il punto della situazione
1. Introduzione; 2. L’istituto dell’in house providing, come emblema dell’europeizzazione nel settore degli appalti pubblici. Definizione e fondamento giuridico; 3.Le società in house: profili giuridici e problemi interpretativi; 4. Il presupposto applicativo del “controllo analogo”; 5. Le società in house ancora al vaglio della Corte di Giustizia
- Introduzione
Per “in-house providing” si intende un modello di organizzazione e gestione, ove l’Amministrazione si avvale di una società che presenta caratteristiche tali da poter essere qualificata come una longa manus dell’ente stesso: da qui, l’espressione “in-house”, che allude proprio alla gestione di un servizio da parte di un ente assimilabile dal punto di vista sostanziale e riferibile all’Amministrazione stessa. Mediante il ricorso a tale modello organizzativo, l’Amministrazione provvede da sé al perseguimento degli scopi pubblici nell’esercizio del suo potere di auto-organizzazione e del più generale principio comunitario di autonomia istituzionale. Per l’effetto, in ragione della peculiare relazione che intrattengono le società in house con le amministrazioni affidatarie, queste ultime possono stipulare con dette società, contratti di appalto e concessioni senza indire le procedure competitive per la selezione dell’operatore economico, in deroga ai criteri sanciti dai Trattati UE. Di qui, il quesito che sorge spontaneo è: come si coniuga tale canale preferenziale accordato alle società in house con la stretta ottemperanza alle regole della concorrenza, nonché ai principi di trasparenza e di libera circolazione dei servizi?
2. L’Istituto dell’in house providing, come emblema dell’europeizzazione nel settore degli appalti pubblici. Definizione e fondamento giuridico.
Nonostante l’in house providing sia una fattispecie di creazione eminentemente giurisprudenziale, ha progressivamente acquisito cittadinanza anche nella legislazione nazionale[1].
In generale, è opportuno rammentare come l’apporto della giurisprudenza, in primis comunitaria, nella determinazione del percorso giuridico dei contratti pubblici, sia stato fondamentale. I giudici di Lussemburgo hanno svolto un ruolo propulsore, in relazione all’articolazione delle procedure di aggiudicazione, alle modalità di scelta dei contraenti, assoggettando il diritto ad un notevole dinamismo ed ad altrettanta instabilità[2].
A tal riguardo, ricalcando il pensiero di Zygmunt Bauman si può pensare alla giurisprudenza della Corte di Giustizia come ad una giurisprudenza liquida, ossia connotata da un fattore determinante di incertezza e in continuo divenire giuridico, in grado di inserirsi negli ordinamenti giuridici e di indirizzare l’attività del legislatore, dei giudici e degli operatori di settore[3]. Soffermandoci più nel dettaglio sul modello organizzativo in esame, l’in house providing è un istituto di matrice comunitaria, che affonda le proprie radici nell’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia UE e, successivamente, assimilato dalla normativa nazionale. L’istituto de quo è stato coniato a partire dalla sentenza Teckal della Corte di Giustizia, che costituisce il leading case in materia[4], dal quale è, in seguito, scaturita una copiosa giurisprudenza che ha progressivamente definito l’istituto, cristallizzandone i presupposti applicativi.
In tal senso, si rimanda al paragrafo 50 della sentenza su menzionata ove, in sole cinque righe, si realizza un cambio di rotta decisivo in materia di affidamento di appalti e concessioni senza gara, precisando che “può avvenire diversamente solo nel caso in cui, nel contempo, l'ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti locali che la controllano[5]”.
Del resto, la gara non è necessaria quando l’alterità tra l’ente e la società evapora, ossia quando non ci si trova più dinanzi a due soggetti giuridici distinti, bensì ad un solo ente, che esercitando il controllo analogo sul secondo, finisce per fagocitarlo.
Successivamente, gli arresti del giudice europeo in materia di in house providing sono stati recepiti dal giudice amministrativo nazionale, che ha costantemente dialogato con i giudici di Lussemburgo, allineandosi all’orientamento seguito dall’organo europeo garante della nomofilachia.
Invero, le Corti nazionali, in sede di applicazione del predetto modulo organizzativo, hanno adottato un atteggiamento maggiormente rigoroso, improntato ad una puntuale ed accurata verifica della compresenza dei requisiti legittimanti il ricorso a tale regime derogatorio, al fine di scongiurare effetti distorsivi della concorrenza[6].
Appare peraltro evidente come tale approccio di tipo restrittivo fosse principalmente imputabile alla necessità di impedire un indebito ricorso ad affidamenti diretti in house, in grado di compromettere i consolidati valori e principi comunitari della massima apertura nel mercato delle commesse pubbliche (il cd favor partecipationis) e di tutela della concorrenza.
