Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 14 aprile 2022, n. 5
La nozione di “esercizio della professione medica”, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 7, comma 2, secondo periodo, della l. 362/1991, deve ricevere un’interpretazione funzionale ad assicurare il fine di prevenire qualunque potenziale conflitto di interessi derivante dalla commistione tra questa attività e quella di dispensazione dei farmaci, in primo luogo a tutela della salute; in tal senso deve ritenersi applicabile la situazione di incompatibilità in questione anche ad una casa di cura, società di capitali e quindi persona giuridica, che abbia una partecipazione in una società, sempre di capitali, titolare di farmacia;
una società concorre nella “gestione della farmacia”, per il tramite della società titolare cui partecipa come socio, qualora, per le caratteristiche quantitative e qualitative di detta partecipazione sociale, siano riscontrabili i presupposti di un controllo societario ai sensi dell’art. 2359 c.c., sul quale poter fondare la presunzione di direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497 c.c.
Guida alla lettura
La l. n. 124 del 2017 (legge sulla concorrenza), all’art. 1, comma 157, lett. b), ha “aperto” la titolarità delle farmacie (private) anche alle società di capitali, ma senza del tutto coordinare la riforma con la precedente normativa sul regime delle incompatibilità, in origine disciplinato con riferimento al modello del farmacista persona fisica (o al più società di persone).
La Sezione remittente chiede all’Adunanza plenaria se il tradizionale regime sulle incompatibilità, incentrato sulle nozioni di “gestione della farmacia” e di “esercizio della professione medica”, si debba o si possa estendere al socio (che sia persona giuridica) di società di capitali e in quali termini[1].
Le questioni sollevate sottopongono l’ampio tema concernente le modalità di esercizio dell’attività farmaceutica e il regime di titolarità e di gestione delle farmacie, all’indomani dell’ultima riforma del 2017[2].
Con la legge 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 157, ha riscritto larga parte dell’art. 7 della l. n. 362/1991, in primo luogo sostituendone il comma 1 che, nella versione attuale, per effetto della modifica, prevede che: «1. Sono titolari dell'esercizio della farmacia privata le persone fisiche, in conformità alle disposizioni vigenti, le società di persone, le società di capitali e le società cooperative a responsabilità limitata».
L’apertura alle società di capitali, anche per le farmacie private, si è accompagnata inoltre, sempre nella riforma del 2017, al venir meno ovvero all’abolizione, per tutti i tipi societari, della previsione che in precedenza imponeva che i soci, delle società che gestiscono farmacie, dovessero essere a loro volta farmacisti, come anche alla rimozione del limite delle quattro licenze in capo ad una stessa società, limite sostituito dal divieto, meno pregnante, di controllare una quota superiore al 20 per cento delle farmacie della medesima regione o provincia autonoma ed il cui rispetto è sottoposto ai poteri di indagine, istruttoria e diffida dell’AGCM.
Le società titolari dell’esercizio di farmacie private devono avere questa attività come loro oggetto sociale esclusivo e, quand’anche i soci possano non essere farmacisti, è pur sempre necessario che la direzione della farmacia continui invece ad essere affidata ad un farmacista, anche non socio, che ne è responsabile.
La riforma del 2017 ha disciplinato anche il regime delle incompatibilità, novellando l’art. 7, comma 2, secondo periodo, della l. n. 362/1991 e prevedendo che «La partecipazione alle società di cui al comma 1 (si intendono le società titolari dell’esercizio di farmacie private) è incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l'esercizio della professione medica. Alle società di cui al comma 1 si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni dell'articolo 8.»
In precedenza, una regola di incompatibilità (solo) parzialmente simile era dettata all’art. 8, comma 1, della medesima legge, prevedendosi che «1. La partecipazione alle società di cui all'articolo 7, salvo il caso di cui ai commi 9 e 10 di tale articolo, è incompatibile:
a) con qualsiasi altra attività esplicata nel settore della produzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco.»
La nuova e più ampia previsione, dunque, include ora tra le incompatibilità anche l’esercizio della professione medica e la cui necessità è originata dalla possibilità, introdotta nel 2017, che i soci non siano più farmacisti, laddove in precedenza potevano ritenersi sufficienti – quanto all’esercizio della professione medica - i tradizionali divieti posti dal r.d. n. 1256 del 1934 (in specie agli artt. 102 e 112) dettati per i farmacisti persone fisiche titolari ovvero esercenti (da soli o in società di persone) di farmacia. Sono perciò esistenti a ben vedere, due distinte e separate regole di incompatibilità. La prima, declinata in termini all’apparenza assoluti, definisce la partecipazione (societaria) alle società titolari di farmacie private incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l'esercizio della professione medica; la seconda, declinata in termini in tesi meno assoluti, valorizzando l’inciso “per quanto compatibili”, fa rinvio alle disposizioni del successivo art. 8 che, per quanto più rileva in questa sede, definiscono quella medesima partecipazione (societaria) incompatibile, tra le altre cose, “con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato”.
Queste due regole di incompatibilità – preesistenti alla riforma del 2017, in quanto parti integranti della disciplina di settore – sono mutuate ed “aggiornate” dalla riforma del 2017, che le riferisce ora ad ogni ipotesi di gestione in forma societaria.
Nella vicenda concretamente all’esame dell’Adunanza Plenaria, la società di capitali che si è aggiudicata la procedura ad evidenza pubblica per l’alienazione di una farmacia comunale e che ha avuto il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività, è una società unipersonale, controllata, quindi al 100%, da un’altra società sempre di capitali che a sua volta gestisce una casa di cura privata. È sorta dunque la questione se ricorra la situazione di incompatibilità di cui all’art. 7, comma 2, secondo periodo, della l. 362/1991, sussistendo i due elementi, da un lato, della partecipazione a (e l’essere socio di) una società di capitali titolare dell’esercizio della farmacia privata e, dall’altro, dell’esercizio da parte di quel medesimo socio (unico) della professione medica.
Il socio in questione, che partecipa al capitale della società titolare di farmacia, non è una persona fisica ma una persona giuridica, una società a responsabilità limitata, il che pone l’ulteriore questione se - ai fini e per gli effetti di cui all’art. 7, comma 2, – un soggetto di questo tipo, avente personalità giuridica, possa considerarsi esercitare la professione medica.
Dall’elemento dell’esercizio della professione medica, una persona giuridica non potrebbe (dirsi) esercitare simile professione, non solo sul piano naturalistico ma anche su quello normativo, il che troverebbe conferma nelle disposizioni della legge n. 1815 del 1939, che a lungo hanno vietato lo svolgimento delle professioni protette (tale essendo la professione medica) nella forma della società commerciale.
