Corte di Cassazione, sez. III^ civile, 11 aprile 2024, n. 9818.

La linea di demarcazione tra appalti pubblici di servizi e concessioni di servizi (per il resto accomunati sia dall’identica qualificazione in termini di «contratti» che dall’omologia dell’oggetto materiale dell’affidamento) è netta, poiché l’appalto pubblico di servizi, a differenza della concessione di servizi, riguarda di regola servizi resi alla pubblica amministrazione e non al pubblico degli utenti, non comporta il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione, ed infine non determina, in ragione delle modalità di remunerazione, l’assunzione del rischio di gestione da parte dell’affidatario.

 

FATTI DI CAUSA

1. L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (d’ora in poi, “Agenzia”), quale successore “ex lege” dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, ricorre, sulla base di otto motivi, per la cassazione della sentenza n. 2140/20, del 29 aprile 2020, della Corte d’appello di Roma, che – nel respingerne il gravame avverso la sentenza n. 1002/14, del 7 maggio 2013, del Tribunale di Roma – ha confermato la condanna della predetta Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato a risarcire il danno cagionato alle società Extra Games S.r.l., C.F. S.r.l., C.N.G. S.r.l. e a Massimo Loddo, in ragione della necessità di dismettere apparecchi da gioco, pur inizialmente muniti dei prescritti nulla osta di distribuzione e di messa in esercizio ex art. 39 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, rivelatisi non conformi alle prescrizioni di legge.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente che le predette società Extra Games, C.F. e G.N.G., e il Loddo – tutti operatori nel mercato dell’installazione del noleggio di apparecchi di intrattenimento di cui all’art. 110 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 – ebbero a convenire in giudizio l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (d’ora in poi, “AAMS”), e con essa il Ministero dell’Economia e della Finanze, per conseguire il risarcimento del danno derivante dall’aver considerato conformi alle prescrizioni normative gli apparecchi di divertimento con schede “Black Slot”, “Stack Slot” e “Terza Dimensione”, avendo l’AAMS rilasciato, in relazione ad essi, i prescritti nulla osta di distribuzione e di messa in esercizio, ex art. 38 della legge n. 388 del 2000.

Gli attori deducevano di aver acquistato, complessivamente, circa quattrocento esemplari di tali apparecchi, che erano stati, tuttavia, costretti a dismettere, assumendo di essersi dovuti determinare in tal senso in forza di quanto comunicatogli dall’AAMS. La medesima, infatti, inviava dapprima la nota del 16 gennaio 2007, avente ad oggetto la dismissione degli apparecchi “Black Slot” (risultati non conformi alle prescrizioni normative per il gioco lecito, a seguito di perizia effettuata dalla società SOGEI S.p.a., partner tecnologico della predetta amministrazione), e, poi, un’ulteriore informativa del successivo 4 luglio, con cui rendeva noto come la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Venezia avesse invitato tutti i gestori di apparecchi rientranti nella tipologia “Stack Slot” e “Terza Dimensione”, oltre che “Black Slot”, alla loro dismissione. Iniziativa, questa assunta dal Pubblico Ministero veneziano, dopo che il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale lagunare aveva accolto la sua richiesta di sequestro preventivo ex art. 321 cod. proc. pen. (per la cui esecuzione veniva delegata la Guardia di Finanza) di tutti gli apparecchi “de quibus”, ovunque ubicati e da chiunque detenuti nel territorio nazionale, giacché “intrinsecamente funzionali al gioco di azzardo”.

Tanto premesso, parte attrice, lamentando di aver legittimamente confidato nel corretto comportamento di AAMS, essendosi determinata ad acquistare tali apparecchi da gioco, giacché tutti muniti dei prescritti certificati di conformità e nulla osta alla distribuzione, agiva nei confronti della stessa – oltre che del MEF – per conseguire il ristoro del pregiudizio non soltanto derivante dalla loro dismissione, ma anche dalla lesione alla propria indagine commerciale.

Si costituivano in giudizio le convenute per resistere alla domanda, adducendo l’assenza di qualsiasi loro responsabilità, soprattutto sul rilievo che il rilascio del certificato di conformità costituiva “atto dovuto”, in quanto meramente ricognitivo dell’acclarata conformità degli apparecchi al modello legale, all’esito della verifica tecnica delegata da AAMS all’Organismo certificatore. Inoltre, a dimostrazione dell’incertezza del dato normativo regolante la fattispecie, le convenute sottolineavano come la stessa Procura della Repubblica veneziana avesse poi disposto, in data 19 ottobre 2007, il dissequestro degli apparecchi con scheda di gioco “Black Slot”, versione 1.05.

Precisa, peraltro, l’odierna ricorrente – per “completezza espositiva” – che due delle tre società attrici (esattamente, Extra Games e C.N.G.) dispiegavano intervento volontario in un ulteriore giudizio, anch’esso pendente presso il Tribunale di Roma, instaurato da un altro operatore del settore – società Nuova Fogam S.a.s. – per ottenere il ristoro anche del “lucro cessante”, ovvero del “mancato guadagno” conseguente alla dismissione degli apparecchi suddetti. Disposta, in quel giudizio, la separazione delle cause (quella proposta dall’attrice Nuova Fogam, peraltro, risultando – secondo quanto riferito sempre dall’odierna ricorrente – ancora “sub iudice”, atteso che la condanna al risarcimento del danno disposta a carico della convenuta amministrazione, ma poi ridotta in appello, risulta essere stata sottoposta al vaglio di questa Suprema Corte con ricorso recante il numero di RG 3093/20), quella instaurata dalle intervenienti veniva giudicata improponibile, per abusivo frazionamento del credito, con decisione resa definitiva da questo giudice di legittimità, con ordinanza del 7 marzo 2019, n. 6591.

Sempre per completezza espositiva, l’odierna ricorrente evidenzia che il procedimento penale, relativo alle ipotesi di reato di cui agli artt. 718, 480, 481 e 416 cod. pen., instaurato su iniziativa della Procura della Repubblica di Venezia, ebbe a sfociare in un giudizio – nel quale l’AAMS si era costituita parte civile – conclusosi con sentenza del n. 106 del 12 dicembre 2012 del Tribunale lagunare. Tale pronuncia, se da un lato assolveva gli imputati (produttori di schede di gioco, produttori e gestori di apparecchi di divertimento e responsabili degli organismi di certificazione per l’omologazione di questi ultimi) dagli addebiti relativi ai contestati delitti di falso e associazione per delinquere, dichiarava, invece, la prescrizione del reato di esercizio di gioco d’azzardo. Ciò che determinava, pertanto, la confisca delle somme di denaro e degli apparecchi da gioco (schede e hardware), salvo i mobili che li contenevano, essi soltanto da restituire agli aventi diritto, se amovibili.

Tanto precisato, l’odierna ricorrente riferisce che l’esito del giudizio intentato dalla tre predette società e dal Loddo, per il risarcimento del danno emergente (ovvero quello di cui al presente ricorso), ebbe a consistere nell’accoglimento della domanda risarcitoria, quanto alla pretesa relativa alla dismissione degli apparecchi, con decisione poi confermata in appello, in ragione del gravame esperito dall’Agenzia, quale successore “ex lege” di AAMS.

3. Avverso la sentenza della Corte capitolina ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia, sulla base – come detto – di otto motivi.

3.1. Il primo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione dell’art. 81 cod. proc. civ., degli artt. 2043, 1228 e 2049 cod. civ., oltre che dell’art. 38 della legge n. 388 del 2000, nonché degli artt. 1218 e 1362 cod. civ.

