CGA REGIONE SICILIA, 4 gennaio 2019, n. 3
1. Ad una linea interpretativa che legge l’espressione “nei limiti delle utilità conseguite” come riferibile anche alla sfera pubblica, se e nella misura in cui, nella logica del mutuo di scopo cui già si è fatto cenno, l'erogazione sia destinata ad una finalità che è propria di entrambe le parti, concedente e concessionario, il che obbliga l'accipiens ad eseguire il programma concordato, a vantaggio dell’intera collettività (in termini ad esempio occupazionali, di sviluppo economico, di conservazione dei luoghi etc.), quanto meno di quella localizzata nel territorio interessato (v., ad esempio, Tar Reggio Calabria n. 119/2013); se ne contrappone un’altra che, invece, ritiene che il limite dell’utilità conseguita non sarebbe “dilatabile sino al punto da ricomprendere in esso anche l’ipotesi del finanziamento andato a buon fine mediante la realizzazione del progetto finanziato, ove l’interesse pubblico è soltanto indiretto” (v., più di recente, Cons. St., III, n. 5578/2018). Il Collegio reputa tuttavia più persuasivo il ragionamento che sorregge la prima tesi. Ciò per la ragione che la nozione di “utilità conseguite” di cui all'art. 11 va estesa anche a quei vantaggi generali che l'esecuzione del programma finanziato aveva di mira, che sono da accertarsi da parte della pubblica Amministrazione in termini di effettività sul presupposto che – in un contesto che dovrebbe essere ispirato a serietà e a premialità delle iniziative private avviate in zone svantaggiate, il che non sempre avviene - ogni attività della pubblica Amministrazione che importa erogazione di provvidenze economiche è (deve essere) finalizzata a scopi di interesse pubblico e questi ultimi si sostanziano in benefici collettivi, immediatamente o mediatamente riconducibili all'esercizio del potere.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA
in sede giurisdizionale
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1003 del 2017, proposto da:
-OMISSIS-, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall'avvocato Girolamo Rubino, con domicilio eletto presso il suo studio in Palermo, via Guglielmo Oberdan, 5;
contro
Ministero dello Sviluppo Economico, in persona del Ministro p.t., non costituito in giudizio;
U.T.G. - Prefettura di Palermo, in persona del Prefetto p.t., rappresentata e difesa dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Palermo, via Alcide De Gasperi, 81;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. SICILIA – CATANIA, sez. IV n. 2132/2017, resa tra le parti, concernente la revoca di finanziamento disposta dal Ministero dello sviluppo economico a seguito di informativa prefettizia
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di U.T.G. - Prefettura di Palermo;
Viste le memorie difensive;
Vista l’ordinanza n. 5/2018;
Vista la sentenza parziale n. 371/2018;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 dicembre 2018 il Cons. Hadrian Simonetti, uditi per le parti l’Avvocato Lucia Alfieri su delega di Girolamo Rubino e l'Avvocato dello Stato Davide Giovanni Pintus;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La società -OMISSIS- ottenne nel 1999 un contributo di circa un milione e mezzo di euro nell’ambito del Patto territoriale di Messina, per la realizzazione di un programma di investimenti destinato all’ammodernamento del villaggio turistico “-OMISSIS-”, contributo rilasciato in via provvisoria.
A distanza di anni, dopo che i lavori nel frattempo erano stati realizzati e collaudati, il Ministero dello Sviluppo economico, con nota trasmessa il 12.6.2009, sospese la procedura di rilascio del saldo del contributo e successivamente, con decreto del 17.11.2010, revocò ai sensi dell’art. 9 del d.lgs. 123/1998 il contributo, ordinando la restituzione di quanto già erogato, in ragione della informativa interdittiva del Prefetto di Messina del 12.3.2008.
Tale informativa aveva ravvisato un pericolo di infiltrazione mafiosa sul rilievo del legame parentale e delle cointeressenze societarie intercorrenti tra l’amministratore e socio della società, -OMISSIS-, e il figlio, -OMISSIS-, pluripregiudicato e arrestato per reati di mafia e, una volta scarcerato, domiciliato presso il villaggio turistico “-OMISSIS-” gestito dal padre.
2. Proposto ricorso e motivi aggiunti, avverso la sospensione, la revoca e l’interdittiva quale atto presupposto, deducendone l’illegittimità per violazione degli artt. 2, 21-quinquies e 21-nonies della l. 241/1990 nonché per contraddittorietà, carenza di istruttoria e di motivazione, il Tar lo ha respinto con sentenza n. 2132/2017, giudicandolo infondato.
3. Avverso la sentenza la società ha proposto il presente appello, riproponendo e sviluppando (solamente una) parte delle originarie censure, compendiate in un unico motivo con cui si contesta sia l’informativa che la revoca, tanto nei loro presupposti quanto negli effetti che determinano, laddove è richiesta la restituzione di tutte le somme già da tempo erogate.
In particolare, nei confronti dell’atto presupposto, l’interdittiva antimafia del 2008, parte appellante ha ribadito come i fatti posti a suo fondamento, relativi al figlio di uno degli allora soci della società, non sarebbero rilevanti e comunque sufficienti a fondare un giudizio di pericolosità, dato il tempo trascorso dall’erogazione del contributo e atteso anche che quel rapporto sociale è venuto meno, avendo -OMISSIS- ceduto le proprie quote e che società nel 2011 è stata trasformata e ha mutato denominazione, divenendo l’attuale -OMISSIS-
Sempre nell’appello si è evidenziato come nel 2015 la società avesse poi conseguito un’informativa liberatoria e come su di una vertenza analoga, concernente un’informativa, in tesi di contenuto identico, emessa nei confronti di una società che presentava la medesima compagine, constino due precedenti in termini del CGA (sentenze 530 e 531 del 2015).