Il punto cruciale attiene al rapporto tra la clinica privata e i medici che in essa (e per essa) svolgono la loro attività. Per quanto indubbiamente peculiare, in ragione della autonomia e libertà di cura del medico anche alla luce delle regole deontologiche di tale professione, tale rapporto vede pur sempre rispondere la struttura a titolo contrattuale per il comportamento dei medici della cui collaborazione si avvale per l’adempimento della propria obbligazione, ancorché possano non essere suoi dipendenti, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costoro effettuata e l’organizzazione aziendale della casa di cura, il che giustifica l’applicazione della regola posta dall’art. 1228 c.c. (come ribadito da ultimo dall’art. 7 della l. n. 24 del 2017).
L’Adunanza plenaria, sulla base delle sopra indicate considerazioni, ha concluso che anche una persona giuridica, in particolare una clinica privata, possa considerarsi esercitare, nei confronti dei propri assistiti, la professione medica ai fini della previsione di cui all’art. 7, comma 2, secondo periodo, della l. 362/1991.
La soluzione privilegia un’interpretazione funzionale e sistematica, coerente con la ratio ispiratrice della veduta regola di incompatibilità che mira ad evitare commistioni di interessi “tra medici che prescrivono medicine e farmacisti interessati alla vendita, in un'ottica di tutela del diritto alla salute di rango costituzionale”[3].
Oltre a questa prima ragione, più tradizionale ma sempre attuale, si possono rinvenire ulteriori ragioni ispiratrici, che giustificano e rafforzano il permanere, nella nuova dimensione economico-finanziaria delle farmacie, del divieto di commistione tra attività farmaceutica ed esercizio della professione medica, legate, per un verso, alla tutela della concorrenza e, per altro verso, al contenimento del consumo farmaceutico e della spesa sanitaria.
Sul primo versante, il consentire ad una casa di cura, che offre prestazioni mediche composite e nel cui ambito si prescrivono medicinali, di partecipare ad una società che ha la titolarità di una farmacia e che come tale dispensa e rivende medicinali previa prescrizione medica, finirebbe per rendere possibile una integrazione verticale di beni ed attività con una potenziale confusione di ruoli tra domanda ed offerta, passibile di determinare privilegi ed abusi di posizione, oltre che conflitti di interesse.
Sul secondo versante, il rischio è che la commistione tra le due attività in capo al medesimo centro decisionale – eludendo oltre tutto il vincolo dell’oggetto sociale che si vorrebbe esclusivo - possa determinare un esubero nel consumo farmaceutico, con evidenti riflessi anche sulla spesa pubblica.
Una volta rinvenuto nella casa di cura l’elemento dell’esercizio della professione medica, ne consegue che sussiste l’incompatibilità di cui all’art. 7, comma 2, secondo periodo, nel senso che la casa di cura non può avere partecipazioni in una società titolare dell’esercizio della farmacia.
Ulteriore questione concerne la rilevanza della partecipazione sociale nel senso di concorrere nella gestione della farmacia, influenzando le scelte aziendali. Non rileverebbe qualunque partecipazione sociale ma quella che possa dare al socio il controllo della società, nei modi gradatamente indicati dall’art. 2359 c.c. e in presenza dei quali opera la presunzione di direzione e coordinamento (ricavabile anche aliunde, in specie dall’essere la società tenuta al consolidamento del proprio bilancio). Soccorrono evidentemente le regole e gli istituti propri del diritto societario, nell’elaborazione offertane in primo luogo dalla giurisprudenza civile. Non è possibile offrire soluzioni all’insegna dell’automatismo, apparendo imprescindibile la valutazione del singolo caso rimessa al prudente apprezzamento dell’amministrazione cui non a caso va comunicato, a norma dell’art. 8, comma 2, della l. n. 362/1991, lo statuto della società titolare della farmacia e “ogni successiva variazione, ivi incluse quelle relative alla compagine sociale”.
LEGGI LA SENTENZA
Pubblicato il 14/04/2022
N. 00005/2022REG.PROV.COLL.
N. 00001/2022 REG.RIC.A.P.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1 di A.P. del 2022, proposto da San Marco S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ubaldo Perfetti e Maurizio Natali, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Loreta Uttaro in Roma, piazza Benedetto Cairoli, 6;
contro
Federfarma – Federazione Nazionale Unitaria dei Titolari di Farmacia Italiani, Federfarma Ascoli – Associazione dei Titolari e Proprietari di Farmacia della Provincia di Ascoli Piceno, Farmacia Tamburrini S.n.c. del Dr. Tamburrini Palmiro & C., ciascuno di essi in persona del rispettivo legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Massimo Luciani, Piermassimo Chirulli e Patrizio Ivo D'Andrea, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Federazione Ordini Farmacisti Italiani, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Giuseppe Lo Pinto, Fabio Cintioli e David Astorre, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Fabio Cintioli in Roma, via Vittoria Colonna, 32;
nei confronti
del Comune di Ascoli Piceno, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Lucia Iacoboni e Alessandro Lucchetti, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Aristide Police in Roma, viale Liegi, 32;
dell’Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche (A.S.U.R.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Massimo Colarizi e Patrizia Viozzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Massimo Colarizi in Roma, via Giovanni Antonelli, 49;
dell’Asur Marche Area Vasta n. 5, dell’Associazione Italiana Ospedalità Privata, dei signori Aldo Di Simone, Giuseppe De Berardinis, della Casa di Cura Villa San Marco S.r.l., nessuno dei quali è costituito in giudizio;
dell’Ordine Interprovinciale Farmacisti Ascoli Piceno e Fermo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Paolo Leopardi, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via G.Pisanelli, 2;
per la riforma
della sentenza n. 106 del 9 febbraio 2021 del Tribunale amministrativo regionale per le Marche, resa tra le parti, concernente il trasferimento della farmacia comunale n. 1 dal Comune di Ascoli Piceno alla società “Farmacia San Marco s.r.l.”, individuata quale soggetto acquirente a seguito di pubblico incanto indetto il 12 ottobre 2018 ai sensi degli artt. 73, lettera a), e 74 del R.D. n. 827 del 1924, nonché l’autorizzazione rilasciata dall’Azienda sanitaria delle Marche.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Federfarma – Federazione Nazionale Unitaria dei Titolari di Farmacia Italiani, Federfarma Ascoli – Associazione dei Titolari e Proprietari di Farmacia della Provincia di Ascoli Piceno, Farmacia Tamburrini S.n.c. del Dr. Tamburrini Palmiro & C., del Comune di Ascoli Piceno, dell’Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche (A.S.U.R.), dell’Ordine Interprovinciale Farmacisti Ascoli Piceno e Fermo e della Federazione Ordini Farmacisti Italiani;
Vista la sentenza non definitiva della Sezione Terza del Consiglio di Stato n. 8634 del 2021 con cui il ricorso è stato rimesso all’esame dell’adunanza plenaria;
Visti tutti gli atti della causa;
Designato relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 marzo 2022 il Cons. Hadrian Simonetti, uditi per le parti gli Avvocati Ubaldo Perfetti, Maurizio Natali, Massimo Luciani, anche in sostituzione di Fabio Cintioli, Piermassimo Chirulli, David Astorre, Paolo Leonardi, Massimo Colarizi e Lucia Iacoboni, anche in sostituzione di Alessandro Lucchetti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. La controversia ha ad oggetto una delle originarie quattro farmacie comunali di Ascoli Piceno, la farmacia n. 1 sita in Via Salaria Inferiore 19.