In tale prospettiva, particolarmente emblematico è il dictum della Corte Costituzionale nella sentenza 17 novembre 2010, n. 325, secondo cui “non appare irragionevole, anche se non costituzionalmente obbligata, una disciplina, quale quella di specie, intesa a restringere ulteriormente – rispetto al diritto comunitario – i casi di affidamento diretto in house”.
Ai fini della qualificazione di “società in house”, è opportuno passare in rassegna le tre caratteristiche di tale modello societario. Più nello specifico, tale qualifica descrive un modello di società idoneo a soddisfare specifiche esigenze dell’ente e sul quale l’ente medesimo esercita “un controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi. A ciò si aggiunga che la società in house deve svolgere la parte più rilevante della propria attività esclusivamente nei confronti dell’Amministrazione.
In altri termini, le condizioni legittimanti il ricorso a tale modello sono ravvisabili – ad avviso della giurisprudenza comunitaria – nella totale partecipazione pubblica della società affidataria, nell’esercizio di un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi da parte dell’ente committente, nonché nella necessità che la parte più importante della propria attività sia svolta nei confronti dell’ente committente che la controlla.
In presenza di tali requisiti, quindi, secondo i giudici di Lussemburgo, non sussiste un soggetto terzo, giuridicamente distinto dalla pubblica Amministrazione proprio perché manca quella bilateralità (ossia l’incontro tra due volontà contrattuali), tipica dei rapporti contrattuali.
La ragione sottesa risiede nel fatto che nei confronti di un ente controllato, che tra l’altro realizza la parte più importante della attività societaria in favore dell’amministrazione, non si rilevano potenziali situazioni di pregiudizio per i principi di parità di trattamento e tutela della concorrenza[7].
Sulla medesima lunghezza d’onda milita una successiva pronuncia della Corte di Giustizia (Arge, sentenza 7 dicembre 2000, procedimento C-94/99), che traccia in modo più pregnante i confini entro cui l’Amministrazione può valersi di affidamenti in house. In tale sede decisionale, i giudici chiarivano che “la riserva espressa nella citata sentenza Teckal è fondata sul principio secondo il quale la mancanza di autonomia di un ente economico rispetto ad un ente territoriale che ne detiene la proprietà rende impossibile o illusoria l’esistenza di un contratto tra queste due persone, pur tuttavia giuridicamente distinte. L’ipotesi di un rapporto giuridico che esuli dalla sfera di applicazione della direttiva presuppone quindi che l’amministrazione aggiudicatrice che richiede all’operatore la realizzazione di differenti servizi sia precisamente l’ente territoriale che esercita su di esso uno stretto controllo e non un’altra autorità. Da ciò discende che “un contratto non può essere considerato come stipulato tra persone distinte qualora l’operatore realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti territoriali che lo controllano […] Tale situazione testimonia la volontà dell’ente territoriale non solo di utilizzare le prestazioni per fini pubblici, ma anche di destinarle principalmente a suo vantaggio”.
In tale chiave ricostruttiva, la regola generale dell’esperimento delle gare pubbliche poteva essere soggetta a deroghe nel caso di ricorso al modello dell’in house, in quanto il medesimo si configurava come fattispecie avente natura eccezionale. Invero, tale presunto canone di eccezionalità non trovava alcun riscontro normativo e, progressivamente, è stato sconfessato dalla giurisprudenza, che si è assestata su un indirizzo ermeneutico più moderato nei confronti di un fenomeno che è stato per lungo tempo stigmatizzato. Tale approdo ha trovato conforto in numerose pronunce della giurisprudenza amministrativa, che ha negato ogni dignità giuridica al preteso carattere eccezionale del suddetto modello organizzativo, ribadendo, al contrario, la natura ordinatoria dell’affidamento in house, ricorrendone i presupposti[8]. Inoltre, su espresso richiamo della sentenza resa dalla Sez. V del Consiglio di Stato[9], ha altresì rilevato come la decisione dell’Amministrazione di optare per una simile scelta, ove motivata, sfugga al sindacato di legittimità dell’autorità giurisdizionale, ad eccezione delle ipotesi di “macroscopico travisamento dei fatti” e di “illogicità manifesta”.
Sul punto, valga sin da subito menzionare il ruolo decisivo svolto dalla Direttiva 2014/24/UE, che ha profondamente innovato il cuore dell’in house providing, avallando da un lato l’orientamento espresso da talune pronunce della Corte di Giustizia, e dall’altro apportando significative modifiche rispetto al cammino tracciato dalla giurisprudenza euro-unitaria. In particolare, l’art. 12 lett.b) e c) chiarisce che, nel caso di “in-house providing”, “l’amministrazione aggiudicatrice esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi”, prevedendo altresì una puntuale definizione dell’ulteriore requisito dell’attività prevalente, secondo cui “oltre l’80% delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice”.