Costituitasi la Prefettura e non il Ministero, disposta una prima istruttoria, con sentenza parziale n. 371/2018 l’appello è stato respinto, e per l’effetto confermata sul punto la sentenza del TAR, quanto alla domanda di annullamento dell’informativa antimafia, avendo questo Consiglio ritenuto la valutazione compiuta dal Prefetto attendibile, essendo ragionevole inferire, da una serie di dati e di elementi disponibili, che alla data del 2008 vi fosse seriamente il pericolo in atto di un condizionamento, di origine mafiosa, dell’attività economica della società ricorrente.
Quanto alla domanda relativa alla revoca del contributo, con la medesima sentenza 371/2018 è stata disposta istruttoria per conoscere se l’originaria erogazione del contributo a favore della -OMISSIS- fosse stata preceduta dall’acquisizione o dalla richiesta della documentazione antimafia ai sensi del d.p.r. 252/1998.
4. All’istruttoria ha adempiuto la Prefettura depositando la comunicazione del 14.12.1999 circa l’insussistenza a tale data di cause interdittive nei confronti della predetta società e dei suoi soci.
All’udienza del 12.12.2018, in vista della quale la difesa di parte appellante ha prodotto una memoria finale, la causa è passata in decisione.
5. Come già osservato, si controverte oramai unicamente in ordine alla legittimità della revoca del contributo concesso e del conseguente recupero della somma a suo tempo versata, pari ad euro 1.208.892,72.
La difesa di parte appellante ha contestato in vario modo tale provvedimento deducendone, nel giudizio di primo grado (v. motivi aggiunti del 18.3.2011), il contrasto con la legge 241/1990, in particolare con gli artt. 21-quinquies e nonies, nonché l’eccesso di potere sotto diversi profili, sottolineando la tardività della revoca e gli effetti prodotti sull’affidamento del privato; solo con l’appello ha individuato quale parametro esplicito anche l’art. 11 del d.p.r. 252/1998, di cui ha dedotto l’erronea e parziale applicazione, segnatamente da parte del Giudice di primo grado nella sentenza impugnata.
La difesa erariale, che qui difende la sola Prefettura dal momento che il Ministero non è costituito, ha comunque controdedotto anche in ordine alla tempestività della revoca (che è atto del Ministero), sottolineando la natura provvisoria del provvedimento originario di concessione del contributo, come tale “sensibile” al potere di accertamento attributo all’Autorità di P.S., per quanto successivo nel tempo. In questo riproponendo il ragionamento del TAR, che era stato nel senso di attribuire all’informativa sopravvenuta nel 2008 valenza di condizione risolutiva di un contributo erogato sino ad allora soltanto in via provvisoria. Di qui l’impossibilità di fare applicazione della disciplina sull’autotutela di cui alla l. 241/1990, dove l’elemento temporale è come noto assai rilevante, non essendo la “revoca” per cui è causa un provvedimento di autentico riesame ma – parrebbe di capire (v. il punto III della sentenza) – un atto ricognitivo con cui si sarebbe accertato il maturarsi della condizione risolutiva.
Pur dando atto (anche ai fini della statuizione sulle spese) del lungo tempo trascorso dalla concessione del finanziamento alla sua revoca, nell’ordine di 11 anni, il Tar ha fatto leva su di una ratio decidendi per cui i finanziamenti pubblici concessi in via provvisoria sarebbero sensibili al potere di accertamento delle autorità cui è demandato il compito di accertare il pericolo di infiltrazione mafiosa, “quantomeno sin tanto che non ne vengano stabilizzati gli effetti con il provvedimento di concessione in via definitiva degli stessi”; all’uopo richiamando il secondo comma dell’art. 11 del citato d.p.r. 252/1998.
6. Se queste sono le contrapposte tesi di parte e se quello appena ricordato è il punto nevralgico della decisione reiettiva del Giudice di primo grado, il Collegio reputa necessario ribadire la sequenza temporale dei fatti di causa, che vertono su di un contributo in conto impianti concesso “in via provvisoria” nel 1999, erogato in massima parte negli anni 2000, 2001 e 2005, per dei lavori di ammodernamento di un villaggio turistico ultimati nel 2002 e collaudati nel 2004, e di cui è stata chiesta la restituzione con la “revoca” del 2010 in ragione di un’informativa interdittiva sopravvenuta nel 2008.
L’istruttoria disposta in corso di causa ha permesso di accertare, quanto alla vicenda storica che ha contrassegnato la proprietà del villaggio turistico sito in -OMISSIS-, come in principio fosse stata rilasciata nel 1999 un’informativa liberatoria, confermata nel 2005 (secondo quanto allegato nei motivi aggiunti in primo grado e non contestato da controparte) e come, dopo la “parentesi” interdittiva del 2008, nel 2015, per effetto anche delle modifiche frattanto occorse alla compagine sociale, si sia tornati ad una nuova informativa liberatoria.
Tutto questo pone al vaglio del collegio la questione dell’incidenza, ovvero degli effetti (se e quanto retroattivi nel tempo), dell’informativa cd. successiva, ossia sopravvenuta rispetto ad un contributo già erogato per un’opera nel frattempo già realizzata. Muovendo dalla premessa circa la natura dinamica e non statica dell’accertamento sui tentativi di infiltrazione mafiosa demandati al prefetto, le cui informazioni – espressione di giudizio e non di volizione, per cui è improprio, per quanto sia diffuso in giurisprudenza, ma criticato dalla dottrina più autorevole, il riferimento alla discrezionalità - “fotografano” la situazione di pericolo ad un dato momento e comunque all’attualità.
Si deve chiarire, inoltre, come la “revoca” decretata dal Ministero dello Sviluppo Economico in questo caso non abbia come presupposto alcun inadempimento commesso dal soggetto beneficiario del finanziamento. Nella logica del mutuo di scopo, istituto privatistico cui è probabilmente assimilabile il tipo di finanziamento pubblico a suo tempo erogato in favore della società, lo scopo può considerarsi realizzato nella misura in cui si è proceduto all’investimento e all’iniziativa economica programmata. Di conseguenza non paiono invocabili tutte quelle disposizioni di leggi di settore che, in caso di revoca, per inosservanza degli impegni assunti, prevedono la perdita del finanziamento e la restituzione per intero di quanto eventualmente già erogato (v., in particolare, l’art. 9 del d.lgs. 123/1998 di cui è fatta menzione nel decreto ma che, ad avviso del Collegio, disciplina ipotesi differenti di revoca dei benefici, legate all’assenza ab origine dei requisiti, alla irregolarità della documentazione prodotta, a fatti commessi nel corso dell’esecuzione dell’intervento finanziato).