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui – nel decidere sul terzo motivo di gravame dell’Agenzia, con cui veniva reiterata l’eccezione secondo cui l’unico soggetto legittimato passivamente doveva individuarsi nell’Organismo di certificazione (società Cermet S.c.a.r.l.), essendo il nulla osta alla commercializzazione del dispositivo, adottato da AAMS, un atto meramente ricognitivo e, dunque, “dovuto” sulla base di quanto, in precedenza, certificato – ne ha affermato l’infondatezza. Esito al quale la Corte romana è pervenuta rilevando che “l’affidamento dell’attività di verifica tecnica a terzi ha carattere endoprocedimentale”, sicché “è da escludere la riconducibilità della stessa alle fattispecie tipiche della concessione o della delega di poteri”, con conseguente impossibilità di attribuire “alcun significato alla circostanza che il contenuto della certificazione dell’Amministrazione” fosse “vincolato all’esito della verifica tecnica”. La convenzione, dunque, intervenuta tra AAMS e Cermet – secondo la sentenza impugnata – non comportava “alcun trasferimento di funzioni pubbliche, realizzando piuttosto un appalto di servizi strumentale nell’ambito del procedimento di formazione dell’atto amministrativo (nulla osta), allo svolgimento delle certifiche tecniche necessarie”; di conseguenza, opererebbero “solo tra le parti” quelle clausole della convenzione (art. 6.2.) “in forza delle quali l’Organismo di certificazione si impegna a garantire e tenere indenne l’amministrazione per le pretese che produttori, importatori o altri possano far valere in relazione all’attività svolta dallo stesso Organismo ed a sollevare AAMS da ogni responsabilità civile verso terzi, comunque connesse alle attività e funzioni svolte dall’Organismo in esecuzione della convenzione pur se accertata giudizialmente”.

Tali affermazioni, secondo la ricorrente, sarebbero erronee, per due ordini di ragioni.

Avrebbero errato i giudici di appello nel negare – alla luce della disciplina recata dall’art. 38, comma 3, della legge n. 388 del 2000 – che la convenzione conclusa tra AAMS e Cermet concretizzasse una concessione di servizi, visto che l’organismo di certificazione assumeva, in base ad essa, i rischi connessi alla realizzazione ed alla gestione del servizio, traendo la sua remunerazione dall’utilizzazione, tanto che esso si impegnava, sotto la propria responsabilità, a garantire e tenere indenne AAMS da qualsiasi pretesa che produttore, importatore o altri potessero far valere, a qualsiasi titolo, in relazione all’attività svolta. È quanto confermerebbe la correlazione esistente tra il predetto art. 6.2 della convenzione e il precedente art. 4, a mente del quale l’organismo di certificazione risulta, tra l’altro, impegnato a “garantire e tenere indenne AAMS da qualsiasi pretesa che il produttore o importatore o altri possano far valere a qualsiasi titolo in relazione all’attività svolta dallo stesso Organismo, in forza della presente Convenzione, ivi inclusa espressamente quella di verifica”.

D’altra parte, anche ad accedere alla tesi della Corte territoriale che esclude un formale trasferimento di funzioni pubbliche, si dovrebbe qualificare quello intercorso tra AAMS e Cermet come “appalto di servizi strumentale”, donde la responsabilità del solo appaltatore, dovendo escludersi ogni responsabilità del committente, in difetto sia di violazione di specifiche regole di cautela nascenti dall’art. 2043 cod. civ. sia di “culpa in eligendo”, visto che l’organo certificatore è risultato in possesso di tutti i requisiti previsti dal decreto interdirettoriale del 4 dicembre 2003 (adottato d’intesa dal Direttore Generale dell’AAMS e dal Capo della Polizia) in materia di regole per la verifica tecnica degli apparecchi e congegni da divertimento e intrattenimento.

3.2. Il secondo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ. – omessa pronuncia sui motivi di appello.

Si duole, in particolare, la ricorrente del fatto che la Corte capitolina avrebbe omesso di pronunciarsi sul secondo motivo di gravame, con il quale essa Agenzia aveva censurato la decisione del primo giudice per aver accolto la domanda risarcitoria travisando i fatti con una motivazione insufficiente e contraddittoria. In particolare, l’allora appellante si era doluta del fatto che il Tribunale avrebbe dovuto rilevare che:

– AAMS non aveva ordinato il ritiro di tutte e tre le tipologie di apparecchi, ma della sola “Black Slot”, o meglio del suo modello “Flexy Screen”;

– che l’indagine della Procura veneziana non aveva correlazione alcuna con l’attività amministrativa di controllo posta in essere da AAMS;

– che l’ordine di ritiro degli apparecchi era stato disposto dall’autorità giudiziaria e non da AMMS.

3.3. Il terzo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ. – omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e mancata valutazione di documenti decisivi per la controversia.

Si censura, in questo caso, la sentenza impugnata per non aver rilevato che l’attività di certificazione posta in essere dall’Amministrazione non poteva aver ingenerato alcun legittimo affidamento nelle controparti, poiché l’attestazione di conformità era stata richiesta per i singoli modelli dai produttori/importatori degli apparecchi, e non di chi li aveva poi acquistati, sicché essa poteva spiegare effetti unicamente nei confronti dei primi.

Viene addebitato, inoltre, alla Corte territoriale di non aver rilevato l’assenza di qualsiasi correlazione causale tra la presunta condotta negligente di AAMS e il danno lamentato dagli attori, circostanza comprovata dal fatto che la dismissione degli apparecchi da gioco è stata determinata esclusivamente dall’adesione ad un invito dell’autorità giudiziaria, finalizzato ad evitare l’esecuzione del sequestro degli stessi già disposto dal G.i.p. del Tribunale di Venezia.

Né ad escludere l’ammissibilità del presente motivo potrebbe addursi la circostanza che, nella specie, ricorre l’ipotesi della c.d. “doppia conforme” di merito, donde l’applicabilità dell’art. 348- ter, ultimo comma, cod. proc. civ., giacché essa presuppone che nei due gradi di merito le questioni di fatto siano state decise in base alle stesse ragioni, non operando, invece, allorché l’informazione probatoria sia del tutto mancata (è richiamata Cass. Sez. 6-5, ord. 5 novembre 2018, n. 28174).

3.4. Il quarto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1223 e 2043 cod. civ., oltre che dell’art. 38 della legge n. 388 del 2003.

Si censura la sentenza impugnata per aver male interpretato la normativa di settore, in particolare per aver erroneamente ritenuto che la responsabilità dell’Agenzia debba essere ascritta al rilascio di certificazioni attestanti la conformità a legge di apparecchi che tali non erano, come accertato dal Tribunale di Venezia, nonché per aver erroneamente ritenuto che tali certificazioni avrebbero creato l’incolpevole affidamento dei già attori/appellati, i quali, diversamente, non avrebbero acquistato tali apparecchi.

Si ribadisce, infatti, che l’AAMS – oggi l’Agenzia – risulta esclusivamente tenuta, a norma dell’art. 38, comma 3, della legge n. 388 del 2000, ad attestare l’esito positivo della verifica tecnica demandata a terzi, sicché non è essa a certificare la regolarità degli apparecchi, la quale risulta, piuttosto, autocertificata dagli stessi produttori (ai sensi del comma 4 del già citato art. 38 della legge suddetta) sulla base della conformità del modello prototipale previamente sottoposto alla verifica tecnica condotta dall’Organismo certificatore. È, dunque, solo all’esito di tale procedimento che viene emesso il nulla osta alla distribuzione, il quale è pertanto rilasciato sulla base della suddetta autocertificazione del produttore, senza alcun intervento, al riguardo, dell’Amministrazione, il cui operato, quindi, è inidoneo a ingenerare alcun tipo di affidamento.

3.5. Il quinto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ. – nullità della sentenza per violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.

Si censura la sentenza impugnata per aver affermato la non conformità degli apparecchi (peraltro, fatto per nulla pacifico tra le parti, essendo stato contestato dapprima dall’AAMS e poi dall’Agenzia, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte capitolina), avendo essa considerato come facenti piena prova, e quindi recependoli senza alcun apprezzamento critico, gli elementi probatori acquisiti in sede penale, che erano, invece, soggetti alla libera valutazione del giudice. E ciò specie in considerazione del fatto che la sentenza di non doversi procedere, per intervenuta prescrizione del reato di gioco d’azzardo, non poteva essere assimilata ad una sentenza di condanna (a norma dell’art. 651 cod. proc. pen.).

La pronuncia è, inoltre, censurata per aver escluso a priori lo scrutinio di un documento – la relazione peritale a firma dell’Ing. Caminada, formata nel già menzionato giudizio incardinato da Nuova Fogam (e nel quale erano intervenute le società Extra Game e C.N.G., salvo la successiva separazione del giudizio ad esse relativo, con conseguente esito dell’improponibilità della loro domanda per abusivo frazionamento del credito) – ritenendolo “inopponibile” alle parti, così negando ad esso, in astratto, qualsiasi valore probatorio in mancanza di un qualsiasi divieto di legge.

