di Bolzano 17 dicembre 2015, n. 16 e ss.mm.

[14] B.G. Mattarella, op. cit., p. 1326. Comunque, l’art. 7, comma 2, terzo periodo, dell’ultimo codice dei contratti pubblici ha previsto un alleggerimento dell’onere di motivazione per quanto attiene ai contratti strumentali, non anche per i servizi agli utenti finali. Si rinvia al contribuito, edito da questa Rivista, di R. Camponi, Tensioni e contrapposizioni dell’in house providing: fra servizi e contratti pubblici, in italiAppalti.it, 13 febbraio 2024.

[15] Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 8 maggio 2019, nella causa C-253/18, Stadt Euskirchen, § 26, passaggio citato nella sentenza in commento al § 57.

[16] Vedasi il § 35, richiamato nella sentenza in commento al § 74.

[17] Vedasi la sentenza in commento al § 66.

[18] Ibid., § 62.

[19] R. Chieppa, R. Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, pp. 335-336 in cui si fanno valere analoghe considerazioni anche nella materia contabile, nella quale si è ritenuto, per sintetizzare, che il danno arrecato al patrimonio della società in house configuri automaticamente un danno al patrimonio dell’ente.

[20] Corte di giustizia, 6 febbraio 2020, nelle cause riunite C-89 e C-91/2019, Rieco, al § 35, richiamata dalla sentenza in commento al § 63. Come si legge nella Relazione al codice dei contratti pubblici, sub art. 1, p. 13, il diritto europeo «non impone il mercato, ma solo il rispetto della concorrenza se si sceglie di andare sul mercato», ed è perciò che, in conformità a esso, l’ultimo codice degli appalti italiano rimette alla discrezionalità amministrativa la scelta tra autoproduzione ed esternalizzazione (art. 7, d.lgs. n. 36 del 2023).

[21] Vedasi la sentenza in commento al § 65.

[23] Da ultimo cfr. L.M. Fera, L’in house providing nel nuovo codice dei contratti pubblici: tra libertà di auto-organizzazione e tutela della concorrenza e del mercato, in Federalismi, n. 28, 2024, p. 49.

[24] Vedasi a titolo di esempio la legge 6 agosto 2008, n. 133, di conversione del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112.

[25] Corte di giustizia, 6 febbraio 2020, nelle cause C-89 e C/91 del 2019, Rieco, resa sempre su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato italiano.

[26] Corte costituzionale, 27 maggio 2020, n. 100, § 9.2; conformi anche 24 novembre 2010, n. 325 e 27 marzo 2013, n. 46. Va rilevato tuttavia che, nel citato passaggio, la Corte sembra valorizzare la valenza «pro-concorrenziale» del disposto, in parziale contrasto con quanto si è detto sopra a proposito della differenza di ratio della disposizione eurounitaria e di quella integrativa nazionale.

[27] Consiglio di Stato, Sez. V, 6 luglio 2020, n. 4310, § 17.

[28] Si veda la sentenza in commento, §§ 88 e 89.

[29] Si veda la sentenza in commento, §§ 92, 93 e 95.

[30] Vedasi la sentenza in commento, §§ da 70 a 73.

[31] Come ben si è già detto, infatti, lungi dall’intendere ciò l’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici del 2016, unitamente a numerose disposizioni del coevo Testo unico, sono testimonianza di un’epoca di sospetto verso la società a partecipazione pubblica, e tendono ad arginare il fenomeno perlopiù per evitare il dissesto dei bilanci degli enti locali che non a tutela la libera concorrenza.

[32] L’eventuale valorizzazione, da parte della Corte, della “via mediana” non dipenderà dal raffronto delle rationēs nei due ordinamenti. Che sia o meno ravvisabile una comunione d’intenti sui due livelli delle fonti del diritto, la questione rimane letterale o, ancorché sistematica, limitata all’intento del legislatore dei Trattati: l’incipit del paragrafo 2 «A meno che non sia vietato dalla legislazione nazionale», può consentire allo Stato membro di limitare, senza inibire del tutto, il ricorso all’in house nel settore del TPL, prevedendo, come nel caso, la dimostrazione del fallimento del mercato?

[33] Cons. Stato, Sez. V, 7 gennaio 2019, n. 138 (ordinanza di rimessione relativa alla interpretazione dell’art. 12, paragrafo 3, della Direttiva (UE) 2014/24): «l’affidamento in house è per sua natura una delle forme caratteristiche di internalizzazione e di autoproduzione, così che tale affidamento rappresenterebbe non già un’eccezione residuale, bensì un’opzione di base allo stesso titolo dell’affidamento a terzi mediante gara d’appalto. Anzi, l’in house rappresenterebbe una sorta di antecedente logico rispetto a qualunque scelta dell’amministrazione pubblica in tema di autoproduzione o di esternalizzazione dei servizi di proprio interesse, dato che un’amministrazione può procedere all’esternalizzazione dell’approvvigionamento di beni, servizi o forniture soltanto una volta che le vie interne dell’autoproduzione o dell’internalizzazione non si siano dimostrate percorribili o utilmente percorribili».

[34] Si parla di parità tendenziale perché, nonostante la modifica intervenuta per opera dell’art. 7, permane un onere di motivazione, ancorché semplificato per le prestazioni strumentali all’Amministrazione, nel quale caso non occorre dimostrare il cd. fallimento del mercato, mentre negli altri contratti continua a sussistere l’onere, in capo all’ente affidante, di valutare la congruità economica dell’offerta; cfr. R. Chieppa, R. Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2023, pp. 356-357.

[35] L.M. Fera, L’in house providing nel nuovo codice dei contratti pubblici: tra libertà di auto-organizzazione e tutela della concorrenza e del mercato, in Federalismi, n. 28, 2024, p. 48. Anche nella Relazione al codice dei contratti pubblici, sub art. 1, si legge che «ogni potere amministrativo presuppone un interesse pubblico da realizzare», anche in base al principio della fiducia (p. 13).

[36] Corte di giustizia dell’Unione europea, Sez. IX, 6 febbraio 2020, nelle cause C-89 e C-91 del 2019: in questa decisione si offre una soluzione che sembra protendere per un ritorno all’orientamento che pone l’in house in posizione eccezionale rispetto all’ordinario affidamento tramite gara pubblica, richiedendo una giustificazione stringente e approfondita alla scelta di avvalersi della partecipata.

[37] Vedasi la sentenza da ultimo richiamata nel corpo del testo, ai §§ 12-17, nonché la sentenza in commento, al § 85.