il punto della situazione
1) INQUADRAMENTO GENERALE; 2) LA DOTTRINA; 3) LA GIURISPRUDENZA
INQUADRAMENTO GENERALE
Uno dei problemi maggiormente rilevanti nella gestione dei contratti pubblici consiste nell’esatta configurazione del rapporto da attivare con l’operatore economico privato.
In particolare, la questione coinvolge la distinzione tra appalti e concessioni, quali istituti connotati da notevoli differenze[1].
La ragione di questa distinzione è, sostanzialmente, banale, anche se molto spesso si tende a non valorizzarla: per le concessioni la normativa che regolamenta l’individuazione del concessionario è più permissiva, ma in realtà occorrerebbe dire che è meno vincolante, poiché in linea teorica l’investimento pubblico dovrebbe essere molto limitato, a fronte, invece di un impegno rilevante del privato.
Nella realtà, la regolazione della concessione consiste non tanto nella fase pubblicistica di individuazione del contraente, quanto soprattutto nella capacità da parte della pubblica amministrazione di definire in maniera molto chiara gli standard di qualità ritenuti fondamentali per i cittadini, anche allo scopo di permettere ai privati l’elaborazione del piano economico-finanziario di sostenibilità.
Fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, il discrimine tra appalto e concessione è stato ricercato dalla giurisprudenza sulla base di differenti criteri interpretativi. Il privilegio dato dagli interpreti all’uno o all’altro ha condizionato la qualificazione finale del contratto, come appalto di servizi o concessione:
1. Criterio “del destinatario”. Secondo questo primo sistema interpretativo si evidenzia che mentre negli appalti pubblici di servizi l’appaltatore presta il servizio in favore della pubblica amministrazione, al contrario nella concessione di pubblico servizio il concessionario si sostituisce alla pubblica amministrazione nell’erogazione del servizio direttamente alla collettività.
2. Criterio gestionale. Secondo questa diversa chiave di lettura si è in presenza di una concessione e non di un appalto laddove l’operatore economico si assuma i rischi di gestione della prestazione del servizio, rivalendosi sull’utente attraverso la riscossione di un canone.
3. Criterio del costo. Infine, si ritiene che si ha concessione se il servizio è reso ai cittadini terzi ed il corrispettivo sia in tutto o in parte a carico degli utenti; si ha, invece appalto di servizi se la prestazione è resa all’amministrazione aggiudicatrice, che ne corrisponde il controvalore economico.
L’accezione di concessione data dal nuovo Codice degli appalti pubblici si avvicina maggiormente al “criterio gestionale”, sia pure specifica meglio la necessità del rischio operativo, a sua volta sul presupposto di un piano di equilibrio-economico finanziario integralmente a rischio del concessionario ed esposto al mercato[2].
Per la prima volta il legislatore definisce la soglia massima dell’apporto pubblico (contributo anche in garanzia o di beni ovvero di prezzo) al raggiungimento dell’equilibrio finanziario. È evidente che in questo modo il piano economico è fondamentale e dirimente per la scelta del concessionario, in quanto sarà quello più credibile e sostenibile ad essere oggetto di maggiore attenzione ai fini dell’assegnazione.
Altrettanto ovvia sarà l’importanza da assegnare alla dimensione dell’apporto privato all’equilibrio: il suo crescere comporta una simmetrica riduzione dell’onere dell’amministrazione concedente, tale da meritare considerazione ai fini della valutazione dell’offerta.
Nella odierna definizione contenuta nell’art. 3 del d.lgs. n. 50/2016, gli appalti pubblici hanno ad oggetto lavori, servizi o forniture, mentre le concessioni pubbliche possono riguardare lavori o servizi.
La prima distinzione sostanziale tra i due tipi di contratti pubblici risiede nella loro definizione giuridica, in quanto ai sensi dell’art. 3, lett. ii), l’appalto pubblico è un contratto a titolo oneroso, stipulato per iscritto tra una stazione appaltante e un operatore economico, avente ad oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti e la prestazione di servizi. Gli elementi distintivi dell’appalto pubblico sono quindi la determinazione di un oggetto, che consiste in una prestazione idonea a realizzare un interesse pubblico che fa capo alla stazione appaltante, e la previsione dell’obbligo di un corrispettivo in capo alla stazione appaltante a favore dell’appaltatore.