Con delibera del 9 ottobre 2018, il Comune decise di cedere la titolarità di questa (e di un’altra) farmacia mediante pubblico incanto in applicazione degli articoli 73 e 74 del r.d. n. 827 del 1924.
Nella gara per il lotto 1, alla quale hanno partecipato tre concorrenti, è risultata migliore offerente la società San Marco s.r.l., che ha offerto il rialzo maggiore, per complessivi euro 1.220.000,00, divenendone aggiudicataria.
Per quanto più rileva in questa sede, il bando faceva espresso richiamo, all’art. 5, alle incompatibilità di legge (in specie quelle di cui agli artt. 7 e 8 della l. 362 del 1991), riferendole anche (alla lett. g) ai partecipanti alle società e, nel presentare la propria offerta, la San Marco s.r.l. dichiarava che non vi erano cause di incompatibilità ad essa riferibili.
All’aggiudicazione faceva seguito l’autorizzazione al trasferimento della titolarità e all’esercizio dell’attività di farmacia rilasciata dall’Azienda sanitaria delle Marche, con atto del 4 aprile 2019, nella cui parte motiva (in particolare nel documento istruttorio) si dava conto che l’amministratore unico della San Marco s.r.l. non si trova(va) in situazioni di incompatibilità con riguardo alla partecipazione in società di persone o di capitali titolari di farmacia.
2. Avverso l’autorizzazione e gli atti di gara presupposti hanno proposto ricorso dapprima la Federazione regionale dei farmacisti privati della regione Marche, la cui impugnazione è stata dichiarata inammissibile dal Tar Marche, con sentenza n. 105 del 2021, per difetto di legittimazione, e in seguito, inizialmente mediante due ricorsi straordinari poi trasposti, (con il primo) Federfarma Italia, la Federazione ordine farmacisti italiani e la farmacia Tamburrini, nonché (con il secondo) la Federazione ordine farmacisti italiani, deducendo in entrambi casi la violazione degli artt. 7 ed 8 della l. 362 del 1991, in particolare denunciando la commistione tra l’attività di dispensazione di farmaci e l’attività medica. I ricorrenti hanno dedotto che la San Marco s.r.l., avente ad oggetto la prima attività, è controllata al 100% dalla società Villa San Marco s.r.l., che della prima è socio unico e che, gestendo case di cura e di assistenza, svolgerebbe attività medica. Ulteriori indici di una sostanziale unità tra le due società si ricaverebbero dal fatto che condividerebbero la medesima sede legale e che la stessa persona, il dott. Romani, riveste la carica di presidente del cda della Casa di cura e di amministratore unico della San Marco s.r.l.
Sulla base di questi e di altri elementi, in specie la presenza nel cda della Villa San Marco di un medico e tra i suoi soci di un secondo medico, i ricorrenti censuravano come, per un verso, fosse mancata qualunque verifica sulle incompatibilità di legge al momento della gara e, per altro verso, la verifica posta in essere dall’Azienda sanitaria al momento dell’autorizzazione fosse stata incompleta, in quanto condotta solo con riferimento alla San Marco e non anche nei confronti della Casa di cura che ne è il socio unico.
3. Il Tar Marche, con sentenza 106 del 2021, riuniti i due ricorsi e disattese una serie di eccezioni processuali, li ha accolti sul rilievo che, in sintesi:
- le incompatibilità di legge previste per i farmacisti persone fisiche – in particolare il divieto di svolgere anche attività medica –rilevano anche per i soci della società titolare di farmacia, anche nell’ipotesi in cui il socio sia una persona giuridica;
- sicuramente, le incompatibilità debbano valere per quei soci che concorrono nella gestione della farmacia, avendo il controllo della società titolare, alla luce dei principi affermati dalla sentenza della Corte cost. n. 11 del 2020;
- gli indici sopra già ricordati dimostrano che la Casa di cura, in quanto socio unico della San Marco, è da intendersi come socio gestore ovvero è coinvolta nella gestione della farmacia;
- di conseguenza gli atti impugnati sono viziati non avendo né il Comune né l’Azienda sanitaria accertato la sussistenza delle cause di incompatibilità.
4. Decidendo sull’ appello della San Marco s.r.l. avverso la sentenza del Tar, la terza sezione, dopo avere accolto la domanda cautelare con l’ordinanza n. 3771 del 2021, con la sentenza non definitiva n. 8634 del 2021, dopo aver respinto una serie di motivi di carattere processuale, esaminando il merito della controversia ha ricostruito il quadro normativo desumibile dagli artt. 7 ed 8 della l. 362 del 1991 e prima ancora dall’art. 102 del r.d. n. 1265 del 1934, con contestuale ordinanza ha rimesso l’esame della causa a questa Adunanza Plenaria.
La Sezione ha sottolineato come tale quadro sia divenuto (più) problematico all’indomani delle ultime modifiche apportate dalla l. 124 del 2017 (legge sulla concorrenza), il cui art. 1, comma 157, lett. b) ha “aperto” la titolarità delle farmacie (private) anche alle società di capitali, ma senza del tutto coordinare la riforma con la precedente normativa sul il regime delle incompatibilità, in origine disciplinato con riferimento al modello del farmacista persona fisica (o al più società di persone).
Di qui il dubbio se il tradizionale regime sulle incompatibilità, incentrato sulle nozioni di “gestione della farmacia” e di “esercizio della professione medica”, si debba o si possa estendere al socio (che sia persona giuridica) di società di capitali e in quali termini (di compatibilità).
La Sezione remittente ricorda come più in generale la tematica sia stata affrontata dal Consiglio di Stato in sede consultiva con il parere n. 69 del 2018 e dalla già richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 11 del 2020.
Il parere sopra citato per intero il regime delle incompatibilità pensato per le persone fisiche a qualunque socio di società di capitali (titolare di farmacia).
La seconda sentenza della Corte ha effettuato invece una distinzione a seconda che il socio sia mero finanziatore oppure concorra nella gestione della società.
Dando atto di questa divergenza e recuperando taluni concetti fondamentali rilevanti nel diritto commerciale (“direzione e coordinamento”; “amministrazione”;” socio unico”), la Sezione ha rimesso alla Adunanza Plenaria la definizione dei due elementi normativi concernenti la “gestione” della farmacia e l’”esercizio della professione medica” in relazione ai casi in cui la società di capitali titolare di farmacia sia controllata da una società di capitali che svolge un’attività (in tesi) incompatibile (perché esercita la professione medica).