3.6. Il sesto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, nn. 3) e 4), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt. 115, 116, 166 e 167 cod. proc. civ.

In questo caso la ricorrente si duole del fatto che la Corte romana avrebbe “erroneamente individuato l’ambito operativo del principio di non contestazione”, ritenendo che “l’accertamento della non conformità a legge degli apparecchi, operato in sede penale, sia stato avallato dall’Agenzia”. E ciò senza, peraltro, considerare – oltre alla circostanza che la comparsa di risposta di primo grado risaliva al 30 dicembre 2008, mentre la sentenza del Tribunale di Venezia è del 12 dicembre 2012 – che sulla parte convenuta “non gravava alcun onere di contestare allegazioni di parte attrice non univoche e non puntuali” (e ciò in quanto l’onere di contestazione presuppone quello di specifica allegazione, nella specie non soddisfatto dagli attori), allegazioni per di più “riguardanti valutazioni di carattere tecnico e circostanze ad essa ignote”, le une come le altre estranee all’operatività del principio di non contestazione, non applicabile con riferimento alle valutazioni del consulente tecnico d’ufficio ed operante solo rispetto ai fatti noti alla parte.

3.7. Il settimo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ. – nullità della sentenza per assenza di motivazione e, dunque, per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ. e dell’art. 111 Cost.

Si addebita alla Corte territoriale di aver affermato la responsabilità per colpa dell’Agenzia nel rilascio delle certificazioni di conformità con una sentenza gravemente viziata sotto il profilo motivazionale, giacché essa non ha minimante considerato i rilievi svolti dall’appellante – in particolare, con il quinto motivo del proprio atto di gravame – per dimostrare l’errore commesso dal primo giudice sul punto, rilievi che, ove fossero stati invece apprezzati, avrebbero determinato la riforma della sentenza appellata, alla quale, invece, il giudice di seconde cure si sarebbe acriticamente conformata.

3.8. Infine, l’ottavo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt. 115, 116, 166, 167 e 345 cod. proc. civ., nonché degli artt. 1223, 1227, comma 2, 1241, 2043 e 2056 cod. civ. In questo caso, si censura la sentenza impugnata per aver confermato l’esistenza del danno “ex adverso” lamentato e le statuizioni di condanna emesse in primo grado, senza considerare che l’Agenzia, pur non essendo onerata, aveva contestato la titolarità del diritto fatto valere in giudizio da parte attrice, nonché la prova dell’acquisto degli apparecchi e della loro dismissione e, in particolare, la “copiosa documentazione” versata in atti dalle controparti, in quanto inidonea a fornire tale prova, ivi incluse le “fatture esibite”.

La ricorrente lamenta, inoltre, che il giudice d’appello non abbia applicato l’art. 1227, comma 2, cod. civ., per aver disconosciuto il principio della “compensatio lucri cum damno”, ritenendolo operante solo allorquando si controverta sulla liquidazione del lucro cessante.

4. Hanno resistito all’avversaria impugnazione, con un unico controricorso, le società Extra Games, C.F. e C.N.G., chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata.

5. È rimasto solo intimato Massimo Loddo.

6. La trattazione del presente ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.

7. La controricorrente ha depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

8. Il ricorso va rigettato.

8.1. Il primo motivo di ricorso non è fondato, sebbene la motivazione della Corte capitolina – in punto di qualificazione del rapporto intercorso tra AAMS e Organismi di certificazione – vada corretta, a norma dell’art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ.

8.1.1. Malgrado, infatti, sia esatta la tesi avanzata dalla ricorrente in via di principalità, ovvero quella che ricostruisce la relazione che si instaura – a norma dell’art. 38, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 – tra essa Agenzia e gli Organismi di certificazione alla stregua di un trasferimento di funzioni pubbliche, “sub specie” di concessione di servizi, il rilievo, come si vedrà, non giova alla ricorrente.

8.1.1.1. Sul punto, occorre muovere da una ricostruzione del quadro normativo di riferimento, anche nel suo sviluppo diacronico.

Al riguardo, va innanzitutto osservato che con l’art. 22 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 si è provveduto al riordino della disciplina riguardante gli apparecchi da divertimento e intrattenimento, introducendosi anche misure di contrasto all’uso illegale o irregolare dei predetti apparecchi. In particolare, si è disposta la modifica del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), inserendosi, all’articolo 110, comma 6, la previsione di una nuova categoria di apparecchi e congegni automatici, semiautomatici ed elettronici, che, diversamente dalla previgente disciplina, consentono ridotte vincite in denaro e nel cui funzionamento gli elementi di abilità ed intrattenimento sono preponderanti rispetto a quelli aleatori. Nel contempo, però, modificando il testo dell’art. 38, comma 3, della l. n. 388 del 2000, si è stabilito che tali apparecchi devono ricevere da AAMS (oggi, dall’Agenzia) la certificazione di conformità alle prescrizioni per il gioco lecito, sulla base della verifica tecnica delle loro caratteristiche e del loro funzionamento.

Ad integrazione (e attuazione) della disciplina legislativa, AAMS ebbe a predisporre, d’intesa con il Ministero dell’Interno[1]Dipartimento di pubblica sicurezza, le regole di produzione e di verifica delle apparecchiature in questione, trasfuse in un apposito decreto interdirettoriale del 4 dicembre 2003, richiamato in atti.

Per l’esecuzione della necessaria verifica tecnica delle apparecchiature in questione, l’articolo 38, comma 3, della legge n. 388 del 2000 prevede la facoltà per AAMS (oggi per l’Agenzia) “di stipulare convenzioni con organismi di certificazione ed ispezione in possesso dei requisiti indicati dal citato provvedimento interdirettoriale”.

Orbene, tra le diverse possibili alternative, si è scelto un sistema di “outsourcing”, allocando a soggetti esterni all’Amministrazione pubblica tale attività di verifica, e ciò in armonia con quanto avviene negli Stati dell’Unione Europea, essendosi ritenuta tale opzione quella attuabile in tempi brevi, oltre che la più idonea a consentire all’Amministrazione di evitare gli eccessivi oneri conseguenti all’eventuale approntamento di appositi uffici e strutture tecniche.

Ciò detto, per disciplinare i rapporti tra AAMS (oggi Agenzia) e i predetti Organismi di certificazione, è stato stilato, dalla prima, uno schema di convenzione-tipo predisposto per la disciplina del rapporto con i suddetti Organismi di certificazione ed ispezione, sottoposto all’esame del Consiglio di Stato, ai sensi dell’articolo 17, comma 25, lettera c), della legge n. 15 maggio 1997, n. 127.

È sulla base di tale schema, dunque, che risulta redatta la convenzione, richiamata in atti, intercorsa, nella specie, tra AAMS e la società Cervet, atto la cui natura – di concessione di servizio pubblico o, all’opposto, di appalto di servizi – deve essere vagliata alla luce di principi affermati, in materia, dalla giurisprudenza ordinaria e amministrativa.

8.1.1.2. Difatti, come questa Corte, da tempo, ha sancito, richiamandosi ad omologhe conclusioni già raggiunte dal Consiglio di Stato (Cons. St. Sez. V, sent. 9 settembre 2011, n. 5068), le concessioni, nel quadro del diritto dell’Unione Europea, “si distinguono dagli appalti non per il titolo provvedimentale dell’attività” (sicché, sotto questo profilo, il “nomen iuris” di “convenzione” è un indice, di per sé, non decisivo), “né per il fatto che ci si trovi di fronte ad una vicenda di trasferimento di pubblici poteri o di ampliamento della sfera giuridica del privato (che sarebbe un fenomeno tipico della concessione in una prospettiva coltivata da tradizionali orientamenti dottrinali), né per la loro natura autoritativa o provvedimentale rispetto alla natura contrattuale dell’appalto, ma per il fenomeno di traslazione dell’alea inerente una certa attività in capo al soggetto privato” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 6 maggio 2015, n. 9139, Rv. 635214-01; identicamente, sempre in motivazione, Cass. Sez. 5, ord. 11 agosto 2020, n. 16889, Rv. 658697-01; in senso conforme anche Cass. Sez. 6-2, ord. 17 marzo 2022, n. 8692, Rv. 664436-01).