La concessione pubblica, avente ad oggetto lavori o servizi, definita all’art. 3, lett. uu) e vv), si distingue dall’appalto per l’elemento del corrispettivo e per la gestione del rischio operativo. Se nell’appalto il corrispettivo coincide ad un compenso monetario determinato, nelle concessioni pubbliche l’onerosità corrisponde alla previsione del diritto del concessionario di gestire l’opera o il servizio oggetto del contratto, a cui si lega il rischio operativo di gestione. La peculiarità del contratto di concessione risiede infatti in questo profilo aleatorio rappresentato dal rischio operativo, inteso dall’art. 3, lett. zz), come il rischio legato alla gestione dei lavori e dei servizi sul lato della domanda o dell’offerta che incombe sul concessionario. Tale definizione determina l’incertezza per il concessionario di recuperare le spese e gli investimenti attuati per la stipula del contratto nel rapporto con l’utenza. Da qui emerge un’altra chiara differenza tra appalto e concessione, perché con il primo si instaura un rapporto giuridico bilaterale tra stazione appaltante e aggiudicatario, mentre nella concessione si realizza un rapporto trilaterale tra concedente, concessionario e utenza.
Nell’ambito delle concessioni, le concessioni demaniali marittime costituiscono un tema trasversale che coinvolge aspetti economici, sociali e giuridici. Ciò lo si deve al fatto che il bene demaniale marittimo sta assumendo sempre maggiore rilievo nell’offerta turistica dello Stato, presentandosi come un’occasione di guadagno per gli imprenditori.
Il difficile bilanciamento tra i diversi e talvolta opposti interessi che emergono nell’istituto delle concessioni marittime genera un continuo contrasto tra il diritto interno e il diritto sovranazionale. Il legislatore italiano, infatti, persiste nell’adottare regimi di proroga automatica delle concessioni in scadenza.
La ratio sottesa alla proroga automatica è rintracciabile nella volontà del legislatore italiano di tutelare gli investimenti effettuati dal concessionario per l’esercizio dell’attività. In questa prospettiva, il legislatore si preoccupa di far fruttare gli investimenti del concessionario prolungando in via automatica la durata della concessione e al di fuori dell’espletamento di una qualsiasi procedura ad evidenza pubblica.
Tuttavia, tale scelta legislativa si pone in evidente contrasto con la Direttiva 2006/123/EC (cd. “Bolkestein”)[3].
La Direttiva 2006/123/CE in materia di servizi al mercato interno liberalizza le attività private eliminando in buona parte i previgenti regimi autorizzatori[4].
Qualora, infatti, ai sensi dell’art. 12, “il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali” l’Amministrazione è tenuta ad avviare “una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”.
Come precisa il considerando n. 39, il regime di autorizzazione comprende tutte le procedure per il rilascio di “autorizzazioni, licenze, approvazioni o concessioni”. Il chiaro intento del legislatore europeo è di ovviare a classificazioni di istituti ad opera delle normative del legislatore le quali avrebbero l’effetto di eludere la normativa europea.
Il regime dell’Unione appena delineato esige che la scelta del nuovo concessionario da parte della Pubblica amministrazione avvenga all’esito di una procedura competitiva, ovvero di una gara ad evidenza pubblica caratterizzata dalla pubblicità e dalla valutazione comparativa delle offerte di tutti gli operatori economici interessati ad ottenere la concessione, a fortiori nel caso di “scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili”. Il rispetto del principio dell’evidenza pubblica, infatti, evita che i soggetti pubblici possano alterare il gioco della concorrenza distribuendo occasioni di guadagno sul mercato senza seguire criteri di competitività ed efficienza.
Il Decreto Legge del 19 maggio 2020, n. 34 (come convertito dalla L. del 17 luglio 2020, n. 77), nel recare “misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, all’art. 182, comma 2, vieta alle amministrazioni competenti di avviare o proseguire i procedimenti ad evidenza pubblica per il rilascio o per l’assegnazione delle aree oggetto di concessione alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto medesimo[5].
La previsione in questione va letta congiuntamente al richiamo, dalla stessa effettuato, all’art. 1, commi 682 e ss., della L. 30 dicembre 2018, n. 145[6], secondo cui le concessioni demaniali per lo svolgimento di attività turistico-ricreative in essere hanno una durata di quindici anni con decorrenza dalla data di entrata in vigore della legge medesima.