Con riferimento al primo elemento la Sezione prospetta tre possibili soluzioni alternative:
1) una valutazione di tale elemento da condursi ogni volta in concreto, per accertare se il controllo societario ovvero la direzione e coordinamento condizionino davvero l’operato della società controllata;
2) un giudizio di incompatibilità derivante per ciò solo dal controllo societario;
3) un giudizio al contrario di compatibilità, motivato in ragione dell’autonomia dell’organo amministrativo della società controllata.
5. Le difese delle parti, nei loro scritti, successivi alla rimessione, hanno approfondito le due questioni, calibrandole sul caso di specie.
La difesa di parte appellante muovendo da un’impostazione di tipo formale-letterale, sostiene in primo luogo che la Casa di cura non eserciterebbe la professione medica in senso proprio, che non rientrerebbe nell’oggetto del contratto atipico di spedalità, richiamando anche, quale argomento a contrario, il risalente divieto posto dalla legge n. 1815 del 1939 allo svolgimento delle “professioni protette” in forma di società commerciali.
Quanto al secondo elemento, l’appellante sostiene che la gestione possa essere ricavata per presunzione dalla “direzione e coordinamento” a sua volta presunta dal “controllo”. Si tratterebbe così di una inammissibile presunzione derivante da un’altra presunzione.
Le difese delle originarie parti ricorrenti in primo grado, muovendo al contrario da un’interpretazione teleologica e funzionale della disciplina, ravvisano nel caso di specie gli elementi sia della gestione (essendo la Casa di cura socio unico della San Marco e coincidendo in parte le persone dei loro amministratori) che dell’esercizio della professione medica da parte della medesima casa di cura. Per quest’ultimo aspetto gli originari ricorrenti sottolineano come la casa di cura, attraverso il suo personale sanitario, svolga attività di prescrizione dei medicinali, il che sarebbe incompatibile potendo lo stesso soggetto che prescrive il medicinale indirettamente, attraverso la partecipazione societaria totalitaria, dispensare i relativi farmaci, violando così una serie di disposizioni di legge, oltre che deontologiche.
La difesa del Comune di Ascoli Piceno sembra suggerire una soluzione mediana, nel senso di prescindere da qualunque automatismo escludente e di rimettere la valutazione all’amministrazione procedente, ammettendo la possibilità che, ove la situazione di incompatibilità sia riscontrata, l’operatore economico possa avere un termine per rimuoverla.
6. All’udienza pubblica del 16 marzo 2022 la causa è stata discussa ed è passata in decisione.
DIRITTO
1. Le questioni sollevate dalla Terza Sezione sottopongono all’esame dell’Adunanza plenaria l’ampio tema concernente le modalità di esercizio dell’attività farmaceutica e il regime di titolarità e di gestione delle farmacie, all’indomani dell’ultima riforma del 2017, già affrontato di recente da questo Consiglio di Stato, in occasione del ricordato parere della Commissione Speciale n. 69 del 2018.
2. L’attività di vendita al pubblico di farmaci al dettaglio, che la giurisprudenza costituzionale inquadra nell’ambito dei servizi pubblici di natura economica dati in concessione (Corte cost. n. 150 del 2011, 430 del 2007, 448 e 87 del 2006), costituisce un’attività economica da molto tempo disciplinata e vigilata, soggetta a programmazione a partire dalla “storica” legge n. 468 del 1913, che modificò il regime tardo ottocentesco precedentemente nel segno di una sostanziale libertà nell’apertura e nell’esercizio delle farmacie (cfr. art. 26 della l. n. 5849 del 1888).
La riforma del 1913, trasposta senza sostanziali modifiche nel testo unico delle leggi sanitarie del 1934 (il r.d. n. 1265, in particolare il Capo II del Titolo II, artt. 104 ss.), configurava il servizio farmaceutico secondo i crismi di una professione intellettuale “protetta”, riservata esclusivamente ad una persona fisica, il farmacista, che fosse in possesso di specifici requisiti di idoneità e risultasse titolare di un’autorizzazione amministrativa all’apertura e all’esercizio della farmacia (di cui a lungo, sino al “chiarimento” offerto dall’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, si sarebbe discussa la natura giuridica, se veramente autorizzatoria o concessoria), strettamente personale, non cumulabile e, almeno in origine, incedibile ad altri (v. artt. 102 e 112 del r.d. 1265/1934; da osservare come una regola di incompatibilità dell’esercizio della farmacia con l’esercizio di “altri rami dell’arte salutare” fosse prevista, prima ancora, sin dalla l. n. 5849 del 1888, all’art. 24).
In epoca repubblicana la programmazione, effettuata in questo ambito anche in termini quantitativi e numerici, ha assunto i contorni di una vera e propria pianificazione, articolata su base comunale, attraverso la pianta organica delle farmacie (art. 2 della l. n. 475 del 1968): quale strumento in forza del quale affidare il servizio farmaceutico ai privati laureati in farmacia (art. 9 della l. 475/1968; art. 4 della l. n. 362 del 1991) ovvero ai Comuni (art. 9 della l. 475/1968), secondo un rapporto numerico tra esercizi ed utenti ed assegnando ad ogni farmacia una clientela o un bacino di utenza per così dire virtuale (art. 1 della l. 475/1968).
Il nesso tra contingentamento, programmazione e sottoposizione del farmacista ad una serie di disposizioni imperative, in uno con il richiamo sin da allora all’art. 32 Cost. quale loro fondamento, era evidenziato in una delle prime pronunce della Corte costituzionale (la n. 29 del 1957) la quale ha osservato come “L'organizzazione del servizio farmaceutico, se da un lato ha creato al farmacista concessionario di una farmacia una posizione di privilegio con l'eliminare la concorrenza entro determinati limiti demografici e territoriali; dall'altro, trattandosi di un servizio di pubblica necessità, ha imposto allo stesso farmacista l'obbligo di svolgere la sua attività con l'adempimento delle prescrizioni dalle leggi stabilite per questa particolare professione”.
All’indomani dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale nel 1978 le farmacie, sia quelle private che quelle comunali (le seconde ritenute da Cons. St., sez. III. n. 474 del 2017 esercizio diretto di un servizio pubblico), ne sono divenute parte integrante e costituiscono, lo strumento attraverso il quale è erogata l’assistenza farmaceutica alla popolazione (v. art. 28 della l. n. 833 del 1978; l’assistenza è oggi inserita tra i livelli essenziali disciplinati dal d.p.c.m. 12 gennaio 2017), in ragione della loro capillarità e del loro obbligo di erogare i farmaci agli assistiti ed a chiunque intenda acquistarli e di non interrompere lo svolgimento del servizio soggetto ad ampi poteri di vigilanza e di controllo dell'amministrazione (Corte cost., n. 87 del 2006; Cons. St., Ad. plen., n. 1 del 2000 e n. 5 del 2002).