In altri termini, “la caratteristica principale della concessione, ossia l’autorizzazione a gestire o sfruttare un’opera o un servizio, implica sempre il trasferimento al concessionario di un rischio operativo di natura economica che comporta la possibilità di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati ed i costi sostenuti per realizzare i lavori o i servizi”, rischio dal quale il concessionario si garantisce “rifacendosi essenzialmente sull’utenza per mezzo della riscossione di un qualsiasi tipo di canone o tariffa” (così, in motivazione, Cass. Sez. 5, ord. n. 16889 del 2020, cit.; analogamente Cass. sez. 6-3, ord. n. 9139 del 2015, cit.).

In conclusione, la “linea di demarcazione tra appalti pubblici di servizi e concessioni di servizi (per il resto accomunati sia dall’identica qualificazione in termini di «contratti» che dall’omologia dell’oggetto materiale dell’affidamento) è netta, poiché l’appalto pubblico di servizi, a differenza della concessione di servizi, riguarda di regola servizi resi alla pubblica amministrazione e non al pubblico degli utenti, non comporta il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione, ed infine non determina, in ragione delle modalità di remunerazione, l’assunzione del rischio di gestione da parte dell’affidatario (così, nuovamente, Cass. Sez. 6-3, ord. n. 9139 del 2015, cit., che richiama le conclusioni raggiunte, nel medesimo senso dalla giurisprudenza dell’Unione Europea, in particolare CGUE, sent. 13 ottobre 2005, Parking Brixen GmbH, in C-458/03; in senso conforme si veda anche CUGE, sent. 13 novembre 2008, Commissione c. Repubblica Italiana in C-437/07).

8.1.1.3. Orbene, alla luce di quanto appena osservato, non è corretta la qualificazione – operata dalla Corte territoriale – del rapporto tra l’AAMS (oggi l’Agenzia) e gli organismi di certificazione come appalto di servizio.

Conclusione, peraltro, basata quasi esclusivamente sul rilievo del “carattere endoprocedimentale” dell’attività svolta dai suddetti organismi, dovendo invece valorizzarsi, in senso contrario, ovvero per la natura concessoria del rapporto tra essi e l’Agenzia (già AAMS), la circostanza che tale attività, oltre ad indirizzarsi nei confronti di tutti gli operatori del settore, risulta direttamente remunerata da quanti, tra essi, ne abbiano fatto richiesta (visto che a norma dell’art. 8, ultimo comma, del già citato decreto interdirettoriale del 4 dicembre 2003, gli “oneri specificamente connessi alle attività di verifica tecnica restano a carico dei soggetti richiedenti). Difatti, come detto, “il proprium della concessione sta nella somministrazione del servizio a favore della generalità degli utenti, e non solo alla pubblica amministrazione”, così come quello dell’appalto pubblico di servizi consiste nel fatto che esso “comporta un corrispettivo che è pagato direttamente dall’amministrazione aggiudicatrice al prestatore di servizi” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 20 aprile 2017, n. 9965, Rv. 643784-01).

8.1.2. Tali rilievi, però, non giovano – come premesso – all’odierna ricorrente. 8.1.2.1. Difatti, ciò che ha formato oggetto di concessione resta, pur sempre, la certificazione della conformità a legge degli apparecchi e congegni di intrattenimento e divertimento, o meglio, dei loro modelli prototipiali, mentre il titolo della responsabilità fatto valere nei confronti dell’Agenzia è stato individuato – dai già attori, prima, e da ambo i giudici di merito, poi – innanzitutto (ma non solo, come si dirà meglio nello scrutinare il secondo motivo del presente ricorso) nell’affidamento, poi rivelatosi falso, generato dall’emissione, da parte della stessa, del nulla osta rilasciato ai produttori e agli importatori degli apparecchi e congegni suddetti; provvedimento, a propria volta, fondato su quella certificazione. Sicché, in tale prospettiva, decisivo resta stabilire la portata – nei rapporti interni tra l’Agenzia e gli Organismi di certificazione – della previsione di cui all’art. 6.2. della convenzione tra essi intercorsa (nella specie, tra AAMS e la società Cermet S.c.a.r.l), a mente della quale “AAMS è sollevata da ogni eventuale responsabilità civile verso terzi, comunque connessa alle attività e funzioni svolte dall’Organismo in esecuzione della Convenzione, pur se accertata giudizialmente”.

Orbene, reputa questa Corte che proprio il riferimento ad un’eventuale responsabilità dell’Agenzia – “comunque connessa alle attività e funzioni svolte dall’Organismo in esecuzione della Convenzione” – che sia “accertata giudizialmente”, postula che la garanzia di cui essa gode non sia quella sottrarsi alla responsabilità, chiamando a rispondere in sua vece l’organismo suddetto, ma di esserne “sollevata” dalle conseguenze “verso terzi”. L’oggetto di tale garanzia è, poi, definito dall’art. 4 lett. d) della Convenzione (richiamato dalla ricorrente nel proprio atto di impugnazione), ovvero “tenere indenne AAMS”, oggi l’Agenzia, “da qualsiasi pretesa che il produttore o importatore o altri possano far valere a qualsiasi titolo in relazione all’attività svolta dallo stesso Organismo, in forza della presente Convenzione, ivi inclusa espressamente quella di verifica”.

Sotto questo profilo, dunque, coglie nel segno il rilievo espresso dalle società G.N.G., Extra Games e C.F. nel proprio controricorso, a pag. 4, secondo cui l’Agenzia – ai sensi degli artt. 4 e 6 della convenzione (al cui testo integrale rimanda, quale allegato 25 al proprio atto di citazione di primo grado) – ha solo il diritto di essere manlevata dall’organismo di certificazione. Sicché, nel caso di specie, AAMS avrebbe potuto agire nei confronti della società Cermet a norma dell’art. 106 cod. proc. civ., ma non certo pretendere di individuarla come l’effettivo responsabile, operando nei suoi confronti la c.d. “laudatio auctoris”. D’altra parte, che un’iniziativa per essere manlevata da dalla società Cermet sia stata assunta “in altra sede” da AAMS, è quanto attesta la sentenza impugnata (cfr. pag. 8).

8.1.2.2. Infine, per concludere nello scrutinio del presente motivo di ricorso, va rilevato che l’odierna ricorrente si è soffermata lungamente – nel proprio atto di impugnazione – sempre e solo sul punto dell’art. 6.2. della più volte citata convenzione, a mente della quale, come detto, “AAMS è sollevata da ogni eventuale responsabilità civile verso terzi, comunque connessa alle attività e funzioni svolte dall’Organismo in esecuzione della Convenzione, pur se accertata giudizialmente”. Essa, però, trascura di evidenziare il contenuto del precedente punto 1., del quale è qui possibile prendere visione, in virtù del richiamo operato dalla parte controricorrente all’intero testo dell’art. 6, consultando l’atto processuale in cui tale integrale testo è richiamato, posto che il presente motivo di ricorso denuncia anche la violazione dell’art. 81 cod. proc. e, dunque, un “error in procedendo”, in ordine al quale questa Corte, quale giudice del “fatto processuale”, è abilitata alla consultazione degli atti del fascicolo di merito.

Orbene, il testo del punto 1. del più volte richiamato art. 6 stabilisce che “l’Organismo, nel caso di inadempimento degli obblighi previsti dalla Convenzione, è tenuto al risarcimento dei danni eventualmente causati ad AAMS per l’ammontare che sarà ritenuto congruo a seguito di apposita istruttoria effettuata dai competenti uffici di AAMS, in contraddittorio con l’Organismo stesso, ovvero determinato all’esito di un giudizio promosso dal produttore od importatore o comunque dal titolare del bene verificato nei confronti di AAMS medesima”.