E, ancora, “nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forma di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza dominante sulla persona giuridica controllata” (art. 12, par. 1, lett. c della Direttiva 2014/24/UE). Dunque, se sino ad allora si era ritenuto che la presenza di privati nel capitale sociale o anche la mera previsione statutaria di una futura ed eventuale privatizzazione, non fosse compatibile con il modello organizzativo dell’in house, la portata innovativa (rispetto alla giurisprudenza comunitaria e nazionale) della direttiva de qua, risiede proprio nel riconoscimento della compatibilità di forme di partecipazione diretta di capitali privati purché non comportino controllo o potere di veto, o l’esercizio di un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata, conformemente ai Trattati UE e alla normativa nazionale[10]. Più di recente, in un parere reso a seguito di un quesito proposto dalla Regione Piemonte, il supremo consesso ha chiarito che la normativa che prevede la partecipazione dei privati nella in house deve essere di rango nazionale poiché attiene alla materia della concorrenza che è di esclusiva potestà del legislatore nazionale.
3. Le società in house: profili giuridici e problemi interpretativi
A completamento del quadro normativo è intervenuto il D.Lgs. 175 del 2016 e ss.mm.ii. (“Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica” o anche “TUSP”) che ha, di fatto, positivizzato un fenomeno giuridico, con la previsione contenuta nell’art. 16 del predetto testo normativo. Il primo comma appare la norma più significativa, in forza della quale le società “in house providing” ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici. Gli affidatari sono le amministrazioni che esercitano su tali società il “controllo analogo”.
Ad integrazione del requisito sopra richiamato interviene il terzo comma, con il quale la disposizione in oggetto definisce un parametro quantitativo, che si innesta sull’obbligo di previsione statutaria in base al quale oltre l’ottanta per cento del fatturato della società deve derivare dallo svolgimento della propria attività a favore dell'ente pubblico o degli enti pubblici soci.
Detta previsione deve essere armonizzata con quella recata dal comma 3 bis dell’art. 16 del decreto legislativo 16 giugno 2017, n. 100[11] che ha generato una serie di dubbi interpretativi circa la natura giuridica della fattispecie di in house, arrivando ad esprimere, ancora una volta, la tensione tra due istanze antitetiche, da un lato la valorizzazione dell’autonomia organizzativa ed operativa della società in house e dall’altro l’esigenza di preservare la specialità del modulo organizzativo de quo, oltre che i rigorosi canoni fissati dalla giurisprudenza comunitaria, che legittimano la sottrazione alle regole della concorrenza nell’affidamento di pubbliche commesse, delle società in house[12].
Sembrerebbe, quindi, rimanere irrisolto il “nodo cruciale” rappresentato dalla qualificazione giuridica delle società cosiddette in house[13]: sul tema, coesistono essenzialmente due orientamenti, l’uno che, qualificando la società in house come mera articolazione interna della pubblica amministrazione, la assoggetta (sia pure con i necessari adattamenti) al regime delle pubbliche amministrazioni e l’altro che, considerandola alla stregua di una persona giuridica di diritto privato, ne afferma invece la riconducibilità al regime privatistico (salvo le “deroghe” operanti per tutte le altre società partecipate). Qualunque sia la prospettazione seguita, conclude il Consiglio di Stato, è indubbio che la società in house conservi “una forte peculiarità organizzativa, imposta dal diritto europeo, che la rende non riconducibile al modello generale di società quale definito dalle norme di diritto privato”.
Sulla scia della sopracitata sentenza, dunque, le società in house conserverebbero delle società soltanto la forma esteriore, non essendo vocate (se non in via del tutto marginale) allo svolgimento di attività imprenditoriali ai fini di lucro e caratterizzandosi per la totale assenza di quell’autonomia giuridica, che, invece, costituisce il tratto distintivo delle società di capitali.
Di conseguenza, ad avviso del supremo consesso, pur adottando il paradigma organizzativo tipico del modello societario non si rintracciano in detta fattispecie gli elementi distintivi delle società di capitali, delineando dei meri involucri di cui si avvale l’Amministrazione, seppur mascherati da enti societari.
Ebbene, la questione inerente la qualificazione giuridica delle società in house non è scevra da implicazioni tutt’altro che secondarie in relazione a molteplici profili, a partire proprio dalla discussa fallibilità di tale “ibrido” soggetto di diritto. In tal senso, la pronuncia della Corte di Cassazione n. 3196 del 7 febbraio 2017 ha segnato una svolta significativa nell’annoso dibattito, che per anni ha coinvolto dottrina e giurisprudenza in merito alla disciplina da applicare alle società in house in materia di fallimento, statuendo la natura privatistica, ed il conseguente assoggettamento alle procedure concorsuali delle società in house, non potendo considerare le medesime alla stregua degli enti di diritto pubblico.
Tale ricostruzione ermeneutica ha condotto i giudici di legittimità all’enunciazione del principio di diritto in base al quale “in tema di società partecipate dagli enti locali, anche nella forma della società in house, la scelta del legislatore di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità[14]”.
