Cons. Stato, Sez. V, 14 ottobre 2020, n. 6222
La funzione propria della clausola di prelazione – di preservare per quanto possibile l’assetto della compagine sociale – è evidentemente reputata dalla legge meritevole anche in favore dei soci privati di una società a partecipazione pubblica.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 6010 del 2020, proposto da
Comune di Lonigo, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dall'avvocato Danilo Tassan Mazzocco, con domicilio digitale come da PEC tratta dai Registri di Giustizia;
contro
Comune di San Bonifacio e Comune di Cologna Veneta, ciascuno in persona del Sindaco in carica, rappresentati e difesi dall'avvocato Marco Cappelletto, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Arcangelo Guzzo in Roma, via Gramsci, 9;
nei confronti
Sinergas s.p.a., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli avvocati Corrado Orienti e Maria Elena Maratia, con domicilio digitale come da PEC tratta dai Registri di Giustizia;
e con l'intervento di
ad adiuvandum:
Simecom s.r.l., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli avvocati Luca A. Lanzalone, Stefano Sonzogni e Giovanni Corbyons, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Giovanni Corbyons in Roma, via Cicerone, 44;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto (Sezione Prima) n. 00569/2020, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di San Bonifacio, del Comune di Cologna Veneta e di Sinergas s.p.a.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 17 settembre 2020 il Cons. Federico Di Matteo e uditi per le parti gli avvocati Danilo Tassan Mazzocco, Arcangelo Guzzo per delega di Cappelletto, Stefano Sonzogni e Corrado Orienti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Il Comune di Lonigo è socio di Uni.Co.G.e. s.r.l., società costituita nel 2002 dai Comuni di Cologna Veneta, Colognola ai Colli, Lonigo, San Bonifacio, Soave e Zimella, operante nel mercato del gas naturale e dell’energia elettrica.
Nel 2009, in seguito ad aumento di capitale sociale con sovrapprezzo, entravano a far parte della compagine sociale due soci privati, Sinergas s.p.a. e Veneto Banca s.p.a.; la quota del Comune di Lonigo risultava pari al 18,86% del capitale sociale.
1.1. Entrato in vigore il d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica), il Comune di Lonigo, con delibera consiliare 29 settembre 2017, n. 53, col dichiarato intento di adempiere all’obbligo, di cui all’art. 24, di revisione straordinaria delle partecipazioni societarie detenute, approvava la cessione delle quote di partecipazione in Uni.Co.G.e. s.r.l. ritenendo le attività dalla stessa svolte “non […] indispensabili per le finalità dell’ente in ragione della circostanza che l’attività di vendita del gas metano e dell’energia elettrica non sono riconducibili ad alcuna delle categorie previste dall’art. 4 del T.U.S.P.”.
Con delibera consiliare 30 aprile 2018, n. 32 era stabilito di procedere all’alienazione delle quote secondo i criteri previsti dall’art. 10, comma 2, primo periodo, d.lgs. n. 175 del 2016 e quindi a mezzo procedura di evidenza pubblica e sulla base di un prezzo minimo non inferiore a quello stabilito da perito di nomina giudiziale.
1.2. Il Presidente di Uni.Co.G.e. s.r.l., avuta notizia delle deliberazioni assunte dal Consiglio comunale di Lonigo, ne informava i soci con comunicazione dell’11 dicembre 2018 rammentando loro la facoltà di esercizio del diritto di prelazione “nei tempi e con le modalità previste dallo Statuto e dal T.U.S.P.”.
Pervenivano, allora, le note del Comune di San Bonifacio e di Cologna Veneta, entrambe del 18 dicembre 2018 (n. 1043 e n. 22789), comunicanti l’intenzione di esercitare il diritto di prelazione sulle quote in corso di alienazione al valore calcolato “sulla base della situazione patrimoniale esistente all’atto della cessione” così come previsto dall’art. 7 dello statuto societario.
A tale richiesta era dato riscontro dal Presidente di Uni.Co.G.e. s.r.l. che riferiva della volontà dei Comuni alienanti di subordinare l’operatività della clausola di prelazione all’esperimento di una procedura di evidenza pubblica.
1.3. Con delibera consiliare 29 ottobre 2019, n. 54 era, poi, confermata la volontà di dismissione delle quote di partecipazione mediante procedura di evidenza pubblica; con delibera di Giunta 23 gennaio 2020, n. 15 era fissato il prezzo di vendita da porre a base di gara in tre milioni di euro e, infine, con determinazione 7 febbraio 2020, n. 106 il Responsabile del settore economico finanziario approvava “il bando di asta pubblica per la cessione delle quote di Uni.Co.G.E. s.r.l.”, poi pubblicato l’11 febbraio 2020.
2. Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, i Comuni di San Bonifacio e di Cologna Veneta impugnavano gli atti da ultimo richiamati sulla base di tre motivi integrati da successivi motivi aggiunti proposti avuta conoscenza della memoria di costituzione in giudizio del Comune di Lonigo.
