L’art. 97 della Costituzione esprime la scelta valoristica del Legislatore che ha voluto elevare a rango costituzionale i principi di imparzialità e buon andamento della azione amministrativa.

Le legge generale sul procedimento amministrativo (legge n. 241 del 1990), nell’intento di attuare tali principi costituzionali, ha introdotto nel procedimento una serie di istituti di semplificazione dell’azione amministrativa, tra cui vengono pacificamente annoverati anche i rimedi esperibili laddove la Pubblica Amministrazione resta silente o inerte a fronte di una istanza del cittadino.

La semplificazione amministrativa è un tema che ha profondamente interessato la vita di pubblici uffici e l’esercizio dell’attività amministrativa nel suo complesso.

Cosa vuol dire Semplificare?

Nel dizionario italiano è riportato che “semplificare” (ant. simplificare) - v. tr. dal latino medievale simplificare, comp. di simplexplicis “semplice” e tema di facere “fare” - vuol dire semplice o più semplice; rendere più agile e funzionale; facilitare, agevolare, alleggerire; o anche diventare più semplice; chiarirsi…omissis[1].

A questo punto è opportuno soffermarsi sull’altro concetto, ovvero quello di “silenzio”: cosa si intende per esso?

Nell’ambito di una procedura amministrativa il concetto di silenzio richiama quello della omissione deal provvedere.

Nel nostro ordinamento, il Legislatore guarda con sfavore all’inerzia, al non agire, al silenzio cd. inadempimento, giungendo finanche ad ascrivere al rifiuto od omissione di atti di ufficio una rilevanza di tipo penalistico (cfr. art. 328 c.p.).

Nell’ambito del diritto amministrativo la giurisprudenza, ancor prima del Legislatore, nella sua consueta preoccupazione di assicurare una effettiva e reale tutela giuridizionale, ha avvertito la necessità di elaborare delle tecniche remediali, opportunamente illustrate anche in vari scritti dottrinali[2].

La Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 10 del 10.03.1978, in accoglimento delle posizione di autorevole dottrina, ritenne possibile applicare al silenzio-rifiuto la procedura contemplata dall’art. 25 del d.P.R. 3 del 1957 (Testo Unico degli impiegati civili dello Stato), per cui, a fronte della inerzia della P.A., ove fossero decorsi inutilmente 60 giorni dalla presentazione di un’istanza, il privato aveva l’onere di diffidare e mettere in mora la P.A. intimandole di procedere entro un termine assegnato; decorso infruttuosamente tale termine, il privato poteva impugnare il silenzio-rifiuto dinanzi al giudice amministrativo.

Successivamente, il Legislatore ha ascritto, per alcune casistiche enucleate nella normativa, al silenzio dei pubblici uffici un valore provvedimentale tipico di rigetto o di accoglimento. Aldilà delle denominazioni all’uopo impiegate, ai fini della tutela degli interessi privati coinvolti e sottesi, l’aspetto di interesse era, ed è ancora, rappresentato dal valore provvedimentale tipico attribuito al comportamento silente, con la ovvia conseguenza della possibilità di impugnare il silenzio con valore così tipizzato dinanzi alla magistratura amministrativa alla stregua di un vero e proprio provvedimento espresso.

Tra i rimedi ipotizzati dalla legge n.  241, cit., nel testo attualmente in vigore, atti a fronteggiare l’assenza di risposta da parte degli uffici pubblici, spicca la generalizzazione del silenzio assenso introdotta nei procedimenti ad istanza di parte ex art. 20 nonché la disposizione di cui agli art. 2 e ss. in tema di silenzio -inadempimento e il riconoscimento del danno da ritardo, quale autonoma figura di danno in recepimento del diritto vivente e di pregressi orientamenti giurisprudenziali.

Tralasciando la disciplina del danno da ritardo, il Legislatore a fronte dell’inadempimento e dell’inerzia consente all’interessato di esperire l’azione di adempimento pubblicistico di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a.[3].

L’inerzia dei pubblici poteri si potrebbe colorare di un maggior disvalore, e di conseguente inaccettabilità, ove dovesse afferire allo svolgimento dei servizi pubblici essenziali, notoriamente di particolare interesse della collettività.

