Consiglio di Stato, Adunanza plen., 4 maggio 2018, n. 5
1. Anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare oltre alle norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illecite frutto dell’altrui scorrettezza.
2. Nell’ambito del procedimento di evidenza pubblica, i doveri di correttezza e buona fede sussistono, anche prima e a prescindere dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica, con conseguente possibilità di configurare una responsabilità precontrattuale da comportamento scorretto nonostante la legittimità dei singoli provvedimenti che scandiscono il procedimento.
3. La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione può derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai doveri di correttezza e buona fede.
4. Affinché nasca la responsabilità dell’amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose), ma occorrono gli ulteriori seguenti presupposti: a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà; b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo; c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all’amministrazione.
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Pubblicato il 04/05/2018
N. 00005/2018REG.PROV.COLL.
N. 00016/2017 REG.RIC.A.P.
N. 00017/2017 REG.RIC.A.P.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello iscritto nel registro generale al numero 16 di A.P. del 2017, proposto da:
Regione Calabria, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Giuseppe Naimo, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Graziano Pungì in Roma, via Sabotino, n. 12;
contro
La Cascina Global Service s.r.l., Cardamone Group s.r.l., in persona dei rispettivi legali rappresentante pro tempore, entrambe rappresentate e difese dall’avvocato Michele Perrone, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Barnaba Tortolini, n.30;
nei confronti
Azienda sanitaria provinciale (A.S.P.) di Cosenza, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Angelo Gangi, domiciliata ai sensi dell’art. 25 Cod. proc. amm. presso la Segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, n. 13;
S.I.A.R.C. s.p.a., non costituita in giudizio;
sul ricorso in appello iscritto nel registro generale al numero 17 di A.P. del 2017, proposto da:
La Cascina Global Service s.r.l. e Cardamone Group s.r.l., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, entrambe rappresentate e difese dall’avvocato Michele Perrone, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Barnaba Tortolini, n. 30;
contro
Regione Calabria, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Giuseppe Naimo, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Graziano Pungì in Roma, via Sabotino, n. 12;
nei confronti
S.I.A.R.C. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Francesco Izzo, domiciliata ai sensi dell’art. 25 Cod. proc. amm. presso la Segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, n. 13;
Azienda sanitaria provinciale (A.S.P.) di Cosenza, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Angelo Gangi, domiciliato ai sensi dell’art. 25 Cod. proc. amm. presso la Segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, n. 13;
per la riforma
quanto al ricorso n. 16 del 2017:
per la riforma
della sentenza del T.a.r. Calabria, sede di Catanzaro, Sezione I, n. 515/2017, resa tra le parti;
quanto al ricorso n. 17 del 2017:
della sentenza del T.a.r. Calabria, sede di Catanzaro, Sezione I, n. 515/2017, resa tra le parti;
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di La Cascina Global Service S.r.l., di Cardamone Group S.r.l., di Azienda sanitaria provinciale di Cosenza, della Regione Calabria e di S.I.A.R.C. S.p.A.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 14 marzo 2018 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti gli avvocati Giuseppe Naimo e Michele Perrone;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. La Stazione Unica appaltante della Regione Calabria ha indetto una gara, suddivisa in sette lotti, per l’affidamento del servizio di ristorazione delle Aziende sanitarie e ospedaliere della Regione.
Il raggruppamento temporaneo di imprese “La Cascina Global Service s.r.l. - Cardamone Group s.r.l.” ha partecipato alla gara in relazione al lotto n. 4, riguardante l’Azienda sanitaria di Cosenza, avente un valore stimato di € 18.927.347,40, per la durata di 36 mesi.
2. Il R.T.I. menzionato, cui è stato attribuito il punteggio più alto a seguito dell’esame dell’offerte tecnica, è stata escluso dalla gara per aver presentato un’offerta in aumento rispetto all’importo annuale dell’appalto.
Il R.T.I. La Cascina - Cardamone Group (di seguito anche solo R.T.I. La Cascina) aveva presentato, infatti, un’offerta economica pari ad euro 4.885.136,10 annui, corrispondente ad una percentuale di ribasso del 22,23% rispetto al valore stimato annuo dell’appalto, pari ad euro 6.309.115,80, tenuto conto della durata dell’appalto desumibile dal bando di gara (3 anni) e dell’importo complessivo previsto dal bando (riferito all’intera durata del contratto) pari ad euro 18.927.347,40.
Ad avviso della stazione appaltante, invece, la durata dell’appalto era pari a 48 mesi, tenuto conto che nel disciplinare di gara era prevista la possibilità di proroga per 12 mesi: pertanto, la stazione appaltante ha ritenuto che l’offerta presentata dal raggruppamento La Cascina – pari ad € 4.885.136,10 annui – sarebbe stata superiore a quella posta a base di gara (pari ad € 4.731.836,85) e dunque sarebbe stata inammissibile.
È stata escluso, per ragione analoga, anche l’unico altro concorrente rimasto in gara R.T.I. Innova S.p.a. - Ladisa S.p.a. (l’altro concorrente S.I.AR.C. S.r.l., infatti, era stato già escluso in precedenza).
La gara è stata pertanto dichiarata deserta.
3. Con sentenza n. 1730 del 18 novembre 2015 il Tribunale amministrativo regionale della Calabria ha accolto il ricorso del R.T.I. La Cascina contro il provvedimento di esclusione. In sede di appello, il Consiglio di Stato, con sentenza n. 2497 del 10 giugno 2016, ha confermato l’accoglimento del ricorso, annullando definitivamente l’atto di esclusione.
4. La sentenza del Consiglio di Stato n. 2497 del 2016, in particolare, ha affermato quanto segue.
4.1. Dalla disamina degli atti costituenti la lex specialis di gara (bando, disciplinare, capitolato speciale di appalto), con riferimento specifico alla durata dell’appalto si evince in modo palese la contraddittorietà delle prescrizioni, atteso che:
a) il bando prevede l’importo di euro 18.927.347,40 e la durata di 36 mesi, il che comporta che il valore annuale dell’appalto è pari ad euro 6.309.115,80 (18.927.347,40 : 3);
b) il disciplinare di gara, dopo aver riportato il valore complessivo dell’appalto (pag. 5), a pagina 7 prevede che «la durata è di 36 mesi a decorrere dalla data di inizio del servizio, oltre 12 mesi opzionali di eventuale rinnovo, ai sensi dell’art. 29 del D.Lgs. 163/2006 e s.m.i.».
c) il capitolato speciale di appalto (art. 3, pag. 2) dispone, con riferimento alla durata contrattuale, che «Il contratto avrà la durata di 3 (tre) anni, decorrenti, dalla sua sottoscrizione. L’Azienda si riserva la facoltà, qualora ne ravvisi l’opportunità, di chiedere all’aggiudicatario la prosecuzione del servizio per i tempi necessari per l’indizione ed all’aggiudicazione di una nuova procedura di gara, e comunque non oltre un anno dalla data di scadenza del contratto».
d) i tre atti, quindi, contengono chiaramente precisazioni diverse tra loro: il bando non fa alcun cenno alla possibilità di proroga, il disciplinare la prevede in via eventuale e la fissa in un anno, il capitolato speciale la prevede come mera facoltà per la stazione appaltante per un periodo non tassativamente determinato, che può arrivare fino ad un anno.
4.2. In presenza di clausole del suddetto tenore, che contrastano l’una con le altre, non può condividersi la tesi della stazione appaltante secondo cui negli atti di gara non vi sarebbe stata né incertezza, né ambiguità in merito alla durata dell’appalto.
4.3. Sussiste in capo all’amministrazione che indice la gara l’obbligo di chiarezza (espressione del più generale principio di buona fede), la cui violazione comporta – in applicazione del principio di autoresponsabilità – che le conseguenze derivanti dalla presenza di clausole contraddittorie nella lex specialis di gara non possono ricadere sul concorrente che, in modo incolpevole, abbia fatto affidamento su di esse.
4.4. Il bando, il disciplinare di gara e il capitolato speciale d’appalto costituiscono, insieme, la lex specialis della gara ed hanno carattere vincolante non solo nei confronti dei concorrenti, ma anche dell’Amministrazione appaltante.
4.5. Gli atti della gara in questione – pur non essendo stati redatti in modo chiaro – vanno complessivamente interpretati nel loro senso letterale, attribuendo rilievo decisivo al fatto che il bando ha fissato il termine di «durata del contratto» in 36 mesi, pur prevedendo la «possibilità» della proroga per un anno.
4.6. Le partecipanti alla gara non avevano alcun onere di effettuare calcoli aritmetici per accertare se da altre previsioni del bando si sarebbe dovuta desumere una durata invece quadriennale del contratto: poiché grava sulla stazione appaltante il clare loqui, risulta del tutto ragionevole l’interpretazione del bando sulla durata triennale del contratto, rispetto alla quale l’Amministrazione avrebbe dovuto effettuare tutte le proprie valutazioni.
4.7. La richiamata previsione del bando, del resto, in ogni caso va considerata prevalente rispetto alle non univoche previsioni da esso richiamate, poiché – per la costante giurisprudenza – le disposizioni del capitolato speciale di appalto e quelle del disciplinare possono solo integrare, ma non modificare, quelle poste dal bando (cfr., tra le tante, Cons. Stato Sez. V 9 ottobre 2015 n. 4684; Cons. Stato Sez. IV, 3 maggio 2016, n. 1716; Cons. Stato Sez. V, 13 maggio 2014, n. 2248; Cons. Stato Sez. V, 24 gennaio 2013, n. 439).
4.8. Quanto alla non convenienza dell’offerta, in quanto superiore al prezzo pubblicato sull’Osservatorio, va rilevato che la non sostenibilità dell’impegno economico non poteva giustificare l’esclusione dalla gara della concorrente, potendo invece consentire l’adozione di altro genere di rimedi, quale, ad esempio, la revoca della gara (ovvero il suo annullamento, nel caso di rilevazione di un errore materiale in cui sia incorsa l’autorità nella predisposizione degli atti precedenti di indizione della gara).