Da quanto illustrato, pertanto, trae conferma la conclusione già rassegnata circa il fatto che quella dell’organismo di certificazione è solo un’obbligazione di garanzia, sicché a rispondere dei danni, verso terzi, conseguenti all’attività da esso svolta è, in prima battuta, proprio l’AAMS (oggi, l’Agenzia), la quale può sollevarsi dalle conseguenze risarcitorie agendo, appunto, in manleva verso il medesimo.

Deve, quindi, ribadirsi che l’odierna ricorrente non poteva invocare il difetto di titolarità, dal lato passivo, del rapporto controverso, assumendo che esso facesse capo a Cermet, ma avrebbe potuto chiamare in causa la stessa ex art. 106 cod. proc. civ. 8.2. Il secondo motivo di ricorso è, invece, inammissibile.

8.2.1. Nessuna “omessa pronuncia” su motivi di appello può contestarsi alla sentenza impugnata, dovendo darsi seguito al principio secondo cui il “giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132, n. 4), cod. proc. civ., che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, e dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’«iter» argomentativo seguito”, di talché “il vizio di omessa pronuncia”, è “configurabile allorché risulti del tutto omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto” (da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 25 giugno 2020, n. 12652, Rv. 658279-01).

Orbene, nel caso che occupa, il “nucleo” della decisione assunta dalla Corte capitolina è costituito dall’affermazione della responsabilità di AAMS per aver suscitato un falso affidamento, in ordine alla conformità a legge degli apparecchi di divertimento e intrattenimento per cui è causa, attraverso il “nulla osta” da essa emesso alla loro distribuzione e messa in esercizio (provvedimento la cui mancanza, va qui rammentato per inciso, espone non solo l’installatore, ma anche il possessore dei locali in cui tali apparecchi siano stati installati, a responsabilità, in solido, per le somme dovute a titolo di prelievo erariale unico, interessi e sanzioni amministrative, ai sensi del comma 2 dell’art. 39- quater del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 del 2003, convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326, come inserito dall’art. 1, comma 84, della legge 27 dicembre, n. 296, in vigore dal 1° gennaio 2007; cfr. Cass. Sez. 5, ord. 31 maggio 2019, n. 14962, Rv. 654010-01).

Tale falso affidamento è stato ritenuto, dalla sentenza impugnata, la conseguenza di una condotta “gravemente colposa dell’Amministrazione”, non limitatasi ad una mera presa d’atto “ricognitiva degli esiti delle verifiche da parte del soggetto verificatore”, ma consistita nell’assunzione di “un atteggiamento attivo”, sostanziatosi, in particolare, in “un controllo sostanziale delle prescrizioni di legge”, compiuto “sia direttamente”, che “per il tramite della SOGEI”, soggetto terzo che ebbe ad eseguire “la verifica sulla scheda «Black Slot», modello Flexy Screen la cui certificazione fu anche revocata”.

La responsabilità dell’AAMS, ex art. 2043 cod. civ., è stata, dunque, correlata non già alla sola illegittimità del provvedimento di nulla osta (profilo insufficiente, come correttamente riconosce la Corte territoriale, a fondare la responsabilità aquiliana della Pubblica Amministrazione per attività provvedimentale; cfr., da ultimo, Cass. Sez. Lav., ord. 22 novembre 2017, n. 27800, Rv. 646504-01; Cass. Sez. 3, sent. 30 ottobre 2014, n. 23170; Rv. 633377-01), ma all’attività di “controllo sostanziale delle prescrizioni di legge” esercitato dall’Amministrazione. Attività che la sentenza attesta espletata anche direttamente dall’AAMS, in relazione a tutte le apparecchiature poi dismesse dagli attori/appellati (determinazione assunta da costoro, come afferma la Corte romana, per essere stati gli stessi resi edotti dell’indagine avviata dai requirenti veneziani “all’esito della diffusione della notizia” e su “sollecitazione della stessa AAMS”), sebbene culminato nella revoca del provvedimento di nulla osta solo quanto al modello Flexy Screen degli esemplari “Black Slot” di tali apparecchiature, e non pure quanto agli esemplari “Stack Slot” e “Terza Dimensione”.

I temi, dunque, posti dal motivo di gravame del quale l’Agenzia lamenta l’omesso esame – ovvero, che AAMS non aveva ordinato il ritiro di tutte e tre le tipologie di apparecchi e che la dismissione sarebbe avvenuta in ragione dell’indagine della Procura veneziana, priva di aveva correlazione alcuna con l’attività amministrativa di controllo posta in essere dall’Amministrazione – non sono rimasti affatto estranei al “decisum” del giudice d’appello.

8.3. Anche il terzo motivo è inammissibile.

8.3.1. Diversamente, infatti, da quanto argomenta la ricorrente, sussiste nella specie la preclusione a dedurre – quale vizio di legittimità dell’impugnata sentenza – l’omesso esame di fatti (o documenti) decisivi per il giudizio.

Al riguardo va, innanzitutto, segnalato che – avendo l’odierna ricorrente proposto gravame contro una sentenza resa in prime cure in data 7 maggio 2013 – il suo atto di appello risulta, per definizione, proposto con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione posteriormente all’11 settembre 2012.

Orbene, siffatta circostanza determina l’applicazione “ratione temporis” dell’art. 348-ter, ultimo comma, cod. proc. civ. (cfr. Cass. Sez. 5, sent. 18 settembre 2014, n. 26860, Rv. 633817- 01; in senso conforme, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 9 dicembre 2015, n. 24909, Rv. 638185-01, nonché Cass. Sez. 6-5, ord. 11 maggio 2018, n. 11439, Rv. 648075-01), norma che preclude, in un caso – qual è quello presente, come si dirà meglio di seguito – di c.d. “doppia conforme di merito”, la proposizione di motivi di ricorso per cassazione formulati ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ., salvo che la parte ricorrente non soddisfi l’onere, ciò che nella specie non risulta avvenuto, “di indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse” (Cass. Sez. 1, sent. 22 dicembre 2016, n. 26774, Rv. 643244-03; Cass. Sez. Lav., sent. 6 agosto 2019, n. 20994, Rv. 654646-01; Cass. Sez. 3, ord. 28 febbraio 2023, n. 5947, Rv. 667202-01). Dimostrazione, peraltro, che deve evidenziare l’esistenza di differenze sostanziali, dato che l’ipotesi di “doppia conforme” ricorre “non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico[1]argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice” (Cass. Sez. 6-2, ord. 9 marzo 2022, n. 7724, Rv. 664193-01).

Né, come detto, ad escludere l’applicazione dell’art. 348-ter, ultimo comma, cod. proc. civ. potrebbe invocarsi la circostanza che la preclusione prevista da tale norma non opera “allorché l’informazione probatoria sia del tutto mancata”, ciò che la ricorrente sostiene richiamando Cass. Sez. 6-5, ord. 5 novembre 2018, n. 28174.

Invero, il precedente citato, oltre a presentarsi del tutto isolato (cfr., in senso contrario, Cass. Sez. Lav., sent. 3 novembre 2020, n. 24395, Rv. 659540-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 17 maggio 2022, n. 15777, Rv. 665052-01; Cass. Sez. 3, sent. 21 dicembre 2022, n. 37382, Rv. 666679-04), concerne il caso – qui neppure prospettato, e tra l’altro di dubbia ammissibilità – non dell’omessa valutazione di elementi probatori, bensì del vero e proprio travisamento della prova.

8.4. Il quarto motivo non è fondato.

8.4.1. Valgono, al riguardo, le stesse considerazioni già svolte in relazione al primo e secondo motivo. Deve, infatti, ribadirsi che nei rapporti con i terzi, sia che si tratti del produttore, dell’importatore o del titolare del bene verificato, è AAMS (oggi l’Agenzia) ad assumere la responsabilità per quell’attività provvedimentale che trova fondamento nella previa verificazione degli apparecchi e dispositivi di divertimento o intrattenimento (o meglio, dei loro prototipi) alle prescrizioni di legge, salvo poi il suo eventuale diritto ad essere tenuta indenne dalle conseguenze di tale responsabilità, da farsi valere in altro giudizio – o, a limite, nello stesso, mediante chiamata in causa – nei confronti dell’organismo di certificazione. Responsabilità, come detto, basata dalla sentenza impugnata anche sul rilievo che AAMS “non si è limitata ad una verifica ricognitiva degli esiti delle verifiche” espletate da Cermet, ma assunto “un atteggiamento attivo” già descritto in relazione allo scrutinio del secondo motivo di ricorso.