Sperimentata anche in altri ordinamenti europei (ad esempio in Francia e Spagna) e giustificata ora nella prospettiva di assicurare a ciascuna farmacia una clientela “sufficiente” (come rilevava criticamente AGCM in una segnalazione del 1998), ora di assicurare (anche, se non piuttosto) ai residenti la reperibilità dei farmaci entro un’area non troppo distante dalla propria abitazione e comunque anche nelle zone più isolate e svantaggiate o meno redditizie (in questo senso, sottolineando “l’obiettivo di garantire un rifornimento di medicinali alla popolazione sicuro e di qualità”, cfr. Corte di giustizia UE, sez. IV, 5 dicembre 2013, in cause C-159/12 a C-161/12 e Grande sez., 1° giugno 2010, in causa 570/07, al punto 96 ), in funzione del diritto alla salute, la programmazione anche mediante il contingentamento numerico è stata oggetto di recenti modifiche apportate dall’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012, convertito in legge n. 27 del 2012. Con esse il rapporto tra numero degli esercizi e fattore demografico è stato rimodulato nella direzione di una (parziale “liberalizzazione” e quindi di una) distribuzione più capillare del servizio, attraverso l’apertura di nuove farmacie private da mettere a concorso, sicché la programmazione di turni ed orari è stata allentata, riconoscendo all’iniziativa del singolo farmacista maggiore voce in capitolo.
3. Alle limitazioni quantitative, si cui si è appena detto, si sono affiancate tradizionalmente limitazioni soggettive, nel riservare alla (sola) categoria dei farmacisti la possibilità di esercitare l’attività di distribuzione e vendita al pubblico dei farmaci.
La disciplina già ricordata del 1968, se da un lato reintrodusse rispetto alla legislazione “giolittiana” la possibilità a determinate condizioni di trasferire la titolarità della farmacia in deroga alla regola del pubblico concorso, dall’altro accentuò ulteriormente la struttura personalistica dell’attività di gestione della farmacia, disponendo che tale gestione dovesse essere diretta e personale da parte del titolare e costruendo una sorta di simmetria tra status di farmacista, titolarità e gestione dell’esercizio; come confermato dal regime di incompatibilità previsto dall’art. 13 della l. 475/1968 per cui “Il titolare di una farmacia ed il direttore responsabile, non possono ricoprire posti di ruolo nell'amministrazione dello Stato, compresi quelli di assistente e titolare di cattedra universitaria, e di enti locali o comunque pubblici, nè esercitare la professione di propagandista di prodotti medicinali.
Il dipendente dello Stato o di un ente pubblico, qualora a seguito di pubblico concorso accetti la farmacia assegnatagli, dovrà dimettersi dal precedente impiego e l'autorizzazione alla farmacia sarà rilasciata dopo che sia intervenuto il provvedimento di accettazione delle dimissioni”.
A questo schema, incentrato sulla figura del farmacista persona fisica al tempo stesso professionista intellettuale, imprenditore e concessionario di pubblico servizio, le successive modifiche realizzate nel 1991 dalla l. n. 362 apportarono inizialmente variazioni molto contenute, affiancando alle persone fisiche le società di persone e le società cooperative a responsabilità limitata ma esigendo che i loro soci fossero farmacisti iscritti all’albo e avessero conseguito l’idoneità in un concorso a sedi farmaceutiche. La dissociazione, ammessa per la prima volta come evenienza non transitoria e non occasionale, tra titolarità e gestione, seppure faceva emergere in superficie l’aspetto imprenditoriale della vicenda (nel senso che la figura del farmacista sia un “ibrido”, essendo al contempo professionista intellettuale, concessionario di pubblico servizio e imprenditore soggetto al fallimento, v. Cons. St., sez. IV, n. 6409 del 2004, e, più di recente, Cass. s.u. n. 11292 del 2021), era tuttavia bilanciata dalla configurazione della società come società di soli farmacisti e della sua attività in termini di professione. Al punto che - si è rilevato in dottrina - l’aspetto professionale finiva per assorbire quello imprenditoriale.
Va inoltre rilevato che il riordino del settore farmaceutico realizzato con la legge del 1991 riguardasse anche le farmacie comunali (l’art. 10 della legge 362/1991 sostituiva infatti l’art. 9 della l. 475/1968) per la cui gestione, attraverso il richiamo alla legge n. 142 del 1990, si ammetteva per la prima volta (anticipando quanto per le farmacie private sarebbe stato consentito invece solamente nel 2017) il modello della società di capitali (mista), di lì a breve eliminando anche il vincolo della partecipazione maggioritaria dell’ente locale.
Variazioni ancora maggiori, sul piano sistematico, sono state introdotte più di recente, con la legge 4 agosto 2017, n. 124, recante la legge annuale per il mercato e la concorrenza (si è trattato invero della prima e sinora unica legge “annuale” approvata dal Parlamento ai sensi dell’art. 47 della l. n. 99 del 2009), il cui art. 1, comma 157, ha riscritto larga parte dell’art. 7 della l. 362/1991, in primo luogo sostituendone il comma 1 che, nella versione attuale, per effetto della modifica, prevede adesso che: «1. Sono titolari dell'esercizio della farmacia privata le persone fisiche, in conformità alle disposizioni vigenti, le società di persone, le società di capitali e le società cooperative a responsabilità limitata».
4. L’apertura alle società di capitali, anche per le farmacie private, si è accompagnata inoltre, sempre nella riforma del 2017, al venir meno ovvero all’abolizione, per tutti i tipi societari, della previsione che in precedenza imponeva che i soci, delle società che gestiscono farmacie, dovessero essere a loro volta farmacisti, come anche alla rimozione del limite delle quattro licenze in capo ad una stessa società, limite sostituito dal divieto, meno pregnante, di controllare una quota superiore al 20 per cento delle farmacie della medesima regione o provincia autonoma ed il cui rispetto è sottoposto ai poteri di indagine, istruttoria e diffida dell’AGCM.
Le società titolari dell’esercizio di farmacie private devono avere questa attività come loro oggetto sociale esclusivo e, quand’anche i soci possano non essere farmacisti, è pur sempre necessario che la direzione della farmacia continui invece ad essere affidata ad un farmacista, anche non socio, che ne è responsabile.
La riforma del 2017 – quale ulteriore e importante dato da sottolineare – ha disciplinato anche il regime delle incompatibilità, novellando l’art. 7, comma 2, secondo periodo, della l. n. 362/1991 e prevedendo che «La partecipazione alle società di cui al comma 1 (si intendono le società titolari dell’esercizio di farmacie private) è incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l'esercizio della professione medica. Alle società di cui al comma 1 si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni dell'articolo 8.»