5. La Stazione Unica appaltante, con provvedimento del 29 agosto 2016, anziché concludere la gara, ha disposto l’annullamento d’ufficio dei decreti n. 15575 del 15 novembre 2013 e n. 10959 del 13.10.2015, rispettivamente di indizione della gara e del decreto di approvazione degli atti di gara, entrambi nella parte relativa al Lotto n. 4, concernente il servizio di ristorazione dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza.
Il provvedimento di autotutela ha richiamato, riportandone anche i passaggi motivazionali essenziali, le sentenze del T.a.r. Calabria (n. 1730/2015) e del Consiglio di Stato (n. 2497/2016), che avevano annullato il provvedimento di esclusione dalla gara, e ha dato atto della contraddittorietà (accertata dal giudicato) tra gli atti costituenti l’insieme della lex specialis. In particolare, l’annullamento d’ufficio è stato motivato sulla base delle seguenti considerazioni:
a) il “principio costituzionale del buon andamento […] impegna la pubblica amministrazione ad adottare atti il più possibile rispondenti ai fini da conseguire”; b) è “in re ipsa l’interesse pubblico all’annullamento di un’aggiudicazione inficiata da errori materiali, ciò potendo impedire fra l’altro sia l’esborso di denaro pubblico in violazione di norme anche procedimentali e di evidenza pubblica, sia la violazione dei principi di legalità e buon andamento, cui deve essere improntata l’attività dell’Amministrazione ai sensi dell’art. 97 Cost.”.
6. La Cascina Global Service s.r.l. e Cardamone Group s.r.l. hanno impugnato tale provvedimento, deducendone l’illegittimità e chiedendo l’annullamento, oltre che la condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni.
7. Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, in primo grado, ha respinto la domanda demolitoria ed ha, invece, accolto (sia pure in parte) la domanda, formulata in via subordinata dalle ricorrenti, tesa ad ottenere il risarcimento dei danni a titolo di responsabilità precontrattuale per violazione degli obblighi di buona fede incombenti sulle parti nel corso delle trattative.
8. Avverso la sentenza hanno interposto separati appelli sia la Regione Calabria che la Cascina Global Service S.r.l. - Cardamone Group S.r.l.
9. Con sentenza non definitiva 24 novembre 2017, n. 5491, la Sezione Terza del Consiglio di Stato ha:
a) riunito, ex art. 96, comma 1, Cod. proc. amm., i due appelli, avendo gli stessi ad oggetto la medesima sentenza.
b) rigettato i motivi dell’appello di Cascina Global Service S.r.l. e Cardamone Group S.r.l. concernenti il capo della sentenza con la quale il Tribunale amministrativo regionale aveva respinto la domanda di annullamento dei provvedimenti impugnati a mezzo del ricorso introduttivo;
c) sospeso il giudizio in ordine ai rimanenti motivi concernenti l’an e il quantum del disposto risarcimento;
d) dato avviso che con separata ordinanza sarebbe stata richiesto l’intervento dell’Adunanza Plenaria, dirimente ai fini della decisione dell’intero gravame proposto dalla Regione Calabria, nonché di parte del gravame proposto Cascina Global Service S.r.l. e Cardamone Group S.r.l.
10. Con l’ordinanza collegiale 24 novembre 2017, n. 515, la Terza Sezione ha rimesso all’Adunanza plenaria i seguenti quesiti:
“1. Se la responsabilità precontrattuale sia o meno configurabile anteriormente alla scelta del contraente, vale a dire della sua individuazione, allorché gli aspiranti alla posizione di contraenti sono solo partecipanti ad una gara e possono vantare un interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione;
2. Se, nel caso di risposta affermativa, la responsabilità precontrattuale debba riguardare esclusivamente il comportamento dell’amministrazione anteriore al bando, che ha fatto sì che quest’ultimo venisse comunque pubblicato nonostante fosse conosciuto, o dovesse essere conosciuto, che non ve ne erano i presupposti indefettibili, ovvero debba estendersi a qualsiasi comportamento successivo all’emanazione del bando e attinente alla procedura di evidenza pubblica, che ne ponga nel nulla gli effetti o ne ritardi l’eliminazione o la conclusione”.
11. La Sezione rimettente ha rilevato che sulla questione sussiste un contrasto giurisprudenziale che richiede un intervento nomofilattico dell’Adunanza Plenaria.
12. Ha ricordato che alcune pronunce del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. VI, 25 luglio 2012, n. 4236; Cons. Stato, sez. VI, 7 novembre 2012, n. 5638; Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3831), hanno sostenuto la tesi (fatta propria anche dalla Corte di Cassazione: Cass. civ., sez. I, 3 luglio 2014, n. 15260) secondo cui la responsabilità precontrattuale è configurabile anche nella fase che precede la scelta del contraente, e, quindi, prima e a prescindere dall’aggiudicazione.
13. La Sezione ha, tuttavia, dato atto dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale successivo (Cons. Stato, sez. V, 21 agosto 2014 n. 4272; Cons. Stato, sez. III, 29 luglio 2015, n. 3748; Cons. Stato Sez. V, 21 aprile 2016, n. 1599; Cons. Stato, sez. V, 8 novembre 2017, n. 5146), secondo cui la responsabilità precontrattuale della Pubblica amministrazione è connessa alla violazione delle regole di condotta tipiche della formazione del contratto e, quindi, non può che riguardare fatti svoltisi in tale fase; perciò la responsabilità precontrattuale non sarebbe configurabile anteriormente alla scelta del contraente, vale a dire della sua individuazione, allorché gli aspiranti alla posizione di contraenti sono solo partecipanti ad una gara e possono vantare solo un interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della Pubblica amministrazione.
14. L’ordinanza di rimessione ha mostrato di aderire a tale secondo orientamento, di carattere più restrittivo.
15. A sostegno di tale conclusione, il giudice rimettente ha richiamato, in sintesi, i seguenti argomenti.
15.1. Innanzitutto, l’ordinanza di rimessione muove dalla qualificazione civilistica del bando di gara alla stregua di un’offerta al pubblico, rivolta ad una generalità indeterminata di destinatari (art. 1336 cod. civ.). Nel caso peculiare della gara, l’offerta di contratto è subordinata al superamento di una procedura di evidenza pubblica, all’esito della quale, non tutti, ma solo un soggetto potrà addivenire alla stipula del contratto, in guisa che sarebbe più appropriato qualificare la gara, nel suo esordio procedimentale, quale proposta di contratto in incertam personam.
15.2. Il giudice rimettente nega, inoltre, la possibilità di ravvisare una “trattativa” durante la fase pubblicistica dell’evidenza pubblica, essendo quest’ultima semplicemente una competizione intercorrente fra gli operatori economici sulla base di criteri preventivamente dettati dall’Amministrazione, finalizzata alla scelta del miglior offerente, unico soggetto ammesso a stipulare.
15.3. Pur riconoscendo l’instaurazione di un “contatto sociale” tra l’aspirante appaltatore e l’amministrazione procedente, la Sezione rimettente ritiene che esso sarebbe unicamente governato da regole di procedura pubblicistiche, imposte dalla la legge e dalla lex specialis di gara, non da trattative.
Durante tale fase pubblicistica, invero, l’unico atto che è dato rinvenire e sussumere nel concetto di “trattative” o di “formazione del contratto”, è l’iniziale proposta di contratto in incertam personam, veicolata attraverso il bando.
Per essa varrebbe, tuttavia, una disciplina affatto peculiare che, già sul piano civilistico, non darebbe rilievo alcuno alla buona fede dei destinatari, in assenza di concorrenti profili di illeceità nel comportamento del proponente. La proposta di contratto in incertam personam potrebbe, infatti, essere revocata (art. 1336, secondo comma, cod. civ.) senza soggiacere – proprio in ragione della indeterminatezza dei destinatari, e a differenza di quanto previsto per la proposta di contratto nei confronti di soggetti determinati (1328 cod. civ.) – alla regola per la quale “se l’accettante ne ha intrapreso l’esecuzione (ndr: del contratto) prima di avere notizia della revoca, il proponente è tenuto ad indennizzarlo delle spese e delle perdite subite per l’iniziata esecuzione del contratto”.
La proposta di contratto in incertam personam sarebbe, in altri termini, sempre revocabile, purché la revoca sia stata fatta nella “stessa forma o in forma equipollente” (1336, secondo comma, cod. civ.) senza che ciò possa dare luogo ad indennizzi.
La giustificazione di ciò sarebbe da rivenirsi, prosegue l’ordinanza di rimessione, nella circostanza che nell’offerta al pubblico, a differenza della proposta individualizzata di contratto, la collettività o la platea indeterminata di aspiranti contraenti non riveste una posizione equiparabile a quella dell’oblato. Dunque, se non c’è malafede o colpa del proponente nel disporre la revoca, la sola buona fede dell’aspirante contraente non può giustificare alcuna forma di ristoro economico.
15.4. Secondo il Collegio rimettente, quindi, in questo ambito assumerebbe un rilievo assorbente la fase pubblicistica della competizione, elemento peculiare che mal si coniugherebbe con i riferimenti di cui all’art. 1337 cod. civ. (“trattative” e “formazione del contratto”).
La fase pubblicistica della competizione, caratterizzante l’attività contrattuale dell’amministrazione, rimarrebbe estranea alla formazione del contratto, poiché essa sarebbe strumentale all’individuazione del soggetto che ne costituirà parte, in assenza del quale neanche sarebbe ipotizzabile discorrere di “formazione di un contratto” (o di “trattative”).
15.5. Né varrebbe obiettare che, attraverso la partecipazione alla procedura, gli aspiranti diventerebbero determinati e conoscibili. L’obiezione non sposterebbe i termini della questione, poiché in questo caso la previa conoscenza degli aspiranti da parte del proponente sarebbe soltanto finalizzata alla valutazione dei requisiti e della conformità e bontà di quanto prospettato in sede di domanda di partecipazione rispetto ai desiderata dell’Amministrazione, nel quadro di una competizione in cui gli aspiranti non sarebbero “oblati”, bensì gareggierebbero per diventarlo.