Nell’atto di revoca il solo richiamo pertinente deve quindi considerarsi, anziché l’art. 9 del d.lgs. 123/1998, il d.p.r. 252/1998 in tema di rilascio delle informazioni antimafia – da intendersi quale disposizione speciale - che, quanto agli effetti della revoca e del recesso all’uopo disposti, laddove intervenuti successivamente all’avvio dell’attività da parte del privato, reca una disposizione che fa espressamente “salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite” (art. 11, co. 2).
Tale previsione, espressione di un principio generale di indennizzabilità che trova anche altrove la sua manifestazione (ad esempio nell’art. 2041 c.c., come anche nell’art. 109, co. 5, del nuovo codice dei contratti che mutua disposizioni risalenti nel tempo in tema di recesso), si lega peraltro ad una ipotesi che qui non ricorre: quella in cui l’amministrazione che eroga il contributo vi abbia provveduto “in assenza delle informazioni del prefetto” e che, dunque, il contributo sia (stato) corrisposto “sotto condizione risolutiva”; laddove, invece, la documentazione prodotta da ultimo dalla difesa erariale dimostra come le erogazioni del 2000, 2001 e 2005 siano avvenute in forza dell’informativa liberatoria del 14.12.1999. Sicché la vicenda qui in discussione è stata contrassegnata, al principio, da una prima informativa liberatoria rilasciata anteriormente alla corresponsione del contributo, cui ha fatto seguito, a distanza di quasi dieci anni (peraltro dopo una seconda informativa, anch’essa non interdittiva, del 2005, per come allegato dalla difesa di parte ricorrente), una (terza) informativa di segno interdittivo che, in tesi, avrebbe giustificato la revoca di cui all’art. 11, co. 3, a mente del quale “Le facoltà di revoca e di recesso di cui al comma 2 si applicano anche quando gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto, alla concessione dei lavori o all'autorizzazione del subcontratto”.
Il discorso è poi reso più complicato dal fatto che l’art. 11, co. 2, nella prima parte fa riferimento ad ipotesi di elargizione di denaro pubblico aventi titolo non solo in contratti (appalti e concessioni di lavori) ma anche in atti unilaterali, appartenenti al genus dei provvedimenti amministrativi ovvero degli atti “autoritativi” della pubblica amministrazione, per quanto ampliativi la sfera giuridica dei destinatari, quali autorizzazioni e concessioni (di denaro); atti ulteriori di cui, però, la norma non fa più espressa menzione tanto nel co. 3, quando disciplina il caso in cui la revoca o il recesso avvengano sulla base di un’informativa successiva, che nella seconda parte del co. 2, quanto prevede la già ricordata clausola di salvezza per le opere già eseguite e le spese sostenute.
Ciò posto, nella vicenda qui in esame, se per un verso il Ministero ha adottato il proprio atto di revoca sul presupposto – dato del tutto per pacifico – che il potere di revoca di cui al co. 3 valga anche per le concessioni di denaro pubblico (finanziamenti); per altro verso la difesa di parte appellante ha continuato ad invocare simmetricamente l’applicazione della clausola legislativa che fa salve le opere già eseguite e le spese già sostenute.
7. Ebbene, mentre il primo assunto è dato per pacifico e nei suoi termini astratti e generali non è contestato neppure da parte appellante; il secondo dato ha ricevuto in giurisprudenza opinioni divergenti, quantunque in una casistica all’apparenza limitata, almeno per quanto noto a questo Collegio. Ad una linea interpretativa che legge l’espressione “nei limiti delle utilità conseguite” come riferibile anche alla sfera pubblica, se e nella misura in cui, nella logica del mutuo di scopo cui già si è fatto cenno, l'erogazione sia destinata ad una finalità che è propria di entrambe le parti, concedente e concessionario, il che obbliga l'accipiens ad eseguire il programma concordato, a vantaggio dell’intera collettività (in termini ad esempio occupazionali, di sviluppo economico, di conservazione dei luoghi etc.), quanto meno di quella localizzata nel territorio interessato (v., ad esempio, Tar Reggio Calabria n. 119/2013); se ne contrappone un’altra che, invece, ritiene che il limite dell’utilità conseguita non sarebbe “dilatabile sino al punto da ricomprendere in esso anche l’ipotesi del finanziamento andato a buon fine mediante la realizzazione del progetto finanziato, ove l’interesse pubblico è soltanto indiretto” (v., più di recente, Cons. St., III, n. 5578/2018).
Se questi sono i termini della questione, e se è difficilmente negabile che una differenza vi sia tra i rapporti contrattuali in senso proprio, all’insegna di una evidente corrispettività, e quelli originati da un atto unilaterale, dove la reciprocità è sicuramente più attenuata, sebbene siano anche essi potenzialmente durevoli nel tempo, il Collegio reputa tuttavia più persuasivo il ragionamento che sorregge la prima tesi. Ciò per la ragione che la nozione di “utilità conseguite” di cui all'art. 11 va estesa anche a quei vantaggi generali che l'esecuzione del programma finanziato aveva di mira, che sono da accertarsi da parte della pubblica Amministrazione in termini di effettività sul presupposto che – in un contesto che dovrebbe essere ispirato a serietà e a premialità delle iniziative private avviate in zone svantaggiate, il che non sempre avviene - ogni attività della pubblica Amministrazione che importa erogazione di provvidenze economiche è (deve essere) finalizzata a scopi di interesse pubblico e questi ultimi si sostanziano in benefici collettivi, immediatamente o mediatamente riconducibili all'esercizio del potere.