Di qui, tenuto conto delle peculiarità del modello societario in house, nonché delle molteplici difficoltà applicative e interpretative connesse al suddetto fenomeno giuridico, si spiega il particolare rigore sull’interpretazione dei requisiti che devono essere necessariamente posseduti dalle predette società, al fine di integrare il modello dell’in house e, quindi, di escludere il preventivo ricorso a procedure di evidenza pubblica
4. Il presupposto applicativo del “controllo analogo”
Come anticipato, solo con la nota sentenza Teckal i giudici hanno riscontrato la necessità di individuare in modo stringente i requisiti al ricorrere dei quali è consentito l’affidamento diretto di appalti pubblici. Un primo requisito è quello del controllo analogo che, indubbiamente, assurge ad elemento centrale della fattispecie della società in house.
Il concetto di controllo analogo ha per lungo tempo costituito una vexata quaestio sulla quale la giurisprudenza è tornata a più riprese[15]. In linea generale, siffatto controllo deve tradursi contenutisticamente in una dipendenza formale, economica e amministrativa da parte della società in house, al socio o ai soci.
Ai fini della sussistenza di detto controllo, in base alla definizione contenuta nel D.Lgs. 175/2016, per “controllo analogo” si intende “la situazione in cui l'amministrazione esercita su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, esercitando un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata. Tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall'amministrazione partecipante” (art. 2, comma 1, lett. c).
Tale influenza determinante deve, dunque, estrinsecarsi con un’ampiezza ed incisività maggiore rispetto a quella che il diritto societario riconosce normalmente ai sensi dell’art. 2359 c.c., attribuendo rilievo all’effettività del potere di direzione e controllo dell’ente controllante, ossia alla direzione gestionale ed organizzativa cui la società in house è assoggettata, mediante la conclusione di appositi patti parasociali o la previsione di clausole statutarie, in deroga delle disposizioni dell'articolo 2380-bis e dell'articolo 2409-novies del codice civile (art. 16, comma 2, D.Lgs. 175/2016). Di norma, l’organo decisionale delle società in house – il consiglio d’amministrazione o l’amministratore delegato espressione della volontà dei soci -, adotta un regolamento a se stante, volto a contenere le norme che esprimono come deve essere esercitato concretamente detto potere di direzione, controllo e vigilanza sull’operato della società, da parte dei soci o del socio, in tutte le sue declinazioni.
Sembrerebbe che la nuova definizione legislativa si discosti dai rigidi orientamenti che identificano il controllo analogo come una situazione di sudditanza incondizionata, idonea ad annullare ogni autonomia della controllata, incardinando, invece, la nozione di controllo analogo sull’eterodirezione della controllata, oltre che sulla partecipazione pubblica maggioritaria (o totalitaria), rispetto alla quale non è ammessa un’influenza determinante di capitali privati[16].
Con specifico riferimento al requisito del controllo analogo, la partecipazione pubblica totalitaria rappresenta una condizione necessaria, ma non ancora sufficiente, dovendosi al pari appurare la presenza di adeguati strumenti di verifica e controllo da parte dell'ente pubblico[17].
Difatti, al fine di garantire l’effettività del controllo analogo, si ritiene essenziale il concorso di ulteriori fattori sintomatici della sussistenza di detto controllo, che possono rispettivamente estrinsecarsi in un sostanziale controllo del bilancio; nell’attribuzione in capo all’ente controllante di poteri ispettivi diretti e concreti; nonché nella totale dipendenza dell'affidatario diretto in tema di strategie e politiche aziendali. Solo la concorrenza di tutti i suindicati requisiti consente di configurare il controllo analogo, che deve costituire “un rapporto equivalente, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica; tale situazione si verifica quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’Ente pubblico sull'ente societario[18]”.
Detto controllo analogo può essere esercitato anche congiuntamente da più autorità pubbliche che possiedono in comune l'ente affidatario: in tal caso si parla del cd. in house frazionato. In particolare, ai sensi dell’art. 5, comma 4, D. Lgs. n. 50/2016, l’affidamento diretto è consentito anche in caso di controllo congiunto; purché siano congiuntamente soddisfatte tutte le seguenti condizioni: gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti; tali amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori sono in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica; la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici o degli enti aggiudicatori controllanti (art. 5, comma 5, D. Lgs. n. 50/2016).