15.6. In assenza dell’aggiudicazione, la buona fede del proponente potrebbe al più essere vagliata e giudicata con esclusivo riguardo al momento della formulazione della proposta. Solo ove si dimostri che al momento del bando, l’Amministrazione era già consapevole di non poter portare avanti la proposta di contratto ad incertam personam (ad esempio, per insussistenza dei fondi, per impossibilità della prestazione, etc.), il comportamento, in quanto afferente ad un elemento prenegoziale qual è la proposta, e quindi in ultima analisi alle trattative, potrebbe sussumersi nel disposto dell’art. 1337 cod. civ. ed estendersi a tutti i soggetti (inutilmente) partecipanti alla procedura.
In questa logica, dalla responsabilità precontrattuale per violazione della buona fede nelle “trattative” nei confronti di tutti i partecipanti dovrebbero, però, escludersi tutti i casi di autoannullamento della procedura per vizi di legittimità, di revoca per sopravvenuti motivi o di ritardo nell’adozione di tali atti, oltre che, più in generale, tutti i casi errore nella conduzione della procedura, rilevanti esclusivamente nei confronti dell’aggiudicatario, in quanto – questi sì – ricadenti nel procedimento di “formazione” del contratto.
16. In vista dell’udienza di discussione dinnanzi all’Adunanza plenaria, le parti hanno depositato memorie difensive a sostegno delle rispettive posizioni.
17. Alla pubblica udienza del 14 marzo 2018 la causa è stata trattenuta la decisione.
DIRITTO
18. L’Adunanza plenaria ritiene che le questioni rimesse dalla Sezione Terza debbano essere risolte nel senso che: a) il dovere di correttezza e di buona fede oggettiva (e la conseguente responsabilità precontrattuale derivante dalla loro violazione) sia configurabile in capo all’Amministrazione anche prima e a prescindere dall’adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva; b) tale responsabilità sia configurabile senza che possa riconoscersi rilevanza alla circostanza che la scorrettezza maturi anteriormente alla pubblicazione del bando oppure intervenga nel corso della procedura di gara.
19. La contraria tesi, verso cui propende l’ordinanza di rimessione (e la giurisprudenza in essa richiamata), muove dalla premessa teorica che il dovere di correttezza e di buona fede trovi il suo presupposto in una “trattativa” già in stato avanzato, tale da far sorgere un ragionevole affidamento nella conclusione del contratto (la c.d. “trattativa affidante”). In questa prospettiva, invero, si giustifica la conclusione secondo cui, nelle procedure ad evidenza pubblica, è soltanto l’aggiudicazione (definitiva) il momento a partire dal quale il partecipante alla gara può fare un ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto e, dunque, può dolersi del “recesso” ingiustificato dalle trattative che la stazione appaltante abbia posto in essere attraverso l’esercizio dei poteri di autotutela pubblicistici sugli atti di gara.
20. Tale premessa teorica sembra, in effetti, trovare un supporto nella formulazione testuale dell’art. 1337 cod. civ., che pone il dovere di correttezza in capo alle “parti” della “trattativa” e del “procedimento di formazione del contratto”, a maggior ragione se tale norma viene letta alla luce dell’intenzione del legislatore storico, quale emergente dalla Relazione al Codice civile (paragrafo n. 612). Nell’intenzione originaria dei compilatori del codice civile del 1942, l’art. 1337 cod. civ. rappresentava un’espressione tipica della c.d. solidarietà corporativa, vale a dire di quel tipo di solidarietà che, come esplicitato nel citato paragrafo delle relazione illustrativa, unisce tutti i fattori di produzione verso la realizzazione della massima produzione nazionale.
L’originario legame che il legislatore storico aveva inteso instaurare tra il dovere di correttezza e i valori della c.d. solidarietà corporativa trovava una ancora più manifesta enfasi nell’art. 1175 c.c. che, nel prevedere il dovere di comportarsi secondo correttezza in capo ad entrambe le parti del rapporto obbligatorio, nella sua originaria formulazione (poi modificata dall’art. 3, secondo comma, del decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 287), richiamava testualmente “le regole della correttezza in relazione ai principi della solidarietà corporativa”.
21. Come è stato osservato in dottrina, rispetto al dovere di correttezza precontrattuale di cui all’art. 1337 cod. civ., la reazione negativa del legislatore nei confronti della attività prenegoziale di una delle parti trovava, dunque, la sua principale ragion d’essere nel fatto che quest’ultima, interrompendo la trattativa, impediva la nascita di quei valori meritevoli di tutela che il contratto (sfumato o invalidamente concluso) avrebbe perseguito.
Va richiamata, in questa prospettiva, anche l’originaria (e ormai anch’essa abbandonata) concezione della causa del contratto come funzione socio-economica, che postulava l’idea che l’autonomia negoziale dovesse necessariamente perseguire una funzione (non solo individualmente, ma) anche socialmente utile. Idea ulteriormente ribadita dall’art. 1322, secondo comma, cod. civ., che, nel riconoscere all’autonomia negoziale la possibilità di concludere contratti anche diversi dai tipi normativi, subordina(va), tuttavia, tale riconoscimento alla condizione, ulteriore rispetto alla mera liceità, che il contratto fosse comunque diretto a perseguire “interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.
L’originario significato di tale previsione è ben esplicitato, ancora un volta, dalla Relazione al Re in cui si legge (par. n. 603): “l’ordine giuridico, infatti, non può apprestare protezione al mero capriccio individuale, ma a funzioni utili, che abbiano una rilevanza sociale e, come tali, meritino di essere tutelate dal diritto”.
22. Nel contesto così descritto, i valori della dignità umana e della libertà, sia pur presenti, restavano, di fatto, assorbiti dal prius dell’interesse economico nazionale e dell’utilità sociale.
Queste considerazioni consentono di individuare la ratio “storica” degli articoli 1337 e 1338 cod. civ. L’ordinamento (codicistico), non essendosi attuato uno scambio economico meritevole di protezione, interveniva per ripristinare la situazione patrimoniale lesa. È manifesto, in tale impostazione, l’afflato economicistico e produttivistico: si apprestano strumenti risarcitori di fronte all’inutilizzazione (mancata conclusione del contratto) od allo sperpero (contratto invalido) di valori patrimoniali.
In questa ricostruzione storica, non è irrilevante sottolineare che la “positivizzazione” che gli articoli 1337 e 1338 cod. civ hanno dato alla c.d. responsabilità precontrattuale aveva rappresentato una novità rispetto al codice previgente, nel vigore del quale, la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, influenzate dal “dogma volontaristico”, avevano per molto tempo ritenuto che il recesso dalle trattative fosse un diritto che non potesse essere sindacato e tanto meno dare vita all’obbligo di risarcire i danni all’altro contraente.
La specifica attenzione che il codice civile del 1942 volle, invece, dedicare al dovere di correttezza precontrattuale, e alla conseguente responsabilità derivante dalla sua trasgressione, si spiegava, quindi, proprio alla luce dello stretto rapporto esistente tra i dovere di correttezza precontrattuale e i valori della c.d. solidarietà corporativa.
23. È tuttavia noto come il superamento dell’ordinamento corporativo (e con esso del regime e della cornice ideologica nell’ambito del quale è maturato il codice civile del 1942), e il successivo avvento della Costituzione repubblicana abbiano determinato l’avvio di un processo (cui hanno contribuito tanto la dottrina quanto la giurisprudenza civilistica) di rilettura e rivisitazione, in un’ottica costituzionalmente orientata, di numerose disposizioni codicistiche, specie di quelle che, come l’art. 1337 cod. civ., utilizzano “clausole generali” (la buona fede appunto), destinate, per loro stessa natura, ad adeguarsi ai mutamenti che interessano l’ordinamento giuridico e la società civile.
Nel mutato quadro costituzionale, è affermazione largamente condivisa quella secondo cui il dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede rappresenta una manifestazione del più generale dovere di solidarietà sociale che trova il suo principale fondamento nell’articolo 2 della Costituzione (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. I, 12 luglio 2016, n. 14188).
24. Il generale dovere di solidarietà che grava reciprocamente su tutti i membri della collettività, si intensifica e si rafforza, trasformandosi in dovere di correttezza e di protezione, quando tra i consociati si instaurano “momenti relazionali” socialmente o giuridicamente qualificati, tali da generare, unilateralmente o, talvolta, anche reciprocamente, ragionevoli affidamenti sull’altrui condotta corretta e protettiva.
La teoria del “contatto sociale qualificato” – in disparte, in questa sede, la questione ampiamente dibattuta, se ed a quale condizioni il contatto possa assurgere a fonte “atipica” di obbligazione – ha avuto il merito di avere messo bene in luce il legame esistente tra l’ambito e il contenuto dei doveri di protezione e correttezza, da un lato, e il grado di intensità del momento relazionale e del conseguente affidamento da questo ingenerato, dall’altro.
Un ricorrente elemento che contribuisce a qualificare il contatto sociale come fonte di doveri puntuali di correttezza a tutela dell’altrui affidamento è certamente rappresentato dal particolare status – professionale e, talvolta, pubblicistico – rivestito dai protagonisti della vicenda “relazionale”.
Da chi esercita, ad esempio, un’attività professionale “protetta” (ancor di più se essa costituisce anche un servizio pubblico o un servizio di pubblica necessità) e, a maggior ragione, da chi esercita una funzione amministrativa, costituzionalmente sottoposta ai principi di imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.), il cittadino si aspetta uno sforzo maggiore, in termini di correttezza, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento, rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de populo.
25. Nella moderna lettura costituzionalmente orientata, il dovere di correttezza ha così conquistato una funzione (ed un conseguente ambito applicativo) certamente più ampia rispetto a quella concepita dal codice civile del 1942.
La “funzione” del dovere di correttezza non è più tanto (o solo) quella di favorire la conclusione di un contratto (valido) e socialmente utile. Nel disegno costituzionale, che pone al centro l’individuo (art. 2 Cost.), l’attenzione si sposta dal perseguimento dell’utilità sociale alla tutela della persona e delle sue libertà.