8. Al lume di questo ragionamento, che pone in relazione (la misura de)gli effetti della revoca con le finalità pubbliche delle erogazioni a soggetti privati e che in questi termini rilegge la nozione di “utilità conseguite”, sussiste nel caso di specie la dedotta violazione dell’art. 11, co. 2, seconda parte, non avendo l’Amministrazione fatto salvo, al momento della revoca, il pagamento del valore delle opere già eseguite, costituito dagli importi già da tempo erogati e spesi con relativa (e a quanto è dato sapere, non contestata) rendicontazione.
Con la precisazione che la violazione di questa disposizione, sebbene non fosse menzionata espressamente nei motivi aggiunti dinanzi al Tar, era pur sempre sussumibile nella censura più generale riguardante la violazione dei principi di certezza e di affidamento articolata con il quinto dei motivi aggiunti; ed è stata poi resa più esplicita, e comunque sviluppata, quale specifica censura alla sentenza del Tar che dell’art. 11 ha fatto menzione per confutare la natura di atto in autotutela, quindi di vera revoca, dell’atto impugnato.
9. Ad ogni modo l’appello, sempre per quanto concerne la revoca, e il recupero delle somme già erogate, è fondato anche sotto il profilo del dedotto eccesso di potere per illogicità e ingiustizia manifesta.
Il giudice di primo grado, nel respingere i motivi incentrati sugli articoli della l. 241/1990 e sulla lesione del principio di affidamento, ha sottolineato, come ricordato, la natura provvisoria del contributo concesso, passibile di essere sempre rimesso in discussione e quindi recuperato, sino a quando non ne vengano stabilizzati gli effetti con il provvedimento di concessione in via definitiva; da tutto questo inferendo che non si sarebbe trattato di vera revoca ma, piuttosto, di un atto ricognitivo di una condizione risolutiva costituita dal sopravvenire dell’informativa interdittiva.
Ribadito come il riferimento alla condizione risolutiva non sia pertinente al caso di specie, al cospetto di un finanziamento erogato in origine sulla base di un’informativa (non mancante bensì) liberatoria, neppure il ragionamento sul carattere provvisorio del contributo persuade.
Infatti, anche a riconoscerne davvero la (originaria) provvisorietà, un simile attributo presupporrebbe pur sempre che questa condizione iniziale abbia una durata definita nel tempo, che dunque ciò che nasce provvisorio diventi il prima possibile definitivo; pena, altrimenti, l’impossibilità di qualunque previsione e di qualunque calcolo da parte di cittadini ed imprese (per tali intendendosi non solo i beneficiari in via diretta del finanziamento ma anche, quantomeno, i terzi aventi causa e i loro creditori). Laddove invece, nella vicenda qui in esame, questa condizione di provvisorietà si è protratta per lunghi anni, nonostante che nel frattempo buona parte delle somme fossero state erogate, i lavori realizzati, le spese rendicontate. Si vuole quindi sottolineare come, anche nella logica della provvisorietà teorizzata dal Giudice di primo grado – e che pure trova un fondamento nelle modalità del rilascio della concessione e nel sistema di questi finanziamenti – alla data di adozione dell’informativa del 2008 sarebbe stato del tutto naturale che gli effetti della concessione si fossero da tempo stabilizzati (il d.l. 415/1992 convertito in l. 488/1992, concernente i criteri per la concessione delle agevolazioni alle attività produttive nelle aree depresse del paese e costituente la base legale del finanziamento qui in discussione, prevedeva già all’epoca l’accelerazione delle procedure in vista di una loro maggiore efficienza). Così non è stato, per causa imputabile alla parte pubblica, e sarebbe manifestamente ingiusto che di questo ritardo le conseguenze ricadessero sulla parte privata. Detto altrimenti, se il rapporto di finanziamento avesse fatto il suo corso, se alla rendicontazione delle spese fosse seguito il tempestivo definirsi e stabilizzarsi, per così dire, del finanziamento pubblico, il sopraggiungere dell’informativa nel 2008 non avrebbe potuto rivolgere i propri effetti nei confronti di un rapporto di durata che – giova ribadire – si era in massima parte svolto, realizzando il proprio scopo, nel periodo immediatamente successivo all’informativa liberatoria del 1999.
10. Il Collegio non ignora il recente approdo dell’Adunanza Plenaria n. 3/2018 in tema di effetti delle informative antimafia, nel senso che determinerebbero una sorta di incapacità giuridica, impedendo di ottenere contributi, finanziamenti, corrispettivi e persino il pagamento di somme di denaro a titolo di risarcimento dei danni, quantunque aventi titolo in sentenze di condanna passate in giudicato. Ma, prescindendo dall’approfondire un simile orientamento che pone una serie di problemi, anche di teoria generale, di sicuro questo principio di diritto non può valere per i rapporti esauriti o che sarebbero dovuti esserlo da tempo e che non lo sono stati per ragioni imputabili alla pubblica amministrazione. Se così non fosse – si deve rilevare – i ritardi e le inefficienze dell’azione amministrativa sarebbero premiati e persino incentivati, ledendo le garanzie fondamentali delle parti private (la cui fisionomia può essere mutata nel tempo, avendo reciso i vecchi legami, riparato i propri errori, come deve ritenersi sia avvenuto nel caso della società odierna appellante alla luce dell’informativa liberatoria del 2015) e contribuendo a determinare un senso di incertezza e di insicurezza, nei traffici commerciali e nella serietà degli impegni giuridici, che concorre a definire il grado di “legalità” di un Paese e che potrebbe non essere di minor danno dell’insicurezza e del pericolo intollerabilmente originati e alimentati dal fenomeno e dal metodo mafioso.
11. Anche per tale concorrente ragione, quindi, l’atto del Ministero impugnato deve ritenersi illegittimo nella parte in cui, con la revoca, ha disposto il recupero delle somme già erogate, non facendo salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite al momento della revoca del finanziamento.
