1. Premessa.

Gli artt. 4 e 5 D.L., 16 luglio 2020, n. 76, nel novellare il precedente codice degli appalti pubblici (D. Lgs. 50/2016), avevano temporaneamente introdotto, al fine di favorire la risoluzione, in via stragiudiziale, delle controversie insorte tra le parti del contratto di appalto, l’istituto del collegio consultivo tecnico (CCT).

Il nuovo codice, in attuazione del criterio direttivo della legge delega concernente l’“estensione e rafforzamento dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio giurisdizionale, anche in materia di esecuzione del contratto”, ha elevato l’istituto del CCT a rimedio stragiudiziale di carattere generale. E ciò in omaggio al principio del risultato, per il quale l’affidamento e l’esecuzione del contratto devono avvenire con la massima tempestività e garantire il miglior rapporto qualità prezzo, pur sempre nel rispetto del principio della concorrenza, trasparenza e legalità.

La ratio degli artt. 215-219 D. Lgs. 36/2023 è, quindi, quella di evitare che eventuali contenziosi insorti tra committente e appaltatore, nell’esecuzione del contratto d’appalto, possano pregiudicare l’esecuzione tempestiva e a regola d’arte delle opere che ne costituiscono oggetto.

 

2. Il carattere obbligatorio del CCT peer gli appalti sopra soglia.

Il nuovo Codice degli appalti, nel recepire sostanzialmente la disciplina di cui agli artt. 4 e 5 D.L., 16 luglio 2020, n. 76, ha introdotto una vera e propria novità, consistente nel carattere obbligatorio dello stesso per gli appalti sopra soglia.

Il legislatore ha, condivisibilmente, ritenuto che i contratti di appalto che implicano un’elevata dimensione qualitativa e quantitativa delle opere ivi dedotte debbano essere affiancati da un organo atto a dirimere il contenzioso che potrebbe ostacolare la rapida realizzazione dell’opera. L’organismo in esame è, infatti, destinato ad accompagnare l’esecuzione del contratto, sin dal momento iniziale e per tutta la sua durata, in disparte la circostanza che sia insorta una controversia tra le parti[1].

Sotto tale aspetto, il CCT, che viene istituito con riferimento alla fase esecutiva del contratto d’appalto, deve essere distinto dal parere precontenzioso ANAC che, ai sensi dell’art. 220 D. Lgs. 36/2023, si interessa invece delle “questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara[2].

Ciò posto, il CCT è connotato dall’automatismo - salva volontà contraria delle parti che però deve essere espressa preventivamente - per il quale le decisioni del collegio hanno carattere vincolante, ossia consistono in determinazioni direttamente costitutive di diritti e obblighi in capo alle parti. In altre parole, l’art. 215, comma 2, D. Lgs. 36/2023, nel richiamare l’art. 808 ter c.p.c., impone che la costituzione del CCT dia la stura a un procedimento ad hoc destinato a sfociare in una decisione assimilabile e un lodo arbitrale irrituale.

In altre parole, ove le parti manifestino volontà contraria all’assunzione da parte del CCT di determinazioni vincolanti, allora esso esprimerà, svolgendo una mera funzione consultiva, un parere, con conseguente sospensione dell’esecuzione del contratto.

Nel caso contrario, ossia qualora le parti pongano al CCT un vero e proprio quesito da decidersi con una determinazione a carattere vincolante, occorre chiedersi se la previsione dell’obbligatorietà dell’organo in esame sia compatibile con la sentenza n. 221/2005 della Corte Costituzionale (che, come noto, ha da tempo sancito l’incostituzionalità dell’arbitrato obbligatorio).

Sul punto, deve convenirsi, in primo luogo, che la descritta pronuncia del Giudice delle leggi si riferisca esclusivamente all’arbitrato rituale (derogando esso alla giurisdizione ordinaria in favore della giurisdizione privata: i rapporti tra gli arbitri e il g.o. sono infatti qualificati dalla giurisprudenza in termini di competenza) e non anche all’arbitrato irrituale (atteso che esso determina semmai la temporanea improcedibilità, e non invece l’improponibilità, della domanda giudiziale).

In secondo luogo, il CCT, il cui procedimento è precipuamente regolato dagli artt. 215-219 e dall’Allegato II del D. Lgs. 36/2023, non dà luogo ex se a un arbitrale irrituale, bensì la relativa decisione è equiparata - quoad effectum - al lodo ex art. 808 ter c.p.c..

Del resto, l’art. 215, comma 2, seconda parte, D. Lgs. 36/2023, ha introdotto una regola di giudizio che impone all’organo collegiale, ogni qual volta sia chiamato ad assumere decisioni a carattere vincolante, di finalizzare le stesse alla “migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte”.

 

3. I rimedi avverso l’inadempimento delle pronunce del CCT.

In prima battuta, l’art. 215 del nuovo Codice degli appalti stabilisce che: “L’inosservanza delle pronunce (pareri o determinazioni) del Collegio consultivo tecnico è valutata ai fini della responsabilità del soggetto agente per danno erariale e costituisce, salvo prova contraria, grave inadempimento degli obblighi contrattuali”.

La norma impone una precisazione. Se il CCT era stato chiamato ad adottare un parere, è evidente che la circostanza che una delle parti lo abbia disatteso non può costituire grave inadempimento degli obblighi contrattuali: trattandosi di parere, esso non può né dar luogo a vincoli negoziali né è suscettibile di coercizione. A differenti conclusioni deve, invece, addivenirsi qualora il CCT sia chiamato ad adottare un lodo irrituale, assumendo esso la veste di un vero e proprio contratto.