Quale branca della azione amministrativa particolarmente vicina al cittadino, l’ambito dei servizi essenziali molto più che in altri casi, richiede, invero, una reale efficienza, efficacia ed economicità quali espressioni del principio costituzionale di buon andamento della azione amministrativa.

Da una originaria visione Keynesiana, favorevole all’intervento dello stato nell’economia, propria del periodo successivo alla grande depressione del 1926, si è giunti al momento attuale in cui gli aiuti di stato sono stati visti con sfavore dal diritto eurounitario, come si evince argomentando dal dato sistematico ossia dagli artt. 106 e ss. del TFUE, posto che lo scopo principale della Unione Europea è la tutela del libero mercato e della libertà di concorrenza.

La disciplina dei servizi pubblici locali di interesse economico generale è stata caratterizzata da molte modifiche normative nel corso degli anni nonché dall’alternarsi di differenti forme giuridiche di gestione degli stessi. Molte di esse sono state realizzate attraverso lo strumento della decretazione d'urgenza, anche per la necessità di armonizzare la normativa nazionale con i principi dell'ordinamento UE nonché di una intervenuta abrogazione referendaria[4]. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla alternanza di normative che si sono succedute in tema di in house providing.

Di particolare interesse, alla luce di quanto esposto, è la tipologia di scelta di recente operata dal Legislatore, costituita dalla possibilità di demandare la gestione dei servizi pubblici essenziali a soggetti costituiti nella forma tipica delle società di capitali, come sancito dal d.lgs. n. 175 del 2016 (cd. TUSP altrimenti noto come testo unico sulle società a partecipazione pubblica)[5].

Dalla relazione di accompagnamento al testo normativo di cui trattasi, si evince che la ratio è rappresentata dalla necessità di assicurare un contenimento delle risorse pubbliche attraverso una oculata gestione delle partecipazioni societarie oltre che arginare il proliferare delle cariche sociali rinvenuto negli anni immediatamente precedenti alla entrata in vigore del TUSP[6].

È tuttavia molto interessante la scelta di prescrivere esclusivamente la forma societaria propria delle società di capitali. Esse, nell’impianto codicistico, sono, invero, deputate unicamente e tipicamente allo svolgimento di attività che perseguono uno scopo di lucro.

L’attività commerciale è tradizionalmente opposta alla nozione di servizio pubblico, per sua natura collettivo, trasparente, pubblico, destinato alla collettività. Tale antitesi, apparentemente contraddittoria, è in realtà mitigata dalla previsione dell’art. 4 del TUSP che consente la costituzione di società pubbliche solo per il perseguimento delle finalità di interesse pubblico ivi tassativamente indicate.

La scelta del Legislatore, tuttavia, resta peraltro molto interessante, posto che introduce nello svolgimento di attività amministrative la logica privatistica del profitto propria delle società di capitali.

Così costruita, tale modalità di gestione sembrerebbe davvero più garantistica di un’azione improntata ai criteri costituzionali di buon andamento, efficacia, efficienza ed economicità.

Quello che di certo interessa ai fini della presente trattazione, tuttavia, è che è evidente che nella legislazione più recente, anche alla luce delle soluzioni remediali profilate, la gestione dei pubblici servizi espletata per tramite di società a partecipazione pubblica, si colora di tratti particolarmente performanti e maggiormente vicini al cittadino in ossequio alla modernità del diritto eurounitario.

Le società di gestione dei servizi pubblici essenziali si potrebbero elevare, di tal fatta, come una voce nel silenzio dell’inerzia dell’esercizio dei pubblici poteri ove gestite davvero alla stregua di società privatistiche.

È stato autorevolmente osservato[7] che l’attività del Legislatore sul punto ha - negli ultimi anni - riguardato tre punti fondamentali.

Il primo aspetto ha riguardato l’introduzione di limiti all’operatività, all’attività o all’oggetto delle società a partecipazione pubblica, ciò essenzialmente per scongiurare potenziali distorsioni nei meccanismi concorrenziali con disagi per i soggetti presenti sul mercato operanti senza eventuali "garanzie" legate alla partecipazione pubblica.