In particolare:
- con il primo motivo lamentavano la violazione dell’art. 10, comma 2, d.lgs. n. 175 del 2016 nella parte in cui, in caso di alienazione delle partecipazioni in società a partecipazione pubblica, resta salvo l’eventuale diritto di prelazione previsto dalla legge o dallo statuto, avendo l’art. 7 dello statuto di Uni.Co.G.E. previsto l’esercizio del diritto di prelazione per un corrispettivo determinato “sulla base della situazione patrimoniale esistente all’atto della cessione” con una valutazione “affidata al giudizio di un esperto nominato dalle parti o, in caso di disaccordo, da un arbitro”;
- con il secondo motivo era contestata la violazione dell’art. 3 l. n. 241 del 1990 e dell’art. 20 d.lgs. n. 175 del 2016 per aver il Comune di Lonigo espresso la volontà di procedere alla dismissione delle partecipazioni societarie sulla premessa, erronea, dell’esistenza di un obbligo di alienazione stabilito dal richiamato art. 20 del Testo unico delle società a partecipazione pubblica;
- con il terzo motivo assumevano il difetto di istruttoria e di motivazione, come pure la falsa rappresentazione dei presupposti, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione, in quanto le delibere precedenti il bando, e il bando stesso, avevano omesso di evidenziare le conseguenze per i potenziale acquirenti dell’eventuale violazione del diritto di prelazione, vale a dire l’inefficacia dell’acquisto nei confronti della società e dei soci prelazionari dato il carattere reale del diritto di prelazione loro riconosciuto;
- con il quarto motivo (il primo dei motivi aggiunti), lamentavano l’erroneo richiamo al principio di obbligatorietà della gara pubblica da escludere nel caso di compravendite tra pubbliche amministrazioni, i cui rapporti esulano dall’ambito di tutela della concorrenza, non potendosi affermare che corrisponda ad un qualche interesse pubblico la massimizzazione del prezzo di vendita in favore del Comune di Lonigo e a scapito degli altri soci pubblici;
- con il quinto motivo (il secondo dei motivi aggiunti), censuravano il difetto di istruttoria e motivazione in quanto il Comune di Lonigo, per agire legittimamente, avrebbe dovuto proporre di modificare la clausola di prelazione prevista dallo statuto.
2.1. Si costituivano in giudizio i Comuni di San Bonifacio e di Cologna Veneta che proponevano eccezioni pregiudiziali di rito e concludevano, poi, per il rigetto del ricorso e dei motivi aggiunti. Si costituiva anche Sinergas s.p.a., socio privato di Uni.Co.G.E..
Il Tribunale amministrativo, con sentenza 1 luglio 2020, n. 569, respinte le eccezioni pregiudiziali di rito, accoglieva il ricorso, annullando gli atti impugnati.
3. Propone appello il Comune di Lonigo; si sono costituiti i Comuni di San Bonifacio e di Cologna Veneta, nonché Sinergas s.p.a. che ha aderito alle censure svolte dall’appellante.
Ha spiegato intervento ad adiuvandum Simecom s.r.l., operatore privato nel settore della vendita del gas naturale ed energia elettrica, che ha presentato offerta nell’ambito della procedura di evidenza pubblica indetta dal Comune di Lonigo.
Alla camera di consiglio del 17 settembre 2020, fissata per la decisione sull’istanza di sospensione degli effetti esecutivi della sentenza proposta dall’appellante, dato atto della possibilità di definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata ex art. 60 cod. proc. amm., ed acquisito il consenso di tutte le costituite, la causa era trattenuta in decisione.
4. Preliminarmente, ritiene il Collegio, va dichiarata inammissibile la censura proposta da Simecom s.r.l. nel suo atto di intervento con cui lamenta la mancata declinatoria del difetto di giurisdizione a favore del giudice ordinario.
Se è vero, infatti, che l’art. 97 Cod. proc. amm. consente l’intervento nel giudizio di impugnazione a «chi vi abbia interesse» e che la giurisprudenza interpreta il presupposto normativo in senso ampio consentendo l’intervento adesivo alle ragioni dell’appellante (e, dunque, ad adiuvandum) anche a colui che vanti un interesse di mero fatto (cfr. Cons. Stato, V, 26 maggio 2020, n. 3346), occorre precisare che ammesso a proporre appello (inteso in senso ampio, come motivi di appello), ai sensi dell’art. 102 Cod. proc. amm., è solo chi abbia svolto intervento in primo grado e sia titolare di una “posizione giuridica autonoma” (non essendo più consentito, a seguito dell’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, il c.d. appello del terzo, cfr. Cons. Stato, VI, 2 aprile 2020, n. 2220).
Simercom s.r.l., che non era parte del giudizio di primo grado, non è, dunque, legittimata a proporre motivi di censura avverso la sentenza di primo grado, come nel caso di specie, con la contestazione sul capo di pronuncia che ha espressamente affermato la giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della controversia.
Ai sensi dell’art. 9 Cod. proc. amm., pertanto, in assenza di specifico motivo di impugnazione proposto dal Comune appellante, il capo della pronuncia impugnato che ha statuito sulla giurisdizione è passato in giudicato.
5. Con il primo motivo di appello è censurata la sentenza di primo grado per aver respinto l’eccezione di irricevibilità per tardività del ricorso (e dunque per “Erroneità, illogicità e difetto di motivazione – Eccesso di potere per contraddittorietà della motivazione – Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 35 e 119 c.p.a. nonché degli artt. 10 e 7 d.lg. n. 175/16 – Violazione e/o falsa applicazione del principio di inoppugnabilità del provvedimento amministrativo in difetto di tempestiva impugnazione degli atti presupposti”): la lesione del diritto di prelazione sarebbe riconducibile alla delibera consiliare 30 aprile 2018, n. 32, di approvazione dell’alienazione delle partecipazioni sociali e delle modalità di dismissione (o, al più, alla delibera n. 54 del 2019 confermativa di detta decisione), conosciuta dai Comuni ricorrenti sin dall’11 dicembre 2018 quando era stata loro comunicata dal Presidente di Uni.Co.G.E.; gli atti successivi, ivi compreso il bando di gara, costituivano meri atti esecutivi delle precedenti delibere secondo un rapporto di presupposizione per il quale l’omessa o tardiva impugnazione dell’atto presupposto rende inammissibile il ricorso avverso l’atto conseguenziale.
La sentenza avrebbe, pertanto, erroneamente ritenuto la pubblicazione del bando di asta pubblica come momento di concretizzazione della lesione dell’interesse vantato dai Comuni appellati, e in maniera contraddittoria con la declaratoria di irricevibilità per tardività della domanda di annullamento proposta avverso la delibera consiliare n. 54 del 2019, atto presupposto la cui tardiva impugnazione determina le conseguenze ricordate.
5.1 Il motivo è infondato. Il ragionamento della sentenza va condiviso con le ulteriori precisazioni di seguito esposte.
5.1.1 Con il ricorso di primo grado i ricorrenti Comuni di San Bonifacio e di Cologna Veneta lamentavano l’impossibilità di esercitare il diritto di prelazione nei termini e con le modalità previste dallo statuto societario.