In particolare, come la giurisprudenza civile ha in più occasioni avuto modo di evidenziare, il dovere di correttezza (nella sue proteiformi manifestazioni concrete) è, nella maggior parte dei casi, strumentale alla tutela della libertà di autodeterminazione negoziale, cioè di quel diritto (espressione a sua volta del principio costituzionale che tutela la libertà di iniziativa economica) di autodeterminarsi liberamente nelle proprie scelte negoziali, senza subire interferenza illecite derivante da condotte di terzi connotate da slealtà e scorrettezza.
26. Il nuovo legame che così si instaura tra dovere di correttezza e libertà di autodeterminazione negoziale (che va a sostituire l’impostazione precedente che legava alla correttezza la tutela dell’interesse nazionale) impedisce allora di restringerne lo spazio applicativo alle sole situazioni in cui sia stato avviato un vero e proprio procedimento di formazione del contratto o, comunque, esista una trattativa che abbia raggiunto già una fase molto avanzata, tanto da far sorgere il ragionevole affidamento circa la conclusione del contratto.
Al contrario, la valenza costituzionale del dovere di correttezza impone di ritenerlo operante in un più vasto ambito di casi, in cui, pur eventualmente mancando una trattativa in senso tecnico-giuridico, venga, comunque, in rilievo una situazione “relazionale” qualificata, capace di generare ragionevoli affidamenti e fondate aspettative.
Si potrà discutere se, ed eventualmente in quali casi, a seconda dell’intensità e della pregnanza del momento relazionale e della forza dell’affidamento da esso ingenerato, la correttezza continui a rilevare come mera modalità comportamentale la cui violazione dà vita ad un illecito riconducibile al generale dovere del neminen laedere di cui all’art. 2043 cod. civ., o diventi l’oggetto di una vera e propria obbligazione nascente dal “contatto sociale” qualificato. La questione, non direttamente rilevante in questo giudizio (non essendo investita dai quesiti sollevati dall’ordinanza di rimessione), è oggetto di un dibattito giurisprudenziale e dottrinale dai risultati così controversi, da rendere inopportuno, in questa sede, ogni ulteriore approfondimento.
27. Quello che, invece, preme sottolineare è che, a giudizio di questa Adunanza Plenaria, l’attuale portata del dovere di correttezza è oggi tale da prescindere dall’esistenza di una formale “trattativa” e, a maggior ragione, dall’ulteriore requisito che tale trattativa abbia raggiunto un livello così avanzato da generare una fondata aspettativa in ordine alla conclusione del contratto.
Ciò che il dovere di correttezza mira a tutelare non è, infatti, la conclusione del contratto, ma la libertà di autodeterminazione negoziale: tant’è che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il relativo danno risarcibile non è mai commisurato alle utilità che sarebbero derivate dal contratto sfumato, ma al c.d. interesse negativo (l’interesse appunto a non subire indebite interferenze nell’esercizio della libertà negoziale) o, eventualmente, in casi particolari, al c.d. interesse positivo virtuale (la differenza tra l’utilità economica ricavabile dal contratto effettivamente concluso e il diverso più e più vantaggioso contratto che sarebbe stato concluso in assenza dell’altrui scorrettezza).
28. A favore di questa nuova accezione del dovere di correttezza, prevalentemente legato alla tutela della libertà negoziale (o, comunque, di profili della sfera personale o patrimoniale dell’individuo), si possono richiamare numerosi formanti giurisprudenziali.
29. In primo luogo, la tesi che il dovere di correttezza non sia diretto solo a favorire l’utile conclusione della trattativa (con un contratto valido) trova conferma nell’orientamento accolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 19 dicembre 2017, n. 26725, che ha ritenuto configurabile la c.d. responsabilità precontrattuale da contratto valido ma svantaggioso. È il caso in cui il comportamento sleale non ha reso la trattativa inutile (perché il contratto è stato validamente concluso), ma il contraente che ha subito la scorrettezza (ad es. una reticenza informativa antidoverosa), lamenta che a causa di tale slealtà ha concluso un contratto (valido ma) economicamente pregiudizievole.
La citata sentenza delle Sezioni unite, in particolare, ha espressamente affermato che l’art. 1337 cod. civ. non si riferisce alla sola ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative, ma ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso ed implica il dovere di trattate in modo leale, astenendosi da comportamento maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza ai fini della stipulazione del contratto. Ne consegue che la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non solo in caso di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto o di un contratto invalido o inefficace, ma anche nel caso in cui il contratto concluso sia valido e, tuttavia, risulti pregiudizievole per la parte vittima dell’altrui comportamento scorretto; ed in siffatta ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio ovvero al maggio aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente conseguenziale e diretto.
30. Ancora, la giurisprudenza civile ha individuato ipotesi in cui la c.d. responsabilità precontrattuale sussiste anche in capo al terzo, ravvisando, a certe condizioni – normalmente rappresentate dallo status professionale qualificato del terzo (intermediari finanziari, banche, professionisti, società di revisione) o, comunque, dal fatto che il terzo abbia un interesse qualificato alla positiva conclusione della trattativa – l’esistenza di un dovere di correttezza anche in capo a colui che non è “parte” rispetto ad una trattativa che si svolge inter alios.
30.1. Si fa riferimento, ad esempio, alla responsabilità da prospetto non veritiero, riconosciuta non solo (come accadeva in origine) in capo ai soggetti (società e amministratori in primo luogo) da cui promana il documento informativo rivelatosi falso o inattendibile, ma anche in capo agli intermediari finanziari (terzi rispetto alla trattativa e al futuro contratto di acquisto delle azioni) che sottoscrivano il prospetto accreditandolo presso gli investitori (cfr. Cass. Sez. Un. 8 aprile 2011, n. 8034).
30.2. Similmente, la responsabilità precontrattuale del terzo estraneo alla trattativa è stata ravvisata con riferimento alle c.d. lettere di patronage deboli, aventi contenuto meramente informativo (ad es. circa l’esistenza della posizione di influenza e circa le condizioni patrimoniali, economiche e finanziarie del patrocinato). Il patrocinante viene, infatti, ad inserirsi nello svolgimento di trattative avviate tra altri soggetti proprio al fine di agevolarne la positiva conclusione, creando così ragionevoli aspettative sul buon esito dell’operazione; la sua posizione è quindi ben diversa da quella di un terzo che “accidentalmente” venga ad interferire in una vicenda precontrattuale a lui estranea, e tale diversità è sufficiente a giustificare l’applicazione di quelle regole di diligenza, di correttezza e di buona fede, dettate proprio al fine di evitare che gli interessi di quanti partecipano alle trattative possano essere pregiudicati da comportamenti altrui scorretti (art. 1337 cod. civ.) o anche negligenti (art. 1338 cod. civ.) (in questi termini, ad esempio, Cass. civ., sez. I, 27 settembre 1995, n. 10235).
30.3. In questa prospettiva, merita di essere segnalata anche la giurisprudenza che ha riconosciuto la responsabilità civile della società di revisione per erronea certificazione dello stato patrimoniale di una società (compiuta su incarico di quest’ultima) nei confronti di acquirenti di quote societarie, che non avrebbero stipulato il contratto, ove avessero conosciuto il reale ed inferiore valore della società (cfr. Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2012, n. 10403).
31. Non va, inoltre, dimenticato che da sempre la giurisprudenza individua doveri di correttezza precontrattuale che trascendono il recesso dalle trattative (o la mancata comunicazione di cause di invalidità di cui all’art. 1338 cod. civ.). Si pensi ad esempio alle ipotesi di responsabilità precontrattuale per violazione dei doveri di riservatezza (per aver rivelato informazioni riservate acquisite durante la trattativa, a prescindere dal suo livello di avanzamento) o di custodia (nei casi in cui, ad esempio, ad una parte della trattativa è data la possibilità di visionare e di usare il bene oggetto dell’eventuale contratto). Nell’uno e nell’altro caso, la scorrettezza precontrattuale non incide sulla conclusione del contratto, ma sulla tutela dei diritti patrimoniali e personali dell’altra “parte” della trattiva.
32. Questo progressivo ampliamento del dovere di correttezza (anche a prescindere dall’esistenza di una trattativa precontrattuale in senso stretto) ha trovato riscontro anche rispetto all’attività autoritativa della pubblica amministrazione sottoposta al regime del procedimento amministrativo, quando a dolersi della scorrettezza è proprio il privato che partecipa al procedimento.
La giurisprudenza, sia civile che amministrativa, ha, infatti, in più occasioni affermato che anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza (cfr., fra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 6 febbraio 2013, n. 633; Cons. Stato, sez. IV, 6 marzo 2015, n. 1142; Cons. Stato, ad. plen., 5 settembre 2005, n. 6; Cass. civ., sez. un. 12 maggio 2008, n. 11656; Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2015, n. 9636; Cass. civ., sez. I, 3 luglio 2014, n. 15250).
Da qui l’ordinaria possibilità che una responsabilità da comportamento scorretto sussista nonostante la legittimità del provvedimento amministrativo che conclude il procedimento.
33. Come è stato efficacemente rilevato in dottrina, in questi casi il provvedimento amministrativo è un frammento legittimo di un mosaico connotato da una condotta complessivamente superficiale, violativa dei più elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo privatistico. Si tratta, in altri termini, di una responsabilità da comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale.
34. Nell’ambito del procedimento amministrativo (e del procedimento di evidenza pubblica in particolare) regole pubblicistiche e regole privatistiche non operano, dunque, in sequenza temporale (prime le une e poi le altre o anche le altre). Operano, al contrario, in maniera contemporanea e sinergica, sia pure con diverso oggetto e con diverse conseguenze in caso di rispettiva violazione.
Le regole di diritto pubblico hanno ad oggetto il provvedimento (l’esercizio diretto ed immediato del potere) e la loro violazione determina, di regola, l’invalidità del provvedimento adottato. Al contrario, la regole di diritto privato hanno ad oggetto il comportamento (collegato in via indiretta e mediata all’esercizio del potere) complessivamente tenuto dalla stazione appaltante nel corso della gara. La loro violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità. Non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento), ma regole di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto).