Un secondo aspetto è stato volto ad operare una sorta di moralizzazione del fenomeno delle partecipazioni pubbliche allo scopo di porre dei vincoli necessari per evitare che la partecipazione pubblica possa di fatto tradursi in un cattivo uso delle risorse pubbliche (cosi ad esempio si pensi alle norme introduttive di limiti ai compensi o quelle finalizzate ad evitare un proliferare delle cariche sociali).

La terza direzione assunta dalla legislazione in argomento ha voluto evitare che il ricorso allo schermo privatistico si traduca di fatto in una elusione di quelle disposizioni normative utili per assicurare l’imparzialità del pubblico agire (si pensi, ad esempio, a quelle norme di rango costituzionale afferenti ai vincoli posti all’assunzione di personale nel campo pubblicistico).

Quanto sopra, per la dottrina citata, evidenzia un chiaro atteggiamento del legislatore italiano di sfavore nei confronti dell’impresa pubblica superiore ai contenuti del diritto eurounitario, il quale assume piuttosto un atteggiamento di completa neutralità posto che ciò che conta per il Legislatore comunitario è - invero - che l’impresa pubblica non sia caratterizzata da regimi privilegiati (come si argomenta dagli artt. 106 e ss del Trattato TFUE)

Ad oggi, allora, quid juris se il cittadino dovesse riscontrare un comportamento carente, inerte o silente anche delle società pubbliche?

Di certo detto ambito è dominato da uno strumento che potrebbe rivelarsi efficace, anche in un’ottica di customer sotisfaction e performance: la Carta dei Servizi.

Essa ha la valenza di “patto" con gli utenti, come evidenziato dal Dipartimento della funzione pubblica[8], e costituisce un utile strumento di tutela per i cittadini.

La Carta dei Servizi è il documento con il quale ogni Ente erogatore di servizi assume una serie di impegni nei confronti della propria utenza riguardo all’espletamento dei servizi, alle modalità di erogazione degli stessi nonché gli standard di qualità.

Essa, in particolare, è strutturata con la previsione di:

  • indicazione e definizione degli standard e della qualità del servizio;
  • semplificazione delle procedure anche tramite il ricorso alla informatizzazione;
  • costruzione del pacchetto dei servizi offerti;
  • promozione del servizio sul territorio;
  • verifica del rispetto degli standard del caso;
  • predisposizione di procedure customer satisfaction volte ad assicurare un efficace auto-controllo;
  • in caso di disservizio, il diritto alla tutela esercitabile mediante lo strumento del reclamo;
  • coinvolgimento e partecipazione del cittadino-utente nelle procedure.

Attraverso la Carte dei Servizi il soggetto che offre un servizio pubblico è tenuto ad individuare gli standard della propria prestazione, alla enunciazione dei propri obiettivi in una fattiva ottica di riconoscimento dei diritti del cittadino.

La Carta, il cui punto di partenza è rinvenibile nella Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministero del 27.01.1994[9], assurge anche a strumento fondamentale con il quale si onora il principio di trasparenza, alla luce di una dichiarata enunciazione dei diritti dell’utenza e dei doveri del personale preposto.

La menzionata direttiva dispone di adottare:

  • standard di qualità del servizio;
  • onere di valutazione della qualità dei servizi;
  • rimborso agli interessati in caso di dimostrazione che il servizio reso è inferiore per qualità e tempestività agli standard pubblicati.

Le società pubbliche si pongono alla stregua di un giano bifronte costituito da un lato pubblicistico e uno privatistico.

Di ciò ne costituisce prova, da un lato, la previsione di Authorities preposte dalla regolamentazione di tali ambiti, quale soggetto neutrale dotato finanche di poteri sanzionatori esercitabili all’occorrenza; dall’altro, sul fronte processuale, interessante risulta la previsione voluta dal Legislatore, del rimedio della class action pubblica[10] esperibile, quale rimedio accessorio ai sensi del d.lgs. n. 198/2009, attuativo della nota Legge Brunetta (legge n. 150/2009) in materia di efficienza della Pubblica Amministrazione.