Al pari, dalle direttive europee e dall’articolo 5 del D. Lgs. n. 50/2016 si ricavano ulteriori forme di in house, che si discostano in modo rilevante dal modello tradizionale, quali l’in house a cascata che si caratterizza per la presenza di un controllo analogo indiretto: in siffatte ipotesi il controllo viene esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo. In altri termini, l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su un ente che a propria volta esercita un controllo analogo sull’organismo in house e, anche se tra la l’amministrazione aggiudicatrice e l’organismo in house non sussiste una relazione diretta, è in ogni caso ammesso l’affidamento diretto. Ancora, in base al dettato dell’art. 5, comma 3 del D. Lgs. n. 50/2016, si configura la peculiare fattispecie del cd. in house verticale capovolto ove è il soggetto controllato, che è a sua volta un’amministrazione aggiudicatrice, ad affidare un contratto al soggetto controllante senza procedura di evidenza pubblica. Del resto, in assenza del requisito dell’alterità tra l’ente e la società, perde rilievo la “direzione” dell’affidamento, essendo l’affidamento in ogni caso sottratto alle regole della concorrenza.
Diversamente dalla modalità dell’in house verticale – che presuppone l’interazione tra due operatori (controllante e controllato), più intricato appare lo schema dell’in house orizzontale che si presta, invece, ad una rappresentazione geometrica di tipo triangolare, in cui il vertice alto della figura coincide con il soggetto controllante e i due vertici bassi coincidono con le parti controllate, tra di loro contraenti. Più nel dettaglio, pur non configurandosi in tal caso un rapporto diretto tra le parti contraenti, l’affidamento diretto può dirsi parimenti soddisfatto, trovandosi gli stessi contraenti sotto la comune egida dell’ente controllante.
5. Le società in house ancora al vaglio della Corte di Giustizia
Per lungo tempo si è ritenuto che i requisiti dell’in house providing, costituendo un’eccezione alle regole generali della massima partecipazione e della concorrenza, dovessero essere interpretati in modo restrittivo[19].
Successivamente, sulla scia della giurisprudenza e dell’apporto determinante delle direttive europee in materia di appalti nel processo legislativo europeo, si è consolidato il principio a mente del quale l’affidamento in house non costituiva più modello eccezionale, bensì una modalità alternativa, espressione dell’autonomia organizzativa dell’Amministrazione, dotata di pari dignità rispetto alle altre forme di affidamento.
Più specificatamente, in ottemperanza al principio di libera amministrazione, l’Autorità pubblica gode di piena libertà nella scelta del modo migliore per l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi in base alle opzioni possibili, al fine di garantire un elevato grado di qualità, sicurezza, accessibilità e parità di trattamento.
Ciò posto, si segnala che il Consiglio di Stato, con due significative ordinanze, è intervenuto sul delicato tema del bilanciamento tra le contrapposte esigenze di libera determinazione organizzativa della pubblica amministrazione e di ottemperanza alle regole della concorrenza e al principio di libera circolazione dei servizi.
Le censure mosse dalle ordinanze di rimessione riguardano principalmente la compatibilità comunitaria delle disposizioni nazionali in materia di affidamento a società in house, nella parte in cui prevedono un orientamento di sfavore verso gli affidamenti diretti in regime di delegazione inter-organica, relegandoli ad un ambito subordinato ed eccezionale rispetto alla previa ipotesi di affidamento mediante gara[20]. Difatti, ad avviso del Giudici di Palazzo Spada, dette previsioni normative, nel subordinare gli affidamenti in house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate (quindi su un piano subordinato ed eccezionale) rispetto alle altre modalità di affidamento, risulterebbero in contrasto con l’articolo 2 della Direttiva 2014/23/UE, che, invece, sancisce il principio della libertà e autodeterminazione della P.A. che, in linea generale, è destinato a prevalere sulla necessità di perseguire l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza e al mercato.
Più nello specifico, l’oggetto della prima questione sottoposta ai giudici di Lussemburgo riguarda la compatibilità dell’art. 192, comma 2, D.lgs. 50/2016 e, segnatamente, “se il diritto dell’Unione europea (e il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche e il principio di sostanziale equivalenza fra le diverse modalità di affidamento e di gestione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche) osti a una normativa nazionale (come quella dell’art. 192, comma 2, del ‘Codice dei contratti pubblici, approvato con d.lgs. n. 50 del 2016) che colloca gli affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto: i) consentendo tali affidamenti soltanto in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante, nonché ii) imponendo comunque all’amministrazione che intenda operare un affidamento in regìme di delegazione interorganica di fornire una specifica motivazione circa i benefìci per la collettività connessi a tale forma di affidamento”.
In effetti, l’articolo 192 del Codice dei contratti pubblici, nel disciplinare il regime degli affidamenti in house, delinea un iter procedurale piuttosto rigoroso. Si richiede, infatti, che nella motivazione del provvedimento di affidamento risaltino le ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché i benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche.
