T.A.R. Lazio - Roma, II sezione, 7 febbraio 2020
1. Il Collegio ha ritenuto non condivisibile la lettura dell’art. 5, paragrafo 5, del Regolamento comunitario n. 1370/2007 proposto dall’Autorità ricorrente.
I requisiti previsti dall’ordinamento europeo e dalla legislazione nazionale (cfr. art. 61 della legge 23.7.2009, n. 99) per l’affidamento in regime di in house providing del servizio di trasporto pubblico locale si risolvono nell’effettiva sussistenza del “controllo analogo” e della “dedizione prevalente” di cui all’art. 5.2 del Regolamento CE n. 1370/2007.
2. Può ritenersi assodato che l’ambito dell’affidamento delle concessioni del servizio di trasporto pubblico locale è contraddistinto da una disciplina speciale di fonte euro-unitaria, caratterizzata da una liberalizzazione non integrale, trattandosi di settore non soggetto per intero al regime della concorrenza.
3. Le suddette premesse appaiono necessarie al Collegio a fronte di un’impostazione del ricorso dell’AGCM che sembrerebbe contestare in nuce e ancor prima della proroga oggetto della delibera gravata la modalità di affidamento del servizio di TPL scelta da Roma Capitale, modalità che per tutte le considerazioni su riportate risulta perfettamente conforme sia alla normativa euro - unitaria che alla normativa nazionale.
4. Ai sensi dell’art. 1, paragrafo 1, primo comma, del Regolamento n. 1370/2007, il Collegio ritiene che sia più logico e anche maggiormente rispondente alle finalità della citata disposizione, con la quale il legislatore comunitario ha inteso attribuire all’autorità competente poteri ulteriori, oltre a quelli ordinari, per far fronte a situazioni emergenziali, leggere il requisito “dell’imminenza del pericolo di interruzione del servizio” non solo avuto riguardo al solo elemento temporale dell’immediatezza del verificarsi dell’evento al quale fare fronte e da scongiurare – vale a dire l’interruzione del servizio pubblico di trasporto - ma anche in un’ottica prognostica complessiva.
Indice
1. I fatti di causa.
2. Oggetto della sentenza.
3. Nozione di “servizio pubblico” tra disciplina interna e comunitaria.
4. L’affidamento diretto, c.d. “in house providing”, nell’evoluzione normativo-giurisprudenziale. Il requisito del “controllo analogo”.
5. Profili emergenziali nell’ambito dell’in house alla luce dell’ordinamento europeo e della legislazione nazionale. Conclusioni.
* * *
1. I fatti di causa
Con la sentenza in commento il T.A.R. Lazio si è pronunciato nella causa istaurata tra l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (di seguito per brevità AGCM) contro Roma Capitale (di seguito anche Comune di Roma) e l’Azienda per la Mobilità (di seguito Atac s.p.a.). Quest’ultima è una società in house controllata al 100% dal Comune di Roma nonché affidataria del trasporto pubblico locale di superficie e metropolitano, dei servizi connessi, del servizio di gestione dei parcheggi di interscambio e della sosta tariffata su strada. La concessione era stata attivata nel 2013, per poi essere rinnovata nel 2015 tramite un nuovo contratto di servizio della durata di 4 anni fino al dicembre 2019.
Nel settembre 2017 i vertici della società avvertivano l’Amministrazione comunale della situazione di crisi aziendale segnalando l’esigenza di individuare percorsi di risanamento per garantire la continuità del servizio pubblico. La Giunta municipale prendeva in considerazione l’ipotesi di un proroga dell’attuale affidamento del servizio. Nel frattempo, a settembre 2017 il Consiglio di Amministrazione di Atac S.p.A. deliberava di procedere al concordato preventivo in continuità con la finalità di provvedere al soddisfo dei creditori della società, perseguendo contestualmente il fine del risanamento aziendale.
Roma Capitale con delibera n. 2 del 16 gennaio 2018 dell’Assemblea capitolina, ritenuti sussistenti i presupposti giuridici e fattuali per il ricorso all’art. 5, paragrafo 5, del Regolamento UE n. 1370/2007 (che, all’effetto, consente all’autorità competente di prendere provvedimenti di emergenza, quale l’affidamento diretto, in caso di interruzione del servizio o di pericolo imminente di interruzione dello stesso), ha disposto la proroga dell’affidamento in favore di ATAC S.p.A. di due anni rispetto alla prefissata scadenza. L’Amministrazione sottolineava che l’emergenza non sarebbe connessa alla fine del periodo di durata della concessione, bensì conseguente alla dichiarazione di non ammissibilità del ricorso avente ad oggetto la proposta di concordato da parte del Tribunale ordinario, con conseguente dichiarazione di fallimento.
Al contrario, l’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato ha evidenziato una serie di criticità con riferimento a tale proroga, evidenziando la carenza dei presupposti di emergenza e di imminenza del pericolo, così come contemplati nel su menzionato Regolamento Comunitario. In particolare, l’AGCM ha ritenuto la violazione dei presupposti del Regolamento Comunitario in quanto non sarebbe integrata l’intervenuta interruzione del servizio. L’Amministrazione sul punto sarebbe incorsa in una contraddizione in termini per aver considerato imminente un pericolo per il quale la relativa proroga viene concessa avendo però effettiva operatività a distanza di anni rispetto alla situazione emergenziale da cui trae origine, essendo la decorrenza stabilita a far data dallo spirare del termine della concessione. Si sarebbe configurata così una disparità di trattamento rispetto ad altri operatori economici. Sarebbe anche stato violato l’art. 34, comma 20, del D.L. n. 179/2012 in relazione all’affidamento in house in quanto non sarebbe condivisibile la tesi dell’Amministrazione Capitolina secondo la quale la disciplina dei TPL sarebbe esclusa dall’ambito di applicazione del d.lgs. 50/2016.
Altra violazione in cui sarebbe incorsa Roma Capitale è la durata stessa della proroga, in quanto, secondo la ricostruzione dell’Autorità, è stata posta all’esclusivo scopo di permettere il risanamento aziendale e non per organizzare, nel frattempo, una nuova gara. Il rischio imminente di interruzione del servizio di TPL, sotteso alla decisione di proroga, si sarebbe concretizzato, nei fatti, solo nel momento in cui la società si è trovata esposta al rischio di fallimento a seguito delle molteplici istanze presentate nei suoi confronti.
L’Amministrazione resistente, richiamato il ricorso dell’AGCM, ha eccepito la sopravvenuta carenza di interesse alla odierna decisione in considerazione della connessione tra il presente ricorso e quello precedentemente instaurato ma mai trattato (recante il nr. R.G. 4112/2013 avverso la delibera dell’Assemblea capitolina nr. 47 del 2012), nonché il difetto di ius postulandi per assenza del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, essendo consentita, in via eccezionale, la deroga allo stesso solo in materia di giurisdizione soggettiva, quando il soggetto resistente è un’amministrazione dello Stato e non quando è un ente locale.
Inoltre, Roma Capitale faceva notare nella propria memoria che il ricorso di controparte sarebbe improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse per mancata impugnazione di atti precedenti e successivi al provvedimento impugnato. Infatti, l’atto di proroga sarebbe solo l’ultimo atto dovuto e consequenziale rispetto alle precedenti e successive deliberazioni dell’Amministrazione di approvazione dell’avvio delle operazioni di concordato preventivo.
2. “Oggetto della sentenza”
La sentenza in commento appare di rilevante importanza, attesa l’affermazione da parte del Tribunale Amministrativo di fondamentali principi in relazione ai servizi pubblici locali non più interpretati in base alla normativa interna ma in continua comparazione con il diritto comunitario.
La controversia ruota intorno alla corretta interpretazione dell’art. 5, paragrafo 2, Regolamento Europeo n. 1370/2007 da cui il T.A.R. trae una serie di conseguenze. Testualmente si afferma che: “(…) Nel caso di specie, trova applicazione il regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 1370/2007, relativo ai servizi pubblici di trasporto di passeggeri su strada e per ferrovia, il quale, all’art. 5.2., prevede testualmente che “a meno che non sia vietato dalla legislazione nazionale, le autorità competenti a livello locale, si tratti o meno di un’autorità singola o di un gruppo di autorità che forniscono esse stesse servizi di trasporto pubblico di passeggeri possono procedere all’aggiudicazione diretta di contratti di servizio pubblico a un soggetto giuridicamente distinto su cui l’autorità competente a livello locale, o, nel caso di un gruppo di autorità, almeno una di esse, esercita un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi. Se un'autorità competente a livello locale adotta una tale decisione, si applicano le disposizioni seguenti: a) al fine di determinare se l'autorità competente a livello locale esercita tale controllo, sono presi in considerazione elementi come il livello della sua rappresentanza in seno agli organi di amministrazione, di direzione o vigilanza, le relative disposizioni negli statuti, l'assetto proprietario, l'influenza e il controllo effettivi sulle decisioni strategiche e sulle singole decisioni di gestione. Conformemente al diritto comunitario, la proprietà al 100% da parte dell'autorità pubblica competente, in particolare in caso di partenariato pubblico-privato, non è un requisito obbligatorio per stabilire il controllo ai sensi del presente paragrafo, a condizione che vi sia un'influenza pubblica dominante e che il controllo possa essere stabilito in base ad altri criteri; b) il presente paragrafo si applica a condizione che l'operatore interno e qualsiasi soggetto sul quale detto operatore eserciti un'influenza anche minima esercitino le loro attività di trasporto pubblico di passeggeri all'interno del territorio dell'autorità competente a livello locale, pur con eventuali linee in uscita o altri elementi secondari di tali attività che entrano nel territorio di autorità competenti a livello locale vicine, e non partecipino a procedure di gara per la fornitura di servizi di trasporto pubblico di passeggeri organizzate fuori del territorio dell'autorità competente a livello locale”.