Tale rimedio consente ai titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei di agire in giudizio nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici, ove in occasione dello svolgimento delle funzioni ed attività cui sono preposti, sia intervenuta una lesione diretta, concreta e attuale di diritti.

In particolare, l’art. 1 del d.lgs. n. 198, cit. prevede che l’azione sia esercitabile nei casi di:

  • violazione degli standard del servizio;
  • violazione degli obblighi ascrivibili alle Carte dei Servizi;
  • omesso esercizio di poteri di vigilanza, di controllo o sanzionatori;
  • violazione di termini;
  • mancata adozione di atti.

In merito, si è discusso circa i limiti effettivi di esperibilità del rimedio di cui trattasi, il quale, di certo, tende a ristabilire quello che è un corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio.

Talvolta - poi - sono stati posti dei dubbi anche sulla compatibilità di tale azione con il rimedio processuale dell’azione di adempimento pubblicistico, volta a per neutralizzare il silenzio inadempimento dell’amministrazione, ex artt. 31 e 117 c.p.a..

Circa i rapporti tra la class action e altri rimedi, tra cui figura anche l’azione avverso il silenzio, è stato correttamente osservato che si può considerare per tutti il caso affrontato in passato dal TAR Lazio, Sez. II, 30.07.2012, n. 7028 (sulla ludopatia) secondo cui: “La class action rappresenta uno strumento di tutela aggiuntivo rispetto a quelli tradizionalmente previsti dal codice del processo. Ai fini della legittimazione attiva esso è azionabile da parte di soggetti titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori oppure altresì da" associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati comunque appartenenti alla pluralità citata.[11].

Sotto il profilo della legittimazione passiva è, come poc’anzi anticipato, lo stesso dato letterale della norma di cui all’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 198, cit., ad enucleare come soggetti passivi “le amministrazioni pubbliche e i concessionari di servizi pubblici”.

In un’ottica di esame degli aspetti in argomento, in combinazione con la gestione dei servizi pubblici essenziali, il TAR Lazio (Sez. III-ter, 16.09.2013, n. 8288 sulla diffusione delle trasmissioni radiotelevisive) aveva già affrontato la tematica afferente al rispetto degli obblighi di servizio, ove previamente individuati, ciò anche a prescindere dall’eventuale adozione delle Carte di servizio o degli standard di qualità. In tal senso è stato esteso il principio della immediata coercibilità all’obbligo per un concessionario di servizio pubblico (la RAI) di garantire "la diffusione di tutte le trasmissioni televisive e radiofoniche di pubblico servizio con copertura integrale del territorio nazionale, per quanto consentito dalla scienza e dalla tecnica", in considerazione del fatto che il Legislatore, con l'art. 45 d.lgs. n. 177 del 2005, ha individuato tale obbligo a carico della P.A.. La RAI - Radiotelevisione Italiana - è, invero, la società concessionaria esclusiva del Servizio Pubblico radiotelevisivo e multimediale. Ciò significa che essa è tenuta a garantire, quale servizio di interesse generale, il raggiungimento di obiettivi di pubblica utilità attraverso una attività di comunicazione istituzionale completa e imparziale che indubbiamente deve essere improntata a determinati standard qualitativi.

La tematica in argomento non può, per evidenti ragioni di completezza, prescindere da forme di controllo sull’attività delle società partecipate che gestiscono i servizi pubblici. Immanente al principio di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa è l’attività amministrativa di controllo, negli ultimi anni implementata dal Legislatore con evidente favore verso forme di controllo di tipo meramente interno in coerenza con una attività amministrativa sempre più vicina all’utenza e sempre meno posta in posizione di supremazia. In tale assetto si colloca l’attuale art. 147-quater del TUEL (d.lgs. n. 267/2000). La menzionata normativa prevede che gli Enti locali con popolazione superiore a 15.000 abitanti, secondo la propria autonomia organizzativa, debbano istituire con apposita regolamentazione, un sistema di controlli sulle società partecipate svolto direttamente dalle strutture dell’ente medesimo.