12. La peculiarità della vicenda, la complessità delle questioni affrontate e l’esito complessivo del giudizio, sono tutti elementi che giustificano la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sull'appello, richiamata la sentenza parziale n. 3717/2018 con cui è stata respinta la domanda di annullamento dell’informativa antimafia del 12.3.2008, lo accoglie limitatamente al recupero della somma di euro 1.208.829,72 disposto con la revoca del contributo del 17.11.2010, per tale parte riformando la sentenza impugnata ed accogliendo i motivi aggiunti proposti nel giudizio di primo grado, nei termini e con gli effetti di cui in motivazione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Guida alla lettura
Ai sensi dell’art. 84 comma 3 del D.lgs. 159 del 06/09/2011, “L'informazione antimafia consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 91, comma 6, nell'attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4”.
L’art. 94 del medesimo Decreto Legislativo disciplina il caso in cui emerga la sussistenza di una delle cause sopra descritte ed al riguardo stabilisce:
- al comma 1, che le PP.AA. “non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti o subcontratti, né autorizzare, rilasciare o comunque consentire le concessioni e le erogazioni”;
- al comma 2, che “Qualora il prefetto non rilasci l'informazione interdittiva entro i termini previsti, ovvero nel caso di lavori o forniture di somma urgenza di cui all'articolo 92, comma 3 qualora la sussistenza di una causa di divieto indicata nell'articolo 67 o gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa di cui all'articolo 84, comma 4, ed all'articolo 91, comma 6, siano accertati successivamente alla stipula del contratto, i soggetti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, salvo quanto previsto al comma 3, revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”;
- al comma 3, che “I soggetti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, non procedono alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente nel caso in cui l'opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell'interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”.
La questione oggetto della sentenza in commento è la seguente: se l’interdittiva antimafia possa legittimamente comportare, a danno dell’Impresa, la revoca di un contributo pubblico a quest’ultima in precedenza erogato per un’opera che, al tempo dell’interdittiva medesima, era stata già realizzata.
(Va precisato che, nel caso di specie, dopo 7 anni dall’interdittiva, nei confronti della stessa Impresa venne rilasciata una nuova informativa liberatoria).
Il Consiglio di Stato ritiene che il disposto dell’art. 94 comma 2 del D.lgs. 50/2016, in base al quale la revoca (eventualmente anche di un contributo pubblico) deve comunque far salvo il “pagamento del valore delle opere già eseguite… nei limiti delle utilità conseguite”, debba applicarsi anche con riguardo ad un’interdittiva antimafia sopravvenuta, e che quindi quest’ultima non possa, suo malgrado, comportare l’obbligo, da parte dell’Impresa, di restituire il contributo concesso.
Tale conclusione poggia sulla considerazione che la concessione di un finanziamento finalizzato alla realizzazione di un’opera pubblica ha la medesima natura del c.d. “mutuo di scopo”, e pertanto, una volta che tale scopo sia stato compiutamente realizzato, il concedente non è più legittimato a richiedere la restituzione della somma erogata, in quanto una simile richiesta potrebbe ritenersi giuridicamente fondata solo laddove la finalità del mutuo non sia stata soddisfatta. La concessione di un contributo pubblico, in quanto diretta all’attuazione di opere di interesse collettivo, persegue un interesse che è proprio – prima di tutto – del concedente stesso, il quale di tale interesse è portatore: di conseguenza, l’espressione “nei limiti delle utilità conseguite” va estesa anche ai vantaggi arrecati alla collettività mediante la realizzazione dell’opera, i quali non possono essere successivamente rimossi, mediante un provvedimento di revoca retroattiva del contributo, fondato sul fatto che, dopo il completamento della stessa opera, è sopravvenuta l’interdittiva antimafia.
Il Consiglio di Stato, quindi, si discosta dall’altro orientamento giurisprudenziale secondo cui l’espressione “nei limiti delle utilità conseguite” non può essere estesa fino al punto da ricomprendere anche l’ipotesi del contributo pubblico andato a buon fine, in quanto, se così fosse, la posizione (accertata) di irregolarità dell’Impresa rispetto al requisito di cui all’art. 94 del D.lgs. 159 del 06/09/2011 sarebbe perennemente giustificata dal fatto che l’Impresa stessa ha comunque realizzato il programma di investimenti al quale il contributo era preordinato, e quindi la (presunta) natura di “mutuo di scopo” del finanziamento pubblico fungerebbe da elemento legittimante a priori l’assenza, in capo all’Impresa, di un’informativa antimafia liberatoria.
Per quanto riguarda la soluzione adottata dal Consiglio di Stato, il comma 3 dell’art. 94 del D.lgs. 159 del 06/09/2011 stabilisce che “I soggetti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, non procedono alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente nel caso in cui l'opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell'interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”.
Il comma 3 vieta espressamente ai soggetti pubblici di revocare i contributi erogati, nel caso in cui l’opera debba ancora essere completata o comunque nel caso in cui, trattandosi di opere ritenute particolarmente rilevanti per l’interesse pubblico, si riveli difficoltoso sostituire il soggetto con un altro.
Quindi si potrebbe affermare quanto segue: se è stabilito addirittura un divieto espresso di revoca del contributo pubblico quando l’opera è oramai in stato di ultimazione, a maggior ragione dovrà essere considerata illegittima una revoca allorquando, come nel caso della sentenza in commento, l’opera è addirittura stata già realizzata e completata (con tanto di spese rendicontate).
Sotto questo aspetto, quindi, il Consiglio di Stato, non riconoscendo legittimità alla revoca del contributo, sembrerebbe aver deciso in maniera “saggia” in quanto una revoca disposta quando l’opera è stata già ultimata viene a configurare un provvedimento amministrativo da considerare quale “inutiliter datum”.
E’ evidente che la soluzione adottata dal Consiglio di Stato è ispirata alla necessità di tutelare, anche dopo il sopravvenuto accertamento di una posizione di irregolarità dell’appaltatore rispetto a determinati requisiti previsti dalla legge (vedi interdittiva antimafia), la certezza dei rapporti giuridici sorti dall’avvenuta esecuzione dell’appalto e quindi la stabilità dei relativi effetti.