L’art. 7 dello statuto prevedeva, infatti, una clausola di prelazione c.d. impropria, cioè tale da imporre il c.d. vincolo di prezzo: cioè la determinazione del prezzo di acquisto in prelazione secondo metodi e criteri obiettivi prefissati e non mediante il mero riferimento alle offerte effettive di mercato. Nel caso di specie - come anticipato - era prevista la fissazione del prezzo da un esperto, da effettuare sulla base alla situazione patrimoniale della società al momento della cessione.
La lesione si è prodotta (solo) con il bando di gara poiché è questo l’atto che, contrastando la clausola di prelazione statutaria, ha effettivamente leso la situazione degli altri soci pubblici.
Il bando, infatti, stabilendo che l’esercizio della prelazione sarebbe stato possibile solo una volta individuata la migliore offerta e disposta l’aggiudicazione provvisoria (art. 11), comportava la fissazione del prezzo di acquisto delle quote da alienare in maniera difforme da quanto testualmente previsto dalla clausola statutaria (e sensibilmente maggiore).
5.1.2. Le delibere consiliari – in particolare, la delibera del 30 aprile 2018, n. 32 – precedenti l’adozione del bando di gara non raggiungevano un carattere lesivo per gli interessi degli altri soci pubblici. Infatti riconoscevano sì che la dismissione delle quote sarebbe avvenuta mediante procedura di evidenza pubblica (precisando anche che il prezzo minimo sarebbe stato fissato da un perito di nomina giudiziale), ma senza chiarire come dovesse risolversi l’interferenza con la clausola di prelazione statutaria.
Le delibere, dunque, non determinavano le regole di gara ed in questo senso erano atti di mero indirizzo agli organi competenti. I quali poi - come è avvenuto - avrebbero dovuto darvi attuazione mediante atti concreti. Come evidenzia la sentenza, le delibere, rispetto alla successiva procedura di gara, erano solo atti meramente preparatori.
5.1.3. Va aggiunto, a completamento, che solo nella lettera del 5 dicembre 2018 il Sindaco di Lonigo, comunicando al Presidente di Uni.Co.G.E. s.r.l. la volontà di alienare le quote, specificava l’intenzione di rendere operativa la clausola di prelazione all’esito della procedura di evidenza pubblica. Il Presidente di Uni.Co.G.E. portava a conoscenza degli altri soci tale intenzione con la comunicazione dell’11 dicembre 2018.
Una tale nota sindacale, però, non era idonea a integrare la precedente delibera consiliare né esprimeva un intento vincolante fino a quando non fosse stata recepita da una clausola del bando.
6. Con il secondo motivo di appello è contestata la reiezione dell’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione a ricorrere e di interesse a ricorrere (e, dunque, per: “Erroneità, illogicità e difetto di motivazione – Eccesso di potere per contraddittorietà della motivazione – Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 35 e 39 c.p.a. e dell’art. 100 c.p.c.”). La lesione lamentata dai ricorrenti Comuni – l’impedimento all’esercizio del diritto di prelazione – al momento della proposizione del ricorso, come al momento della decisione, era in realtà meramente potenziale, non concreta né attuale: i Comuni non erano in condizione di poter validamente esercitare il diritto di prelazione; i rispettivi consigli comunali non avevano deliberato in tal senso né avevano autorizzato i sindaci all’esercizio della prelazione.
D’altra parte, le giunte comunali dei Comuni appellanti, nelle rispettive delibere, avevano espressamente chiarito che l’esercizio della prelazione era finalizzato a conseguire la maggioranza nel capitale sociale di Uni.Co.G.E. (per l’esercizio di un “solido controllo congiunto sulla società”), ma tale obiettivo era precluso dall’oggetto stesso della prelazione: questa, in ragione del citato articolo 7 dello statuto, era limitata alla quota offerta in vendita in proporzione alle quote rispettivamente possedute; considerata, pertanto, la quota di capitale detenuta dei Comuni, era per loro matematicamente impossibile conseguire la maggioranza del capitale sociale mediante l’esercizio della prelazione.
Da altro punto di vista - aggiunge l’appello - stante il vincolo di attività dell’art. 4, comma 1, d.lgs. n. 175 del 2016, per il quale è consentito l’acquisto o il mantenimento di partecipazioni in società solo per la produzione di un servizio di interesse generale, i Comuni appellanti non solo non avrebbero potuto acquistare le quote altrui, ma avrebbero dovuto dismettere le proprie per essere l’attività di vendita di energia e gas di carattere commerciale.
6.1. Il motivo è infondato.
6.1.1. Si è detto che il bando pubblicato dal Comune di Lonigo, disponendo che il prezzo al quale esercitare la prelazione delle quote sarebbe risultato dall’entità delle offerte pervenute in gara, contrastava con la previsione statutaria di fissazione del prezzo in via peritale sulla base della situazione patrimoniale della società al momento della cessione e, per questo, costituiva l’atto lesivo delle prerogative dei soci.
Va aggiunto che l’interesse alla sua impugnazione era attuale e concreto alla pubblicazione in quanto i Comuni appellati, al pari degli offerenti in gara, erano destinatari, anch’essi diretti, delle clausole del bando e, in particolare, di quelle sull’esercizio della prelazione. La mancata impugnazione avrebbe dunque comportato il definitivo consolidarsi dell’assetto degli interessi prefigurato dal bando. L’interesse degli altri soci pubblici sarebbe rimasto recessivo rispetto a quello del Comune di Lonigo a conseguire il miglior prezzo dalla vendita delle proprie quote di partecipazione.
6.1.2. Le argomentazioni dell’appello non portano diversa conclusione. Le determinazioni che assume mancanti – in particolare quella del Consiglio comunale di autorizzazione al Sindaco di procedere alla sottoscrizione delle quote, in conformità al d.lgs. n. 175 del 2016 – costituiscono gli atti con i quali è in concreto esercitata la prelazione: ma qui si discute delle condizioni per l’esercizio, ovvero degli atti che definiscono l’impegno dei soci prelazionari.