Con le suesposte prime battute la sentenza mette in evidenza concetti fondamentali del diritto amministrativo i quali, in alcune situazioni, possono subire delle deroghe. Innanzitutto, il principio dell’ “affidamento per gara”, ormai consolidato nella materia appalti, può essere derogato, per scelta dell’autorità competente, nell’ambito dei servizi di trasporto pubblico di passeggeri in virtù del particolare bene giuridico sottostante.
Altro elemento caratteristico del sistema degli affidamenti pubblici su cui pone l’accento il T.A.R. è quello del “controllo analogo” ritenendo che, nel sistema dei servizi TPL, l’affidamento c.d. in house providing è ammissibile solo là dove sussista, per l’appunto, la “dedizione prevalente”. E’ chiara, anche in tale passaggio, l’interpretazione comparativa interna - comunitaria seguita dal Tribunale adìto.
A partire dagli anzidetti principi, si giunge ad una innovativa interpretazione del principio di concorrenza in relazione ai servizi pubblici locali per i quali sussisterebbe una “liberalizzazione non integrale” , affermazione che trova fondamento nell’art. 106, comma 2, TFUE. Ne deriva che, per la particolare materia trattata, l’affidamento in house non costituisce un’eccezione bensì una modalità ordinaria di affidamento del servizio, la cui scelta è ampiamente discrezionale per la P.A. e per la quale non risulta necessario neppure un onere motivazionale “rinforzato” circa la ragioni del mancato ricorso al mercato.
Per l’appunto, a conferma di quanto sopra, ancora T.A.R. Lazio: “(…) Da tutto quanto precede consegue: 1) che l’affidamento in house costituisce modalità ordinaria e nient’affatto eccezionale di affidamento della concessione dei servizi di TPL; 2) che i presupposti della scelta di tale modulo organizzativo del servizio di T.P.L. consistono esclusivamente nel ricorrere dei requisiti previsti dal citato art. 5.2 del Regolamento n. 1370/2007, senza alcun onere motivazionale “rinforzato” circa le ragioni del mancato ricorso al mercato; 3) che la decisione di avvalersi della forma di gestione in house costituisce il frutto di una scelta ampiamente discrezionale, sindacabile dal giudice amministrativo soltanto laddove sia inficiata da un travisamento dei due sopra citati presupposti di fatto, e/o da manifesta illogicità”.
Infine, come si riporterà nel successivo punto 5 del presente lavoro, il T.A.R. propone una lettura del Regolamento Europeo n. 1370/2007 non legata ad un’interpretazione letterale, come suggerirebbe l’AGCM nel proprio ricorso, bensì preferisce far prevalere il bene giuridico sottostante i servizi TPL ovvero l’effettività degli stessi per i fruitori.
Si anticipa fin da subito che la possibilità di derogare al principio di concorrenza (considerato uno dei pilastri del diritto comunitario) per la materia in esame, deriva dall’indagine dello scopo del predetto Regolamento, il quale non vuole strutturare i servizi TPL secondo lo schema della concorrenza bensì assicurare la continuità del servizio pubblico locale alla collettività.
Pertanto, vista la rilevanza della decisione che ha inaugurato un nuovo filone interpretativo, si ritiene opportuno fare il punto su alcuni concetti base da cui prende vita la pronuncia.
3. Nozione di “servizio pubblico” tra disciplina interna e comunitaria
La prestazione di servizi è l’affermazione massima del modello di Stato sociale con la quale si supera la forma di Stato di diritto. Con tale modello, si intende perseguire un interesse generale attinente sia a diritti fondamentali del cittadino (come la salute, l’istruzione, la sicurezza), sia a diritti che sono legati meno intensamente alla persona.
E’ evidente come la materia sia piuttosto variabile anche a seconda delle condizioni economico-sociali del paese, tanto che, nel nostro ordinamento, ha subìto una grande evoluzione grazie al coevo sviluppo del sistema del diritto europeo. Tutto ciò ha ingenerato una maggiore complessità e, a tratti, incertezze della materia, come emerge anche dalla sentenza in commento[1].
La tematica è di forte problematicità tanto da essere stata definita da autorevole dottrina come una delle nozioni, tra le discipline giuspubblicistiche, più incerte e di maggiore difficoltà definitoria[2].
Ciò è dovuto a una serie di fattori, sia relativi all’evoluzione tecnologica e sociale, sia relativi alle scelte politico - culturali degli Stati. Il servizio pubblico, infatti, ha da sempre rappresentato il terreno privilegiato di scontro tra opposte concezioni dello Stato: quella cd. liberale, fondata sull’idea che ai pubblici poteri devono essere affidate le sole funzioni sovrane, lasciando alla libera iniziativa privata tutte le attività economiche; quella del cd. welfare state, fondata invece sull’intervento pubblico nelle attività economiche, al fine di garantire l’eguaglianza, non solo giuridica, ma anche sostanziale, tra i cittadini[3], come, tra l’altro, prescrive l’art. 3, comma 2, della Carta fondamentale.
In via di principio, con il concetto di servizio pubblico si fa riferimento ad attività di attribuzione di beni della vita suscettibili di valutazione patrimoniale che, essendo diretti a soddisfare preminenti esigenze dell’intera collettività, si estrinsecano secondo modalità non autoritative.
Sono due, quindi, gli elementi essenziali del servizio pubblico: la strumentalità al soddisfacimento di esigenze essenziali della collettività e la non autoritatività (nella fase di erogazione) della “prestazione”[4].
Nonostante l’ampio riferimento, all’interno della legislazione, al concetto di servizio pubblico[5], tuttavia, in alcun modo è possibile rinvenirvi una sorta di definizione. Quindi, fondamentale è stato l’apporto della giurisprudenza[6] e gli studi approfonditi della dottrina.
E’ da evidenziare che, proprio a causa della mancanza di una precisa definizione del concetto di servizio pubblico, intorno agli anni ‘60 del 900, è stata avanzata la teoria del servizio pubblico in senso soggettivo, avallata dalla stessa Corte Costituzionale. Alla luce della ricostruzione dottrinale, il servizio è pubblico in quanto le relative attività, non aventi carattere autoritativo, sono esercitate da un soggetto pubblico o comunque per conto di esso allo scopo di garantire alla collettività il soddisfacimento di utilità essenziali. In particolare, questa attività può essere gestita da un soggetto pubblico, direttamente attraverso i propri organismi, oppure essere affidata attraverso un atto di concessione a operatori privati[7]. Tramite un tale “atto di assunzione”, un potere pubblico trasforma un servizio in utilità pubblica, decide di gestirlo direttamente e lo sottrae al libero mercato. Ne consegue che il servizio diventa pubblico solo là dove è lo Stato stesso a deciderlo. In un primo momento anche la stessa Corte di Cassazione si indirizzava verso tale orientamento[8].
Tuttavia, se fino agli anni ’60 quest’ultima era la teoria dominante, nei decenni successivi, dopo una serie di critiche mosse al precedente orientamento, hanno trovato maggior vigore quelle teorie che, da una parte, rilevavano l’esistenza di pubblici servizi la cui gestione era molto simile ad un’ attività amministrativa, ma che, in realtà, non era sottoposta ad una vera e propria disciplina pubblicistica; dall’altra, ritenevano che la teoria soggettiva si scontrasse con la normativa generale e con la dismissione delle forme di intervento pubblico[9]. Infine, anche la stessa interpretazione dell’art. 43 Cost. sembrava consentire la possibilità per lo Stato di trasferire determinate imprese o attività alla gestione dei privati.
Da tali premesse dottrinarie e normative origina la teoria “oggettiva”, formulata primariamente da Potoschnig[10].
Dello stesso avviso era anche il Consiglio di Stato, che, con la pronuncia n. 1/2000, asseriva la necessità di includere ogni forma di attività finalizzata al perseguimento dell’interesse collettivo, compreso il servizio pubblico, nell’ambito dell’attività amministrativa svolta in conformità ai principi sanciti dall’art. 97 Cost..
Non sono mancate, tuttavia, critiche anche a questa teoria per aver eccessivamente ampliato la nozione di servizio pubblico da cui è derivata una certa ambiguità.