Sostanzialmente il Legislatore mira alla costituzione di un adeguato sistema finalizzato a rilevare i seguenti profili basilari[12]:

  1. i rapporti anche di tipo finanziario;
  2. la situazione contabile, gestionale ed organizzativa delle partecipate;
  3. i contratti di servizio cui è riferito altresì il comma 3-bis dell’art. 243 TUEL.

La regolamentazione di cui trattasi deve altresì afferire alla qualità dei servizi attesi e al rispetto delle norme sui vincoli di finanza pubblica.

L’amministrazione deve inoltre indicare gli obiettivi gestionali a cui deve tendere ciascuna società partecipata, secondo standard qualitativi e quantitativi predeterminati, all’interno del DUP (Documento unico di programmazione). L’Ente locale effettua poi un monitoraggio periodico circa l’andamento delle società partecipate, anche e soprattutto al fine di porre in essere, in tempo utile, possibili interventi correttivi volti a ridurre squilibri economico finanziari impattanti anche sui bilanci.

I risultati complessivi della gestione dell’ente e delle società partecipate sono, infine, rilevati mediante il bilancio consolidato, secondo i principi propri della competenza economica.

Tra gli strumenti utili riferiti alle società partecipate figura, altresì, il procedimento di revisione periodica delle società partecipate effettuato con cadenza annuale circa l’assetto complessivo delle società in cui detengono partecipazioni dirette o indirette. Tale flusso è preordinato a valutare, ai sensi dell’art. 20, comma 2 del TUSP, eventuali necessità di processi di razionalizzazione delle rispettive partecipazioni societarie.

Tutto quanto esposto consente all’Ente locale di avere un quadro d’insieme di tutte le società partecipate, tuttavia non sono previste forme di sostituzione in caso di inerzia nel rispetto dell’autonomia propria dei soggetti coinvolti, in difetto si determinerebbe una implicita rinunzia allo schermo societario proprio delle società di capitali connotate da autonomia patrimoniale perfetta quale tipologia societaria espressamente voluta dal Legislatore nel d.lgs. n. 175 del 2016, a tutela delle finanze e risorse pubbliche.


[1] Vocabolario on line Treccani.

[2] G. LENTINI, Silenzio della Pubblica Amministrazione e tutela dei cittadini, 12 febbraio 2009, in www.diritto.it.

 

[3] Per approfondire: https://www.diritto.it/lazione-di-condanna-nel-processo-amministrativo/

 

[4] In: https://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1104802.pdf.

[5] cfr. F. A. CANCILLA, Le Società a partecipazione Pubblica, Direkta Editore, 2019.

[6] Per la relazione illustrativa si veda: https://www.camera.it.

 

[7] G. URBANO, Le società a partecipazione pubblica tra tutela della concorrenza, moralizzazione e amministrativizzazione, in AMMINISTRAZIONE IN CAMMINO, Rivista di diritto pubblico, di diritto amministrativo, di diritto dell'economia e di scienza dell'amministrazione a cura del Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche "Vittorio Bachelet" Direttori Prof. Giuseppe Di Gaspare, Prof. Bernardo Giorgio Mattarella e Prof. Aristide Police.

 

[9] per approfondire: https://www.mise.gov.it/it/comunicazioni.

 

[10] Si veda: https://www.altalex.com/documents/news/2010/03/23/la-class-action-nella-p-a oltre https://www.foroeuropeo.it/aree-sezioni/ebook-quaderni-giuridici-foroeuropeo/3356-attualita-2010-azione-classe-3 e http://www.salvisjuribus.it/classi-pollaio-dalla-prima-class-action-pubblica-ad-oggi/ ed ancora Consiglio di Stato - Ufficio Studi, massimario e formazione RASSEGNA MONOTEMATICA DI GIURISPRUDENZA  a cura di Maria Laura Maddalena, aggiornata al 31 dicembre 2018 da Maurizio Santise.

 

[11] M.L. MADDALENA, La class action pubblica, in RASSEGNA MONOTEMATICA DI GIURISPRUDENZA.

 

[12] STUDIO SIGAUDO, Il controllo di gestione negli enti locali e le società partecipate, in https://studiosigaudo.com/controllo-gestione-enti-locali-societa- partecipate/