Dette condizioni, in mancanza di tempestiva impugnazione, sarebbero state quelle del bando del Comune di Lonigo: è questo dunque che ha fatto sorgere l’interesse degli altri soci all’immediata contestazione.
6.1.3. Estranea al giudizio – e indifferente ai fini della verifica delle condizioni dell’azione – è, infine, l’ulteriore questione posta dagli appellanti relativa alla (im)possibilità per i Comuni prelazionari di conseguire, una volta acquisite le quote di partecipazione in vendita, la maggioranza del capitale della Uni.Co.G.E. s.r.l. e, in questo modo, esercitare un effettivo controllo congiunto sulla società, per essere quest’ultima una vicenda evidentemente successiva all’acquisizione delle ulteriori partecipazioni societarie; e, peraltro, dalla stessa dipendente, in quanto strettamente correlata agli strumenti che i soci, incrementate le quote di capitale sociale detenute, attueranno per rafforzare il proprio controllo sulla società.
I documenti citati dall’appello ne danno conferma: la delibera della Giunta del Comune di San Bonifacio 21 maggio 2020, n. 82 prospetta l’avvio di un percorso con gli altri soci pubblici per redigere nuovi patti parasociali ed assumere un “dominio effettivo sulla governance societaria”: ed è noto che i patti parasociali sono considerati, dalla giurisprudenza, anche europea, validi strumenti per l’esercizio del controllo congiunto analogo dei soci pubblici partecipanti nei confronti della società. Né si intravede il conflitto di interessi evocato dall’appellante prima dell’effettiva sottoscrizione dei patti parasociali.
Erra, dunque, anche Sinergas s.p.a. quando afferma che il bene della vita perseguito dai Comuni ricorrenti era il conseguimento del 50% del capitale, come tale non raggiungibile con l’acquisto in prelazione delle quote cedute dal Comune di Lonigo. Il giudizio attiene alle sole modalità di esercizio della prelazione.
6.1.4. Lo stesso vale per l’eventuale violazione dell’obbligo dei Comuni appellati di dismettere le partecipazioni detenute in ottemperanza al vincolo di scopo posto dall’art. 4, comma 1, d.lgs. n. 175 del 2016: è una questione estranea al giudizio, anche perché, a seguire il ragionamento dell’appello, sarebbe inefficace la clausola di prelazione in sé, ma ciò contraddicendo gli stessi atti del Comune appellante che pure ne ammettono l’operatività sia pure subordinandola alle condizioni descritte.
6.1.5. In conclusione, la sentenza di primo grado merita conferma per aver respinto le eccezioni pregiudiziali di rito ritenendole riferite a situazioni non ancora attuali.
7. Il terzo motivo di appello ha ad oggetto il merito della decisione assunta in primo grado.
Si contesta la sentenza per “Erroneità, illogicità e difetto di motivazione – Eccesso di potere per contraddittorietà della motivazione – Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 10, co. 1 e 2 TUSP – Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 101 TFUE – Violazione e/o falsa applicazione dei principi costituzionali di imparzialità e terzietà della pubblica amministrazione e di libera concorrenza”.
7.1. E’ posta anche nel presente grado di appello la questione della conformità ai principi, di pubblicità, trasparenza e non discriminazione, stabiliti dall’art. 10, comma 1, d.lgs. n. 175 del 2016, ai fini dell’alienazione di partecipazioni sociali, della clausola di prelazione impropria contenuta nello statuto della Uni.Co.G.E. s.r.l.; dalla sua soluzione, invero, dipende la legittimità degli atti comunali che detta clausola hanno, di fatto, violato.
7.2. L’appellata sentenza ha escluso la nullità della clausola sulla base del seguente ragionamento:
- la clausola di prelazione impropria contenuta nello statuto di una società partecipata è espressione dell’autonomia privata degli enti pubblici, a mezzo della quale è consentito alle pubbliche amministrazioni di perseguire le proprie finalità al pari di quanto avviene nelle forme del diritto pubblico;
- la clausola tutela con maggiore intensità l’interesse dei soggetti presenti nella compagine sociale di “disincentivare la dismissione, di incrementare la propria quota di partecipazione in caso di vendita di quote e di impedire l’ingresso di soci non graditi”;
- non può trovare applicazione il principio espresso dalla sentenza del Consiglio di Stato, V, 28 settembre 2016, n. 4014 che aveva dichiarato la nullità della clausola di prelazione prevista anche a favore di soci privati (che in quel giudizio avevano impugnato l’esito di una procedura di evidenza pubblica per l’alienazione delle quote) per contrasto con i principi generali di ordine pubblico economico che impongono la messa a gara delle partecipazioni nell’ambito di società miste, in quanto i principi della concorrenza non operano nei rapporti reciproci tra pubbliche amministrazioni;
- va considerato che all’interesse del Comune cedente di ottenere il miglior prezzo possibile “fa da contraltare l’interesse speculare del Comune che esercita il diritto di prelazione di pagare il minor prezzo stabilito in base ai criteri predeterminati”.
7.3. L’appello contesta il ragionamento: la legge, richiamando i principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione, esige che l’alienazione delle partecipazioni societarie avvenga comunque mediante l’esperimento di procedura comparativa: ciò allo scopo di realizzare il duplice interesse pubblico alla libera concorrenza, che consente la massimizzazione del profitto ricavabile dalla vendita, e all’efficienza ed economicità dell’azione amministrativa grazie alla capacità della libera contrattazione di individuare il miglior contraente. La salvezza, contenuta nel secondo comma dell’art. 10 d.lgs. n. 175 del 2016, delle clausole di prelazione previste dagli statuti societari può essere contemperata con detti principi solo mediante esperimento a monte dell’obbligatoria procedura di evidenza pubblica con conseguente determinazione del prezzo e delle condizioni di alienazione e differimento dell’operatività della clausola di prelazione al momento in cui sia conclusa la procedura evidenziale.
Solo a queste condizioni, ribadisce l’appello, è possibile evitare una, altrimenti necessitata, pronuncia di nullità delle clausole di prelazioni statutarie.