La realtà dei fatti ha dimostrato che meglio si avvicina ad una più aderente definizione del concetto di “servizio pubblico” la teoria mista/intermedia soggettivo-oggettivo (detta anche “soggettiva temperata”), secondo cui il criterio soggettivo consente di distinguere queste attività dalle altre di tipo economico svolte dall’Amministrazione e il criterio oggettivo chiarisce che l’attività deve essere svolta nell’interesse della collettività e posto a disposizione degli utenti secondo canoni strutturali e funzionali di imprenditorialità. Pertanto, per poter qualificare un servizio come pubblico occorre che lo stesso sia imputabile ad una PA anche se l’attività, in realtà, venga svolta da un soggetto privato tramite concessione.
Si mette così in risalto l’importanza del diritto positivo, l’attività oggetto del servizio, le finalità perseguite[11].
La titolarità pubblica è desumibile dall’obiettiva pubblicità del servizio e non dalla pubblicità del soggetto. Anche la giurisprudenza si è posta sulla stessa lunghezza d’onda, ritenendo necessaria, per l’individuazione di un servizio pubblico, la valutazione di tre elementi: a) il beneficiario del servizio, b) la sussistenza o meno di un interesse generale, c) la remunerazione[12].
Il necessario perseguimento dell’interesse generale richiede che l’attività oggetto del rapporto debba rivolgersi ad un’utenza indiscriminata, non all’Amministrazione appaltante. Il servizio, dunque, può ben essere svolto dai privati, purchè sottoposto a direzione e vigilanza della P.A., sempre e comunque a vantaggio della collettività[13].
La sentenza in esame va, per l’appunto valorizzata, atteso che, per la soluzione a cui giunge, dimostra l’effettuazione di una valutazione complessiva del concetto di servizio pubblico con particolare riferimento ai beneficiari del servizio e alla sussistenza di un interesse pubblico sotteso.
A livello comunitario, invece, come noto, l’aspetto di maggiore interesse è la libertà di concorrenza, ambito che rischia di essere compromesso dall’assunzione dello stesso pubblico servizio da parte della P.A.. Due questioni vanno affrontate primariamente[14]: 1) la nozione di servizio pubblico affermatasi nel diritto comunitario, in parte diversa da quella degli Stati; 2) i rapporti tra concorrenza e controllo pubblico[15].
La realtà del diritto comunitario non conosce la nozione di pubblico servizio come, invece, accade negli Stati membri[16]. Nel tempo ha sancito tre diverse categorie di servizi:
a) servizi di interesse generale; b) servizi di interesse economico generale; c) servizi non economici.
Un primo elemento di lettura del sistema fu dato dalla consapevolezza che i servizi non dovessero essere sottoposti al controllo della P.A., che avrebbe scelto il fornitore “intuitu personae”, cioè sulla base di considerazioni di natura non propriamente razionale; il servizio non è pubblico in quanto sottoposto a poteri pubblici ma perché riguarda il pubblico, cioè la collettività indistinta dei cittadini.
In proposito, come rilevato dalla Commissione, spesso gli Stati confondono la missione con lo status”[17]: è la missione ad essere di interesse generale, mentre lo status è irrilevante, visto che l’attività può essere svolta tanto da un soggetto pubblico quanto da un soggetto privato[18]. Alla luce di tale interpretazione, gli studiosi hanno ricostruito il profilo oggettivo[19] della nozione di servizio pubblico comunitario, che permette di qualificare un servizio come pubblico in virtù delle sue caratteristiche intrinseche, e non dell’assunzione del servizio da parte dei pubblici poteri.
Il ruolo dello Stato non è, tuttavia, venuto meno, ma è stato semplicemente ridefinito: nell’organizzazione del proprio settore pubblico deve tenere conto dei principi comunitari, in particolare quelli che presiedono alla realizzazione del mercato interno.
Il diritto comunitario finisce così per influenzare il sistema nazionale dei servizi pubblici. La Comunità europea non ha fatto riferimento ad alcuna specifica definizione nazionale per individuare la nozione di servizio pubblico comunitario, ma ha preferito elaborarne una propria a partire dagli artt. 86 e 16 del Trattato fino all’art 36 della Carta dei Diritti Fondamentali [20].
A seguito della liberalizzazione, l’attenzione della comunità si focalizzò sulla tutela dei servizi di interesse economico generale; tutela perseguibile (come analizzato dalla Commissione europea) anche senza invocare alcuna deroga al diritto comunitario. Il secondo comma dell’articolo 86 realizza proprio il difficile contemperamento[21]“tra l’interesse degli Stati ad utilizzare determinate imprese, segnatamente del settore pubblico, come strumento di politica economica e sociale, con l’interesse della Comunità europea all’osservanza delle regole di concorrenza e al mantenimento dell’unità del mercato comune”.
L’espressione “servizio di interesse economico generale” indirizza l’interprete ad individuare la categoria sulla base della rilevanza economica dell’attività piuttosto che verso i destinatari di questi. In tale ottica, il principio di concorrenza, come ritenuto anche dall’AGCM, diventa superiore alla tutela della collettività.
In realtà, la definizione è piuttosto incerta a causa delle differenze di disciplina dei servizi pubblici esistenti tra gli Stati membri, alcuni molto protettivi, come l’Italia e la Francia, altri più aperti al mercato, come la Gran Bretagna[22].
Ora, atteso che l’art. 86 TCE è norma di applicazione generale e in alcuni passaggi risulta oltretutto generico, occorre indagare sulla relazione tra imprese e poteri pubblici. E’ pacifico in giurisprudenza che i compiti che gli Stati assegnano alle imprese pubbliche non sono oggetto di sindacato, in quanto l’individuazione degli stessi compiti rientra nella sfera di decisione riservata ai singoli Stati. Il diritto comunitario, di conseguenza, avrà l’obbligo di intervenire solo quando il conseguimento degli obiettivi richiede misure contrarie alle disposizioni del Trattato. Il sindacato riservatogli è comunque limitato alla congruità di tali misure rispetto agli scopi cui sono dirette[23].
Proprio in relazione alla sentenza in commento, rispetto alla decisione dell’Amministrazione Capitolina di prorogare la concessione ad Atac S.p.A., si sottolinea che con l’art. 86 non si è voluto quindi escludere a priori il ruolo svolto dai pubblici poteri in una materia tradizionalmente riservata alla loro competenza, quale quella dei servizi pubblici, ma, piuttosto, si è inteso relegare gli interventi pubblici in un ruolo “residuale”, essendo gli stessi consentiti soltanto quando i fini generali da perseguire siano di per sé incompatibili con il mantenimento delle regole concorrenziali. Rileva che la tutela della concorrenza trova il proprio limite nell’interesse generale da perseguire (nel caso in commento sarebbe stata l’interruzione dei servizi di TPL) [24].
In via generale, il diritto europeo ha lasciato la possibilità di scelta agli Stati di intervenire quando sia necessaria una decisione contraria agli obiettivi del Trattato. Infatti, nel tempo, svariati segnali hanno dimostrato che la componente soggettiva pubblica è irrinunciabile in relazione anche al valore e alla coesione sociali, cui i servizi pubblici devono corrispondere. Il confronto tra interesse generale e regole del mercato unico implica che in alcuni casi le seconde non si impongano ex se, ma possono divenire funzionali alla realizzazione del primo. Pertanto, la concorrenza va a perdere il carattere assegnatogli inizialmente, assumendo una configurazione strumentale: è prevista la possibilità di farne a meno laddove non sia adeguata a garantire l’interesse generale.
Al riguardo, da un punto di vista normativo ed amministrativo, la problematica rimane tuttora aperta[25].
In definitiva il diritto comunitario non nega il concetto di servizio pubblico, ma lo supera distinguendo una componente di base o minimale (servizio universale) che legittima eventuali deroghe al regime della concorrenza e una componente ulteriore (servizio a valore aggiunto) cui si applica la disciplina generale e quindi le regole di mercato. Peraltro, la stessa Commissione ha espressamente ammesso che gli stati membri restano comunque liberi di definire delle “missioni di interesse generale supplementari” rispetto al servizio universale, definendo in senso più esteso l’obiettivo che intendono perseguire e di conseguenza la loro nozione di pubblico servizio.
L’ordinamento italiano ha dovuto adattarsi all’apertura dei servizi pubblici al mercato concorrenziale, il che non significa che i poteri pubblici hanno abbandonato completamente la trattazione della materia, ma semplicemente che il loro potere ha una nuova forma[26].
4. L’affidamento diretto, c.d. “in house providing”, nell’evoluzione normativo-giurisprudenziale. Il requisito del “controllo analogo”
Affrontato il problema della nozione di servizio pubblico, nella pronuncia in commento ci troviamo di fronte ad una situazione particolare. La società affidataria del servizio di TPL è una società in house, partecipata al 100% dal Comune di Roma. Tale circostanza apre, dunque, a un’altra tematica particolarmente delicata, costituita dalle modalità di affidamento dei pubblici servizi.