35. In tale direzione si inserisce il recente orientamento giurisprudenziale con il quale le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno ammesso, ad esempio, la configurabilità (anche al di fuori dall’ambito dei procedimenti amministrativi finalizzati alla conclusione di un contratto) di una responsabilità dell’amministrazione da provvedimento favorevole poi annullato in via giurisdizionale o per autotutela (cfr. Cass. civ., sez. un., ordinanze “gemelle” 23 maggio 2011, nn. 6594, 6595, 6596; Cass. civ., sez. un., 22 gennaio 2015, n. 1162 e Cass. civ., sez. un., 4 settembre 2015, n. 17586).
In tali pronunce si afferma chiaramente che nei casi in cui, successivamente alla rimozione del provvedimento favorevole, il privato beneficiario prospetti di aver subito un danno ingiusto per avere confidato nella legittimità del provvedimento ed aver regolato la sua azione in base ad esso, la relativa responsabilità dell’amministrazione si connota come responsabilità da comportamento da violazione del diritto soggettivo all’integrità patrimoniale (recte: alla libertà di autodeterminazione negoziale). Il privato, infatti, lamenta che l’agire scorretto dell’amministrazione ha ingenerato un affidamento incolpevole sulla legittimità del provvedimento attributivo del beneficio e, quindi, sulla legittimità della conseguente attività negoziale (onerosa per il patrimonio del privato) posta in essere in base al provvedimento. Attività che, invece, una volta venuto meno il provvedimento, si rivela, perché anch’essa travolta dalla sua illegittimità, come attività inutile e, quindi, fonte – in quanto onerosa – di perdite o mancati guadagni.
In questi casi, hanno precisato le Sezioni Unite, il provvedimento viene in considerazione come elemento di una più complessa fattispecie (di natura comportamentale) che è fonte di responsabilità solo se e nella misura in cui risulti oggettivamente idonea ad ingenerare un affidamento incolpevole, sì da indurlo a compiere attività e a sostenere costi incidenti sul suo patrimonio nel positivo convincimento della legittimità del provvedimento.
36. In questa prospettiva devono essere lette anche le sentenze con le quali la Corte di Cassazione, superando il precedente più restrittivo orientamento (espresso ad esempio da Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 2013, n. 477; Cass. civ., sez. III, 10 giugno 2015, n. 12313; Cass. civ., sez. un. 26 maggio 1997, n. 4673), ha espressamente affermato che il dovere di correttezza e buona fede (e l’eventuale responsabilità precontrattuale in caso di sua violazione) sussiste, prima e a prescindere dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica strumentale alla scelta del contraente, che si pone quale strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale nell’ambito di un sistema di “trattative (c.d. multiple o parallele) che determinano la costituzione di un rapporto giuridico sin dal momento della presentazione delle offerte, secondo un’impostazione che risulta rafforzata dalla irrevocabilità delle stesse” (cfr. Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2015, n. 9636; Cass. civ., sez. I, 3 luglio 2014, n. 15260; in termini, nella giurisprudenza amministrativa, cfr., fra le altre, Cons. Stato, sez. IV, 6 marzo 2015, n. 1142; Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3831).
La giurisprudenza in esame ha condivisibilmente precisato che “la disciplina in materia di culpa in contrahendo non necessita, infatti, di un rapporto personalizzato tra p.a. e privato, che troverebbe la sua unica fonte nel provvedimento di aggiudicazione, ma è posta a tutela del legittimo affidamento nella correttezza della controparte, che sorge sin dall’inizio del procedimento. Diversamente argomentando, l’interprete sarebbe invece costretto a scindere un comportamento che si presenta unitario e che conseguentemente non può che essere valutato nella sua complessità” (così testualmente Cass. civ., sez. un. n. 15260/2014, cit.).
37. Merita, in tale contesto, di essere richiamata anche la recente sentenza di questo Consiglio di Stato (sez. VI, 6 marzo 2018, n. 1457) che ha espressamente evocato un modello di pubblica amministrazione, come si è andato evolvendo nel diritto vivente, permeato dai principi di correttezza e buona amministrazione, desumibili dall’art. 97 della Costituzione. Un modello in cui, “alla tradizionale ed imprescindibile funzione di garanzia di legalità nel perseguimento dell’interesse pubblico, la funzione amministrativa viene a rivestire anche un ruolo di preminente importanza per la creazione di un contesto idoneo a consentire l’intrapresa di iniziative private, anche al fine di accrescere la competitività del Paese nell’attuale contesto internazionale, secondo la logica del confronto e del dialogo tra P.A. e cittadino”. In altri termini, precisa la citata sentenza, “l’evoluzione del modello costituzionale impone di tener conto che l’attività amministrativa produce sempre un “impatto” sulla sfera dei cittadini e delle imprese (ne è conferma l’emersione del principio di accountability)”.
38. Anche il legislatore, del resto, ha mostrato un’aperta adesione alla tesi secondo cui i doveri di correttezza e di lealtà gravano sulla pubblica amministrazione anche quando essa esercita poteri autoritativi sottoposti al regime del procedimento amministrativo.
39. Innanzitutto, l’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (nella versione risultante inseguito alla riforma introdotta dall’art. 1 della legge 11 febbraio 2015, n. 15) assoggetta l’attività amministrativa ai principi dell’ordinamento comunitario, tra i quali assume un rilievo primario la tutela dell’affidamento legittimo. È noto, infatti, come il principio della tutela dell’affidamento, sebbene non espressamente contemplato dai Trattati, sia stato più volte affermato dalla Corte di giustizia (a partire dalla sentenza Topfer del 3 maggio 1978, C-12/77), che lo ha elevato al rango di principio dell’ordinamento comunitario.
40. Sono, inoltre, emblematiche di tale tendenza tutte le riforme ispirate alla semplificazione e alla trasparenza dell’attività amministrativa, non ultima la l. n. 124 del 2015, intervenuta, tra le altre cose, sui presupposti del potere di autotutela, che deve sempre considerare l’affidamento del privato rispetto a un precedente provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica e sul quale basa una precisa strategia imprenditoriale (cfr. art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 25, comma 1, lettera b-quater, l. n. 164 del 2014, e poi dall’art. 6, comma 1, l. n. 124 del 2015; nonché l’art. 21-quinquies, come modificato dall’art. 25, comma 1, lettera b-ter , l. n. 164 del 2014).
41. Un esplicito richiamo, sebbene settoriale, al “principio della collaborazione e della buona fede” si trova poi nell’art. 10 dello Statuto del contribuente approvato con la legge n. 212 del 2000.
42. In maniera ancora più significativa rispetto alla questione oggetto del presente giudizio, l’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241/1990 (introdotto dall’art. 28, comma 10, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazione dalla legge 9 agosto 2013, n. 98), ha espressamente previsto che “le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Secondo l’interpretazione più accreditata, con tale norma il legislatore – superando per tabulas il diverso orientamento in passato espresso dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 15 settembre 2005, n. 7 – ha introdotto la risarcibilità (anche) del c.d. danno da mero ritardo, che si configura a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento (ad esempio, il diniego di autorizzazione o di altro provvedimento ampliativo adottato legittimamente, ma violando i termini di conclusione del procedimento).
Il danno deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale: il ritardo nell’adozione del provvedimento genera, infatti, una situazione di incertezza in capo al privato e può, dunque, indurlo a scelte negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni) che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l’adozione del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell’amministrazione.
Anche in questo caso viene, quindi, in rilievo un danno da comportamento, non da provvedimento: la violazione del termine di conclusione sul procedimento di per sé non determina, infatti, l’invalidità del provvedimento adottato in ritardo (tranne i casi eccezionali e tipici di termini “perentori”), ma rappresenta un comportamento scorretto dell’amministrazione, comportamento che genera incertezza e, dunque, interferisce illecitamente sulla libertà negoziale del privato, eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali.
43. Non si tratta, a differenza, dell’indennizzo forfettario introdotto in via sperimentale dal comma 1-bis dello stesso articolo 2-bis (inserito dall’art. 28, comma 9, del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 213, n. 98), di un ristoro automatico (collegato alla mera violazione del termine): è, infatti, onere del privato fornire la prova, oltre che del ritardo e dell’elemento soggettivo, del rapporto di causalità esistente tra la violazione del termine del procedimento e il compimento di scelte negoziali pregiudizievoli che non avrebbe altrimenti posto in essere.
La tesi secondo cui quello configurato dall’art. 2-bis, comma 1, rappresenti un’ipotesi tipica di danno da comportamento scorretto (il ritardo) lesivo di un diritto soggettivo (la libertà negoziale) trova, del resto, conferma nella previsione dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 1, Cod. proc. amm., che devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di “risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Alla luce della concezione c.d. rimediale del risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo (abbracciata dalla Corte costituzionale nella storica sentenza n. 204 del 2004 e ripresa dall’art. 7 del Codice del processo amministrativo), la previsione per il danno da ritardo della giurisdizione esclusiva implica necessariamente la (e si giustifica alla luce della) qualificazione in termini di diritto soggettivo della situazione giuridica lesa dal ritardo dell’amministrazione.
La tesi trova ulteriore conferma nell’articolo 2 della legge n. 241 del 1990, che sottrae il tempo del procedimento alla disponibilità dell’amministrazione e, di conseguenza, riconosce che la pretesa al rispetto del termine assume la consistenza di un diritto soggettivo (un modo di essere della libertà di autodeterminazione negoziale) a fronte della quale l’amministrazione non dispone di un potere ma è gravata da un obbligo.
44. Da tale quadro giurisprudenziale e normativo emerge, quindi, che i doveri di correttezza, lealtà e buona fede hanno un ampio campo applicativo, anche rispetto all’attività procedimentalizzata dell’amministrazione, operando pure nei procedimenti non finalizzati alla conclusione di un contratto con un privato.
In tale contesto, pertanto, risulterebbe eccessivamente restrittiva e, per molti versi contraddittoria, la tesi secondo cui, nell’ambito dei procedimenti di evidenza pubblica, i doveri di correttezza (e la conseguente responsabilità precontrattuale dell’amministrazione in caso di loro violazione) nascono solo dopo l’adozione del provvedimento di aggiudicazione.