A tali considerazioni ha ispirato la propria condotta il Comune di Lonigo.
7.4. Il motivo di appello è infondato.
Ritiene il Collegio che una clausola di prelazione impropria, come quella contenuta nello statuto di Uni.Co.G.E. sia valida per le ragioni che seguono.
7.4.1. Preliminarmente occorre rammentare che è lo stesso articolo 10 (Alienazione di partecipazioni sociali), comma 2, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, dopo aver, al primo periodo, stabilito che: «L’alienazione delle partecipazioni è effettuata nel rispetto dei principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione», a specificare, nell’ultimo periodo, che: «E’ fatto salvo il diritto di prelazione dei soci eventualmente previsto dalla legge o dallo statuto».
È così previsto dalla legge che anche in ipotesi di società a partecipazione pubblica, la libera circolazione delle partecipazioni può essere limitata dall’autonomia privata mediante clausole di prelazione.
7.4.2. Le clausole di prelazione previste dagli statuti societari rispondono all’interesse dei soci a conservare omogenea e inalterata la compagine sociale nell’ipotesi in cui un socio decida la dismissione della propria partecipazione (o di una sua parte), condizionando così l’ingresso di terzi e preservando i reciproci rapporti interni (cfr. Cass., I, 3 giugno 2014, n. 12370).
Quando figura nello statuto di una società a partecipazione pubblica, la clausola di prelazione pone, tuttavia, una barriera protettiva non soltanto all’ingresso dei terzi estranei, come è per una società di diritto comune, ma anche, per quanto indirettamente, all’ingresso di un interesse estraneo e potenzialmente confliggente con gli interessi pubblici perseguiti con tale mezzo dai soci pubblici e sintetizzati nella costituzione della società e nella partecipazione pubblica ad essa quale strumento indiretto per realizzare obiettivi di interesse pubblico (per Cons. Stato, V, 23 gennaio 2019, n. 578, “…la decisione di costituire una società, ovvero di conservare o mantenere una partecipazione societaria, forma innanzitutto oggetto di una valutazione non automatica, ma naturalmente variabile, perché di ordine eminentemente politico – strategico in rapporto al contingente indirizzo politico – amministrativo fatto responsabilmente proprio nell’esercizio del potere rappresentativo dell’amministrazione pubblica riguardo, in primo luogo, ai “bisogni della collettività di riferimento” che spetta ad essa identificare: cioè, in rapporto alla necessità del loro soddisfacimento a mezzo erogazione di un certo servizio o della produzione e fornitura di un certo bene”).
7.4.3. Una tale ragione potrebbe venire esposta a pericolo se, in concreto, il prezzo e le condizioni della prelazione fossero senz’altro rimesse al mercato ovvero a una procedura d’asta aperta alle offerte private. In una tale situazione, i soci pubblici infatti si troverebbero nell’evidente difficoltà di dover finanziariamente competere con investitori privati, naturalmente orientati al lucro e non alla cura di interessi pubblici, e a tal fine sarebbero chiamati a significativi esborsi di denaro pubblico per risultare vincitori nella contesa al fine di mantenere l’originario equilibrio tra pubblico e privato.
Questa considerazione dà ragione dell’introduzione di clausole di prelazione improprie, in cui la fissazione del prezzo avviene sulla base di criteri predeterminati.
In tutti i casi in cui sono previste – per quanto concerne lo statuto di una società a partecipazione pubblica – siffatte clausole contemperano ragionevolmente, vista la ragione di detta partecipazione, l’interesse del socio alienante a conseguire il maggior ricavo economico dalla vendita delle proprie partecipazioni, con quello dei soci restanti – pubblici e privati – a poter acquistarle a un prezzo che non comporti un eccessivo aggravio di spesa e così a mantenere il controllo della società, contrastando ingressi potenzialmente squilibranti la stessa presenza pubblica.
7.4.4. Valide già per le società a intera partecipazione privata, le clausole di prelazione improprie lo sono a maggior ragione in caso di società a partecipazione pubblica: dove il detto interesse del socio alienante al maggior ricavo è naturalmente recessivo rispetto a quello alla preservazione dell’equilibrio tra pubblico e privato nell’assetto societario: in quale è riflesso dell’articolazione di interessi pubblici - vale a dire delle collettività di cui i soci pubblici sono enti esponenziali - rispetto alla prestazione del servizio ad opera della società. Tale equilibrio potrebbe essere seriamente compromesso dall’arrivo per la mera via del prezzo di mercato di un nuovo socio privato extraneus in luogo di quello pubblico uscente, per sua natura non orientato ad altrettanta cura ma solo al, pur legittimo, lucro.
In ciò, con tutta evidenza, risiede la ragione della scelta legislativa di ammettere la previsione del diritto di prelazione in deroga alla libera alienazione delle partecipazioni anche nelle società a partecipazione pubblica, e senza limitazioni di sorta: e dunque la sua opponibilità e in definitiva la sua la prevalenza . Non rileva a sufficienza in senso opposto che, diversamente, la libertà di alienazione resterebbe vincolata dall’esercizio di una procedura evidenziale nella scelta del contraente: sarebbe certo nel rispetto dei principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione, e preverrebbe offerte in prelazione fittizie: ma per la sua propria natura di confronto concorrenziale aperto resterebbe comunque orientata all’entrata di un nuovo socio capace della migliore offerta finanziaria, dunque presumibilmente orientato al maggior profitto anziché alla cura indiretta di interessi delle collettività.
7.4.5. L’appellante, tuttavia, – come già fatto in primo grado – afferma che un tale ragionamento consente di ritenere valida la clausola di prelazione esclusivamente a favore dei soci pubblici. Non potrebbe valere, invece, per la prelazione esercitata dal socio privato. In tal caso, infatti, la deroga alla procedura evidenziale non avrebbe ragion d’essere potendosi ritenere ragionevole che il socio privato competa con gli investitori privati per l’acquisto delle quote di partecipazioni alienate da altri soci.