In precedenza, una regola di incompatibilità (solo) parzialmente simile era dettata all’art. 8, comma 1, della medesima legge, prevedendosi che «1. La partecipazione alle società di cui all'articolo 7, salvo il caso di cui ai commi 9 e 10 di tale articolo, è incompatibile:
a) con qualsiasi altra attività esplicata nel settore della produzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco.»
La nuova e più ampia previsione, dunque include ora tra le incompatibilità anche l’esercizio della professione medica e la cui necessità è originata dalla possibilità, introdotta nel 2017, che i soci non siano più farmacisti, laddove in precedenza (anche dopo il 1991) potevano ritenersi sufficienti – quanto all’esercizio della professione medica - i tradizionali divieti posti dal r.d. n. 1256 del 1934 (in specie agli artt. 102 e 112) dettati per i farmacisti persone fisiche titolari ovvero esercenti (da soli o in società di persone) di farmacia. Sono perciò esistenti a ben vedere, in due distinte e separate regole di incompatibilità. La prima, declinata in termini all’apparenza assoluti, definisce la partecipazione (societaria) alle società titolari di farmacie private incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l'esercizio della professione medica; la seconda, declinata in termini in tesi meno assoluti, valorizzando l’inciso “per quanto compatibili”, fa rinvio alle disposizioni del successivo art. 8 che, per quanto più rileva in questa sede, definiscono quella medesima partecipazione (societaria) incompatibile, tra le altre cose, “con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato”.
5. La distinzione tra queste due regole di incompatibilità – si ribadisce, preesistenti alla riforma del 2017, in quanto parti integranti della disciplina di settore, e che la riforma del 2017 ha mutuato ed “aggiornato”, riferendole ora ad ogni ipotesi di gestione in forma societaria – può forse spiegare l’apparente distonia tra due pronunce della Corte costituzionale che hanno esaminato questo specifico argomento, che le parti del presente giudizio richiamano, naturalmente da prospettive e con finalità differenti, nei loro scritti e che ricevono menzione anche nelle sentenze di primo grado e di appello.
Per un verso, la sentenza, interpretativa di rigetto, n. 11 del 2020, della seconda regola ha dato una lettura evolutiva, in un caso nel quale l’incompatibilità era prospettata tra la partecipazione sociale tout court (ad una società di capitali titolare di farmacia privata) e la titolarità in capo al socio di una docenza universitaria, ed ha ritenuto rilevante una distinzione finendo per a seconda che la partecipazione sia in funzione del solo investimento del proprio risparmio (come nel caso all’origine del giudizio a quo) o comporti invece anche il concorso (attivo) nella gestione della società.
Per altro verso, la sentenza, interpretativa di accoglimento di tipo additivo, n. 275 del 2003 (della quale non è fatta menzione nella n. 11 del 2020), che si era pronunciata in un caso riguardante una farmacia (non privata ma) comunale affidata ad una società mista il cui socio di maggioranza era una società di capitali già operante nel settore della distribuzione del farmaco, ed ha dichiarato allora l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della l. n. 362 del 1991 – nella versione vigente ratione temporis, già prima ricordata - nella parte in cui non prevedeva che la partecipazione a società di gestione di farmacie comunali fosse incompatibile con qualsiasi altra attività nel settore della produzione, distribuzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco.
In questa seconda sentenza il ragionamento della Corte fece leva in particolare sul carattere “di divieto generale” dell’art. 102 del r.d. 1265/1934, ribadito negli artt. 144, 170, 171 e 372, nonché nell’art. 13 della l. 475/1968, nel loro insieme (tutti questi divieti e prescrizioni) riassunti e compendiati in quello disposto dall’ art. 8 della legge 362/1991 che, volto ad evitare eventuali conflitti di interesse che possano ripercuotersi negativamente sullo svolgimento del servizio farmaceutico, irragionevolmente si riferiva testualmente alle sole farmacie private e non anche a quelle comunali (sul tema v., anche, Cons. St. sez. V, n. 7336 del 2010).
Se la sentenza costituzionale del 2020 è fortemente invocata dalla difesa di parte appellante a sostegno delle proprie tesi ed è valorizzata anche dalla Sezione remittente come una possibile chiave interpretativa dei dubbi prospettati con particolare riferimento al tema della “gestione della farmacia”, quella del 2003 è richiamata soprattutto dalle difese delle parti appellate, in funzione della dedotta e riaffermata incompatibilità, e trovava già spazio anche nel parere della Commissione speciale di questo Consiglio del 2018.
6. Nella vicenda concretamente all’esame ora dell’Adunanza Plenaria, la società di capitali, che come richiamato nella parte in fatto si è aggiudicata la procedura ad evidenza pubblica per l’alienazione di una farmacia comunale e che ha avuto il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività, è una società unipersonale, controllata, quindi al 100%, da un’altra società sempre di capitali che a sua volta gestisce una casa di cura privata. E’ sorta dunque la questione se ricorra la situazione di incompatibilità di cui all’art. 7, comma 2, secondo periodo, della l. 362/1991, sussistendo i due elementi, da un lato, della partecipazione a (e l’essere socio di) una società di capitali titolare dell’esercizio della farmacia privata e, dall’altro, dell’esercizio da parte di quel medesimo socio (unico) della professione medica.
Il secondo dato ancora più peculiare, sempre nella vicenda in esame, è costituito dal fatto che il socio in questione, che partecipa al capitale della società titolare di farmacia, non è una persona fisica ma una persona giuridica, una società a responsabilità limitata, il che pone l’ulteriore questione se - ai fini e per gli effetti di cui all’art. 7, comma 2, più volte citato – un soggetto di questo tipo, avente personalità giuridica, possa considerarsi esercitare la professione medica.
7. Approfondendo l’analisi a partire dall’elemento dell’esercizio della professione medica (e quindi invertendo l’ordine tracciato dalla sezione remittente), secondo la tesi di parte appellante una persona giuridica non potrebbe (dirsi) esercitare simile professione, non solo sul piano naturalistico ma anche su quello normativo, il che troverebbe conferma nelle disposizioni della legge n. 1815 del 1939, che a lungo hanno vietato lo svolgimento delle professioni protette (tale essendo la professione medica) nella forma della società commerciale. Né, sostiene ancora la difesa di parte appellante, potrebbero rilevare le prestazioni mediche erogate dalla casa di cura, dal momento che tali prestazioni si inquadrano nel (e sono parte del) contratto atipico di spedalità che avrebbe un oggetto assai più ampio ed articolato, ricomprendendo le attività anche infermieristiche, di somministrazione vitto ed alloggio.
I due argomenti, quello per così dire naturalistico e quello normativo, approfonditi distintamente dalle parti appellate nelle loro difese, si rivelano non persuasivi e, utilizzati insieme, finiscono per indebolirsi a vicenda, piuttosto che per rafforzarsi.