Aderendo a tale impostazione, si finirebbero, infatti, per creare a favore del soggetto pubblico “zone franche” di responsabilità, introducendo in via pretoria un regime “speciale” e “privilegiato”, che si porrebbe in significativo contrasto con i principi generali dell’ordinamento civile e con la chiara tendenza al progressivo ampliamento dei doveri di correttezza emergente dal percorso giurisprudenziale e normativo di cui si è dato atto.
45. Non sono decisivi, in senso contrario, nemmeno gli argomenti strettamente civilistici che l’ordinanza di rimessione desume dalla considerazione secondo cui il bando di gara andrebbe qualificato alla stregua di un’offerta al pubblico, alla quale non sarebbe applicabile l’art. 1328, primo comma, cod. civ., che prevede, solo in capo a colui che revoca la proposta individualizzata, l’obbligo di indennizzare l’accettante in buona fede “delle spese e delle perdite subite per l’iniziata esecuzione del contratto”.
46. Va, in primo luogo, evidenziato che l’obbligo di indennizzo previsto dall’art. 1328, primo comma, cod. civ., a carico del revocante la proposta contrattuale non costituisce un’ipotesi di responsabilità precontrattuale, ma una forma di responsabilità da atto lecito dannoso: l’obbligo indennitario prescinde, infatti, dalla violazione delle regole di correttezza e sussiste solo per l’affidamento suscitato dalla proposta revocata. Il quantum dell’indennizzo, infatti, non copre interamente il danno subito, ma è circoscritto solo alle spese e alle perdite riconducibili all’inizio di esecuzione.
La responsabilità precontrattuale presuppone, invece, la violazione del dovere di correttezza ed è configurabile sia nella fase che precede la proposta, sia dopo la proposta (ancorché non vi sia stato inizio di esecuzione). In tal caso il risarcimento (a differenza dell’indennizzo di cui all’art. 1328, primo comma, cod. civ.) copre interamente il danno subito, normalmente correlato al c.d. interesse negativo.
L’inapplicabilità dell’art. 1328, primo comma, cod. civ. non è, pertanto, argomento di per sé sufficiente per escludere la configurabilità della responsabilità precontrattuale in caso di offerta al pubblico, in quanto la citata disposizione non disciplina un caso di responsabilità precontrattuale in senso proprio.
47. In ogni caso, la questione dell’applicabilità dell’art. 1328, primo comma, cod. civ. all’offerta al pubblico è ancora aperta nel dibattito civilistico: la questione è stata raramente affrontata in giurisprudenza, ma la dottrina prevalente, muovendo dall’assimilazione, desumibile dall’art. 1336 cod. civ., tra proposta individualizzata e offerta al pubblico, sostiene l’applicabilità della stessa regola, seppure con la precisazione che, in sede applicativa, dovrà essere valorizzata la peculiarità della situazione di affidamento in relazione alla tipologia di offerta e di contratto, con la conseguenza che in caso di offerta al pubblico la verifica della buona fede non potrà esaurirsi nella considerazione dell’ignoranza della revoca, ma estendersi alla valutazione della ragionevolezza e prudenza nella scelta di avvio dell’esecuzione.
48. Per ragioni analoghe a quelle fino ad ora esposte, merita di essere risolto in termini negativi anche il secondo quesito che l’ordinanza di rimessione ha posto all’attenzione di questa Adunanza plenaria, ovvero se la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione nella fase anteriore all’aggiudicazione debba riguardare esclusivamente il comportamento anteriore al bando, e, quindi, debba essere circoscritta alle ipotesi in cui l’amministrazione ha fatto sì che il bando venisse pubblicato nonostante fosse conosciuto o conoscibile che non vi erano i presupposti indefettibili.
49. La limitazione, prospettata (in via subordinata) dall’ordinanza di rimessione, della responsabilità dell’amministrazione ai soli comportamenti anteriori al bando è volta ad introdurre, aprioristicamente e in astratto, limitazioni di responsabilità che non trovano fondamento normativo e che contrastano con l’atipicità (delle modalità di condotta) che caratterizza l’illecito civile.
L’illecito civile si incentra sull’ingiusta lesione della situazione giuridica soggettiva (o, in caso di responsabilità contrattuale, sull’inadempimento dell’obbligazione), senza che assumano rilievo le specifiche modalità comportamentali che hanno determinato tale lesione (o l’inadempimento dell’obbligazione). È, dunque, mutuando una qualificazione penalistica, un illecito a forma libera e causalmente orientato.
Deve, pertanto, ritenersi che la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione possa configurarsi anche prima dell’aggiudicazione e possa derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede.
50. Le pur meritorie preoccupazioni (legate al timore di una estensione eccessiva e ingiustificata della responsabilità della p.a.), che hanno indotto la Sezione rimettente a sostenere la tesi restrittiva, non possono, quindi, essere affrontate introducendo aprioristiche e ingiustificate limitazioni di responsabilità, ma vanno superate attraverso una rigorosa verifica, da svolgersi necessariamente in concreto, circa l’effettiva sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie generatrice del diritto al risarcimento del danno.
51. A tal fine, è opportuno precisare che affinché nasca la responsabilità dell’amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose).
Oltre alla puntuale verifica dell’esistenza dell’affidamento incolpevole, occorrono gli ulteriori seguenti presupposti:
a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà;
b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo. Significativo, sotto tale profilo, lo spunto offerto, ai fini di una ricostruzione sistematica della responsabilità da comportamento scorretto, dal già richiamato art. 2-bis legge n. 241 del 1990, che, nel tipizzare uno specifico caso di scorrettezza procedimentale (il ritardo), ha espressamente previsto che l’inosservanza del termine (comportamento oggettivamente scorretto) è fonte di responsabilità solo se ne risulti il carattere doloso e colposo. È evidente, in tale previsione normativa, il richiamo all’art. 2043 c.c. e al relativo regime probatorio;
c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione. Occorre, dunque, che dimostri che il comportamento scorretto dell’amministrazione ha rappresentato, secondo la logica civilistica del “più probabile che non”, la condicio sine qua non della scelta negoziale rivelatasi dannosa e, quindi, del pregiudizio economico di cui chiede il risarcimento. In altri termini, il privato deve fornire la prova che quelle scelte negoziali non sarebbero state compiute ove l’amministrazione si fosse comportata correttamente.
52. La necessità di definire e accertare con rigore tali elementi costitutivi trova riscontro nella considerazione che il confine che segna la nascita della responsabilità precontrattuale rappresenta un delicato punto di equilibrio tra opposti valori meritevoli di tutela. Si tratta, per certi versi, del momento di incontro tra due diverse manifestazioni della stessa libertà negoziale: da un lato, quella di chi subisce il recesso dalle trattative (o, comunque, la lesione dell’affidamento sulla serietà delle stesse), dall’altro, la libertà contrattuale di chi, prima dell’insorgenza del vincolo contrattuale, decide di interrompere il procedimento di formazione del contratto.
Nel caso di contratti stipulati all’esito delle procedure di evidenza pubblica, inoltre, è in gioco, oltre alla libertà contrattuale della stazione appaltante, anche l’interesse pubblico alla cui tutela è preordinato l’esercizio dei poteri di autotutela provvedimentale sugli atti di gara.
Il punto di partenza, pertanto, non può che essere quello per cui chi entra in una trattativa precontrattuale (specie se condotta nelle forme del procedimento di evidenza pubblica, soggetto anche ai poteri di autotutela pubblicistici preordinati alla cura dell’interesse pubblico), si assume un ineliminabile margine di rischio in ordine alla conclusione del contratto. In altri termini, ciascuna parte che intraprende una trattativa (o partecipa ad un procedimento di gara) sa che è esposta ad un margine di rischio, che, in linea di principio, deriva dall’esercizio della libertà contrattuale di entrambe le parti, e quindi anche dal legittimo esercizio alla libertà contrattuale dell’amministrazione.
La principale conseguenza derivante dalla responsabilità precontrattuale è di modificare questa naturale allocazione dei rischi economici: l’insorgenza della responsabilità precontrattuale determina il trasferimento dei costi sostenuti per partecipare alla trattativa (o alla gara) da un soggetto ad un altro, cui è imputabile la scorrettezza.
Nella ricerca di questo delicato punto di equilibrio tra la libertà contrattuale della stazione appaltante e la discrezionalità nell’esercizio delle sue prerogative pubblicistiche da una parte, rispetto del limite della correttezza e della buona fede, dall’altro, è opportuno, allora, rimarcare puntualmente i sopra elencati elementi costitutivi della fattispecie generatrice di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione.
53. Nella stessa prospettiva, va sottolineato che lo stesso affidamento incolpevole del privato, oltre ad essere soltanto uno degli elementi della complessa fattispecie che perfeziona l’illecito, deve, peraltro, essere valutato tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e sempre considerando che nell’ambito del procedimento amministrativo (a maggior ragione in quello di evidenza pubblica cui partecipano operatori economici qualificati), il dovere di correttezza è un dovere reciproco, che grava, quindi, anche sul privato, a sua volta gravato da oneri di diligenza e di leale collaborazione verso l’Amministrazione.
54. Gli aspetti da considerare nel momento in cui si procede all’applicazione di tali principi (e si verifica, quindi, nel caso concreto, se effettivamente ricorrono gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità) sono molteplici e non predeterminabili in astratto, perché dipendono dalla innumerevoli variabili che possono, di volta in volta, connotare la specifica situazione.