Una clausola di prelazione, come quella in esame, prevista anche a favore dei soci privati sarebbe, pertanto, nulla per contrasto con i principi di cui all’art. 10, comma 2, primo periodo, d.lgs. n. 175 del 2016; si tratterebbe, però, di una nullità differenziata, relativa al solo diritto dei soci privati, e non per quelli pubblici, il che sarebbe in contrasto con il regime della nullità dell’art. 1419 Cod. civ., che non prevede nullità “frammentate” a seconda dei destinatari.
A parere dell’appellante tale risultato condurrebbe a rivedere l’intero ragionamento in precedenza svolto ed a concludere per la nullità della clausola di prelazione nel suo complesso.
7.4.6. La questione – invero non di immediata rilevanza per il caso di cui al presente giudizio, dove il diritto di prelazione è fatto valere da soci pubblici – merita di essere incidentalmente approfondita perché consequenziale alle conclusioni esposte.
L’appellata sentenza, in continuità con la sentenza di questa V Sezione, 28 settembre 2016, n. 4016, ha ritenuto che la nullità va dichiarata se la clausola di prelazione statutaria è prevista (anche) a favore di soci privati, perché comunque non si può derogare alla regola - espressiva di un principio di ordine pubblico economico – secondo cui l’alienazione delle partecipazione deve avvenire mediante procedura di evidenza pubblica.
7.4.7. In realtà, osserva qui il Collegio, occorre rilevare che quella decisione concerneva una vicenda di alienazione di partecipazioni sociali precedente l’entrata in vigore del Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175: sicché la fattispecie va riconsiderata alla luce di questa importante sopravvenienza normativa.
Come ricordato, l’art. 10 (Alienazione di partecipazioni sociali), comma 2, d.lgs. n. 175 del 2016 afferma testualmente che «è fatto salvo il diritto di prelazione dei soci eventualmente previsto dalla legge o dallo statuto». Non distingue tra soci pubblici e soci privati. La norma vigente, pertanto, così non distinguendo preclude di limitare l’operatività delle clausole di prelazione statutarie ai soli soci pubblici e di assicurare solo a questi di esercitare preferenzialmente l’acquisto (ubi lex non distinguit nec nos distinguere debemus).
La funzione propria della clausola di prelazione – di preservare per quanto possibile l’assetto della compagine sociale – è evidentemente reputata dalla legge meritevole anche in favore dei soci privati di una società a partecipazione pubblica.
L’originario socio privato partecipante alla società mista, in effetti, viene ricercato dai soci fondatori pubblici proprio in quanto portatore di un convergente interesse economico: ma nella misura immaginata, calcolata e definita all’atto della costituzione della società, tale da quantificare, in relazione all’attuazione dell’oggetto sociale, il rapporto stimato giovevole tra la cura indiretta di interessi pubblici e gli apporti finanziari e organizzativi tipici dell’imprenditore privato. Lo si ricava dall’art. 7 (Costituzione di società a partecipazione pubblica), comma 5, d.lgs. n. 175 del 2016, secondo cui «nel caso in cui sia prevista la partecipazione all’atto costitutivo di soci privati, la scelta di questi ultimi avviene con procedure di evidenza pubblica a norma dell'articolo 5, comma 9, del decreto legislativo n. 50 del 2016». La scelta, in quella sede, del socio privato mediante procedura evidenziale non altera ma anzi proprio realizza quella prevista ripartizione quantitativa tra pubblico e privato nella compagine sociale. Non differente, per analoghe ragioni, è la situazione in occasione di un aumento di capitale.
La circostanza che ciò avvenga al momento genetico della società – dunque al massimo momento progettuale, che include la definizione di siffatti equilibri e che ingenera un rapporto di stretta cooperazione tra i fondatori della società - appare sufficiente per non rendere manifestamente irragionevole che al socio privato originario sia statutariamente data la possibilità di rafforzare la sua posizione nella compagine esercitando il diritto di prelazione, anche se senza sottoporsi alla competizione di mercato come nel caso di clausola di prelazione impropria.
7.4.8. In conclusione, le clausole di prelazione statutarie non possono essere stimate nulle anche se previste a favore dei soci privati.
8. Con ultimo motivo di appello la sentenza è contestata per “Erroneità, illogicità e difetto di motivazione – Eccesso di potere per contraddittorietà della motivazione – Contrasto insanabile tra la parte motiva e la parte dispositiva della sentenza”; l’appellante Comune rileva un duplice contrasto tra la parte motivazionale della sentenza e il suo dispositivo per aver: a) dapprima ritenuto irricevibile per tardività la domanda di annullamento della delibera del Comune di Lonigo 28 novembre 2019, n. 63 e, poi, invece, giudicato non corretta la premessa ivi riportata come ragione della scelta di dismissione delle partecipazioni per il tipo di attività svolta dalla Uni.Co.G.E.; b) ritenuto, da un lato, insussistente un interesse diretto e concreto dei Comuni ricorrenti in relazione alle cesure di cui al terzo motivo di ricorso e, dall’altro, disposto l’ annullamento anche della deliberazione giuntale del 23 gennaio 2020, n. 15 e di quella del Responsabile del Settore economico finanziario 7 febbraio 2020, n. 106.
8.1. Il motivo è infondato.
Non v’è contrasto tra parte motivazionale e dispositivo poiché, quanto al punto sub a), la ragione indicata dal Comune di Lonigo per la dismissione delle quote partecipative costituiva la premessa non della sola delibera 28 novembre 2019, n. 63, sulla quale effettivamente la sentenza ha ritenuto di non poter giudicare, ma di tutti gli atti comunali sulla questione della partecipazione in Uni.Co.G.E. s.r.l. e, dunque, delle delibere consiliari e dello stesso bando di gara; quanto al punto sub b), per aver la sentenza deciso l’annullamento degli atti richiamati in ragione dell’accoglimento dei primi due motivi di ricorso. Ciò vale senza meno a escludere il contrasto indicato dall’appellante.