In altri termini, viene confermata la proroga automatica delle concessioni turistico-ricreative al 31 dicembre 2033, precedentemente disposta dalla Legge di bilancio 2019.
Le criticità sorgono dalla conferma legislativa di un regime di proroghe automatiche già ritenuto incompatibile con i principi comunitari da parte del Consiglio di Stato, il quale ha evidenziato come l’art. 1, commi 682 e ss., della Legge Finanziaria 2019, recando la proroga generalizzata e automatica di concessioni demaniali in essere, configura un “rinnovo automatico delle medesime ostativo all’espletamento di procedure competitive, ponendosi in contrasto con i principi comunitari della concorrenza, imparzialità e trasparenza per la scelta del nuovo concessionario”.
Tale contrasto soprattutto ove sancito dalla stessa Corte di Giustizia dell’UE, pone a carico dello Stato membro, da intendere in un’accezione ampia che ricomprenda anche la Pubblica amministrazione, l’obbligo di disapplicare la norma di diritto interno anticomunitaria e di procedere dunque all’espletamento della gara ad evidenza pubblica.
LA DOTTRINA
L’attuale istituto delle concessioni costituisce il frutto di notevoli trasformazioni rispetto all’originaria figura delle “concessioni amministrative”, così come delineate della dottrina tradizionale[7].
Nel recente passato, l’estensione del modello concessorio è stata, infatti, spesso accompagnata da uno scadimento della qualità dei servizi pubblici, conseguente ad una politica dei concessionari di minimizzazione dei costi e massimizzazione dei profitti. Quanto affermato è risultato possibile tenuto conto che l’impresa concessionaria gode, nei fatti, di una posizione privilegiata e dominante rispetto alla pubblica amministrazione concedente, formalmente titolare di poteri di direzione e di vigilanza.
Le distorsioni sono ancora più rilevanti nelle ipotesi in cui il conferimento della concessione è affidato alla piena discrezionalità dell’amministrazione concedente, o quando i privilegi del concessionario sono esasperati, o ancora quando ricorre l’esclusiva del servizio a suo favore, ovvero una prolungata durata della concessione, o ancora dalla sua facile rinnovabilità.
Nei settori in cui non vi è ragione che sussista alcuna “riserva” le concessioni non dovrebbero trovare più alcuna “giustificazione”, nondimeno non si ravvisano reali preclusioni di carattere normativo alla possibilità di ulteriori concessioni pur in presenza di un mercato concorrenziale, ancorché tali concessioni siano in grado di produrre gravi distorsioni del gioco della concorrenza poiché portano a restrizione dell’accesso al mercato di nuovi soggetti, finendo, di fatto, per limitare lo stesso a pochi operatori.
Venendo nello specifico al demanio marittimo, questo presenta rilevanti profili di problematicità, relativi tanto al suo oggetto quanto al suo utilizzo, anche in considerazione della morfologia territoriale del nostro paese[8].
Rispetto all’utilizzazione, attraverso lo strumento concessorio, dei beni del demanio marittimo, e in particolar modo delle spiagge (per ovvi motivi di interesse economico), sono emerse complesse questioni sia in ragione di noti interventi in ambito eurounitario che attengono principalmente ai principi di eguaglianza e di libertà di stabilimento sia a seguito di comparazione con altri ordinamenti.
La problematica principale è quella relativa all’attualità e all›efficacia del diritto di insistenza, posti gli ormai pacifici e sovraordinati principi di concorrenza e trasparenza, previsti sia per la tutela degli utilizzatori finali (individuabili, ad es., nei consumatori dei lidi) sia degli imprenditori del settore che vogliano accedere al mercato di riferimento (di per sé sensibilmente protetto) in condizioni di parità[9].
L’interesse pubblico cui sono destinati i beni pubblici può realizzarsi anche con un uso particolare dello stesso bene da parte di soggetti, pubblici o privati, per i quali viene previsto un certo utilizzo. Tale tipo di utilizzo può fondarsi sulla legge oppure su un atto amministrativo di natura concessoria con il quale può essere escluso l’uso, in maniera assoluta o relativa, del bene pubblico da parte di altri soggetti[10].