Il primo di essi parrebbe riprendere l’idea tardo ottocentesca della persona giuridica come una finzione, di una persona che non esiste davvero nella realtà ma è soltanto immaginaria, e di cui, a quei tempi, si negava ad esempio che fosse “capace” di commettere fatti illeciti. Da allora, come noto, molte sono state le teorie elaborate sulla soggettività delle persone giuridiche (teorie organicistiche, riduzionistiche, etc.), fino ad evidenziarne la dimensione e la sostanza normativa, il suo essere essenzialmente un espediente linguistico, e più non si dubita circa l’applicabilità agli enti, secondo un approccio realistico e tenendo presente lo scopo perseguito dal legislatore, di (una serie di) norme che hanno testualmente come destinatari i soli individui. Solo in tal modo, osserva la dottrina civilistica, è possibile prevenire gli abusi di chi cerchi di eludere divieti personali operando dietro lo schermo di una persona giuridica.
Il secondo argomento è contraddetto sia dall’abolizione, in anni più recenti, del divieto un tempo posto dalla legge del 1939, che dallo stesso carattere composito del contratto atipico di spedalità privata il quale, nella sua complessità (cfr. Cass. s.u. n. 9556 del 2002, sez. III, n. 13953 del 2007 e da ultimo n. 28987 del 2019), ricomprende pur sempre, in posizione preminente – si direbbe, come il più contiene il meno - l’effettuazione di cure mediche da parte della struttura sanitaria, non di rado anche in regime ambulatoriale.
Il punto cruciale attiene al rapporto tra la clinica privata e i medici che in essa (e per essa) svolgono la loro attività. Per quanto indubbiamente peculiare, in ragione della autonomia e libertà di cura del medico anche alla luce delle regole deontologiche di tale professione, tale rapporto vede pur sempre rispondere la struttura a titolo contrattuale per il comportamento dei medici della cui collaborazione si avvale per l’adempimento della propria obbligazione, ancorché possano non essere suoi dipendenti, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costoro effettuata e l’organizzazione aziendale della casa di cura, il che giustifica l’applicazione della regola posta dall’art. 1228 c.c. (come ribadito da ultimo dall’art. 7 della l. n. 24 del 2017).
L’insieme di queste considerazioni debbono quindi condurre a ritenere che anche una persona giuridica, in particolare una clinica privata, possa considerarsi esercitare, nei confronti dei propri assistiti, la professione medica ai fini della previsione di cui all’art. 7, comma 2, secondo periodo, della l. 362/1991.
Va precisato ancora come non si tratta di dare corso ad interpretazioni estensive o analogiche di cause o regole escludenti tassative, quanto, piuttosto, di privilegiare un’interpretazione funzionale e sistematica, coerente con la ratio ispiratrice della veduta regola di incompatibilità che mira ad evitare commistioni di interessi “tra medici che prescrivono medicine e farmacisti interessati alla vendita, in un'ottica di tutela del diritto alla salute di rango costituzionale” (così Cass. sez. III, n. 4657 del 2006, che richiama Cons. St., sez. IV, n. 6409 del 2004)
La ratio, quella originaria, riconosciuta anche da Corte cost. n. 275/2003 – è quella di “evitare eventuali conflitti di interesse, che possano ripercuotersi negativamente sullo svolgimento del servizio farmaceutico e, quindi, sul diritto alla salute” e,- come si è visto, ha sempre caratterizzato la disciplina in materia, come una delle sue costanti o invarianti, attraversando le diverse “stagioni” della regolazione pubblica delle farmacie. Ciò è dimostrato anche dalle disposizioni penali che ancora puniscono il cd. reato di comparaggio, ossia l’accordo tra medici e farmacisti volti ad agevolare la diffusione di specialità medicinali o di altri prodotti ad uso farmaceutico (artt. 170 ss del r.d. 1265/1934), come anche dalle previsioni del codice deontologico medico.
Oltre a questa prima ragione, più tradizionale ma sempre attuale, si possono rinvenire ulteriori ragioni ispiratrici, che giustificano e rafforzano il permanere, nella nuova dimensione economico-finanziaria delle farmacie, del divieto di commistione tra attività farmaceutica ed esercizio della professione medica, legate, per un verso, alla tutela della concorrenza e, per altro verso, al contenimento del consumo farmaceutico e della spesa sanitaria.
Sul primo versante, il consentire ad una casa di cura, che offre prestazioni mediche composite e nel cui ambito si prescrivono medicinali, di partecipare ad una società che ha la titolarità di una farmacia e che come tale dispensa e rivende medicinali previa prescrizione medica, finirebbe per rendere possibile una integrazione verticale di beni ed attività con una potenziale confusione di ruoli tra domanda ed offerta, passibile di determinare privilegi ed abusi di posizione, oltre che conflitti di interesse.
Sul secondo versante, il rischio è che la commistione tra le due attività in capo al medesimo centro decisionale – eludendo oltre tutto il vincolo dell’oggetto sociale che si vorrebbe esclusivo - possa determinare un esubero nel consumo farmaceutico, con evidenti riflessi anche sulla spesa pubblica (v. su tale aspetto, anche Corte Giust., Grande sez., 19 maggio 2009, in causa 531/06 al punto 57).
8. Una volta rinvenuto nella fattispecie in esame l’elemento dell’esercizio della professione medica, ne consegue che sussiste l’incompatibilità di cui all’art. 7, comma 2, secondo periodo, nel senso che la casa di cura non può avere partecipazioni in una società titolare dell’esercizio della farmacia. Non può avere – giova precisare – alcuna partecipazione, ovvero non può esserne socio in nessun modo, senza che occorra distinguere in ragione della natura e della incidenza della singola partecipazione, essendo la disposizione di legge sufficientemente chiara nel legare questa incompatibilità alla partecipazione in quanto tale, nella misura in cui ad essa si correla comunque la prospettiva di ricavarne degli utili.
Diversa può essere la conclusione, sulla scorta di Corte cost. n. 11 del 2020, al cospetto di incompatibilità differenti, segnatamente quella di essere il socio titolare di rapporti di lavoro pubblico o privato, rispetto a cui si può valorizzare la formula “per quanto compatibili” impiegata all’art. 7, comma 2, terzo periodo, senza della quale un’interpretazione rigorosamente letterale finirebbe per consentire la partecipazione solo (o quasi) a studenti, disoccupati o pensionati.
Nella soluzione del caso di specie, invece, non sarebbe a rigore necessario stabilire a quali condizioni la società controllante possa dirsi coinvolta, per il tramite della controllata, nella “gestione della farmacia”.