9. In conclusione, l’appello va respinto e la sentenza di primo grado integralmente confermata.
10. La novità della questione giustifica la compensazione delle spese di giudizio tra tutte le parti in causa.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa tra tutte le parti in causa le spese del presente grado del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 settembre 2020.
GUIDA ALLA LETTURA
Nella vicenda sottoposta all’esame del Consiglio di Stato il Collegio, preliminarmente, ha dichiarato inammissibile la censura proposta da OMISSIS s.r.l. nel suo atto di intervento con cui lamentava la mancata declinatoria del difetto di giurisdizione a favore del giudice ordinario.
Se è vero, infatti, che l’art. 97 Cod. proc. amm. consente l’intervento nel giudizio di impugnazione a «chi vi abbia interesse» e che la giurisprudenza interpreta il presupposto normativo in senso ampio consentendo l’intervento adesivo alle ragioni dell’appellante (e, dunque, ad adiuvandum) anche a colui che vanti un interesse di mero fatto (cfr. Cons. Stato, V, 26 maggio 2020, n. 3346), occorre precisare che “ammesso a proporre appello (inteso in senso ampio, come motivi di appello), ai sensi dell’art. 102 Cod. proc. amm., è solo chi abbia svolto intervento in primo grado e sia titolare di una “posizione giuridica autonoma” (non essendo più consentito, a seguito dell’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, il c.d. appello del terzo, cfr. Cons. Stato, VI, 2 aprile 2020, n. 2220)”.
Ne deriva quale logico corollario che OMISSIS s.r.l., che non era parte del giudizio di primo grado, non è, dunque, “legittimata a proporre motivi di censura avverso la sentenza di primo grado, come nel caso di specie, con la contestazione sul capo di pronuncia che ha espressamente affermato la giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della controversia”.
Con il primo motivo l’appellante contestava, anzitutto, la sentenza di primo grado per aver respinto l’eccezione di irricevibilità per tardività del ricorso: la lesione del diritto di prelazione sarebbe riconducibile, secondo l’appellante, alla delibera consiliare 30 aprile 2018, n. 32, di approvazione dell’alienazione delle partecipazioni sociali e delle modalità di dismissione (o, al più, alla delibera n. 54 del 2019 confermativa di detta decisione), conosciuta dai Comuni ricorrenti sin dall’11 dicembre 2018 quando era stata loro comunicata dal Presidente di OMISSIS; gli atti successivi, ivi compreso il bando di gara, “costituivano meri atti esecutivi delle precedenti delibere secondo un rapporto di presupposizione per il quale l’omessa o tardiva impugnazione dell’atto presupposto rende inammissibile il ricorso avverso l’atto conseguenziale”.
Il primo motivo di appello è infondato secondo il Collegio perché “la lesione si è prodotta (solo) con il bando di gara poiché è questo l’atto che, contrastando la clausola di prelazione statutaria, ha effettivamente leso la situazione degli altri soci pubblici”.
Il bando, infatti, prosegue la Sentenza in parola “stabilendo che l’esercizio della prelazione sarebbe stato possibile solo una volta individuata la migliore offerta e disposta l’aggiudicazione provvisoria (art. 11), comportava la fissazione del prezzo di acquisto delle quote da alienare in maniera difforme da quanto testualmente previsto dalla clausola statutaria (e sensibilmente maggiore) sicché “le delibere consiliari – in particolare, la delibera del 30 aprile 2018, n. 32 – precedenti l’adozione del bando di gara non raggiungevano un carattere lesivo per gli interessi degli altri soci pubblici. Infatti riconoscevano sì che la dismissione delle quote sarebbe avvenuta mediante procedura di evidenza pubblica (precisando anche che il prezzo minimo sarebbe stato fissato da un perito di nomina giudiziale), ma senza chiarire come dovesse risolversi l’interferenza con la clausola di prelazione statutaria.
In conclusione, le ridette delibere, dunque, non determinavano le regole di gara ed in questo senso erano atti di mero indirizzo agli organi competenti. I quali poi – come è avvenuto – avrebbero dovuto darvi attuazione mediante atti concreti. Come evidenzia la Sentenza di primo grado, le delibere, rispetto alla successiva procedura di gara, erano solo atti meramente preparatori.
Con il secondo motivo di appello è contestata la reiezione dell’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione a ricorrere e di interesse a ricorrere. La lesione lamentata dai ricorrenti Comuni – cioè l’impedimento all’esercizio del diritto di prelazione – al momento della proposizione del ricorso, come al momento della decisione era, secondo l’appellante, in realtà meramente potenziale, dunque non concreta né attuale: i Comuni non erano in condizione di poter validamente esercitare il diritto di prelazione; i rispettivi consigli comunali non avevano deliberato in tal senso né avevano autorizzato i sindaci all’esercizio della prelazione.
Il Collegio nel rigettare anche il secondo motivo d’appello ha ricordato che “il bando pubblicato dal Comune di Lonigo, disponendo che il prezzo al quale esercitare la prelazione delle quote sarebbe risultato dall’entità delle offerte pervenute in gara, contrastava con la previsione statutaria di fissazione del prezzo in via peritale sulla base della situazione patrimoniale della società al momento della cessione e, per questo, costituiva l’atto lesivo delle prerogative dei soci” con la conseguenza che “la mancata impugnazione avrebbe dunque comportato il definitivo consolidarsi dell’assetto degli interessi prefigurato dal bando”.
Con il terzo motivo d’appello è contestato il merito della Sentenza di primo grado.
In particolare, parte appellante ripropone la questione della conformità ai principi, di pubblicità, trasparenza e non discriminazione, stabiliti dall’art. 10, comma 1, d.lgs. n. 175 del 2016, ai fini dell’alienazione di partecipazioni sociali, della clausola di prelazione impropria contenuta nello statuto della OMISSIS s.r.l.; dalla sua soluzione, invero, dipende la legittimità degli atti comunali che detta clausola hanno, di fatto, violato.