Tuttavia, a chi scrive sembra che tale soluzione sia stata un po’ troppo polarizzata sulla necessità – peraltro in linea generale condivisibile – di garantire, anche ai rapporti tra Ente pubblico finanziatore ed Impresa finanziata,i caratteri della stabilità e della certezza, ed invece troppo poco attenta a quella che è la “missione istituzionale” degli Enti pubblici che erogano finanziamenti destinati agli appalti pubblici.
Infatti, l’art. 94 comma 1 del D.lgs. 159/2011, quando impone agli Enti pubblici di non erogare contributi ad Imprese per le quali sia stata accertata la sussistenza di situazioni di infiltrazioni mafiose, intende chiaramente tutelare i principi di legalità e di buon andamento dell’attività amministrativa. Quindi gli Enti pubblici debbono garantire, in nome di tali principi, che i soldi pubblici vengano assegnati a soggetti in regola con gli obblighi di legge.
E’ vero che, in base ad una interpretazione sistematica del disposto del comma 3 della suddetta norma, appare incontrovertibile ritenere che, quando l’opera è già stata completata (con tanto di spese rendicontate), il potere di revoca del contributo erogato sia del tutto insussistente.
Ma vi sono comunque in gioco interessi di rango costituzionale – quali i principi di legalità e di buon andamento della PA – i quali non possono consentire che un soggetto privato, incaricato della realizzazione di un’opera pubblica ed il quale abbia percepito a tal fine fondi pubblici, possa trattenersi l’intero finanziamento percepito anche dinanzi ad una sopravvenuta interdittiva antimafia intervenuta a suo carico.
Il Consiglio di Stato omette di scindere i due piani: da un lato, l’avvenuta realizzazione dell’opera, la quale senza dubbio determina il diritto della collettività di fruirne; dall’altro, il sopravvenuto accertamento, a carico dell’Impresa esecutrice, di una situazione (interdittiva antimafia) la quale dovrebbe considerarsi preclusiva della possibilità, per l’Impresa, di trattenere il contributo percepito.
Tant’vero che, a parere di chi scrive, l’art. 94 comma 3 del D.lgs. 159/2011, siccome impedisce la revoca del contributo quando l’opera è in fase di ultimazione (nonostante che sia stata accertata la situazione di cui sopra), lede gli artt. 3 e 97 della Costituzione, in quanto consente ad un’Impresa non in regola con gli obblighi di legge di non restituire quanto percepito, e ciò a danno di altri operatori del settore i quali, non avendo mai avuto provvedimenti di interdittiva, ben avrebbero avuto il diritto di ricevere il finanziamento al posto dell’impresa irregolare.
Non essendo stata prospettata, dalla parte ricorrente, tale questione di legittimità costituzionale, è chiaro che il Consiglio di Stato non ha potuto far altro che applicare la disciplina prevista dall’art. 94 del D.lgs. 159/2011, la quale sancisce, per le opere in corso di ultimazione (e quindi, a maggior ragione, nel caso di specie, per quelle già ultimate), la irrevocabilità del contributo.
Quindi, in realtà, in base alla norma sopra citata, la revocabilità del contributo è legittima solo quando l’esecuzione dell’opera si trovi ancora in una fase iniziale o comunque non sia ancora arrivata ad uno stadio tale da doverla considerare immune da qualsivoglia contestazione in merito alla restituzione del finanziamento.
Allora, il quesito è il seguente: ferma restando l’importanza dell’art. 94 comma 3 del D.lgs. 159/2011, la PA ha a disposizione uno strumento per poter richiedere - all’Impresa la quale abbia beneficiato di un contributo pubblico per la realizzazione di un’opera e nei cui confronti sia sopravvenuta, dopo la avvenuta realizzazione, una interdittiva antimafia - la restituzione di tutte le somme erogate?
Al riguardo, si potrebbe ipotizzare l’esperibilità, da parte della PA, dell’azione di ingiustificato arricchimento di cui all’art. 2041 c.c., a norma del quale “Chi, senza una giusta causa, si e' arricchito a danno di un'altra persona e' tenuto, nei limiti dell'arricchimento, a indennizzare quest'ultima della correlativa diminuzione patrimoniale”.
Il pensiero corre all’art. 2041 c.c. in quanto l’azione contemplata da tale norma è uno strumento di tutela contrattuale di tipo residuale, ossia è attivabile quando – come nel caso di specie – la norma che regola la materia (in tal caso, appunto, l’art. 94 comma 3 del D.lgs. 159 del 06/09/2011) non prevede, per l’Ente che ha concesso il finanziamento, alcuna forma di tutela, né reintegratoria né risarcitoria, proprio perché, appunto, a seguito del completamento dell’opera, il contributo non è più revocabile.
Ma la domanda è: perché si dovrebbe sostenere che l’Impresa, percependo il contributo pubblico nonostante la sopravvenienza a suo carico di una interdittiva antimafia, si è arricchita “senza una giusta causa”?.
La risposta potrebbe essere questa.
Se il suddetto accertamento interviene dopo l’erogazione del contributo, ciò comporta che l’Impresa stessa si è arricchita in modo illegittimo, in quanto ha potuto, grazie a tale contributo (nel caso di specie: in conto impianti), abbattere i costi di investimento richiesti dalla natura dell’opera da realizzare, ma lo ha fatto in una situazione di irregolarità, ossia di illegittimità.
Ed anche se tale accertamento interviene dopo che l’opera, per la quale il finanziamento era stato erogato, è già stata completata (con tanto di spese rendicontate), ciò nulla toglie al fatto che l’Ente erogante deve tutelare i principi di legalità e di buon andamento senza alcun limite di tempo, e che quindi il medesimo può ed anzi deve considerarsi pienamente legittimato a recuperare, con efficaci retroattiva, l’intero contributo erogato.
In quest’ottica, quindi, l’esperibilità, da parte dell’Ente erogante, dell’azione ex art. 2041 c.c. si lega indissolubilmente alla necessità di garantire, senza alcun vincolo di ordine temporale, l’attuazione di superiori interessi di rango costituzionale (che sono quelli sopra citati).