Nella sentenza, a tal proposito, si legge: “i requisiti previsti dall’ordinamento europeo e dalla legislazione nazionale (cfr. art. 61 della legge 23.7.2009, n. 99) per l’affidamento in regime di “in house providing” del servizio di trasporto pubblico locale si risolvono nell’effettiva sussistenza del “controllo analogo” e della “dedizione prevalente” di cui all’art. 5.2 del Regolamento CE n. 1370/2007. (…) Può ritenersi assodato che l’ambito dell’affidamento delle concessioni del servizio di trasporto pubblico locale è contraddistinto da una disciplina speciale di fonte euro-unitaria, caratterizzata da una liberalizzazione non integrale, trattandosi di settore non soggetto per intero al regime della concorrenza.
(…) Da tutto quanto precede consegue: 1) che l’affidamento “in house” costituisce modalità ordinaria e nient’affatto eccezionale di affidamento della concessione dei servizi di TPL; 2) che i presupposti della scelta di tale modulo organizzativo del servizio di T.P.L. consistono esclusivamente nel ricorrere dei requisiti previsti dal citato art. 5.2 del Regolamento n. 1370/2007, senza alcun onere motivazionale “rinforzato” circa le ragioni del mancato ricorso al mercato; 3) che la decisione di avvalersi della forma di gestione “in house” costituisce il frutto di una scelta ampiamente discrezionale, sindacabile dal giudice amministrativo soltanto laddove sia inficiata da un travisamento dei due sopra citati presupposti di fatto, e/o da manifesta illogicità”.
La tematica è stata oggetto di accesi scontri tra il diritto nazionale e il diritto comunitario, come testimoniato dalle numerose pronunce sia della Corte di Giustizia che della Corte Costituzionale. Ciò è dovuto al fatto che l’in house ha rappresento un’eccezione al principio di concorrenza, principio cardine del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), ma nello stesso tempo anche uno dei modelli di gestione di servizi pubblici locali. E’ stato addirittura oggetto di referendum nel 2011[27].
L’istituto in esame ha portato alla modificazione sia delle modalità di gestione dei detti servizi pubblici locali che le tipologie di affidamento diretto, anziché adottare una procedura selettiva pubblica per la gestione del servizio de quo[28].
Per gli affidamenti in house non esiste un quadro normativo di riferimento in ambito europeo, mentre vi è una copiosa giurisprudenza comunitaria e nazionale che, nel corso degli anni, ha creato importanti principi in materia; principi che, come spesso accade anche nell’ordinamento nazionale, sono stati codificati, seppure con qualche novità, da parte del Parlamento Europeo e del Consiglio nell’ambito delle nuove direttive sugli appalti pubblici e sui contratti di concessione.
Il punto di partenza è l’art. 113 T.U.E.L. che afferma il carattere inderogabile delle norme dettate in ambito eurounitario e la loro funzione di tutela della concorrenza. La norma trova applicazione in tutte le tipologie dei servizi pubblici tranne alcuni specificamente esclusi, tra cui il settore del trasporto pubblico locale, che, ai sensi dell’art. 1-bis dell’art. 113[29], resta disciplinato dal decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422.
La figura del c.d. in house providing, se almeno inizialmente aveva trovato una sorta di definizione, successivamente ha perso qualsiasi inquadratura puntuale, sia nella normativa comunitaria che interna. La particolarità sta nel fatto che non si riscontra alcuna alterità del soggetto che prende in carico il servizio rispetto al soggetto appaltante o concedente. Infatti, siamo di fronte ad un difetto di intersoggettività tra soggetto (apparentemente) appaltante e il soggetto (apparentemente) appaltatore. Ciò è quanto consegue alla circostanza che il secondo, all’effetto, è un organo del primo, con la conseguenza che l’affidamento di un servizio avviene senza necessità di una gara.
L’assenza di gara, come ritenuto anche nella pronuncia in esame, non corrisponde ad una lesione del principio di concorrenza, allorquando si possa escludere che l’ente sia un vero imprenditore.
La sostanziale struttura della società in house interamente partecipata dall’ente pubblico, nella nostra giurisprudenza, è rimasta pressoché rigida ed invariata, tanto che l’eventuale presenza di soci privati non realizza l’in house ma società mista o di partenariato pubblico-privato. Al contrario, nel diritto comunitario, se in un primo momento la visione rigida nazionale era stata condivisa, in un secondo momento si è affermata una giurisprudenza meno rigorosa secondo la quale la presenza dei soci privati viene considerata ostativa all’affidamento diretto solo se tale partecipazione sussista al momento della stipula della convenzione (C-371/05 e C-573/07 SEA)[30].
La Corte Costituzionale più volte è intervenuta proprio sul tema dell’affidamento diretto dei servizi pubblici locali, fino all’ultima pronuncia (n. 229/2013) con la quale ha perimetrato il nuovo quadro normativo dichiarando l’illegittimità dell’art. 4, co. 1, 2, 3 secondo periodo, 3-sexies e 8, D.L. n. 95 del 2012. Infatti, a seguito dell’azzeramento, da parte della Corte Costituzionale con la sentenza n. 199/2012, della disciplina sui servizi pubblici locali di rilevanza economica, con particolare riguardo, per quanto di interesse, alla prevista residualità e marginalità del fenomeno dell’in house, la produzione normativa, per un certo periodo di tempo si era completamente bloccata. Ha avuto una leggera ripresa con:
- l’art. 4, comma 8, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 135, e successive modificazioni;
- l’art. 34 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221 (commi da 20 a 27);
- l’art. 13, comma 25-bis, del d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito, con modificazioni, dalla l. 21 febbraio 2014, n. 9;
- l’art. 13 del d.l. 30 dicembre 2013, n. 150, convertito, con modificazioni, dalla l. 27 febbraio 2014, n. 15;
- la l. 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità 2014)[31].
Successivamente, con il decreto legge “Sviluppo Bis”, disciplina di riferimento per i servizi pubblici locali, è stato previsto, all’art. 34, l’obbligo per l’Ente affidante di disporre una relazione illustrativa della rispondenza dei sistemi di gestione dei servizi pubblici locali alla normativa comunitaria con sussistenza dei requisiti dell’in house. Infatti, quando la scelta dell'impresa da incaricare dell'assolvimento di obblighi di servizio pubblico non è effettuata nell'ambito di una procedura di evidenza pubblica, il valore delle compensazioni deve essere calcolato sulla base dei costi di un’azienda media gestita in modo efficiente[32]. Le compensazioni eccedenti quanto necessario per coprire i costi originati dall’adempimento degli obblighi di servizio pubblico possono tradursi nell’attribuzione di un indebito vantaggio che può falsare la concorrenza[33], dando luogo ad un aiuto di Stato.
Insieme al concetto di in house va perimetrato il requisito del c.d. “controllo analogo”. La nozione di “controllo analogo” impone l’esercizio, da parte dell’ente pubblico controllante, di un’influenza decisiva sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative della persona giuridica controllata. Esso diviene, nella sostanza, un “controllo strutturale”[34] .
Alla luce di quanto premesso, infatti, la dottrina prevalente ritiene necessario, da una parte, il “controllo strutturale” e, dall’altra, il “controllo sull’attività”[35].
In via generale, si esclude la terzietà nell’in house in quanto, seppur la società sia dotata di una minima personalità giuridica, si trova in assoluta soggezione nei confronti dell’ente affidante che è in grado di determinarne le scelte.
Nonostante ormai gli ordinamenti nazionali ricorrano sempre più spesso al sistema dell’in house providing, ciò non cancella il principio di concorrenza il quale rappresenta, come già detto, uno dei principi cardine del TFUE. Dunque, è prevista la libertà delle amministrazioni di autorganizzarsi, e quindi di decidere l’erogazione di un servizio in autoproduzione, pur con un parziale limite nella tutela della concorrenza, nei termini del citato 106, paragrafo 2, TFUE[36].
Il richiamato principio di concorrenza, infatti, trova una deroga nell’ipotesi in cui la sua attuazione impedisca la specifica missione attribuita ai soggetti gestori di servizi di interesse economico generale, ossia la soddisfazione dello specifico bisogno pubblico sottostante il servizio. Quindi, il diritto europeo ammette il ricorso all’in house quando la soddisfazione del bisogno pubblico non è realizzabile tramite la concorrenza.
Sono proprio questi i principi applicati nella sentenza in commento, là dove si afferma che “l’affidamento in house costituisce modalità ordinaria e nient’affatto eccezionale di affidamento della concessione dei servizi di TPL”.
Una disciplina a parte è contenuta nel regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 1370/2007 relativo ai servizi pubblici di trasporto di passeggeri su strada e per ferrovia. Le norme del Regolamento, pur prevedendo la gara quale modalità ordinaria di affidamento dei servizi, consentono, in deroga, l’affidamento in house e l’affidamento diretto a terzi per i servizi ferroviari regionali e, solo per i servizi su gomma, nel caso in cui il valore economico del servizio sia inferiore a determinate soglie o nel caso in cui si versi in condizioni di emergenza (per garantire la continuità dei servizi).