Secondo parte appellante la legge, richiamando i principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione, esige che l’alienazione delle partecipazioni societarie avvenga comunque mediante l’esperimento di procedura comparativa: ciò allo scopo di realizzare il duplice interesse pubblico alla libera concorrenza, che consente la massimizzazione del profitto ricavabile dalla vendita, e all’efficienza ed economicità dell’azione amministrativa grazie alla capacità della libera contrattazione di individuare il miglior contraente. La salvezza, contenuta nel secondo comma dell’art. 10 d.lgs. n. 175 del 2016, delle clausole di prelazione previste dagli statuti societari può essere contemperata con detti principi solo mediante esperimento a monte dell’obbligatoria procedura di evidenza pubblica con conseguente determinazione del prezzo e delle condizioni di alienazione e differimento dell’operatività della clausola di prelazione al momento in cui sia conclusa la procedura evidenziale.
Solo a queste condizioni, ribadisce l’appello, è possibile evitare una, altrimenti necessitata, pronuncia di nullità delle clausole di prelazioni statutarie.
E tuttavia il Collegio respinge nel merito anche il terzo motivo di ricorso ritenendo legittima la clausola di prelazione impropria, come quella contenuta nello statuto di OMISSIS per le ragioni che seguono.
Preliminarmente “occorre rammentare che è lo stesso articolo 10 (Alienazione di partecipazioni sociali), comma 2, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, dopo aver, al primo periodo, stabilito che: «L’alienazione delle partecipazioni è effettuata nel rispetto dei principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione», a specificare, nell’ultimo periodo, che: «E’ fatto salvo il diritto di prelazione dei soci eventualmente previsto dalla legge o dallo statuto»”.
È così previsto dalla legge che anche in ipotesi di società a partecipazione pubblica, la libera circolazione delle partecipazioni può essere limitata dall’autonomia privata mediante clausole di prelazione.
Le clausole di prelazione previste dagli statuti societari rispondono all’interesse dei soci a conservare omogenea e inalterata la compagine sociale nell’ipotesi in cui un socio decida la dismissione della propria partecipazione (o di una sua parte), condizionando così l’ingresso di terzi e preservando i reciproci rapporti interni (cfr. Cass., I, 3 giugno 2014, n. 12370).
Per il Collegio “una tale ragione potrebbe venire esposta a pericolo se, in concreto, il prezzo e le condizioni della prelazione fossero senz’altro rimesse al mercato ovvero a una procedura d’asta aperta alle offerte private. In una tale situazione, i soci pubblici infatti si troverebbero nell’evidente difficoltà di dover finanziariamente competere con investitori privati, naturalmente orientati al lucro e non alla cura di interessi pubblici, e a tal fine sarebbero chiamati a significativi esborsi di denaro pubblico per risultare vincitori nella contesa al fine di mantenere l’originario equilibrio tra pubblico e privato”.
Questa considerazione dà ragione dell’introduzione di clausole di prelazione improprie, in cui la fissazione del prezzo avviene sulla base di criteri predeterminati.
In tutti i casi in cui sono previste – per quanto concerne lo statuto di una società a partecipazione pubblica – siffatte clausole contemperano ragionevolmente, vista la ragione di detta partecipazione, l’interesse del socio alienante a conseguire il maggior ricavo economico dalla vendita delle proprie partecipazioni, con quello dei soci restanti – pubblici e privati – a poter acquistarle a un prezzo che non comporti un eccessivo aggravio di spesa e così a mantenere il controllo della società, contrastando ingressi potenzialmente squilibranti la stessa presenza pubblica.
In definitiva, le clausole di prelazione improprie, già valide per le società a intera partecipazione privata, “lo sono a maggior ragione in caso di società a partecipazione pubblica: dove il detto interesse del socio alienante al maggior ricavo è naturalmente recessivo rispetto a quello alla preservazione dell’equilibrio tra pubblico e privato nell’assetto societario: in quale è riflesso dell’articolazione di interessi pubblici – vale a dire delle collettività di cui i soci pubblici sono enti esponenziali – rispetto alla prestazione del servizio ad opera della società. Tale equilibrio potrebbe essere seriamente compromesso dall’arrivo per la mera via del prezzo di mercato di un nuovo socio privato extraneus in luogo di quello pubblico uscente, per sua natura non orientato ad altrettanta cura ma solo al, pur legittimo, lucro”.
In ciò, con tutta evidenza, risiede la ragione della scelta legislativa di ammettere la previsione del diritto di prelazione in deroga alla libera alienazione delle partecipazioni anche nelle società a partecipazione pubblica, e senza limitazioni di sorta: e dunque la sua opponibilità e in definitiva la sua la prevalenza .
L’appellante, tuttavia, – come già fatto in primo grado – afferma che un tale ragionamento consente di ritenere valida la clausola di prelazione esclusivamente a favore dei soci pubblici.
Una clausola di prelazione, come quella in esame, prevista anche a favore dei soci privati sarebbe, pertanto, nulla per contrasto con i principi di cui all’art. 10, comma 2, primo periodo, d.lgs. n. 175 del 2016; si tratterebbe, però, di una nullità differenziata, relativa al solo diritto dei soci privati, e non per quelli pubblici, il che sarebbe in contrasto con il regime della nullità dell’art. 1419 Cod. civ., che non prevede nullità “frammentate” a seconda dei destinatari.
Ma come ricordato, l’art. 10 (Alienazione di partecipazioni sociali), comma 2, d.lgs. n. 175 del 2016 afferma testualmente che «è fatto salvo il diritto di prelazione dei soci eventualmente previsto dalla legge o dallo statuto». Non distingue tra soci pubblici e soci privati. Pertanto, secondo il Giudice di Appello “La norma vigente, pertanto, così non distinguendo preclude di limitare l’operatività delle clausole di prelazione statutarie ai soli soci pubblici e di assicurare solo a questi di esercitare preferenzialmente l’acquisto (ubi lex non distinguit nec nos distinguere debemus)”.
La funzione propria della clausola di prelazione – di preservare per quanto possibile l’assetto della compagine sociale – è evidentemente reputata dalla legge meritevole anche in favore dei soci privati di una società a partecipazione pubblica.