Ma si ritorna sempre al punto di partenza, ovvero: si sarebbe dovuta sollevare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 94 comma 3 del D.lgs. 159 del 06/09/2011 per contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, cosa che non è stata fatta.
Inoltre, a ben vedere, anche la presunta applicabilità dell’azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c. non è poi così limpida. Infatti, l’azione sopra citata sembrerebbe pienamente esercitabile solo quando la norma che regola la fattispecie contrattuale sia del tutto lacunosa per quanto riguarda la previsione di strumenti di tutela negoziale tipici, ossia quando la stessa non preveda né l’azionabilità di tali strumenti né tanto meno un espresso divieto di tutela.
Nel caso di specie, invece, l’art. 94 del D.lgs. 159 del 06/09/2011), al comma 3, stabilisce espressamente che non si può procedere alla revoca del contributo quando l’opera è in fase di ultimazione (e quindi, a maggior ragione, di alcuna revoca potrà parlarsi nel caso in cui - vedi sentenza in commento - l’opera sia già stata realizzata).
Quindi, dal comma 3 sopra citato si evince che la normativa speciale prevede, nei confronti dell’Ente erogante, un vero e proprio divieto di chiedere la restituzione del contributo.
Ciò in quanto, evidentemente, l’interesse tutelato dalla norma speciale è quello di proteggere il legittimo affidamento dell’Impresa destinataria del contributo circa la propria posizione di regolarità rispetto agli obblighi antimafia quando è oramai decorso molto tempo dal rilascio del contributo stesso, e quindi tutelare la stabilità degli effetti del provvedimento di erogazione del contributo. Tant’ vero che il fulcro del ragionamento del Consiglio di Stato è stato proprio questo: la Prefettura ha emanato il provvedimento di interdittiva antimafia solo a distanza di ben 9 (nove) anni dalla data in cui il contributo venne erogato dal Ministero Sviluppo Economico, ossia in un momento in cui ormai la Società concessionaria del contributo pubblico aveva già realizzato l’opera oggetto del finanziamento ed addirittura aveva già rendicontato le spese. Ammesso (e non concesso) che il provvedimento di concessione del contributo avesse avuto carattere provvisorio (come ritenuto dal Giudice di primo grado), siffatta “temporaneità” – e quindi precarietà – dello stesso non sarebbe comunque potuta arrivare fino al punto di demolire, in modo retroattivo, a seguito di una interdittiva sopravvenuta, gli effetti dei rapporti giuridici ormai stabilizzatisi con l’Impresa destinataria del contributo, laddove tale stabilizzazione è conseguita all’avvenuta realizzazione dell’opera, unico ed autentico “scopo”del finanziamento.
Quindi si tratta di vedere se possa esservi un’altra strada (al di là della suddetta questione di costituzionalità nonché dell’esperibilità dell’art. 2041 c.c.) mediante la quale l’Ente erogante, nonostante la già avvenuta realizzazione dell’opera pubblica, possa richiedere, all’Impresa nei cui riguardi è sopraggiunta l’interdittiva, la restituzione del finanziamento.
Un appiglio in tal senso potrebbe essere fornito, anche in tal caso per via di interpretazione sistematica, dagli artt. 121 comma 3 e 123 del D.lgs. 104/2010 (Codice del Processo Amministrativo).
L’art. 121 comma 3 stabilisce, in sostanza, che, anche quando la stazione appaltante ha violato alcune norme di legge a tutela della trasparenza e della concorrenza, il Giudice può decidere che, siccome il contratto di appalto si trova ormai in uno stato di avanzamento tale da non poter pregiudicare l’interesse pubblico che ne è oggetto, il contratto stesso rimanga efficace e che quindi l’impresa appaltatrice possa continuare nella relativa esecuzione (con tutti i vantaggi patrimoniali a ciò connessi).
Nel nostro caso, la situazione è simile: si è accertato che a carico dell’Impresa esecutrice è stato emesso un provvedimento di interdittiva antimafia, ma siccome l’opera ormai è stata realizzata, allora il contributo è diventato irrevocabile.
La differenza, tuttavia, è nel fatto che, mentre nel caso dell’art. 121 comma 3 del D.lgs. 104/2010, l’art. 123 prevede delle sanzioni (pecuniarie) nei confronti della stazione appaltante, invece nel caso dell’art. 94 comma 3 del D.lgs. 159/2011 (caso in cui la situazione illegittimità è derivata da fatti propri dell’Impresa esecutrice), non è prevista, a carico di quest’ultima, nessuna sanzione, come ad esempio l’obbligo di restituire il contributo percepito.
Quindi si assiste ad una diversità di disciplina pur in presenza di una medesima situazione: sia nell’uno che nell’altro caso sono state violate le norme sulla legalità e sulla trasparenza delle procedure; però, mentre nel primo caso (art. 121 comma 3 del D.lgs. 104/2010) tale violazione è imputabile alla stazione appaltante e quest’ultima può essere condannata a pagare (vedi le sanzioni ex art. 123 dello stesso D.lgs), nel secondo caso (art. 94 comma 3 del D.lgs. 159/2011) la medesima violazione è dipesa da fatto dell’Impresa esecutrice e tuttavia quest’ultima non è tenuta a restituire il contributo percepito e quindi non va incontro ad alcuna “sanzione”.
Un’altra via per riconoscere fondatezza alla richiesta dell’Ente erogante avente ad oggetto la restituzione del contributo concesso, avrebbe potuto essere quella di inquadrare il rapporto tra Ente finanziatore ed Impresa finanziata in termini non già di “provvedimento amministrativo” bensì di contratto di diritto privato.
Ed a questo era arrivato, non a caso, il TAR, il quale aveva messo in evidenza la natura solo provvisoria del contributo concesso e quindi aveva ritenuto legittima la revoca in quanto il finanziamento avrebbe potuto stabilizzarsi solo attraverso un successivo provvedimento di concessione definitiva, tant’ è vero che lo stesso TAR aveva persino ritenuto opportuno qualificare la sopravvenuta interdittiva antimafia in termini non già di revoca bensì di avveramento della condizione risolutiva del provvedimento di rilascio del contributo: si sapeva fin dall’inizio che l’eventuale interdittiva avrebbe comportato la cessazione immediata degli effetti dell’originaria erogazione del finanziamento in quanto appunto siffatta erogazione aveva comunque un carattere provvisorio.