I titolari della concessione esercitano diritti speciali su beni e attività generalmente indisponibili ai privati e riservati ai pubblici poteri. In alcuni casi, i concessionari acquisiscono la titolarità di veri e propri diritti di monopolio sui beni che vengono loro conferiti. Ne consegue che chi utilizza, in via particolare, il bene pubblico in base ad un atto di concessione è titolare nei confronti dei terzi di un diritto di esclusione dall›utilizzazione dello stesso bene, diritto tutelabile sia con i mezzi e le azioni proprie del diritto comune sia con i poteri di autotutela esecutiva. La concessione è infatti caratterizzata dal trasferimento da un ente pubblico ad un soggetto privato di poteri pubblici, ovvero di quelle peculiari situazioni soggettive capaci di produrre atti unilaterali di tipo autoritativo[11].
Sul punto si sono espresse anche le Sezioni Unite precisando che i beni patrimoniali indisponibili, al pari di quelli demaniali, attesa la comune destinazione dalla soddisfazione di interessi pubblici, possono essere attribuiti in godimento a privati soltanto nella forma della concessione amministrativa, la quale, anche quando si configuri come concessione-contratto – vale a dire come combinazione di un negozio unilaterale autoritativo (atto deliberativo) della p.a. e di una convenzione attuativa (contratto) –, implica sempre l’attribuzione al privato di un diritto condizionato, che può essere unilateralmente soppresso dall’amministrazione stessa con la revoca dell’atto di concessione, in caso di contrasto con il prevalente interesse pubblico, con la conseguenza che, emesso il relativo provvedimento amministrativo, con l’intimazione della restituzione del bene, la posizione del privato stesso degrada ad interesse legittimo ed è suscettibile di tutela davanti al giudice amministrativo e non in sede di giurisdizione ordinaria[12].
Il sistema italiano di affidamento delle concessioni demaniali ha da sempre posto problemi di compatibilità con il principio comunitario della libertà di concorrenza all’interno degli Stati membri dell’Unione europea, previsto e disciplinato dagli artt. 101 e seguenti del TFUE.
LA GIURISPRUDENZA
Il Consiglio di Stato è tornato[13] sul tema delle proroghe alle concessioni demaniali marittime, ribadendo la non conformità delle medesime al diritto europeo. Ancora una volta, richiamandosi la nota sentenza della Corte di Giustizia del 14 luglio 2016, la giurisprudenza amministrativa conferma che l’assegnazione delle concessioni demaniali marittime deve essere preceduta di regola da una fase di evidenza pubblica in quanto, trattandosi di un’occasione di guadagno, occorre perseguire l’obiettivo di tutela della concorrenza.
La decisione riguarda il caso di una concessione nel Comune di Santa Margherita Ligure. Una società privata aveva fatto ricorso alla magistratura amministrativa a seguito del rifiuto del Comune di indire una gara pubblica su una concessione demaniale, confermando l’assegnazione alla società già concessionaria.
Con la riferita sentenza, il Consiglio di Stato, applicando la normativa e la giurisprudenza dell’Unione Europea, ha stabilito che le leggi nazionali italiane che prevedono proroghe automatiche delle concessioni demaniali marittime sono in contrasto con il diritto europeo e vanno pertanto disapplicate.
È stata, poi, richiamata la decisione della Corte di Giustizia UE (Sez. V, 14 luglio 2016, in cause riunite C-458/14 e C-67/15), secondo la quale “l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico-ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati”.
Anche la giurisprudenza di merito[14] si è occupata delle concessioni demaniali marittime ricordando che la normativa europea (e, in particolare, l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, c.d. direttiva Bolkestein, recepita in Italia con il d. lgs. n. 59 del 26 marzo 2010) rende necessaria l’attivazione di una procedura comparativa al fine di rilasciare la concessione di un bene demaniale marittimo per finalità turistico-ricreative, in quanto si tratta di una risorsa naturale “scarsa” ed economicamente sfruttabile per attività imprenditoriali, possibile occasione di guadagno per gli operatori del mercato.
Da ultimo il Tar Puglia, allontanandosi dall’orientamento giurisprudenziale maggioritario, ha, invece, ribadito l’obbligo per la Pubblica amministrazione di adeguarsi in ogni caso alla legge interna, ancorché questa sia in contrasto con il diritto dell’UE.