Da tutto quanto precede, consegue che “l’affidamento in house costituisce modalità ordinaria e nient’affatto eccezionale di affidamento della concessione dei servizi di TPL” (così come testualmente è affermato nella sentenza in commento).
5. Profili emergenziali nell’ambito dell’in house alla luce dell’ordinamento europeo e della legislazione nazionale. Conclusioni
L’ultimo punto toccato dalla sentenza in commento, che rappresenta lo snodo decisivo che ha condotto all’esito negativo della pretesa dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il mercato, riguarda la questione della specialità della disciplina dei servizi pubblici locali e il concetto di “emergenzialità” che può produrre una deroga al principio di concorrenza.
Sul punto il T.A.R. ha affermato che “il Collegio ha ritenuto non condivisibile la lettura dell’art. 5, paragrafo 5, del Regolamento comunitario n. 1370/2007 proposto dall’Autorità ricorrente” atteso che (…) può ritenersi assodato che l’ambito dell’affidamento delle concessioni del servizio di trasporto pubblico locale è contraddistinto da una disciplina speciale di fonte euro-unitaria, caratterizzata da una liberalizzazione non integrale, trattandosi di settore non soggetto per intero al regime della concorrenza (…)”. Pertanto, giunge alla conclusione che “per il Collegio non sussistono dubbi sull’interpretazione da attribuire al requisito “dell’interruzione del servizio” poiché l’Amministrazione si trova di fronte alla sospensione della sua erogazione e alla necessità di farvi fronte hinc et nunc; non altrettanto piana, a differenza di quanto sostenuto dall’Autorità ricorrente, sembra essere quella del diverso requisito “dell’imminenza dell’interruzione del servizio”.
Il TPL è un settore di assoluta rilevanza per l’economica nazionale ed è potenzialmente idoneo per lo sviluppo della concorrenza. Sin dal 1997, anno delle prime introduzioni normative, si proponeva di avviare una liberalizzazione del settore, il che è stato attuato tramite una forte produzione normativa, pur con una sostanziale staticità nel mercato.
L’iniziale disciplina prevedeva l’obbligatorietà della gara, previsione modificata dal Regolamento Europeo 1370/2007 che, invece, in alcuni casi, ha ammesso la possibilità dell’affidamento diretto tramite in house providing.
Brevemente, solo per chiarezza espositiva, occorre ricordare i tre approcci normativi più importanti nel settore del TPL:
- decreto legislativo n. 422 del 19 novembre 1997 con il quale l’Italia ha sperimentato, da un lato, il c.d. “federalismo a Costituzione invariata”, dando luogo ad un certo centralismo regionale, dall’altro, in relazione all’assetto organizzativo, l’utilizzo di strumenti della gara e del contratto di servizio per la scelta del gestore e per la regolazione dei rapporti tra ente affidante e gestore medesimo;
- decreto legislativo n. 400 del 1999, tramite il quale la gara è stata posta come unica modalità di affidamento del servizio;
- Il regolamento (CE) 1370/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2007 costituisce il punto d’approdo di questo tormentato iter legislativo, all’esito del quale si può constatare un mutato indirizzo di politica europea dei trasporti, in cui la concorrenza “regolamentata” costituisce soltanto lo strumento che può assicurare la trasparenza e l’efficienza dei servizi e deve comunque tener conto dei fattori di coesione sociale e territoriale, di sostenibilità ambientale e di sviluppo regionale. Che il citato Regolamento (CE) 1370/2007 costituisca un vero e proprio ripensamento sulla strada della liberalizzazione del TPL[37] è fatto palese sin dal suo art. 1 par. 1, ove si enuncia in modo chiaro che lo scopo dell’intervento normativo è quello di delimitare la sfera dell’intervento pubblico per garantire la fornitura di servizi di trasporto passeggeri d’interesse economico generale che siano, tra l’altro, più numerosi, sicuri, di migliore qualità od offerti a prezzi inferiori a quelli che il semplice gioco delle forze del mercato consentirebbe di fornire[38].
I profili problematici in relazione ai TPL riguardano proprio due caratteristiche che si sono affermate nel tempo (e che, oltretutto, sono sottostanti alla controversia in esame): a) la sussistenza di un quadro normativo a favore della gara; b) un settore che vede lo svolgimento di pochissime gare e la preferenza per l’affidamento diretto.
Fermo restando che quest’ultimo è stato sancito proprio dal Regolamento n. 1370, le vicende nel tempo hanno dimostrato che ciò avrebbe comportato un continuo accumulo di perdite di bilancio e di debiti. Infatti, in Italia, la maggior parte degli affidamenti avvengono con l’in house con un estensivo uso dello strumento della proroga, anche oltre le condizioni del regolamento.
Ciò premesso, il T.A.R., ai fini della risoluzione della controversia, ha cercato di interpretare il Regolamento europeo nell’ottica di un bilanciamento complessivo degli interessi sottostanti i servizi pubblici locali. Infatti, si legge nella sentenza “la ratio del Regolamento più volte citato è garantire la fornitura di servizi di interesse generale che siano, tra l’altro, più numerosi, più sicuri, di migliore qualità o offerti a prezzi inferiori rispetto a quelli che il semplice gioco delle forze del mercato consentirebbe di fornire, allora anche tutte le sue disposizioni non possono che essere lette seguendo tale filo conduttore”.
Il Tribunale in questione è giunto a una tale decisione alla luce del vero scopo del Regolamento n. 1370/2007: l’atto normativo rappresenta l’esito di un lungo iter procedurale che ha portato all’emanazione dello stesso. L’atto iniziale è stato proposto dalla Commissione europea nel 2000. Quest’ultima nel prospetto della proposta indicava come punto forte della modifica legislativa lo sviluppo della concorrenza per la fornitura di trasposti pubblici. L’aggiudicazione “diretta” non sarebbe stata esclusa ma avrebbe subìto una limitazione in relazione ai principi di concorrenza e previa valutazione dell’opportunità della stessa “caso per caso”.
La proposta della Commissione, tuttavia, non fu accolta nell’approvazione definitiva del Regolamento, come è facilmente ricavabile già dall’art. 1, par. 1, laddove lo “scopo” dell’atto non risiede nello “sviluppo della concorrenza”, ma quello di assicurare la fornitura di servizi pubblici di trasporto passeggeri, che siano, tra l’altro, “più sicuri, di migliore qualità o offerti a prezzi inferiori a quelli che il semplice gioco della concorrenza permettere di accordare”.
E’ questo il motivo per cui nel testo definitivo del Regolamento non assume più centralità l’aggiudicazione mediante “gara pubblica” e, pertanto, le sue disposizioni devono essere interpretate alla luce dell’interesse pubblico e non semplicemente in relazione al principio di concorrenza.
Oltretutto, l’iter logico portato avanti dal T.A.R., investito della controversia, trova riscontro anche in relazione all’art. 2 lett. a) e c) del Regolamento: diversamente da quanto era previsto dal precedente Regolamento, attualmente non si definiscono gli obblighi di servizio (con una parziale eccezione per quelli tariffari), ma si attribuiscono alle “autorità competenti” tale definizione e individuazione, precisando che essi devono perseguire il fine di garantire la prestazione di trasporto pubblico di passeggeri “senza discriminazioni e in maniera continuativa”.
E’ nell’art. 5, par. 2 che chiaramente il legislatore europeo prende le distanze dal principio di concorrenza, così come formulato dalla Commissione, ammettendo l’affidamento in forma “diretta” a meno che ciò non sia vietato dalla legislazione nazionale. E’ stato previsto che tale forma di affidamento diretto è consentita solo se l’“autorità competente” eserciti sull’operatore interno un controllo analogo a quello che esercita sulle proprie strutture”. Il controllo analogo, così come ricordato nel paragrafo precedente, è individuabile anche nell’ottica europea in base al livello di rappresentanza dell’autorità, alle disposizioni degli statuti, all’assetto proprietario e all’influenza e al controllo effettivo sulle questioni decisive.
Pertanto, è proprio alla luce di tali precedenti considerazioni che il T.A.R. Lazio ha interpretato l’art. 5, paragrafo 5 nel senso di accordare una deroga al principio di concorrenza per evitare un interruzione del servizio pubblico locale. Infatti, come detto sopra, il Regolamento n. 1370/2007 non ha il precipuo scopo di strutturare il sistema dei servizi pubblici in relazione al principio di concorrenza bensì di salvaguardare l’effettività del servizio per i fruitori dello stesso (Ai sensi dell’art. 1, paragrafo 1, primo comma, il Regolamento n.1370/2007 ha lo scopo di definire con quali modalità le autorità competenti possono intervenire, nel rispetto del diritto dell’Unione, nel settore dei trasporti pubblici di passeggeri per garantire la fornitura di servizi di interesse generale che siano più numerosi, più sicuri, di migliore qualità o offerti a prezzi inferiori rispetto a quelli che il semplice gioco delle forze del mercato consentirebbe).