Solo a titolo esemplificativo, si può, tuttavia, evidenziare la necessità di valutare con particolare attenzione in sede applicativa i seguenti profili, che rappresentano significativi sintomi in grado di condizionare il giudizio sull’esistenza dei sopra richiamati presupposti della responsabilità: a) il tipo di procedimento di evidenza pubblica che viene in rilievo (anche tenendo conto dei diversi margini di discrezionalità di cui la stazione appaltante dispone a seconda del criterio di aggiudicazione previsto dal bando); b) lo stato di avanzamento del procedimento rispetto al momento in cui interviene il ritiro degli atti di gara; c) il fatto che il privato abbia partecipato al procedimento e abbia, dunque, quanto meno presentato l’offerta (in assenza della quale le perdite eventualmente subite saranno difficilmente riconducibili, già sotto il profilo causale, a comportamenti scorretti tenuti nell’ambito di un procedimento al quale egli è rimasto estraneo); d) la conoscenza o, comunque, la conoscibilità, secondo l’onere di ordinaria diligenza richiamato anche dall’art. 1227, comma 2, cod. civ., da parte del privato dei vizi (di legittimità o di merito) che hanno determinato l’esercizio del potere di autotutela (anche tenendo conto del tradizionale principio civilistico, secondo cui non può considerarsi incolpevole l’affidamento che deriva dalla mancata conoscenza della norma imperativa violata); e) la c.d. affidabilità soggettiva del privato partecipante al procedimento (ad esempio, non sarà irrilevante verificare se avesse o meno i requisiti per partecipare alla gara di cui lamenta la mancata conclusione o, a maggior ragione, l’esistenza a suo carico di informative antimafia che avrebbero comunque precluso l’aggiudicazione o l’esecuzione del contratto).
55. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’Adunanza plenaria enuncia i seguenti principi di diritto:
1. Anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare oltre alle norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illecite frutto dell’altrui scorrettezza.
2. Nell’ambito del procedimento di evidenza pubblica, i doveri di correttezza e buona fede sussistono, anche prima e a prescindere dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica, con conseguente possibilità di configurare una responsabilità precontrattuale da comportamento scorretto nonostante la legittimità dei singoli provvedimenti che scandiscono il procedimento.
3. La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione può derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai doveri di correttezza e buona fede.
4. Affinché nasca la responsabilità dell’amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose), ma occorrono gli ulteriori seguenti presupposti: a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà; b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo; c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all’amministrazione.
56. Il Collegio, enunciati i principi di diritto di cui ai punti che precedono, restituisce, anche per la statuizione sulle spese della presente fase, il giudizio alla Sezione remittente, ai sensi dell’articolo 99, comma 4, Cod. proc. amm.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sugli appelli riuniti, come in epigrafe proposti, enuncia i principi di diritto di cui al paragrafo 55, punti 1, 2, 3, e 4, della motivazione e rimette per il resto il giudizio alla Sezione rimettente ai sensi dell’art. 99, comma 4, Cod. proc. amm.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 marzo 2018 con l'intervento dei magistrati:
Alessandro Pajno, Presidente
Filippo Patroni Griffi, Presidente
Sergio Santoro, Presidente
Franco Frattini, Presidente
Carlo Saltelli, Presidente
Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore
Claudio Contessa, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere
Bernhard Lageder, Consigliere
Umberto Realfonzo, Consigliere
Silvestro Maria Russo, Consigliere
Lydia Ada Orsola Spiezia, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere
Guida alla lettura
L’Adunanza plenaria ritiene che le questioni rimesse dalla Sezione Terza[1] debbano essere risolte nel senso che: a) il dovere di correttezza e di buona fede oggettiva (e la conseguente responsabilità precontrattuale derivante dalla loro violazione) sia configurabile in capo all’amministrazione anche prima e a prescindere dall’adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva; b) tale responsabilità sia configurabile senza che possa riconoscersi rilevanza alla circostanza che la scorrettezza maturi anteriormente alla pubblicazione del bando oppure intervenga nel corso della procedura di gara.
La contraria tesi, verso cui propende l’ordinanza di rimessione (e la giurisprudenza in essa richiamata), muove dalla premessa teorica che il dovere di correttezza e di buona fede trovi il suo presupposto in una “trattativa” già in stato avanzato, tale da far sorgere un ragionevole affidamento nella conclusione del contratto (la c.d. “trattativa affidante”). Secondo tale ultimo orientamento, soltanto l’aggiudicazione (definitiva) segna il momento a partire dal quale il partecipante alla gara può fare un ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto e, dunque, può dolersi del “recesso” ingiustificato dalle trattative che la stazione appaltante abbia posto in essere attraverso l’esercizio dei poteri di autotutela pubblicistici sugli atti di gara.
Tale premessa teorica sembra, in effetti, trovare un supporto nella formulazione testuale dell’art. 1337 c.c., che pone il dovere di correttezza in capo alle “parti” della “trattativa” e del “procedimento di formazione del contratto”, a maggior ragione se tale norma viene letta alla luce dell’intenzione del legislatore storico, quale emergente dalla Relazione al Codice civile (paragrafo n. 612). Nell’intenzione originaria dei compilatori del codice civile del 1942, l’art. 1337 c.c. rappresentava un’espressione tipica della c.d. solidarietà corporativa, vale a dire di quel tipo di solidarietà che, come esplicitato nel citato paragrafo delle relazione illustrativa, unisce tutti i fattori di produzione verso la realizzazione della massima produzione nazionale[2].
Sennonché, con l’avvento della Costituzione repubblicana, si è avviato un processo di rilettura e rivisitazione, in un’ottica costituzionalmente orientata, di numerose disposizioni codicistiche, specie di quelle che, come l’art. 1337 c.c., utilizzano “clausole generali” (la buona fede appunto), destinate, per loro stessa natura, ad adeguarsi ai mutamenti che interessano l’ordinamento giuridico e la società civile.
Nel mutato quadro costituzionale, è affermazione largamente condivisa quella secondo cui il dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede rappresenta una manifestazione del più generale dovere di solidarietà sociale che trova il suo principale fondamento nell’articolo 2 della Costituzione (cfr., ex multis, Cass., Sez. I, 12 luglio 2016, n. 14188).
Nella moderna lettura costituzionalmente orientata, il dovere di correttezza ha così conquistato una funzione (ed un conseguente ambito applicativo) certamente più ampia rispetto a quella concepita dal codice civile del 1942.
La “funzione” del dovere di correttezza non è più tanto (o solo) quella di favorire la conclusione di un contratto (valido) e socialmente utile. Nel disegno costituzionale, che pone al centro l’individuo (art. 2 Cost.), l’attenzione si sposta dal perseguimento dell’utilità sociale alla tutela della persona e delle sue libertà.
Il nuovo legame che così si instaura tra dovere di correttezza e libertà di autodeterminazione negoziale impedisce allora di restringerne lo spazio applicativo alle sole situazioni in cui sia stato avviato un vero e proprio procedimento di formazione del contratto o, comunque, esista una trattativa che abbia raggiunto già una fase molto avanzata, tanto da far sorgere il ragionevole affidamento circa la conclusione del contratto.
Pertanto, secondo l’Adunanza Plenaria, l’attuale portata del dovere di correttezza è oggi tale da prescindere dall’esistenza di una formale “trattativa” e, a maggior ragione, dall’ulteriore requisito che tale trattativa abbia raggiunto un livello così avanzato da generare una fondata aspettativa in ordine alla conclusione del contratto.
Ciò che il dovere di correttezza mira a tutelare non è, infatti, la conclusione del contratto, ma la libertà di autodeterminazione negoziale: tant’è che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il relativo danno risarcibile non è mai commisurato alle utilità che sarebbero derivate dal contratto sfumato, ma al c.d. interesse negativo (l’interesse appunto a non subire indebite interferenze nell’esercizio della libertà negoziale) o, eventualmente, in casi particolari, al c.d. interesse positivo virtuale (la differenza tra l’utilità economica ricavabile dal contratto effettivamente concluso e il diverso e più vantaggioso contratto che sarebbe stato concluso in assenza dell’altrui scorrettezza).
Ad opera della giurisprudenza, si è avviato un progressivo ampliamento del dovere di correttezza (anche a prescindere dall’esistenza di una trattativa precontrattuale in senso stretto) che ha trovato riscontro anche rispetto all’attività autoritativa della pubblica amministrazione sottoposta al regime del procedimento amministrativo, quando a dolersi della scorrettezza è proprio il privato che partecipa al procedimento.
La giurisprudenza, sia civile che amministrativa, ha, infatti, in più occasioni affermato che anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza[3].
Da qui la possibile responsabilità da comportamento scorretto nonostante la legittimità del provvedimento amministrativo che conclude il procedimento.
Al riguardo si segnala anche la recente sentenza del Consiglio di Stato (sez. VI, 6 marzo 2018, n. 1457) che ha espressamente evocato un modello di pubblica amministrazione, come si è andato evolvendo nel diritto vivente, permeato dai principi di correttezza e buona amministrazione, desumibili dall’art. 97 della Costituzione[4].
D’altronde, anche il legislatore ha mostrato un’aperta adesione alla tesi secondo cui i doveri di correttezza e di lealtà gravano sulla pubblica amministrazione anche quando essa esercita poteri autoritativi sottoposti al regime del procedimento amministrativo[5].
Dal mutato quadro giurisprudenziale e normativo emerge, quindi, che i doveri di correttezza, lealtà e buona fede hanno un ampio campo applicativo, anche rispetto all’attività procedimentalizzata dell’amministrazione, operando pure nei procedimenti non finalizzati alla conclusione di un contratto con un privato.
In tale contesto, pertanto, risulterebbe eccessivamente restrittiva e, per molti versi contraddittoria, la tesi secondo cui, nell’ambito dei procedimenti di evidenza pubblica, i doveri di correttezza (e la conseguente responsabilità precontrattuale dell’amministrazione in caso di loro violazione) nascono solo dopo l’adozione del provvedimento di aggiudicazione.
Aderendo a tale impostazione, si finirebbero, infatti, per creare a favore del soggetto pubblico “zone franche” di responsabilità, introducendo in via pretoria un regime “speciale” e “privilegiato”, che si porrebbe in significativo contrasto con i principi generali dell’ordinamento civile e con la chiara tendenza al progressivo ampliamento dei doveri di correttezza emergente dal percorso giurisprudenziale e normativo di cui si è dato atto.
Analogamente, merita di essere risolto in termini negativi anche il secondo quesito concernente la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione limitata alla fase anteriore al bando.
Tale prospettazione circoscritta ai soli comportamenti anteriori al bando è volta ad introdurre, aprioristicamente e in astratto, limitazioni di responsabilità dell’amministrazione che non trovano fondamento normativo e che contrastano con l’atipicità (delle modalità di condotta) che caratterizza l’illecito civile.