Tali restrittive condizioni poste dal diritto nazionale e non richieste per le altre forme di affidamento, troverebbero giustificazione solo laddove lo stesso diritto dell’Unione riconoscesse la priorità del principio della massima concorrenza tra imprese rispetto a quello della libertà di autodeterminazione, che consente ai soggetti pubblici di declinare come meglio stimano le prestazioni dei servizi e l’esecuzione dei lavori di rispettivo interesse. Invero, l’ordinamento comunitario non pone vincoli e restrizioni alla libertà di optare per un modello gestionale di autoproduzione, piuttosto che per un modello di esternalizzazione, rispondendo le predette opzioni a elementari esigenze di economia per cui si suole rivolgersi all’esterno allorquando non si è in grado di provvedere in modo ottimale in via autonoma.
Se questi sono i termini della questione, il diritto dell’Unione sembra riconoscere priorità e prevalenza al principio della libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche rispetto al quale il principio di apertura concorrenziale ha carattere recessivo.
In seconda battuta, è stata rimessa alla Corte di giustizia Ue la questione se il diritto dell’Unione europea (e in particolare l’art. 12, paragrafo 3 della Direttiva 2014/24/UE in tema di affidamenti in house in regìme di controllo analogo congiunto fra più amministrazioni) osti a una disciplina nazionale (come quella dell’art. 4, comma 1, del D.Lgs. 175/2016) che impedisce a un’amministrazione pubblica di acquisire in un organismo pluripartecipato da altre amministrazioni una quota di partecipazione (comunque inidonea a garantire controllo o potere di veto) laddove tale amministrazione intende comunque acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e, quindi, la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’Organismo pluripartecipato.
In una prospettiva di razionalizzazione delle partecipazioni pubbliche, l’articolo 4, comma 1, del D.Lgs. 175/2016, rubricato Finalità perseguibili mediante l’acquisizione e la gestione di partecipazioni pubbliche, statuisce che “le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non direttamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società”.
Il dettato normativo del richiamato art. 4, comma 1, che individua le previsioni di base per la partecipazione pubblica allo strumento societario, preclude all’amministrazione pubblica di acquisire una quota minoritaria di partecipazione in un organismo pluripartecipato, anche laddove la medesima intenda, in un secondo momento, acquisire il controllo analogo (congiunto) e, quindi, procedere all’affidamento diretto del servizio in favore dell’organismo pluripartecipato. Difatti, ad avviso del supremo consesso, la semplice possibilità che l’acquisto del controllo analogo congiunto e l’affidamento diretto possano intervenire in futuro sembra non corrispondere al criterio della “stretta necessarietà” individuato dall’art. 4, comma 1 del D.Lgs. 175/2016.
Di qui, l’ordinanza di rimessione ha sollevato la questione circa la conformità fra il diritto dell’UE (in particolare, fra l’art. 5 della Direttiva 2014/24/UE), che ammette, al contrario, il controllo analogo congiunto nel caso di società non partecipata unicamente dalle amministrazioni controllanti e la normativa nazionale (segnatamente l’art. 4, comma 1, D.Lgs. 175/2016) che preclude di detenere quote minoritarie di partecipazione in un organismo a controllo congiunto, neppure laddove tali amministrazioni intendano acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto[21].
È evidente come la questione sia ancora problematica e, pertanto, si auspica un intervento chiarificatore della Corte UE, in un’ottica di sistematizzazione e di certezza del diritto, al fine di dirimere tali nodi problematici ancora irrisolti.
Orbene, è indubbio che il ricorso al modello dell’affidamento diretto di lavori e/o di servizi pubblici, nella forma dell’ in house providing, ad un soggetto non selezionato tramite gara, deve essere preceduto da uno studio di fattibilità che evidenzi in modo chiaro ed oggettivo come detta modalità di affidamento sia la migliore e la più conveniente, rispetto a tutte quelle previste dall’ordimento, per soddisfare gli interessi pubblici perseguiti dall’amministrazione. Stante la discrezionalità di cui è comunque dotata la pubblica amministrazione, solo la comparazione degli effetti che derivano dall’adozione di un modello di gestione rispetto ad un altro, può motivare adeguatamente sotto il profilo economico, giuridico ed amministrativo la scelta dell’amministrazione di affidare lavori e/o servizi pubblici tramite il modell0 dell’in house providing, in luogo della procedura di gara ad evidenza pubblica. Di fatto, le uniche limitazioni nella scelta tra l’opzione di autoproduzione e di esternalizzazione derivano unicamente dal diritto interno, ossia dai principi, quali l’efficienza, l’efficacia e l’economicità, che devono ispirare sempre l’agere della pubblica amministrazione.
[1] Fino a prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. 50/2016 l'istituto dell''in house providing non aveva alcuna fonte di diritto positivo. Attualmente gli articoli del D.Lgs. 50/2016 dedicati all'in house providing sono due: l'art. 5 (che definisce le diverse forme di in house providing possibili) e l'art. 192 (il quale prevede l'istituzione di uno specifico registro a cura di ANAC nel quale debbano essere iscritte le stazioni appaltanti che si avvalgono di affidamento in house). Inoltre, il D.Lgs. 175/2016 ha introdotto una disciplina specifica (art. 16) ove vengono chiariti i requisiti e gli aspetti di gestione caratterizzanti gli affidamenti in house.