Dottrina maggioritaria ha ritenuto che, alla luce delle disposizioni comunitarie, l’art. 5 (affidamento diretto, proroga consensuale o imposizione di obblighi di servizio pubblico) si applica in automatico, prevalendo sulla legislazione nazionale, ritenendosi che quanto dallo stesso art. 5 disposto sia una regola generale, applicabile anche nel silenzio delle singole fonti.
Pertanto, è chiaro che l’art. 5, par. 5 del Regolamento comunitario debba essere di volta in volta interpretato nell’ottica di un corretto bilanciamento degli interessi tutelati soprattutto in virtù di quello che è il bene/interesse su cui ruota l’intera normativa in esame: l’effettività del servizio per i fruitori dello stesso in quanto bene essenziale nella vita della collettività.
Infatti, emerge dalla sentenza in commento proprio tale valutazione combinata, laddove sono stati elencati gli interessi di natura pubblica per la corretta interpretazione della imminenza del pericolo, tra i quali “l’aver considerato, unitamente all’imminenza del pericolo di interruzione del servizio di TPL la tutela dell’integrità finanziaria di Roma Capitale, la salvaguardia del valore degli assets aziendali riferiti alla produzione di servizi di trasporto quale patrimonio indisponibile di ATAC S.p.A., l’opportunità di risolvere la crisi aziendale tramite continuità dell’attività statutaria per il perseguimento di un piano di recupero della redditività, tale da poter ricollocare la società sul mercato in posizione concorrenziale (…)”.
All’indomani della crisi del 2008, quando si parla di TPL, non si evoca più solo il concetto di servizio pubblico ma anche una serie di sostantivi a questi connessi quali “crisi”, “fallimento”, “inefficienza” e “spreco”. Tanto che alcune crisi economiche hanno condotto, per l’appunto, ad estreme conseguenze, come il fallimento.
Ecco il motivo per cui è diventato fondamentale il cambio di rotta del regolamento europeo: le principali novità riguardano, come preannunciato, le modalità di aggiudicazione dei contratti di servizio; tuttavia, rilevanti elementi di discontinuità rispetto al passato involgono anche la natura giuridica, gli elementi “minimi” e la durata dei contratti di servizio, il regime delle compensazioni, la previsione di un periodo di transizione e l’introduzione di una serie di obblighi pubblicitari.
Un tema particolare su cui ci si è soffermati è la fallibilità della società in house. Sicuramente la crisi economica degli ultimi anni ha colpito un settore debole come quello del trasporto pubblico locale in maniera dura e le aziende che già soffrivano di problemi endemici hanno visto aggravare i loro risultati di bilancio, sino a giungere all’incapacità di far fronte regolarmente ai propri debiti e quindi a fallire[39].
[1] La nozione di servizio pubblico, pur rinnovata nel corso degli anni, continua ad essere lo specchio di un vivo conflitto tra la responsabilità politica per attività connesse alla sfera pubblica ed il valore della concorrenza e le regole del mercato. Il dibattito si è intensificato anche in senso verticale ovvero nazionale, sub-nazionale, comunitario e mondiale.
[2] Così C. IANNELLO, L’ “idea” di servizio pubblico nella nuova disciplina interna e comunitaria, Napoli, 2005, 51.
[3] C. Iannello, cit., p. 52.
[4] Tali sono, per esempio, la distribuzione del gas e dell’energia elettrica, il servizio elettrico, il servizio sanitario, il servizio idrico, i trasporti pubblici, la gestione dei rifiuti, i servizi telefonici, l’informazione radiotelevisiva, ecc.
[5] Si pensi alla legge n. 142 del 1990 in tema di servizi pubblici locali, oggi trasfusa nel Testo unico delle leggi comunali e provinciali (D.lgs. n. 267/2000), la legge 146 del 1990 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, l’art. 358 del codice penale, il decreto legislativo n. 80 del 1998, così come riscritto dalla legge 205 del 2000, e recentemente l’art. 23 bis della legge 133/08, modificato dal d.l. 135/09, convertito nella legge 20 novembre 2009, n. 166.
[6] Una definizione del legislatore, unica nel panorama giuridico, peraltro limitata agli effetti della legge penale, è giunta solo nel 1990 con la novella al codice penale.
[7] La teoria soggettiva, dopo l’emanazione della legge Giolitti, si è diffusa rapidamente soprattutto in un primo momento, quando l’interesse si era concentrato nell’affidare all’amministrazione un’attività imprenditoriale, la quale successivamente veniva offerta ai cittadini in modo indifferenziato.
[8] Sez. Un., 6 maggio 1995, n.4989, in Foro it. 1996, I, 1363, con nota di F. CARINGELLA.
[9] Si veda ad esempio l’art. 2 D. L. 332/94, recante “norme per l’accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni, che operando la c.d. privatizzazione materiale, non incide sulla natura giuridica del servizio reso.
[10] L’art. 43 Cost. rappresenta una norma che ha posto notevoli problemi nell’interpretazione dell’espressione servizi pubblici essenziali. Secondo alcuni la essenzialità non è attributo necessario del servizio pubblico (contra C. BOZZI, Municipalizzazione dei pubblici servizi, in Enc. dir., vol. XXVII, 368, per il quale “i servizi pubblici devono essere essenziali”): essa è il frutto di una valutazione particolare e diversa rispetto a quella che è intesa soltanto a disciplinare una attività come servizio pubblico, anche se può in concreto assorbirla. La valutazione di essenzialità (unita a quella del “carattere di preminente interesse generale”) prevista dall’art. 43 Cost., ha come conseguenza l’applicazione di un regime - riserva o trasferimento coattivo di imprese previo indennizzo - che non deve necessariamente applicarsi a tutti i servizi pubblici.
[11] Le critiche più importanti contro la teoria soggettiva riguardano l’eccessiva vaghezza e la scarsa capacità discretiva della nozione, contraddetta dalla presenza di attività gestite dai privati ma con caratteristiche simili ai servizi pubblici.
[12] La giurisprudenza ordinaria e amministrativa hanno più volte affrontato il problema della definizione della nozione di servizio pubblico, poiché quest’ultima è divenuta un criterio di riparto della giurisdizione a seguito del D.lgs. 80 del 1998.
[13] Cfr. T.A.R. Lombardia Milano, sez. III, 12 novembre 2009, n. 5021; T.A.R. Piemonte, sez. II, 04 ottobre 2003, n. 1221; T.A.R. Basilicata – Potenza, 4 settembre 2002, n. 598.
[14] Come spesso accade, all’interno dell’Unione europea non si rinviene una diretta e precisa corrispondenza tra gli istituti giuridici dei singoli Stati membri. Conseguentemente, in sede di regolamentazione comune, nasce l’esigenza di garantire alle disposizioni comunitarie quella elasticità che permette una loro applicazione generalizzata negli ordinamenti dei singoli Stati. Nella realtà pratica ciò può comportare l’esigenza di adattare istituti interni a quelli, diversi nei contorni applicativi, di matrice comunitaria.
[15] In ambito comunitario, non sussiste una categoria esattamente corrispondente a quella del diritto interno, e ciò proprio in quanto si tratta di una nozione non univoca, che può essere utilizzata nei diversi ordinamenti con significati differenti: “in alcuni casi, si riferisce al fatto che un servizio è offerto alla collettività, in altri che ad un servizio è stato attribuito un ruolo specifico nell’interesse pubblico e in altri ancora si riferisce alla proprietà o allo status dell’ente che presta il servizio” (Libro verde sui servizi di interesse generale, adottato dalla Commissione europea, 21/5/2003 n. COM(2003) 270).
[16] Gli scarsi riferimenti normativi sono dovuti all’idea iniziale che la materia dovesse essere lasciata alla regolazione interna degli Stati. A partire dagli anni ’90, molti Stati intrapresero la strada della liberalizzazione per volere della Commissione Europea, investendo in modo particolare le telecomunicazioni, i trasporti, il servizio postale. Proprio da qui è nata l’esigenza di definire il c.d. “servizio pubblico”.
La lettura comunitaria si staglia su un reticolo di tradizioni nazionali molto distanti in senso qualitativo e quantitativo. Gli Stati invocavano l’art. 295 del TFUE per giustificare la neutralità comunitaria e per potersi ritagliare un settore completamente lasciato alla discrezionalità dei pubblici poteri.
[17] Comunicazione della Commissione europea dell’11 settembre 1996, 443/96, introduzione [..] ha un duplice senso: da un lato designa l’ente che produce il servizio e, dall’altro, si riferisce alla missione di interesse generale affidata a quest’ultimo [..]”.
[18] Comunicazione 443/96, pt. 11: “..sennonché la politica europea non è interessata allo status, bensì all’interesse generale e, quindi, alle missioni e alle condizioni alle quali possono essere assolte”.