Infatti, l’illecito civile si incentra sull’ingiusta lesione della situazione giuridica soggettiva (o, in caso di responsabilità contrattuale, sull’inadempimento dell’obbligazione), senza che assumano rilievo le specifiche modalità comportamentali che hanno determinato tale lesione (o l’inadempimento dell’obbligazione). È, dunque, mutuando una qualificazione penalistica, un illecito a forma libera e causalmente orientato.
Deve, pertanto, ritenersi che la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione possa configurarsi anche prima dell’aggiudicazione e possa derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede.
In sostanza, non possono essere introdotte aprioristiche e ingiustificate limitazioni di responsabilità, ma va verificato in concreto l’effettiva sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie generatrice del diritto al risarcimento del danno.
In particolare, oltre alla propria buona fede soggettiva, è richiesto:
a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà;
b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo;
c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione.
Gli aspetti da considerare nel momento in cui si procede alla verifica, nel caso concreto, se effettivamente ricorrono gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità sono molteplici e non predeterminabili in astratto, perché dipendono dalle innumerevoli variabili che possono, di volta in volta, connotare la specifica situazione.
Solo a titolo esemplificativo, osserva l’Alto Consesso, rappresentano significativi sintomi in grado di condizionare il giudizio sull’esistenza dei sopra richiamati presupposti della responsabilità: a) il tipo di procedimento di evidenza pubblica che viene in rilievo (anche tenendo conto dei diversi margini di discrezionalità di cui la stazione appaltante dispone a seconda del criterio di aggiudicazione previsto dal bando); b) lo stato di avanzamento del procedimento rispetto al momento in cui interviene il ritiro degli atti di gara; c) il fatto che il privato abbia partecipato al procedimento e abbia, dunque, quanto meno presentato l’offerta (in assenza della quale le perdite eventualmente subite saranno difficilmente riconducibili, già sotto il profilo causale, a comportamenti scorretti tenuti nell’ambito di un procedimento al quale egli è rimasto estraneo); d) la conoscenza o, comunque, la conoscibilità, secondo l’onere di ordinaria diligenza richiamato anche dall’art. 1227, comma 2, c.c., da parte del privato dei vizi (di legittimità o di merito) che hanno determinato l’esercizio del potere di autotutela (anche tenendo conto del tradizionale principio civilistico, secondo cui non può considerarsi incolpevole l’affidamento che deriva dalla mancata conoscenza della norma imperativa violata); e) la c.d. affidabilità soggettiva del privato partecipante al procedimento (ad esempio, non sarà irrilevante verificare se avesse o meno i requisiti per partecipare alla gara di cui lamenta la mancata conclusione o, a maggior ragione, l’esistenza a suo carico di informative antimafia che avrebbero comunque precluso l’aggiudicazione o l’esecuzione del contratto).
La sentenza in esame è particolarmente interessante, non solo perché espressione della funzione nomofilattica cui è preposta l’Adunanza plenaria, ma per la lettura unificante di principi fondamentali dell’ordinamento quali la correttezza e la buona fede oggettiva, valevoli per l’azione amministrativa in generale oltre che più specificamente per le procedure ad evidenza pubblica.
Infatti, osserva il Collegio, la violazione del dovere di agire con lealtà e correttezza può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza.
Rilevanti risultano, tra l’altro, l’excursus dell’evoluzione dell’art. 1337 c.c., dalla sua introduzione nel codice civile del 1942, secondo i valori dell’ordinamento corporativo, ai nostri giorni in una lettura costituzionalmente orientata; i riferimenti giurisprudenziali sul dovere di correttezza sia della Corte di cassazione, sia del Consiglio di Stato, nonché la lettura delle ultime riforme che hanno interessato specialmente la legge n. 241 del 1990.
[1] Con ordinanza 24 novembre 2017, n. 5492, la Terza Sezione del Consiglio di Stato ha posto i seguenti quesiti:
1. Se la responsabilità precontrattuale sia o meno configurabile anteriormente alla scelta del contraente, vale a dire della sua individuazione, allorché gli aspiranti alla posizione di contraenti sono solo partecipanti ad una gara e possono vantare un interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione;
2. Se, nel caso di risposta affermativa, la responsabilità precontrattuale debba riguardare esclusivamente il comportamento dell’amministrazione anteriore al bando, che ha fatto sì che quest’ultimo venisse comunque pubblicato nonostante fosse conosciuto, o dovesse essere conosciuto, che non ve ne erano i presupposti indefettibili, ovvero debba estendersi a qualsiasi comportamento successivo all’emanazione del bando e attinente alla procedura di evidenza pubblica, che ne ponga nel nulla gli effetti o ne ritardi l’eliminazione o la conclusione.
[2] L’originario legame che il legislatore storico aveva inteso instaurare tra il dovere di correttezza e i valori della c.d. solidarietà corporativa trovava una ancora più manifesta enfasi nell’art. 1175 c.c. che, nel prevedere il dovere di comportarsi secondo correttezza in capo ad entrambe le parti del rapporto obbligatorio, nella sua originaria formulazione (poi modificata dall’art. 3, secondo comma, del decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 287), richiamava testualmente “le regole della correttezza in relazione ai principi della solidarietà corporativa”.
Va richiamata, in questa prospettiva, anche l’originaria (e ormai anch’essa abbandonata) concezione della causa del contratto come funzione socio-economica, che postulava l’idea che l’autonomia negoziale dovesse necessariamente perseguire una funzione (non solo individualmente, ma) anche socialmente utile. Idea ulteriormente ribadita dall’art. 1322, secondo comma, c.c., che, nel riconoscere all’autonomia negoziale la possibilità di concludere contratti anche diversi dai tipi normativi, subordina(va), tuttavia, tale riconoscimento alla condizione, ulteriore rispetto alla mera liceità, che il contratto fosse comunque diretto a perseguire “interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.
L’originario significato di tale previsione è ben esplicitato, ancora un volta, dalla Relazione al Re in cui si legge (par. n. 603): “l’ordine giuridico, infatti, non può apprestare protezione al mero capriccio individuale, ma a funzioni utili, che abbiano una rilevanza sociale e, come tali, meritino di essere tutelate dal diritto”.
Nel contesto così descritto, i valori della dignità umana e della libertà, sia pur presenti, restavano, di fatto, assorbiti dal prius dell’interesse economico nazionale e dell’utilità sociale.
Queste considerazioni consentono di individuare la ratio “storica” degli articoli 1337 e 1338 c.c. L’ordinamento (codicistico), non essendosi attuato uno scambio economico meritevole di protezione, interveniva per ripristinare la situazione patrimoniale lesa. È manifesto, in tale impostazione, l’afflato economicistico e produttivistico: si apprestano strumenti risarcitori di fronte all’inutilizzazione (mancata conclusione del contratto) od allo sperpero (contratto invalido) di valori patrimoniali.
[3] Cons. Stato, Ad. plen., 5 settembre 2005, n. 6; Cons. Stato, Sez. IV, 6 marzo 2015, n. 1142; Cons. Stato, Sez. VI, 6 febbraio 2013, n. 633; Cass., sez. I, 12 maggio 2015, n. 9636; Cass., sez. I, 3 luglio 2014, n. 15250; Cass., Sez. un. 12 maggio 2008, n. 11656.
[4] “Modello in cui, alla tradizionale ed imprescindibile funzione di garanzia di legalità nel perseguimento dell’interesse pubblico, la funzione amministrativa viene a rivestire anche un ruolo di preminente importanza per la creazione di un contesto idoneo a consentire l’intrapresa di iniziative private, anche al fine di accrescere la competitività del Paese nell’attuale contesto internazionale, secondo la logica del confronto e del dialogo tra P.A. e cittadino.
In altri termini, l’evoluzione del modello costituzionale impone di tener conto che l’attività amministrativa produce sempre un “impatto” sulla sfera dei cittadini e delle imprese (ne è conferma l’emersione del principio di accountability). Tale impatto, da un lato, deve essere considerato e quantificato, affiancando agli strumenti giuridici quelli economici di misurazione, che permeano sempre di più l’attività amministrativa; d’altro lato – e soprattutto, ai fini della tutela – tale impatto non può essere trascurato, né assorbito, e nemmeno ridotto forfettariamente in considerazione di una cura dell’interesse pubblico asseritamente prevalente”.
[5] L’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (specie dopo la riforma introdotta dall’art. 1 della legge 11 febbraio 2015, n. 15) assoggetta l’attività amministrativa ai principi dell’ordinamento comunitario, tra i quali assume rilievo primario la tutela dell’affidamento legittimo. È noto, infatti, come il principio della tutela dell’affidamento, sebbene non espressamente contemplato dai Trattati, sia stato più volte affermato dalla Corte di giustizia (a partire dalla sentenza Topfer del 3 maggio 1978, C-12/77), che lo ha elevato al rango di principio dell’ordinamento comunitario.
Le riforme ispirate alla semplificazione e alla trasparenza dell’attività amministrativa, non ultima la l. n. 124 del 2015, intervenuta, tra le altre cose, sui presupposti del potere di autotutela, che deve sempre considerare l’affidamento del privato rispetto a un precedente provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica e sul quale basa una precisa strategia imprenditoriale (cfr. art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 25, comma 1, lettera b-quater, l. n. 164 del 2014, e poi dall’art. 6, comma 1, l. n. 124 del 2015; nonché l’art. 21-quinquies, come modificato dall’art. 25, comma 1, lettera b-ter , l. n. 164 del 2014).
Un esplicito richiamo, sebbene settoriale, al “principio della collaborazione e della buona fede” si trova poi nell’art. 10 dello Statuto del contribuente approvato con la legge n. 212 del 2000.
In maniera ancora più significativa rispetto alla questione oggetto del presente giudizio, l’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241/1990 (introdotto dall’art. 28, comma 10, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazione dalla legge 9 agosto 2013, n. 98), ha espressamente previsto che “le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
La tesi secondo cui quello configurato dall’art. 2-bis, comma 1, rappresenti un’ipotesi tipica di danno da comportamento scorretto (il ritardo) lesivo di un diritto soggettivo (la libertà negoziale) trova, del resto, conferma nella previsione dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 1, c.p.a., che devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di “risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.