Il Consiglio di Stato, invece, argomenta diversamente: ammesso (e non concesso) che il provvedimento di concessione del contributo avesse carattere provvisorio, siffatta “temporaneità” – e quindi precarietà – dello stesso non avrebbe comunque potuto spingersi fino al punto di demolire, in modo retroattivo, a seguito di una interdittiva sopravvenuta, gli effetti dei rapporti giuridici consolidatisi a seguito dell’avvenuta realizzazione dell’opera pubblica alla quale il finanziamento stesso era destinato.
Ora, a parere di chi scrive, l’atto con cui il Ministero dello Sviluppo decise di concedere il contributo all’Impresa non costituì un atto della procedura di appalto, come tale soggetto alle norme sull’attività amministrativa di cui alla Legge 241/90: esso ha rappresentato solo un atto esterno a tale procedura (anche se era chiaramente finalizzato alla realizzazione dell’opera oggetto della procedura stessa). Di qui la sua inevitabile attrazione nell’ambito dei rapporti di diritto privato.
Quindi avrebbe dovuto essere sposata la tesi del TAR, il quale, per niente convinto della natura provvedimentale dell’atto di erogazione del contributo, ne rivendicava invece la natura privatistica.
Ed allora, a questo punto, si sarebbe dovuto rendere applicabile l’art. 1360 c.c., il quale stabilisce che “Gli effetti dell'avveramento della condizione retroagiscono al tempo in cui è stato concluso il contratto, salvo che, per volontà delle parti o per la natura del rapporto, gli effetti del contratto o della risoluzione debbano essere riportati a un momento diverso.
Se però la condizione risolutiva è apposta a un contratto ad esecuzione continuata o periodica, l'avveramento di essa, in mancanza di patto contrario, non ha effetto riguardo alle prestazioni già eseguite.”
Quindi ora sarebbe interessante sapere (ma questo aspetto non è evincibile dalla sentenza in commento) se nel “contratto” di concessione del finanziamento, subordinato alla condizione risolutiva del sopravvenire di una interdittiva antimafia, sia stato apposto un “patto contrario” in virtù del quale l’avverarsi di siffatta condizione avrebbe dovuto produrre effetti anche per il passato, ed al seguito del quale quindi l’Impresa sarebbe stata tenuta a restituire l’intero finanziamento percepito.
Per completezza di informazione e per coerenza di analisi, se si aderisce alla tesi della natura “contrattuale” del provvedimento di erogazione del contributo pubblico, potrebbe sorgere il dubbio che simile contratto possa costituire un “accordo sostitutivo del provvedimento” ex art. 11 della Legge 241/90, come tale sottoposto, in base al comma 3 della stessa norma, agli stessi controlli previsti per il provvedimento che è stato, appunto, “sostituito” dall’accordo.
Il che, nel caso di specie, comporterebbe quanto segue: siccome il controllo previsto per gli atti provvedimentali è, anzitutto, quello attuato mediante l’esercizio del potere di autotutela, allora ben potrebbe l’Ente finanziatore, dinanzi ad una sopravvenuta interdittiva antimafia riguardante l’Impresa finanziata, procedere alla “revoca” del contributo, ex art. 21 quinquies della Legge 241/90.
Ma tale ricostruzione appare destinata ad essere ritenuta poco pertinente.
In primo luogo, la fattispecie dell’ “accordo sostitutivo del provvedimento” non risulta applicabile in quanto l’accordo medesimo, in base al comma 1 dell’art. 11 della Legge 241/90, viene solitamente concluso “in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’art. 10”, ossia in accettazione delle controdeduzioni formulate dal privato dinanzi ad un precedente atto di diniego di un atto ampliativo della propria sfera giuridica. Invece, il provvedimento di concessione del finanziamento si configura come un atto di provenienza unilaterale, discrezionalmente disposto dalla PA fin dall’inizio, ossia senza una previa istanza di parte.
In secondo luogo, invocare l’istituto della revoca di cui all’art. 21 quinquies della Legge 241/90, non porterebbe ad esiti favorevoli all’interesse dell’Ente erogante alla restituzione di tutto il finanziamento concesso, in quanto la suddetta revoca determina soltanto “la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti”, ovvero ha soltanto un’efficacia ex nunc (da ora per il futuro) e non anche ex tunc (da ora per il passato): essa, quindi, ha una sua utilità pratica solo in relazione a quei provvedimenti i quali debbono ancora esplicare i loro effetti, e non anche per quelli la cui efficacia si sia già esaurita. Nel caso di specie, il contributo pubblico era già stato interamente erogato, e quindi gli effetti del provvedimento (o contratto che dir si voglia) di concessione si erano già consumati. Sotto questo aspetto, quindi, a questo punto diviene molto più plausibile la qualificazione operata dal Giudice di primo grado in termini di “condizione risolutiva” piuttosto che quella di “revoca” attribuita dal Consiglio di Stato (anche se comunque quest’ultimo, quando ha parlato di “revoca”, lo ha fatto con riferimento a quella di cui all’art. . 94 comma 3 del D.lgs. 159/2011, più che a quella generale di cui alla Legge 241/90).
In conclusione, quindi, gli unici argomenti che appaiono sostenibili al fine di riconoscere fondatezza alla domanda dell’Ente erogante di ottenere la restituzione del contributo concesso ad una Impresa nei confronti della quale è sopravvenuta una interdittiva antimafia, sono:
il confronto, per via sistematica, con la fattispecie di cui agli artt. 121 comma 3 e 123 del D.lgs. 104/2010 (Codice del Processo Amministrativo);
l’inquadrare il rapporto tra Ente erogante e soggetto finanziato in termini non di rapporto di diritto amministrativo bensì di contratto di diritto privato.