In particolare, viene affermata la doverosità per i Comuni di rilasciare titoli concessori al di fuori dell’espletamento della gara ad evidenza pubblica, in ossequio alla proroga automatica disposta dall’art. 1, comma 682, della Legge di bilancio 2019, al fine di evitare ipotesi di disparità di trattamento tra gli operatori a seconda del Comune di riferimento.
Nel caso di specie, il ricorrente impugnava il provvedimento con cui il Comune di Castrignano del Capo (LE) aveva disposto l’annullamento d’ufficio della precedente proroga della sua concessione, in quanto ritenuta contraria al diritto comunitario e, in particolare, alla più volte richiamata Direttiva Bolkestein. Il ricorrente, più nello specifico, richiedeva l’annullamento del provvedimento di autotutela per violazione dell’art. 1, comma 682, della Legge di bilancio 2019 e dell’art. 182 del D.L. 34/2020.
Il T.A.R. Lecce, in via preliminare, ricostruisce i rapporti tra diritto interno e diritto sovranazionale in materia di concessioni demaniali marittime, per poi affermare che il “regime di proroga ulteriore introdotto con la Legge Finanziaria 2019 ed avente durata di 13 anni a decorrere dal 31 dicembre 2020, in assenza della approvazione di alcuna normativa di riordino della materia, integra evidente violazione delle prescrizioni contenute nella direttiva servizi e, in disparte la certa prospettiva della riapertura di procedura di infrazione, ha determinato uno stato di assoluta incertezza per gli operatori e per le pubbliche amministrazioni”. L’incertezza normativa, come rilevato in sentenza, ha avuto come conseguenza che, nell’ambito del distretto giurisdizionale di riferimento dello stesso T.A.R. Lecce, alcuni comuni hanno concesso la proroga fino al 31 dicembre 2033, altri hanno espresso diniego disapplicando la norma nazionale, altri ancora, dopo aver accordato la proroga, ne hanno disposto l’annullamento in autotutela, come nel caso in esame, altri infine sono rimasti inerti rispetto alle istanze dei concessionari.
Si è posta dunque l’esigenza di superare l’incertezza delle situazioni giuridiche.
Il T.A.R. Lecce, a tal fine, si discosta dal consolidato orientamento giurisprudenziale alla luce del quale è fatto obbligo per gli organi nazionali, giurisdizionali o amministrativi che siano, in quanto espressione dello Stato membro “in tutte le sue articolazioni”, di dare attuazione alla norma comunitaria, disapplicando la norma interna in contrasto con il diritto dell’UE.
In primo luogo, il Collegio minimizza la portata della statuizione di principio espressa dalla C.G.U.E. del 14 luglio 2016, ripresa dalla menzionata sentenza del Consiglio di Stato del 18 novembre 2019, n. 7874. Sul punto il giudice leccese rileva che la pronuncia del giudice europeo non possa ritenersi dichiarativa di interpretazione autentica della norma comunitaria (la quale sarebbe dotata di efficacia erga omnes) “perché essa non ha ad oggetto alcuna individuazione della ratio legis di una specifica norma comunitaria, ma attiene invece alle generali regole e modalità di applicazione della normativa unionale in generale considerata, dovendosi riguardare alla stregua di mero obiter dictum”.
In secondo luogo, il T.A.R. Lecce evidenzia come il potere/dovere di disapplicazione della legge interna in contrasto con il diritto dell’UE non può che fare capo al solo giudice amministrativo, in quanto “trattando della disapplicazione della legge non può prescindersi dal collegamento logico con l’attività di esegesi e di interpretazione della norma, perché la disapplicazione della legge costituisce null’altro che il risultato del previo esercizio della funzione interpretativa”. Infatti, la funzione interpretativa deve essere esercitata secondo precisi e consolidati canoni ermeneutici di cui solo il giudice, e non la pubblica amministrazione, può essere ritenuto titolare.
Questa tesi è suffragata, a giudizio del Collegio, dall’attribuzione esclusiva al giudice della facoltà di rivolgersi in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia circa il sospettato contrasto tra norma interna e norma comunitaria. Questa facoltà, prodromica e funzionale rispetto alla eventuale e successiva disapplicazione della norma interna, non sarebbe invece attribuita alla pubblica amministrazione o, per essa, al dirigente o funzionario preposto.