Tanto più che è evidente come il caso in esame coincida con il massimo del controllo societario ipotizzabile, avendo la casa di cura il controllo totalitario (ovvero il 100% del capitale) della società titolare della farmacia, essendo la prima unico socio della seconda. Si è quindi al cospetto di un fenomeno di riduzione della compagine sociale ad un solo soggetto “sovrano” che ne determina o comunque ne condiziona, attraverso l’organo amministrativo che egli (solo) nomina (e revoca), tutte le principali scelte. Un fenomeno così forte da rendere in questo caso non necessario il richiamo alla categoria dei gruppi di società e all’attività di direzione e coordinamento, concetti non del tutto coincidenti ma nella pratica (e anche nella previsione di legge, cfr. art. 2497 sexies c.c.) ricavabili a partire dalla nozione di controllo, interno od esterno, di cui all’art. 2359 c.c.
Il carattere totalitario del controllo ravvisabile nel caso di specie fa passare in secondo piano anche ulteriori elementi, comunque rilevanti, quali l’identità soggettiva tra il legale rappresentante dell’una e dell’altra società, e la presenza, tra i soci della casa di cura e anche all’interno del suo consiglio di amministrazione, di medici (almeno) teoricamente in grado di esercitare la professione.
Differentemente, in assenza di una società unipersonale e quindi di una partecipazione totalitaria, (ma sempre ragionando in relazione ad un diverso tipo di incompatibilità) dovrebbe assumere rilevanza una partecipazione che comunque permetta di concorrere nella gestione della farmacia, nel senso di influenzarne le scelte aziendali. Non rileverebbe quindi qualunque partecipazione sociale ma quella che possa dare al socio il controllo della società, nei modi gradatamente indicati dal citato art. 2359 e in presenza dei quali, come si è già osservato, opera la presunzione di direzione e coordinamento (ricavabile anche aliunde, in specie dall’essere la società tenuta al consolidamento del proprio bilancio). Soccorrono evidentemente le regole e gli istituti propri del diritto societario, nell’elaborazione offertane in primo luogo dalla giurisprudenza civile. Non è possibile offrire in questa sede soluzioni all’insegna dell’automatismo, apparendo imprescindibile la valutazione del singolo caso rimessa al prudente apprezzamento dell’amministrazione cui non a caso va comunicato, a norma dell’art. 8, comma 2, della l. 362/1991, lo statuto della società titolare della farmacia e “ogni successiva variazione, ivi incluse quelle relative alla compagine sociale”.
9. Le considerazioni sin qui svolte, in particolare i motivati richiami alla giurisprudenza eurounitaria e a quella costituzionale, inducono l’Adunanza a non accogliere le richieste incrociate di rimessione alla Corte di giustizia e alla Corte costituzionale provenienti dalle difese di talune delle parti del giudizio, a sostegno delle loro tesi contrapposte.
10. Sulla base di tutto quanto sinora considerato, l’Adunanza Plenaria formula i seguenti principi di diritto sulle questioni ad essa deferite ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a.:
(i) la nozione di “esercizio della professione medica”, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 7, comma 2, secondo periodo, della l. 362/1991, deve ricevere un’interpretazione funzionale ad assicurare il fine di prevenire qualunque potenziale conflitto di interessi derivante dalla commistione tra questa attività e quella di dispensazione dei farmaci, in primo luogo a tutela della salute; in tal senso deve ritenersi applicabile la situazione di incompatibilità in questione anche ad una casa di cura, società di capitali e quindi persona giuridica, che abbia una partecipazione in una società, sempre di capitali, titolare di farmacia;
(ii) una società concorre nella “gestione della farmacia”, per il tramite della società titolare cui partecipa come socio, qualora, per le caratteristiche quantitative e qualitative di detta partecipazione sociale, siano riscontrabili i presupposti di un controllo societario ai sensi dell’art. 2359 c.c., sul quale poter fondare la presunzione di direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497 c.c.
11. Da quanto sinora considerato consegue che, nel caso di specie, è infondato il terzo motivo dell’appello della San Marco s.r.l. il che comporta, richiamata la sentenza parziale della sezione remittente con la quale sono stati già respinti i motivi primo, secondo e quarto, l’integrale reiezione del ricorso in appello e la conferma della sentenza di primo grado di annullamento degli atti impugnati.
12. L’annullamento, esteso anche agli atti di aggiudicazione e di approvazione dell’asta pubblica per la cessione della titolarità (ulteriore tratto di specialità della vicenda che rende, almeno in questo caso, impossibile consentire, come chiede la difesa del Comune, che la situazione di incompatibilità sia rimossa), comporta quale naturale effetto ripristinatorio il venir meno retroattivamente dell’alienazione intercorsa tra la parte appellante ed il Comune, con tutte le conseguenze civilistiche che ne discendono (in particolare la restituzione del bene e la ripetizione di quanto pagato, secondo le regole dell’indebito oggettivo), rammentando che eventuali controversie sul punto sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario. In aggiunta a tale effetto, il Comune valuterà se e come riesercitare il proprio potere di disporre della farmacia in questione, se in ragione del tempo trascorso ciò possa avvenire nell’ambito del medesimo procedimento di gara, qualora ve ne fossero ancora le condizioni.
13. Vi sono giustificati motivi, legati alla novità della questione e alla sua complessità, per compensare tra tutte le parti le spese anche dell’appello.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sull'appello, afferma i principi di diritto di cui in motivazione e, decidendo nel merito della causa, respinge il terzo motivo dell’appello e, per l’effetto, richiamata la sentenza non definitiva della terza sezione del Consiglio di Stato n. 8634 del 2021 con cui sono già stati respinti i restanti motivi, respinge nel suo complesso l’appello e conferma la sentenza di primo grado.
Spese del secondo grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 marzo 2022 con l'intervento dei magistrati:
Franco Frattini, Presidente
Luigi Maruotti, Presidente
Carmine Volpe, Presidente
Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente
Luciano Barra Caracciolo, Presidente
Marco Lipari, Presidente
Ermanno de Francisco, Presidente
Hadrian Simonetti, Consigliere, Estensore
Oberdan Forlenza, Consigliere
Vincenzo Lopilato, Consigliere
Fabio Franconiero, Consigliere
Federico Di Matteo, Consigliere
[1] La questione è stata rimessa dalla Terza Sezione del Consiglio di Stato con sentenza non definitiva 27 dicembre 2021, n. 8634.
[2] Sul punto v. Cons. Stato, Comm. Speciale, parere n. 69 del 2018.
[3] La ratio, quella originaria, riconosciuta anche da Corte cost. n. 275/2003 – è quella di “evitare eventuali conflitti di interesse, che possano ripercuotersi negativamente sullo svolgimento del servizio farmaceutico e, quindi, sul diritto alla salute”. Ciò è dimostrato anche dalle disposizioni penali che ancora puniscono il cd. reato di comparaggio, ossia l’accordo tra medici e farmacisti volti ad agevolare la diffusione di specialità medicinali o di altri prodotti ad uso farmaceutico (artt. 170 ss del r.d. 1265/1934), come anche dalle previsioni del codice deontologico medico.