[2] Il settore degli appalti pubblici è tra quelli maggiormente interessati da tale fenomeno che determina “la progressiva erosione delle peculiarità nazionali mediante l’innesto di nuovi elementi di impronta comunitaria. Per quanto attiene all’ordinamento italiano, Mastragostino, L’appalto di opere pubbliche, Bologna, 1993, p. 123, sostiene, con specifico riferimento alle prime direttive comunitarie che si occupano del settore degli appalti pubblici, che il panorama politico e giuridico italiano fosse inadeguato e non predisposto al recepimento di mutamenti così radicali del sistema normativo: ciò ha determinato un impatto non del tutto positivo delle direttive CEE, anche in considerazione della necessità di raccordo con la legislazione antimafia, che ha “contribuito a disarticolare ulteriormente il quadro normativo”. Nel suddetto contributo l’autore affronta, inoltre, il delicato tema del recepimento delle direttive in altri paesi, evidenziando come il modello tedesco sia, senza dubbio, quello ove sono stati conseguiti i risultati migliori, nell’ambito del sistema degli appalti. Tali risultati sono ascrivibili sia ad una normativa di livello qualitativo molto elevata, sia allo spiccato spirito collaborativo tra gli imprenditori e l’amministrazione e, infine, alla sostanziale fiducia nel sistema burocratico.
[3] Con riferimento alla vis espansiva attribuita ai giudici della Corte europea, essa ha comportato la progressiva formazione di un diritto giurisprudenziale di matrice europea.
[4] C. Giust., 18 novembre 1999, C-107/98, Teckal.
[5] Più specificatamente, al punto 50 e 51 della sentenza Teckal si chiarisce che la direttiva 93/36 trova applicazione nel caso in cui “un'amministrazione aggiudicatrice, quale un ente locale, decida di stipulare per iscritto, con un ente distinto da essa sul piano formale e autonomo rispetto ad essa sul piano decisionale, un contratto a titolo oneroso […] Può avvenire diversamente solo nel caso in cui, nel contempo, l'ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti locali che la controllano”.
[6] Sul punto si rinvia ex multis alla pronuncia del Consiglio di Stato, sez. V, 3 febbraio 2009, n. 591, ove i Giudici di Palazzo Spada, oltre a ribadire il requisito della partecipazione pubblica totalitaria, quale elemento costitutivo dell’in house providing, rammentano altresì come detto carattere pubblico totalitario non debba e non possa venir meno, se non a pena di decadenza dall’affidamento diretto che la Società in house aveva inizialmente ricevuto dall’amministrazione al momento della sua costituzione: in particolare, “se nel corso della durata di un rapporto di concessione sorto per affidamento diretto muta la compagine sociale dell’affidatario che era totalmente in mano pubblica (con l’ingresso anche minoritario di privati) ciò comporta vulnerazione dei principi sanciti dal Trattato in materia di concorrenza. Se ne ricava che, oltre a dover sussistere nel momento genetico del rapporto, la proprietà pubblica della totalità del capitale sociale non solo deve permanere per tutta la durata del rapporto ma deve anche essere garantita da appositi e stabili strumenti giuridici, quali il divieto di cedibilità delle azioni posto ad opera dello statuto. Inoltre, seppur incidenter tantum, l’Adunanza Plenaria del Supremo Consesso Amministrativo ha chiarito che deve figurare non solo la partecipazione pubblica totalitaria, ma deve altresì sussistere l’esclusione dell’apertura al capitale privato: “tuttavia, la partecipazione pubblica totalitaria è necessaria ma non sufficiente, servendo maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente rispetto a quelli previsti dal diritto civile a) lo statuto della società non deve consentire che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, possa essere alienata a soggetti privati; il consiglio di amministrazione della società non deve avere rilevanti poteri gestionali e all’ente pubblico controllante deve essere consentito esercitare poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale (Cons. Stato, sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1514); c) l’impresa non deve avere acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo dell’ente pubblico e che risulterebbe, tra l’altro: dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta l’Italia e all’estero; d) le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente
affidante (Cons. Stato, sez. V, 8 gennaio 2007, n. 5)” (Consiglio di Stato, Sez. I, 7 maggio 2019 n. 1389).
[7] In tal senso, si rimanda ad una risalente pronuncia del supremo consesso (Cons. St., Sez. II, 18 aprile 2007, n. 456), che già trattava il tema escludendo in siffatta ipotesi l’applicabilità della normativa in materia di contratti pubblici.