Proprio questa considerazione induce il giudice leccese a ritenere che “la norma nazionale, ancorché in conflitto con quella euro-unionale, risulti vincolante per la pubblica amministrazione e, nel caso in esame, per il dirigente comunale, che sarà tenuto ad osservare la norma di legge interna e ad adottare provvedimenti conformi e coerenti con la norma di legge nazionale”. Ciò vale ancor di più quando, come nel caso di specie, la norma comunitaria da applicare non sia autoesecutiva, ovvero necessiti di interventi legislativi di attuazione, e questi non siano stati ancora adottati.
In questo senso, disapplicare la legge interna comporterebbe un vulnus, in quanto la norma alternativa applicabile – che dovrebbe prevedere regole stringenti e dettagliate nell’ambito della selezione pubblica – è inesistente.
Inoltre, la sentenza considera che la disapplicazione della norma nazionale ad opera del giudice si inserisce in un contesto coerente e tendenzialmente unitario, quale quello proprio del sistema di tutela giurisdizionale offerto dall’ordinamento, che garantisce uniformità di applicazione della norma sul territorio nazionale; laddove la disapplicazione vincolata ed automatica disposta dalle singole pubbliche amministrazioni determinerebbe una situazione caotica ed eterogenea, nonché caratterizzata in ipotesi da disparità di trattamento tra gli operatori a seconda del comune di riferimento. In altri termini, il Collegio ritiene inderogabile il dovere per la pubblica amministrazione di adeguarsi alla legge interna la quale, se illegittima in quanto contrastante con il diritto sovranazionale, potrà essere disapplicata (nella sola) sede giurisdizionale.
In conclusione, il T.A.R. Lecce, esprimendosi sull’esercizio dell’autotutela da parte del Comune, rileva che esso non è stato supportato né da adeguata valutazione dell’interesse pubblico all’annullamento né dalla valutazione del legittimo affidamento indotto nel titolare della concessione per effetto della norma nazionale e del precedente favorevole provvedimento di rilascio del titolo concessorio in proroga fino al 31 dicembre 2033, pertanto, ha dichiarato “illegittimo l’impugnato provvedimento del Comune di Castrignano del Capo con cui il Dirigente preposto al settore ha determinato l’annullamento in autotutela della proroga della concessione di titolarità della ricorrente già assentita fino all’anno 2033”.
Giova, infine, ricordare che, come prevedibile, da Bruxelles è arrivato un nuovo avviso di messa in mora all’Italia per le concessioni balneari che godono della proroga, in palese contrasto con le norme comunitarie. Nel richiamo della Commissione europea si legge che non solo “non è stata attuata la sentenza della Corte di giustizia, che già nel 2015 aveva giudicato le proroghe automatiche non compatibili con le regole del mercato interno”, ma la scorsa primavera (con il “decreto rilancio”) si è aggravata la situazione con la conferma dell’estensione fino al 2033 delle attuali concessioni[15].
Secondo la Commissione, gli Stati membri sono tenuti a garantire che le autorizzazioni (che sono limitate per via della scarsità delle risorse naturali come nel caso delle spiagge) siano rilasciate per un periodo determinato e mediante gare pubbliche basate su criteri non discriminatori, trasparenti e oggettivi. Norme che hanno l’obbiettivo di consentire a tutti i fornitori di servizi la possibilità di competere per l’accesso a tali risorse limitate, promuovere l’innovazione e la concorrenza leale, a vantaggio di consumatori e imprese ed evitare il pericolo di monopoli.
Tutti questi presupposti sarebbero invece disattesi con concessioni che nel caso delle spiagge e degli stabilimenti balneari in molti casi hanno durata trentennale e con proroghe automatiche. Così, oltre che la reiterazione di condizioni di privilegio e scarsa concorrenza, vietati dalle norme comunitarie, in Italia si registrano canoni irrisori, fuori mercato e non paragonabili a qualsiasi altra fornitura di servizi dati in concessione di un bene demaniale pubblico. Beni che in molti casi sfuggono alla mappatura e al censimento, in un groviglio di competenze tra Regioni e amministrazione centrale.