8.5. Il quinto motivo non è fondato.

8.5.1. Nell’esaminarlo occorre muovere dalla premessa di ordine generale secondo cui la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. – norma che sancisce il principio secondo cui il giudice decide “iuxta alligata et probata partium” – “può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640192-01; Cass. Sez. Un., sent. 30 settembre 2020, n. 20867, Rv. 659037-01).

D’altra parte, la censura di violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale, è ravvisabile solo quando “il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640193-01, nello stesso, più di recente, in motivazione, Cass. Sez. 6-2, ord. 18 marzo 2019, n. 7618, non massimata sul punto, nonché Cass. Sez. 6-3, ord. 31 agosto 2020, n. 18092, Rv. 658840-02), mentre “ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione” (Cass. Sez. Un., sent. 30 settembre 2020, n. 20867, Rv. 659037-02).

A nessuna di tali evenienze, dunque, sono riconducibili le due doglianze formulate con il presente motivo.

Non quella relativa al supposto valore di “prova legale” che la Corte capitolina avrebbe – erroneamente – attribuito alla sentenza penale resa dal Tribunale di Venezia, dal momento che essa afferma non solo che tale pronuncia poteva rappresentare (solo) “un indizio da cui ricavare, unitamente agli altri offerti dalle parti, il convincimento ai fini della decisione” (con ciò conformandosi alla giurisprudenza di questa Corte, che con specifico riferimento alle sentenze di non doversi procedere per estinzione del reato, ammette la possibilità del libero apprezzamento, in sede di giudizio civile, di quanto da esse risultante; cfr. Cass. Sez. 6-3, ord. 30 giugno 2020, n. 12973, Rv. 658224-01), ma soprattutto che il Tribunale “è pervenuto al convincimento in merito alla responsabilità gravemente colposa dell’Amministrazione dalla copiosa documentazione versata in atti e rappresentata soprattutto dalla ripetuta corrispondenza intercorsa tra l’AAMS e l’organismo di certificazione”.

Analogamente, non integra violazione delle norme suddette, e segnatamente dell’art. 116 cod. proc. civ. (violazione che, come detto, presuppone una “inversione” tra prove libere e legali) la decisione di non attribuire valore probatorio alla consulenza svolta nell’ambito di altro giudizio, e ciò perché la Corte capitolina ha ritenuto la stessa non solo “inopponibile”, ma anche “assolutamente contestabile”. Sicché deve darsi seguito al principio secondo cui “spetta al giudice di merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge” (da ultimo, tra le innumerevoli, Cass. Sez. 6-1, ord. 13 gennaio 2020, n. 331, Rv. 656802-01; in senso analogo pure Cass. Sez. 2, ord. 8 agosto 2019, n. 21887, Rv. 655229-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 4 luglio 2017, n. 16467, Rv. 644812-01; Cass. Sez. 3, sent. 23 maggio 2014, n. 11511, Rv. 631448-01).

8.6. Il sesto motivo è inammissibile.

8.6.1. Esso, infatti, non coglie con esattezza la “ratio decidendi” della sentenza impugnata, donde la sua inammissibilità (cfr. Cass. Sez. 6-1, ord. 7 settembre 2017, n. 20910, Rv. 645744-01; in senso conforme Cass. Sez. 6-3, ord. 3 luglio 2020, n. 13735, Rv. 658411-01).

Invero, deve escludersi che la sentenza impugnata abbia fatto applicazione del principio di non contestazione (e, comunque, non certamente con riferimento al contenuto della sentenza penale del Tribunale di Venezia, avendo, semmai, apprezzato l’atteggiamento assunto da AAMS nei riguardi degli accertamenti compiuti dal Pubblico Ministero presso il medesimo Tribunale), attribuendo, piuttosto, rilievo al comportamento complessivo di AAMS, valorizzando la sua scelta di costituirsi parte civile nel processo penale come incompatibile con il riconoscimento della regolarità degli apparecchi.

8.7. Il settimo motivo è, nuovamente, inammissibile, perché denuncia un vizio di motivazione in assenza delle condizioni per poterlo far valere.

Sul punto, infatti, va rammentato che, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ. – nel testo “novellato” dall’art. 54, comma 1, lett. b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) – il sindacato di questa Corte è destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonché, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 1, ord. 30 giugno 2020, n. 13248, Rv. 658088-01).

Il difetto di motivazione è, dunque, ipotizzabile solo nel caso in cui la parte motiva della sentenza risulti “meramente apparente”, evenienza configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonché, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-0), o perché affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di «sufficienza» della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01). Ferma in ogni caso restando la necessità che il vizio “emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata” (Cass. Sez. Un., sent. n. 8053 del 2014, cit.), vale a dire “prescindendo dal confronto con le risultanze processuali” (così, tra le molte, Cass. Sez. 1, ord. 20 giugno 2018, n. 20955, non massimata nonché da ultimo, Cass. Sez. 1, ord. 3 marzo 2022, n. 7090, Rv. 664120- 01).

8.8. Infine, l’ottavo motivo è inammissibile.

8.8.1. Tale esito si impone, in primo luogo, in relazione alla censura rivolta alla decisione della Corte capitolina di ritenere provata sia la titolarità degli apparecchi “de quibus”, sia la loro dismissione, da parte dei soggetti che agirono in giudizio, assumendo l’odierna di aver contestato la “copiosa documentazione” – diversa dalla fattura commerciale, di per sé inidonea a tale scopo – prodotta dalle proprie controparti al fine di provare entrambe tali circostanze.

Premesso, invero, che costituisce “elemento valutativo riservato al giudice del merito”, stabilire, “nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte” (così Cass. Sez. 6-1, ord. 7 febbraio 2019, n. 3680, Rv. 653130-01), apprezzamento censurabile “solo per vizio di motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 28 ottobre 2019, n. 27490, Rv. 655681-01), e precisamente “per incongruenza o illogicità della motivazione, non spettando a questa Corte il potere di riesaminare il merito della controversia” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 11 giugno 2014, n. 13217, Rv. 631806-01; Cass. sez. 3, sent. 6 novembre 2001, n. 13686, Rv. 550025-01), dirimente, nel caso di specie, è il rilievo della tardività della contestazione dell’Agenzia, avvenuta nel giudizio di primo grado solo con la comparsa conclusionale. Difatti, “il convenuto, a fronte di una allegazione da parte dell’attore chiara e articolata in punto di fatto, ha l’onere ex art. 167 cod. proc. civ. di prendere posizione in modo analitico sulle circostanze di cui intenda contestare la veridicità e, se non lo fa, i fatti dedotti dall’attore debbono ritenersi non contestati, per i fini di cui all’art. 115 cod. proc. civ” (Cass. Sez. 6-3, ord. 23 marzo 2022, n. 9439, Rv. 664451-01).

Né a giustificare la tardività della contestazione vale il rilievo, formulato dalla ricorrente, che trattandosi di difetto di “titolarità del diritto”, tale circostanza non andava neppure contestata. Infatti, proprio con la pronuncia da ultimo citata, questa Corte ha ribadito che, se è vero quanto stabilito da una nota sentenza delle Sezioni Unite, ovvero che “la titolarità attiva del credito va provata dall’attore, e che l’eccezione di difetto di titolarità attiva del diritto è rilevabile d’ufficio” (come affermato da Cass. Sez. Un., sent. 16 febbraio 2016, n. 2951, Rv. 638371-01), tuttavia “è anche vero che la suddetta sentenza (§§ 55 e 56 dei «Motivi della decisione») ha chiarito che l’onere di allegazione e prova, da parte dell’attore, della titolarità del credito fatto valere in giudizio si considera assolto (e quindi il convenuto non può più eccepire il difetto di titolarità attiva dell’obbligazione) in due casi: a) quando il convenuto svolge difese incompatibili con la contestazione della titolarità del credito; b) quando il convenuto non contesta (art. 115 cod. proc. civ.) la titolarità del credito, salva però in quest’ultimo caso la facoltà del giudice di ritenerla comunque insussistente sulla base di altre e diverse prove” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. n. 9439 del 2022, cit.).