[19] Va ricordato che la nozione oggettiva vede nel servizio pubblico un’attività oggetto – per le sue caratteristiche intrinseche - ad un regime giuridico particolare, volto alla tutela dell’interesse pubblico, indipendentemente dalla natura degli operatori.
[20] Come noto, il Trattato non contiene alcuna definizione di servizio pubblico e se ne occupa nel fondamentale art. 86, che è suddiviso in due commi: nel 1º vieta agli Stati di emanare misure contrarie alle norme del Trattato nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui sono riconosciuti diritti esclusivi; nel 2º, ammette deroghe alle norme suddette quando ciò sia necessario per permettere alle imprese incaricate dei servizi di interesse economico generale di assolvere i compiti loro assegnati. Gli Stati possono quindi privilegiare alcune imprese, ma solo limitatamente a quanto necessario per il perseguimento dell’interesse generale. Su questi presupposti sembra che la Comunità europea abbia sin dalle origini ridotto la discrezionalità dei Paesi in merito all’organizzazione del proprio settore pubblico. In realtà, la norma fu invocata prima degli anni Novanta per salvaguardare la funzione amministrativa nazionale e derogare ai principi di libera concorrenza con riguardo ai servizi pubblici; gli Stati membri istituivano con facilità monopoli per tutelare settori strategici dell’economia.
[21] PERICU A., Impresa e obblighi di servizio pubblico. L’impresa di gestione di servizi pubblici locali, Milano, 2001, 326, in cui l’autore si sofferma sull’equilibrio realizzato dall’art.86 tra principi di diritto comune e disciplina derogatoria.
[22] L’assenza della definizione comporta che il dibattito tenti una spiegazione in base al valore primario della concorrenza. Da qui il forte legame che deve instaurarsi tra i servizi e i valori della Comunità Europea così come recita l’art. 86 paragrafo 2 del TCE “imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del presente trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi della Comunità”.
[23] Tale impostazione è confermata anche dalla Decisione della Commissione 28 novembre 2005 (riguardante l’applicazione dell’art. 86, n. 2 del Trattato CE sugli aiuti di Stato sotto forma di compensazione degli obblighi di servizio pubblico concessi a determinate imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale), che dà atto che, nei settori nei quali non esiste una specifica disciplina comunitaria, la giurisprudenza riconosce agli Stati “un ampio margine di discrezionalità» nella definizione dei servizi di interesse economico generale. Per questo, la Commissione, quale autorità che deve vigilare sull’osservanza dell’art. 86, intende il proprio intervento come limitato «alle ipotesi di “errore manifesto” degli Stati nella definizione dei servizi di interesse economico generale” (7º considerando della citata Decisione). La stessa logica presiede anche alla direttiva sui servizi nel Mercato interno – D. 2006/125 – che, all’art. 1, par. 3, prevede: “La presente direttiva lascia impregiudicata la libertà, per gli Stati membri, di definire in conformità del diritto comunitario, quali essi ritengano essere servizi di interesse economico generale, in che modo tali servizi debbano essere organizzati e finanziati, ... e a quali obblighi essi debbano essere soggetti”.
[24] Dunque, è evidente come per il tramite degli interventi sia giurisprudenziali che normativi, la Comunità Europea ha voluto liberalizzare ed armonizzare le numerose attività normalmente espletate dal monopolio pubblico. Il processo che ne scaturisce porta i pubblici poteri a dismettere, tendenzialmente, le vesti di fornitori diretti di prestazioni, per divenire regolatori garanti del conseguimento dell’interesse generale.
La nozione di servizio pubblico di matrice amministrativa sembra in principio estranea e lontana rispetto all’ordinamento comunitario, il quale ne rifiuta perfino la denominazione, in quanto polisemica e fuorviante. La regola indicata nel caso di impugnativa di misura derogatoria assunta dagli Stati può essere espressa in modo anche più chiaro come segue: allo Stato l’onere di provare la funzionalità delle misure adottate, alla Commissione europea quello di provare l’esistenza di misure alternative meno restrittive e, quindi, in ultima analisi, la sproporzione delle misure adottate rispetto allo scopo perseguito. Tale giudizio non è semplice, anche perché il principio di proporzionalità è ritenuto dalla stessa Corte di Giustizia “flessibile”, ciò in quanto provare che le misure statali eccedono quanto necessario allo scopo non è facile poiché implica un vasto apprezzamento di dati economici, finanziari e sociali. Con l’art. 86 non si è voluta individuare una specifica categoria di servizi assoggettati ad una disciplina comunitaria particolare, ma si sono soltanto voluti delineare alcuni servizi che, se pur sottoposti in via generale alla disciplina comunitaria in materia di concorrenza, possono in determinate circostanze, in virtù dei particolari obiettivi che devono esplicare, essere esonerati dall’applicazione di alcune regole.
[25] Da un lato, infatti, vigono un consacrato principio di sussidiarietà verticale (per sua natura elastico) e un art. 16 TCE, in ossequio ai quali la Commissione ricorda che gli Stati, come detto, sono liberi di “definire i servizi d’interesse generale, fermo restando il controllo di eventuali casi di errore manifesto” (senza riguardo per il regime di proprietà, pubblica o privata, delle imprese e secondo criteri di proporzionalità tra restrizioni alla concorrenza e garanzia dell’interesse generale). Dall’altro, invece, vi sono ambiti in cui l’espansivo ordinamento comunitario impone discipline dettagliate e preponderanti.
[26] Gli Stati, secondo le nuove direttive, dovranno principalmente rimuovere strumenti gestionali tipici del potere pubblico a favore di strutture operative di stampo privatistico. Insomma, devono favorire la costituzione di un vero e proprio mercato concorrenziale. Ecco perché è diventata sempre più protagonista la funzione di regolazione dell’Amministrazione volta a creare le condizioni per la sussistenza di un mercato concorrenziale o a migliorare l’efficienza. La “mano” dello Stato continua ad avere la propria funzione anche nel settore della fornitura dei servizi qualificabili come “di pubblica utilità”, esercitando le proprie competenze a seconda dell’ambito di estensione di queste, imponendo agli operatori del mercato il rispetto delle regole della concorrenza ovvero, a seconda dei casi, la predisposizione di regole volte al conseguimento dell’obiettivo di rafforzare o incentivare la concorrenza, garantendo, nel contempo, il perseguimento di obiettivi sociali predeterminati, spesso esplicitamente ricondotti al servizio universale.
Invece, nel modello del servizio pubblico, la funzione attribuita ai pubblici poteri si discosta da quella appena descritta, consistendo nel provvedere all’attività qualificata come servizio pubblico. Ciò può essere compiuto attraverso due modalità: istituendo rapporti contrattuali con un’impresa che si aggiudica la fornitura del servizio (per il tramite del contratto di servizio), ovvero assumendo esso stesso l’onere della fornitura del servizio mediante la propria organizzazione interna, variamente considerata. Pertanto, sulla scia di quanto detto in premessa si può così affermare che l’elemento della pubblicità nel servizio pubblico necessiti, per essere individuato, di un allontanamento dalla contrapposizione storica tra teoria oggettiva e soggettiva, e da un superamento delle stesse, nel senso di pervenire a una prospettiva di sintesi armonica fra le due: la qualificazione di “pubblico” riferita a un servizio deve necessariamente compenetrare l’elemento oggettivo (destinazione al pubblico del servizio) con un’accezione soggettiva dell’ente erogante (servizio fornito dallo Stato direttamente, indirettamente o mediante la definizione da parte dei pubblici poteri del regime giuridico delle attività di erogazione).
[27] Si tratta dell’art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2008, n. 133, abrogato dall’art. 1, comma 1, del d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113, a seguito dell’esito del referendum del giugno 2011, nonché dell’art. 4 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 settembre 2011, n. 148, dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale con sentenza 20 luglio 2012, n. 199, nonché delle diverse norme di modifica delle stesse.
[28] Quanto alla nozione comunemente accolta da dottrina e giurisprudenza di servizio pubblico locale (in contrapposizione a quella di appalto di servizi), si rimanda alla recente decisione del Cons. Stato, sez. VI, 22 novembre 2013, n. 5532, secondo cui:
- essa comprende quelle attività che sono destinate a rendere un'utilità immediatamente percepibile ai singoli o all'utenza complessivamente considerata, che ne sopporta i costi direttamente, mediante pagamento di apposita tariffa, all'interno di un rapporto trilaterale, con assunzione del rischio di impresa a carico del gestore;
- essa si fonda su due elementi: 1) la preordinazione dell'attività a soddisfare in modo diretto esigenze proprie di una platea indifferenziata di utenti; 2) la sottoposizione del gestore ad una serie di obblighi, tra i quali quelli di esercizio e tariffari, volti a conformare l'espletamento dell'attività a regole di continuità, regolarità, capacità tecnico- professionale e qualità;
- il servizio pubblico locale, in quanto volto al perseguimento di scopi sociali e di sviluppo della comunità, è finalizzato al soddisfacimento diretto di esigenze collettive della stessa con effetto generalizzato sul suo assetto socio-economico; riguarda di conseguenza un'utenza indifferenziata, anche se sia fruibile individualmente, ed è sottoposto a obblighi di esercizio imposti dall'ente pubblico perché gli scopi suddetti siano garantiti, inclusa la determinazione del corrispettivo in forma di tariffe. Nello stesso percorso, in tema di differenza tra appalti pubblici di servizi e concessioni di servizi pubblici, Cons. Stato, ad. plen., 30 gennaio 2014, n. 7 e 7 maggio 2013, n. 13.