Le associazioni dei gestori degli stabilimenti riuniti in diverse sigle chiedono al governo di trovare una soluzione e giudicano “contradditorio” il richiamo della Commissione europea che contesta l’incertezza generata dalla proroga, mentre al contrario, rimette in moto il settore, favorisce gli investimenti bloccati e avvia un processo di riforma. Per questo chiedono che esecutivo e Parlamento siano uniti nel difendere la legge approvata e nel far rispettare le prerogative nazionali.
In violazione della direttiva Bolkestein del 2006 sulla liberalizzazione dei servizi, l’Italia aveva subito una procedura d’infrazione già nel 2009 quando era in vigore ancora il regime di rinnovo automatico. Questo fu successivamente abrogato ma solo sulla carta, tenuto in vita da altre due proroghe e senza mai attuare la riforma del demanio marittimo. Dopo la lettera di messa in mora, il governo italiano ha due mesi per rispondere alle argomentazioni sollevate dalla Commissione, trascorsi i quali la Commissione potrà decidere di inviare un parere motivato.
[1] Il d.lgs. n. 50/2016 ripropone una forte differenza tra i contratti di appalto (purché, ovviamente “inclusi” nel campo di disciplina codicistico) e le concessioni, le quali obbediscono ad un regime normativo molto più semplificato.
[2] Sul punto, l’articolo 165, comma 2, del codice è abbastanza chiaro: “l’equilibrio economico finanziario definito all’articolo 3, comma 1, lettera fff), rappresenta il presupposto per la corretta allocazione dei rischi di cui al precedente comma 1. Ai soli fini del raggiungimento del predetto equilibrio, in sede di gara l’amministrazione aggiudicatrice può stabilire anche un prezzo consistente in un contributo pubblico ovvero nella cessione di beni immobili. Il contributo, se funzionale al mantenimento dell’equilibrio economico-finanziario, può essere riconosciuto mediante diritti di godimento su beni immobili nella disponibilità dell’amministrazione aggiudicatrice la cui utilizzazione sia strumentale e tecnicamente connessa all’opera affidata in concessione. In ogni caso, l’eventuale riconoscimento del prezzo, sommato al valore di eventuali garanzie pubbliche o di ulteriori meccanismi di finanziamento a carico della pubblica amministrazione, non può essere superiore al trenta per cento del costo dell’investimento complessivo, comprensivo di eventuali oneri finanziari”.
[3] La Direttiva Bolkestein è stata recepita in Italia con il decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59.
[4] Tra le attività non liberalizzate la Direttiva Bolkestein, all’art. 12, ricomprende l’utilizzo del demanio marittimo per finalità turistico ricreative in quanto trattasi di una attività da esercitarsi per mezzo di un bene pubblico, il demanio marittimo certamente vasto ma comunque limitato nella sua estensione.
[5] L. 17 luglio 2020, n. 77.
[6] Legge di bilancio 2019.
[7] L’antica definizione ricostruiva la fattispecie in termini di “atto di diritto pubblico mediante il quale l’amministrazione costituisce a favore di una persona fisica o giuridica un diritto; di esercizio di una pubblica attività o uno speciale diritto di uso di beni pubblici, di regola atto discrezionale”, così U. Borsi, voce Concessione Amministrativa, in Enciclopedia Italiana Treccani, 1931.
[8] Formano oggetto dello stesso, in base al combinato disposto degli artt. 822 del cod. civ. e dell’art. 28 del cod. nav. i seguenti beni: il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti marittimi (così, l’art. 822 cod. civ.); nonché le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte dell’anno comunicano liberamente col mare ed i canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo (art. 28 cod. nav.), in modo da evitare possibili confusioni con le categorie di beni appartenenti al demanio idrico.
[9] Monica, Le concessioni demaniali marittime in fuga dalla concorrenza, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2013, 437 ss.
[10] Santise, Coordinate ermeneutiche di Diritto Amministrativo, G. Giappichelli Editore, 2016, pp. 121 e ss.
[11] De Giorgi Cezzi, Le concessioni di beni pubblici e il processo di privatizzazione, Report Annuale-2011 – Italia, in www.ius-publicum.com, 6/2011
[12] Cass. civ., Sez. Un., 23 giugno 1993, n. 6950.
[13] Cons. Stato, sez. VI, 18 novembre 2019, n. 7874.
[14] Da ultimo Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 8 maggio 2020, n. 903.
[15] Il decreto rilancio ha anche vietato agli enti locali di avviare nuove gare per l’assegnazione delle concessioni scadute.