8.8.1.2. Quanto, invece, alla censura che investe la decisione del giudice di appello sull’eccepita “compensatio lucri cum damno”, va osservato che la Corte territoriale non ha affatto escluso “a priori” che tale eccezione possa operare anche rispetto al danno emergente. In sentenza, infatti, si legge solo che la “tesi di parte appellante” – senza però alcuna migliore specificazione della stessa (neppure nel presente ricorso) – “potrebbe, al più, valere nel caso in cui si fosse dovuto affrontare il problema della determinazione dell’ulteriore voce di danno da lucro cessante”. Con riferimento, invece, al danno emergente, essa si è limitata a ritenere “corretto e condivisibile” il “calcolo eseguito dal Giudice di prime cure per la determinazione del danno subito dagli attori”, dando conto del fatto che “è stato ridotto rispetto alle originarie loro richieste”; affermazione, questa, rispetto alla quale la ricorrente neppure ha chiarito – con conseguente violazione del canone della specificità del motivo, ex art. 366, comma 1, n. 4) cod. proc. civ. – in quale misura l’eccepita “compensatio” avrebbe ridotto (ulteriormente) l’entità del danno da risarcire agli attori/appellati.

9. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico della ricorrente e liquidate come da dispositivo.

10. A carico della ricorrente, stante il rigetto del ricorso, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo un accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

P. Q. M.

La Corte rigetta il ricorso, condannando l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli a rifondere, alle società Extra Games S.r.l., C.F. S.r.l. e C.N.G. S.r.l., le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi € 8.000,00, più € 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, svoltasi il 13 dicembre 2023.

 

Guida alla lettura

Giova rammentare che il rapporto di concessione di pubblico servizio si distingue dall’appalto di servizi per l’assunzione da parte del concessionario del c.d. “rischio operativo”: mentre l’appalto ha struttura bifasica tra appaltante ed appaltatore ed il compenso di quest’ultimo grava interamente sul primo, nella concessione, connotata da una dimensione triadica, il concessionario ha rapporti negoziali diretti con l’utenza finale, dalla cui richiesta di servizi trae la propria remunerazione. In altri termini, l’appalto di servizi comporta un corrispettivo che, senza essere l’unico, è versato direttamente dall’Amministrazione aggiudicatrice al prestatore di servizi, mentre nella concessione di servizi il corrispettivo della prestazione di servizi consiste nel diritto di gestire il servizio, o da solo o accompagnato da un prezzo, e la concessionaria non è direttamente retribuita dalla amministrazione aggiudicatrice ma ha il diritto di riscuotere la remunerazione presso terzi.

Tale indirizzo è, peraltro, coerente con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ., Sez. Unite, n. 9965/2017), secondo cui la qualificazione di un’operazione come concessione di servizi o come appalto pubblico di servizi va svolta esclusivamente alla luce del diritto dell’Unione Europea. Ebbene, ai fini del diritto dell’Unione, un appalto pubblico di servizi comporta un corrispettivo che è pagato direttamente dall’Amministrazione aggiudicatrice al prestatore di servizi mentre, al contrario, è ravvisabile concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del concessionario di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio, traendo la propria remunerazione dai proventi ricavati dagli utenti, di modo che sul concessionario gravi il rischio legato alla gestione del servizio.
Come visto, quindi, l’elemento caratteristico e costitutivo della concessione di servizi è il rischio operativo. Tale elemento è idoneo a identificare e circoscrivere tale fattispecie con figure contrattuali ad esso affini, quali la concessione di beni e l’appalto di servizi. Non solo, il corretto inquadramento della fattispecie ha ricadute immediate anche sull’iter di aggiudicazione ed esecuzione del contratto. Come si è visto infatti, inquadrare il contratto come concessione di servizi o di beni risulta rilevante per qualificare correttamente le esperienze pregresse prodotte dai partecipanti alla gara, in fase di ammissione alla procedura. Non solo, il corretto inquadramento della fattispecie, fondato sulla nozione di rischio operativo, ha anche riflessi importanti sul versante esecutivo, escludendo la responsabilità della stazione appaltante in caso di minor remunerazione del concessionario rispetto le stime fornite negli atti di gara.

Nel D.lgs. n. 36/2023 la concessione è caratterizzata dai seguenti elementi distintivi:

  • un corrispettivo, coincidente con il diritto di gestire i lavori o servizi oggetto dei contratti e solo eccezionalmente accompagnato dal pagamento di un prezzo (vedasi la definizione di concessione all’art. 2, comma 1, lettera c), dell’allegato I.1);
  • la traslazione in capo al concessionario del c.d. “rischio operativo” (art. 177 D.lgs. n. 36/2023).

L’art. 177, in linea con quanto previsto dalla c.d. direttiva europea concessioni (direttiva 2014/23/UE), specifica che un elemento imprescindibile della concessione è, appunto, il trasferimento al concessionario di un rischio operativo, legato alla realizzazione dei lavori o alla gestione dei servizi e comprende:

  • un rischio dal lato della domanda, ovvero il rischio associato alla effettiva presenza di una domanda dei lavori o dei servizi che sono oggetto del contratto;
  • oppure un rischio dal lato dell’offerta, ad esempio il rischio che la fornitura dei servizi non corrisponda, per fatti non imputabili all’operatore, al livello qualitativo e quantitativo dedotto in contratto (in tal caso l’operatore vedrà ridotto il suo corrispettivo in denaro);
  • oppure un rischio da entrambi i lati innanzi indicati.

Il nuovo Codice, quindi, prevede la traslazione del rischio operativo anche soltanto dal lato dell’offerta, prescindendo dalla struttura «trilaterale» del rapporto, che sussiste quando i servizi sono resi a degli utenti, nel mercato.

Il D.lgs. n. 50/2016, invece, laddove stabiliva “la maggior parte dei ricavi di gestione del concessionario proviene dalla vendita dei servizi resi al mercato” (art. 165 comma 1), sembrava circoscrivere la figura della concessione ai soli servizi in grado di finanziarsi prevalentemente con i corrispettivi pagati dagli utenti.

Il IV Libro del D.lgs. n. 36/2023 è rubricato “Del Partenariato Pubblico-Privato e delle Concessioni” e riguarda gli articoli dal 174 al 208.

Il Partenariato Pubblico-Privato (o PPP) è, nella disciplina dei contratti pubblici, tutto quello che NON è appalto con ciò intendendo tutti quei rapporti contrattuali che coinvolgo una P.A. e che non sono di natura passiva (nel senso che l’Amministrazione non deve prevedere un esborso di denaro).

Questa definizione “per sottrazione” ha sempre reso difficoltosa l’individuazione di una precisa categoria di contratti di PPP, tanto è vero che nel D.lgs. n. 50/2016 si definisce prima la “concessione” e poi si cercano d’individuare le caratteristiche di detta tipologia – rischio operativo, canoni, Piani Economico-Finanziario ecc. – che, laddove presenti anche in altre fattispecie contrattuali, ne consentono la classificazione nei PPP.

Il Legislatore del 2023 opta per una diversa prospettazione, chiarendo fin da subito come il PPP non sia un contratto ma “un’operazione economica (art. 174) caratterizzata dalle seguenti condizioni:

  • un rapporto di lunga durata avente come obiettivo un “risultato di interesse pubblico”;
  • un investimento finanziario in prevalenza (“in misura significativa”) dal privato;
  • una precisa suddivisione dei compiti: alla parte pubblica la definizione degli obiettivi ed il controllo del loro raggiungimento, ai privati la realizzazione e la gestione del progetto;
  • il rischio operativo grava sul privato che realizza l’opera o gestisce i servizi.           

Vi possono poi essere due diverse tipologie di PPP:

  1. quelli contratttuali (concessione, locazione finanziaria, contratto di disponibilità ecc.;
  2. quelli istituzionali (società miste pubblico-privato per affidamenti in house).