[8] Consiglio di Stato, Sez. V, 18 luglio 2017, n. 3554. In particolare, il Supremo consesso ha chiarito che “stante l’abrogazione referendaria dell’art. 23-bis d.l. n. 112/2008 e la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4 d.l. n. 238/2011 […] è venuto meno il principio, con tali disposizioni perseguito, della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”; ancora, con l’art. 34 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 197, sono venute meno le ulteriori limitazioni all’affidamento in house, contenute nell’art. 4, comma 8 del predetto d.l. n. 238 del 2011. Più di recente, la giurisprudenza ha non solo ribadito la natura ordinaria e non eccezionale dell’affidamento in house, ricorrendone i presupposti, ma ha pure rilevato come la relativa decisione dell’amministrazione, ove motivata, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salva l’ipotesi di macroscopico travisamento dei fatti o di illogicità manifesta; motivazione che, nel caso di specie, è stata fornita anche a mezzo della citata relazione allegata alla deliberazione consiliare n. 61 del 2012. A ciò aggiungasi la chiara dizione del quinto Considerando della direttiva 2014/24/UE, laddove si ricorda che “nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”.
[9] Cons. St., 22 gennaio 2015, n. 257.
[10] Nel solco tracciato dalla Direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014, si inserisce il Consiglio di Stato che, con il parere Sez. II n. 298/15 del 30 gennaio 2015 opera un’importante revisione dell’interpretazione tradizionale.
[11] Ai sensi dell’art. 16, comma 3 bis del D.Lgs. 175/2016 “la produzione ulteriore rispetto al limite di fatturato di cui al comma 3, che può essere rivolta anche a finalità diverse, è consentita solo a condizione che la stessa permetta di conseguire economie di scala o altri recuperi di efficienza sul complesso dell'attività principale della società”.
[12] In base al dettato normativo dell’art. 1, comma 3 del D.Lgs. 175/2016, per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato. Con specifico riferimento alle società in house, tale ricostruzione ermeneutica è stata avallata dalle stesse Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che, nell’ordinanza del 1° dicembre 2016, n. 24591, hanno disposto che “il principio generale dettato dal citato 3° comma dell’art. 1 è destinato a valere anche per le società in house, ove non vi siano disposizioni specifiche di segno diverso”.
[13] Con riferimento alla questione della natura giuridica dell’in house si rinvia a Consiglio di Stato, Ad. Commissione speciale, 16 marzo 2016, n. 438, par. 7.
[14] Da ultimo, con la sentenza n. 5346 del 22 febbraio 2019 la Corte di Cassazione ha ribadito tale orientamento, chiarendo che le società in house sono soggette a fallimento in quanto entità assimilabili alle persone giuridiche private.
[15] Sulla falsariga della definizione contenuta nel D.Lgs. 175/2016, nel D.Lgs 50/2016 e ss.mm.ii. è stabilito che “un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore esercita su una persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi [...] qualora essa eserciti un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata” (art. 5, comma 1, lett. a). Ai fini dell’in house, l’espressione “controllo” non starebbe ad indicare l’influenza dominante che il titolare della partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è in grado di esercitare sull’assemblea della società, ma individuerebbe “un potere di comando direttamente esercitato sulla gestione dell’ente con modalità e con un’intensità non riconducibili ai diritti e alle facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure socio unico) in base alle regole dettate dal codice civile, e sino a punto che agli organi della società non resta affidata nessuna autonoma rilevante autonomia gestionale”(Parere Consiglio di Stato, n. 2583/2018).
[16] F. Guerrera, Considerazioni in tema di controllo pubblico, controllo congiunto e controllo analogo nella disciplina del TUSP in Rivista diritto societario, 2018.
[17] Sul punto si veda il Parere 2583 del 10 ottobre 2018 del Consiglio di Stato secondo cui “il requisito della partecipazione pubblica totalitaria è divenuto autonomo rispetto a quello del controllo analogo e sono state consentite forme di partecipazione diretta di capitali privati ma a condizione che la partecipazione dei capitali privati sia prevista a livello legislativo, in conformità dei Trattati, e non consenta l’esercizio di un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata”.
[18] ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 25 gennaio 2005, n.168.
[19] A tal proposito si rinvia al Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 1/2008.
[20] Cons. St., sez. V, ordinanza 7 gennaio 2019, n. 138 e ordinanza 14 gennaio 2019, n. 293.
[21] In particolare, nel caso sottoposto al vaglio del Consiglio di Stato, lo statuto della società affidataria prevedeva due distinte categorie di soci (amministrazioni pubbliche): i c.d. soci affidanti, che esercitavano il controllo analogo sulla società e, quindi, potevano operare affidamenti diretti e i c.d. soci non affidanti, che non esercitavano un controllo analogo e non potevano operare affidamenti diretti in favore della società. Questi ultimi si ponevano, dunque, al di fuori dello schema tipico degli affidamenti in house. Tale peculiare schema di partecipazione societaria comportava che il suddetto organismo pluripartecipato si configurasse come organismo in house per alcune amministrazioni pubbliche e come organismo non in house per altre amministrazioni pubbliche.