[29] La formulazione iniziale dell’art. 113 contemplava tre forme di affidamento, tra cui, alla lettera c), si prevedeva anche il conferimento della titolarità del servizio pubblico “a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”.
[30] Alcuni criteri per l’esercizio dell’in house providing furono delineati dalla risalente sentenza della CGUE Teckal del 1999, nella quale si legge che non sussisterebbe un obbligo del rispetto delle procedure di gara e, quindi, è ammissibile l’affidamento diretto se detto affidamento sia disposto in favore di un soggetto sottoposto al controllo strutturale dell’ente titolare del servizio (c.d. “controllo analogo”), a condizione che il soggetto affidatario diretto svolga la parte prevalente della propria attività in favore dell’ente locale affidante. Emergeva come la società in house avrebbe dovuto essere considerata un organo appartenente del tutto alla Pubblica Amministrazione sia dal punto di vista gestionale che finanziario. I medesimi principi sono stati recepiti nella giurisprudenza interna con la sent. Cass. SS.UU., 25 novembre 2013, n. 26283, nella quale viene sancita la natura di longa manus della pubblica amministrazione della società in house, tanto che non può neppure configurarsi un rapporto contrattuale intersoggettivo effettivo.
In effetti è proprio nella giurisprudenza comunitaria che trae origine il concetto dell’in house per poi essere recepito dalle Corti nazionali.
[31] La dottrina ha raggiunto in materia almeno un punto di condivisione, seppure negativo, ossia l’oggettiva inesistenza di una categoria unitaria a cui tutte le “società pubbliche” possono essere ricondotte, per cui il diritto delle società a partecipazione pubblica diviene, anziché terreno del diritto comune, il campo dei diritti speciali e singolari. Nei confronti delle società partecipate dagli enti locali ci si muove ancora in un terreno di specialità e non di singolarità, dato che esse si trovano ad operare entro schemi delineati da disposizioni pur sempre dettate in via generale, perlomeno per tipologie normative. Nell’evoluzione legislativa si possono, così, riscontare disposizioni che individuano il presupposto della fattispecie nella partecipazione, più o meno rilevante, dell’ente locale nel capitale sociale. Altre hanno riguardo al profilo funzionale, come nel caso delle società c.d. “strumentali” o quelle che gestiscono servizi pubblici locali. Altre ancora, sottendono alla loro applicazione l’esistenza di un particolare rapporto tra società e l’ente che le partecipa, come per le società c.d. “in house”. Infine, non mancano disposizioni che combinano questi profili, come nel caso di quanto previsto dall’art. 4, comma 8, del d.l. 95/2012, che ha stabilito che l’affidamento diretto per la fornitura di beni e servizi strumentali possa avvenire soltanto a favore di società c.d. “in house”. La specialità della disciplina a cui sono sottoposte le società partecipate dagli enti locali è riscontrabile anche nel Testo Unico di cui al D.lgs. n. 175/2016, che assoggetta integralmente questi soggetti al quadro ordinamentale previsto per le società a controllo pubblico, a partecipazione pubblica o quotate, mentre l’art. 21 detta le norme finanziarie sulle società partecipate dalle amministrazioni locali. Il regime di specialità e non di singolarità, dunque, permette di operare delle categorizzazioni, difficilmente ipotizzabili, per le c.d. “società legali”, ossia quelle costituite e spesso regolate dalla legge, frutto della potestà legislativa dello Stato e, più problematicamente, di quella delle Regioni, sottoposte a “statuti” non soltanto “speciali”, ma che la forza della legge può talvolta rendere “singolari”, derogatori cioè dei fondamentali principi di organizzazione e funzionamento delle società di capitale. In tal senso il Testo Unico fa salve proprio le specifiche disposizioni, contenute in leggi o regolamenti governativi o ministeriali, che disciplinano società a partecipazione pubblica di diritto speciale costituite per l’esercizio della gestione di servizi di interesse generale o di interesse economico generale o per il perseguimento di una specifica missione di pubblico interesse. Le letteratura in materia di società pubbliche è particolarmente copiosa. Cfr. Napolitano G., Le società pubbliche tra vecchie e nuove tipologie, in Riv. soc., 2006, p. 999 ss; Montalenti P., Le società a partecipazione pubblica. Spunti di riflessione, in Nuovo dir. soc., 3, 2010, p. 10; Clarich M., Società di mercato e quasi-amministrazioni, in Dir. amm., 2009, 2, p. 261 ss;
[32] E’ l’ulteriore condizione ritenuta dalla Corte di Giustizia con la famosa sentenza Altmark (24 luglio 2003, n. 280), secondo cui le sovvenzioni pubbliche volte a consentire l'esercizio di servizi di linea urbana, extraurbana o regionale non costituiscono aiuti di Stato qualora debbano essere considerate una compensazione atta a rappresentare la contropartita delle prestazioni effettuate dalle imprese beneficiarie per adempiere obblighi di servizio pubblico. In questo senso il giudice a quo deve verificare il ricorrere di una serie di condizioni, ossia che: l'impresa beneficiaria sia stata effettivamente incaricata dell'adempimento di obblighi di servizio pubblico e detti obblighi siano stati definiti in modo chiaro; i parametri sulla base dei quali viene calcolata la compensazione siano stati previamente definiti in modo obiettivo e trasparente; la compensazione non ecceda quanto necessario per coprire tutti o parte dei costi originati dall'adempimento degli obblighi di servizio pubblico, tenendo conto degli introiti relativi agli stessi nonché di un margine di utile ragionevole per il suddetto adempimento.
[33] Si veda a tal proposito l’allegato al regolamento CE n. 1370/2007.
[34] La giurisprudenza è univoca a tal proposito: il controllo analogo sul soggetto comporta “(…) un controllo che consente all’autorità pubblica concedente di influenzarne le decisioni. Deve trattarsi di una possibilità di influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti (…)” (Corte di Giustizia, 13 ottobre 2005, in causa C-458/03, Parking Brixen).
Il controllo tra l’ente locale socio e la società affidataria deve andare ben oltre quello esercitabile in qualità di semplice socio di maggioranza secondo le regole proprie del diritto societario (Corte di Giustizia CE, 11 maggio 2006, C-340/04, società Carbotermo c. Comune di Busto Arsizio).
[35] Per maggiore chiarezza su tali concetti: il primo consiste nel potere di nomina della maggioranza dei componenti del consiglio di amministrazione, il secondo, invece, nella valutazione della conformità dell’attività svolta dall’ente gestore rispetto a un parametro legale. Insomma, per poter effettivamente considerare la società in house come longa manus dell’Amministrazione, è fondamentale la compresenza di entrambe le tipologie di controllo, altrimenti non sussisterebbe quella ingerenza pubblica sull’organizzazione imprenditoriale. Altra parte della dottrina riteneva che l’integrazione del “controllo analogo” fosse comprensiva di tre elementi: a) dipendenza formale, b) dipendenza economica, c) dipendenza amministrativa. La circostanza fondamentale avrebbe dovuto essere la preesistenza del controllo all’affidamento in modo da giustificarlo.
[36] Alla luce di ciò, la concorrenza costituisce la regola e l’affidamento diretto è ammissibile quando il perseguimento degli obblighi di servizio pubblico lo rendano necessario: così ai sensi dell’art. 106, comma 2, del TFUE, “Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata”.
[37] Cangiano R., La liberalizzazione del trasporto pubblico locale: dall’affidamento diretto alle procedure a evidenza pubblica…e ritorno”, in Economia pubbl., 2005, p. 93.
[38] Non appare casuale, inoltre, che nel primo considerando del Regolamento si citi proprio l’articolo 16 del Trattato che afferma che i servizi d’interesse economico generale fanno parte dei valori comuni dell’Unione.
[39] Molto dibattuta è stata la questione della fallibilità delle società in house. L’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione sin dalla sentenza n. 22209/2013 è stato quello favorevole all’assoggettamento delle società in house al fallimento, in considerazione del fatto che “la scelta del legislatore di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità"; tale orientamento ha avuto conferma, da ultimo, nella sentenza della Suprema Corte n. 3196/2017, che ha trovato conforto, oltre che da argomenti di natura sistematica di cui al precedente citato, anche su solide basi di diritto positivo; in particolare, l’art. 1, comma 3, del D.lgs. n. 175 del 2016, ha stabilito con disposizione di portata generale che “Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato", mentre l’art. 14 ha esplicitato che “Le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi di cui al D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, e al D.L. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 febbraio 2004, n. 39”.