Una delle novità più significative introdotte dal Nuovo Codice è l’aver pienamente equiparato il contratto di concessione di servizi a quello di lavori, come previsto dalla Direttiva Concessioni. Ciò vuol dire che il D.lgs. n. 36/2023 supera le ambiguità derivanti dalla definizione di contratto di PPP, di cui all’art. 3, comma 1, lett. eee) del Vecchio Codice, secondo cui lo stesso prevedeva necessariamente l’affidamento della «realizzazione, trasformazione, manutenzione e gestione operativa di un’opera in cambio della sua disponibilità, o del suo sfruttamento economico, o della fornitura di un servizio connessa all’utilizzo dell’opera stessa». Il Nuovo Codice, infatti, all’art. 174, non menziona più la necessità di un’opera, ma riconduce la nozione di PPP ad un complesso di caratteristiche, la principale delle quali attinente al trasferimento del rischio operativo, declinato in conformità con la Direttiva Concessioni.

Detto ciò, tuttavia, affinché un contratto di servizi, soprattutto se remunerato esclusivamente o principalmente dall’Amministrazione - attraverso il riconoscimento di un canone di disponibilità -, sia legittimamente considerato un contratto di concessione di servizi, è necessario che il concessionario incorra in un investimento iniziale - ed eventualmente, anche in fase di esecuzione del contratto stesso, ove funzionale alla gestione - il c.d. capex, o, comunque, anche nel caso di tariffe a carico degli utenti, in costi fissi indipendenti dall’uso effettivo del servizio, potenzialmente non recuperabili nel corso dell’esecuzione del contratto, in piena coerenza con l’assunzione del rischio operativo, elemento di fondamentale distinguo tra il contratto di concessione e quello di appalto.

È, dunque, proprio il rischio di non recuperare il capex inizialmente investito che, caratterizzando, in genere, il contratto di concessione, deve essere presente anche nella concessione di servizi, indipendentemente dal suo collegamento, o meno, con i lavori pubblici. Tale elemento prescinde dall’identificazione dell’oggetto del contratto: infatti, la stessa attività può essere affidata come contratto tanto di appalto di servizi, quanto di concessione di servizi e, in molti casi, la distinzione tra le due fattispecie giuridiche non è di immediata individuazione. Tale affermazione è corroborata dalla prassi dei c.d. contratti di service - molto in uso in ambito sanitario, ma non solo -, in cui le obbligazioni declinate, prima, nei capitolati a base di gara e, poi, nel contratto di affidamento, tendono ad essere molto - in alcuni casi anche troppo! - simili ai contratti di concessione di servizi, rendendone l’interpretazione tassonomica non facile, nonché complicando l’identificazione dell’assunzione del rischio operativo in capo al concessionario, come prescritto dall’art. 175, comma 2 del Nuovo Codice, anche in fase di esecuzione del contratto.

Su questa potenziale “zona grigia” è intervenuta la sentenza - ormai risalente nel tempo, ma tutt’ora valida e pregnante - Oymanns (C-300/07) della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che, partendo dalla definizione di concessione evidenzia “[…] che questa è caratterizzata da una situazione in cui un diritto di gestire un servizio determinato viene trasferito da un’autorità aggiudicatrice ad un concessionario e che questi dispone, nell’ambito del contratto concluso, di una certa libertà economica per determinare le condizioni di gestione di tale diritto restando così, parallelamente, in larga misura esposto ai rischi connessi a detta gestione”. È, dunque, l’assunzione del rischio operativo che consente di distinguere il contratto di concessione da quello di appalto, non esistendo nella Direttiva Concessioni alcuna ulteriore distinzione tra le concessioni di lavori e quelle di servizi, come oggi chiarito dall’art. 177 del Nuovo Codice e dall'art. 2, lett. c) dell’allegato I.1 allo stesso.

A tal proposito, la stessa sentenza Oymanns precisa che il rischio di gestione è escluso se l'OE:
a)  è «liberato dal rischio legato alla riscossione della propria remunerazione ed all'insolvibilità della propria controparte contrattuale individuale», e, soprattutto se
b)     «pur dovendo essere dotato dei mezzi sufficienti per poter prestare i propri servizi, esso non deve previamente esporsi a spese rilevanti prima di concludere un contratto», nonché il numero degli utenti «(…) i quali potrebbero far ricorso ai servizi di tale operatore economico, è noto in anticipo, di modo che questi può operare una previsione ragionevole in ordine alla richiesta dei suoi servizi».

Da tale disamina emerge chiaramente che, dal 1° luglio 2023, le concessioni di servizi remunerate dall'amministrazione non dovranno più, necessariamente, prevedere un investimento consistente nella realizzazione di lavori. Questo non vuol dire che non sia più possibile compendiare nel perimetro della concessione di servizi anche lavori, ma che, di converso, la realizzazione e gestione di lavori pubblici non rappresenta più una condizione necessaria e prodromica affinché la concessione di servizi remunerata dall'amministrazione sia legittima. Di conseguenza, solo ove siano, effettivamente, previsti dei lavori, i potenziali operatori economici, aventi i requisiti soggettivi atti a qualificarli come concessionari di servizi - qualifiche, peraltro, non chiaramente individuate nel Nuovo Codice -, dovranno coinvolgere - a diverso titolo, ossia nel costituendo RTI o in avvalimento, prima della gara, oppure, in fase di esecuzione del contratto, come subappaltori - operatori economici in grado di eseguire i lavori, mentre, in tutti gli altri casi, potranno concentrarsi solo sulla quantificazione e qualificazione dei propri servizi.

Peraltro, anche in vigenza del Vecchio Codice sono state affidate - in ossequio alla Direttiva Concessioni - concessioni di servizi, remunerate dall’Amministrazione, che non comprendevano lavori, ma che contemplavano un rilevante investimento sia iniziale, che in fase di esecuzione del contratto, segnatamente quella sul Polo della Sicurezza Nazionale e quella sui servizi abilitanti della piattaforma nazionale di telemedicina. Tuttavia, proprio quelle esperienze hanno evidenziato la difficoltà di innestare il contratto di concessione di servizi in un sistema giuridico fortemente influenzato dalla visione lavoristica. Ad esempio, il tema della progettazione (art. 23 Vecchio Codice), che presenta una scansione normativa ragionevolmente chiara per quanto riguarda i lavori - seppur in mancanza del previsto regolamento che doveva essere emanato dal Mit e che, con il Nuovo Codice, è stato, temporaneamente, sostituito dall’allegato I.7 -, pare essere stato in parte sottostimato dal legislatore per quanto riguarda i servizi: infatti, nonostante il succitato art. 23 imponga che la progettazione debba essere svolta tanto per i lavori quanto per i servizi, nulla dice il codice – tanto il Vecchio, quanto il Nuovo – sugli specifici documenti attraverso cui la stessa deve articolarsi, non contribuendo alla certezza del diritto, né alla creazione di una consistente base di buone pratiche, come richiesto dall’art. 175, comma 8 del Nuovo Codice.

Ciò rischia di creare una serie di modelli non comparabili tra loro, né scalabili, nonostante lo sforzo di maggiore chiarezza che il Nuovo Codice ha realizzato per l’inquadramento della concessione di servizi. Simili considerazioni possono essere svolte anche in relazione ai requisiti soggettivi speciali del concessionario, che non sono regolati negli articoli del Nuovo Codice in materia di concessione, ma solo nell’art. 33 (Requisiti del concessionario) della Parte IV dell’Allegato II.12, con riferimento al concessionario di lavori. Anche questi risentono del forte marchio lavoristico: infatti, seguono, acriticamente, il solco segnato dall’art. 95 del DPR 207/2010, che si riferiva ai concessionari di lavori ed è stato oggetto di importanti pronunce giurisprudenziali, che ne hanno consentito la legittima estensione anche ai concessionari di servizi.

In conclusione, vista la struttura del mercato italiano, e le potenzialità offerte dalle capacità degli operatori economici nel settore dei servizi, si auspica che nel processo di predisposizione della legislazione secondaria afferente al Nuovo Codice, l’esecutivo prima, ed il legislativo, poi, prendano in considerazione il necessario adeguamento delle varie partizioni - in primis, progettazione e requisiti soggettivi - così da consentire ai potenziali operatori privati, che vogliano ingaggiarsi nel mercato della concessioni di servizi di poter operare in un quadro normativo coerente ed in grado di produrre operazioni non solo pienamente legittime, ma anche di sempre crescente qualità.