In entrambi i casi, l’art. 215 D. Lgs. 36/2023 fa riferimento alla “responsabilità del soggetto agente per danno erariale, salvo il dolo”. Anche in tal caso, appare utile effettuare una precisazione.

Risponde di danno erariale certamente il funzionario pubblico, legato alla PA da un rapporto di pubblico impiego. Quanto invece al privato che si relazione alla PA sulla base di un rapporto di servizio, la giurisprudenza ha superato la precedente impostazione negazionista e sancito che, ove sussista una relazione qualificata e funzionale tra l’autore del danno e l’amministrazione che lo subisce, è comunque configurabile il danno erariale.

In seconda battuta, passando ai rimedi avverso l’inadempimento della determinazione assunta ex art. 808 ter c.p.c., e ferma la responsabilità di cui sopra, la natura contrattuale del lodo irrituale induce a ritenere che esso ben possa essere impugnato dinanzi al G.O. (in tal senso. l’art. 217, comma 3, D. Lgs. 36/2023).

Sul punto, in disparte i motivi d’impugnazione tassativamente (Trib Piacenza, n. 309/2023 e Trib Roma, n. 13681/2017, che hanno, appunto, escluso l’impugnazione per accertamento dell’invalidità del lodo arbitrale irrituale fondata sull’eccesso di mandato, manifesta iniquità, violazione e falsa applicazione delle norme in materia di mandato, nonché sul vizio di motivazione della determinazione) previsti dall’art. 808 ter c.p.c. (motivi che determinano l’annullabilità del lodo), ben possono ritenersi esperibili anche le ordinarie azioni previste dal codice di procedura civile in ordine alla patologia del contratto (in tal senso, si era già espressa la S.C. di Cassazione, sent. n. 272/2004).

Secondo l’impostazione del Giudice di legittimità (Cass. civ., n. 13522/2021) “in tema di arbitrato irrituale, il lodo può essere impugnato per errore essenziale esclusivamente quando la formazione della volontà degli arbitri sia stata deviata da un’alterata percezione o da una falsa rappresentazione della realtà e degli elementi di fatto sottoposti al loro esame (c.d. errore di fatto), e non anche quando la deviazione attenga alla valutazione di una realtà i cui elementi siano stati esattamente percepiti (c.d. errore di giudizio). Con la conseguenza che il lodo irrituale non è impugnabile per errores in iudicando […], neppure ove questi consistano in una erronea interpretazione dello stesso contratto stipulato dalle parti, che ha dato origine al mandato agli arbitri. Il lodo irrituale, inoltre, non è annullabile per erronea applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale o, a maggior ragione, per un apprezzamento delle risultanze negoziali diverso da quello ritenuto dagli arbitri e non conforme alle aspettative della parte impugnante. Deriva da quanto precede, pertanto, che il lodo irrituale non è impugnabile per errori di diritto, ma solo per i vizi che possono vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale, come l’errore, la violenza, il dolo o la incapacità delle parti che hanno conferito l’incarico e dell’arbitro stesso”.

 

4. Conclusioni.

Il CCT è in istituto che si colloca certamente nell’ambito degli strumenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie e che mira a evitare l’insorgere di liti relative alla fase esecutiva del contratto di appalto pubblico.

Esso ha il pregio di essere obbligatorio, quanto agli appalti sopra soglia, e facoltativo per quelli sottosoglia.

Certamente apprezzabile il carattere multiforme del CCT che può sia assumere la veste di organo consultivo tecnico, con effetto di moral suasion (e come tale incoercibile e insuscettibile di dar luogo a inadempimento), sia di collegio arbitrale irrituale, il cui procedimento è disciplinato ad hoc dal D. Lgs. 36/2023.

Sennonchè, l’eventuale inosservanza degli obblighi contrattuali derivanti dalla determinazione avente valore di lodo ex art. 808 ter c.p.c. postula, seppure in seconda battuta, un giudizio ordinario da incardinarsi dinanzi al G.O., con conseguente frustrazione del carattere deflattivo che l’istituto in esame mira ad avere.

 

 

 

[1] L’art. 218 D. Lgs. 36/2023 prevede infatti che il CCT venga sciolto al termine dell’esecuzione del contratto.

[2] L’art. 220 D. Lgs. 36/2023 disciplina il parere precontenzioso che viene reso dall’ANAC in relazione alle questioni insorte durante lo svolgimento della gara tra gli operatori economici e la stazione appaltante.

L’art. 6 del D. Lgs. 50/2016 escludeva che il parere di tal fatta potesse essere per le parti, da un lato, vincolante e, dall’altro, impugnato, cosicchè parte della dottrina lo aveva assimilato, nell’ottica di individuarne la natura giuridica, ai responsa del diritto romano e quindi ne sanciva la funzione di moral suasion.

L’impatto dell’art. 220 D. Lgs. 36/2023 è stato invece dirompente, in quanto tale norma stabilisce che il parere in esame è vincolante nella misura in cui le parti hanno deciso di aderirvi e può essere impugnato dinanzi al GA. In altre parole, esso obbliga le parti al rispetto della relativa statuizione.

Se quindi il parere ANAC è vincolante, allora esso è assimilabile a un rimedio giustiziale e quindi a un ricorso gerarchico improprio, difettando tra gli operatori economici e l’ANAC, da un lato, e la stazione appaltante dall’altro, il rapporto di gerarchia.