Consiglio di Stato, Sez. VI, 6 marzo 2018, n. 1457

La condotta della P.A. che si traduca in un vero e proprio ‘accanimento’ nei confronti dell’iniziativa imprenditoriale privata, realizzato, senza giustificazione alcuna, in modo del tutto sproporzionato rispetto al fine da perseguire e contraddittorio, nella radicale illogicità del venire contra factum proprium, trascura completamente l’affidamento che legittimamente il privato nutriva circa la fattibilità dell’opera e per la quale si era già attivato effettuando i necessari investimenti.

Ne consegue che sussistono gli spazi di tutela risarcitoria dinanzi ad una simile attività amministrativa, attuata secondo logiche lontane dal modello di correttezza e buona amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione, modello in cui – oltre alla tradizionale ed imprescindibile funzione di garanzia di legalità nel perseguimento dell’interesse pubblico – la funzione amministrativa viene a rivestire anche un ruolo di preminente importanza per la creazione di un contesto idoneo a consentire l’intrapresa di iniziative private, anche al fine di accrescere la competitività del Paese nell’attuale contesto internazionale, secondo la logica del confronto e del dialogo tra P.A. e cittadino.

In senso conforme: Consiglio di Stato, n. 2468 del 2014; n. 2567 del 2012; Ad. Plen. n. 8 del 17 ottobre 2017, Cass. civ., sez. III, n. 29 febbraio 2016, 3893; id., sez. II, 24 aprile 2012, n. 6474; id., sez. III, 4 luglio 2006, n. 15274; id., sez. III, 19 agosto 2003, n. 12124; Cass. civ., sez. III, 17 settembre 2013, n. 21255, Cass. 26042/2010.

 

 

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2503 del 2013, proposto da: 
Antonio Sardella, Vincenzo Di Bello, Rocco Vincenzo Castelluccia, Domenico Alba, Penna Grande S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'avvocato Nino Sebastiano Matassa, con domicilio eletto presso lo studio Placidi in Roma, via Barnaba Tortolini, 30; 

contro

Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia - Bari, Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia - Taranto, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; 

 

sul ricorso numero di registro generale 2505 del 2013, proposto da: 
Antonio Sardella, Vincenzo Dibello, Rocco Vincenzo Castelluccia, Domenico Alba, Penna Grande S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall’avvocato Nino Sebastiano Matassa, con domicilio eletto presso lo studio Placidi in Roma, via Barnaba Tortolini, 30; 

contro

Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia - Bari, Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia - Taranto, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; 

per la riforma

quanto al ricorso n. 2503 del 2013:

della sentenza del T.a.r. Puglia - Sez. Staccata di Lecce: Sezione I n. 01568/2012, resa tra le parti, concernente risarcimento danni a seguito di occupazione di area;

quanto al ricorso n. 2505 del 2013:

della sentenza del T.a.r. Puglia - Sez. Staccata di Lecce: Sezione I n. 01538/2012, resa tra le parti, concernente risarcimento danni a seguito di revoca autorizzazione archeologica e di occupazione di area.

 

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 febbraio 2018 il Cons. Giordano Lamberti e uditi per le parti gli avvocati Nino Sebastiano Matassa e M. Vittoria Lumetti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO e DIRITTO

1 – Gli appellanti, tutti soci della Penna Grande s.r.l. (anch’essa parte in causa), sono comproprietari di un suolo adiacente al litorale marittimo, sito in Fasano, località Savelletri (fg. 103, p. 3, 11,12, 13 e 14). Tale suolo, affidato in comodato alla predetta società con contratto del 7.12.2003, costituisce porzione minima di una assai più ampia area sottoposta a vincolo archeologico con D.M. del 6 giugno 1966.

2 - Con istanza del 31.12.2003, la società Penna Grande s.r.l. presentava al Comune di Fasano un progetto finalizzato alla fruizione del suolo in esame per il tempo libero e la balneazione. L’intervento prevedeva la ristrutturazione di alcuni trulli e la collocazione sull’area di opere rimovibili in legno (pedane con ombrelloni e chiosco-bar); per la sosta degli autoveicoli si prevedeva la perimetrazione di un’area.

2.1-Con provvedimento del 9 agosto 2005, la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Taranto autorizzava la realizzazione dell’intervento, previa imposizione e di prescrizioni volte ad eliminare qualsiasi interferenza con il sottosuolo.

2.3-In data 28.2.2006, la società appellante conseguiva anche il nulla osta paesaggistico, rilasciato dal Comune di Fasano con provvedimento prot. n. 250 del 4.4.2006; la Soprintendenza per i Beni Culturali e Paesaggistici di Lecce confermava la piena legittimità di tale autorizzazione.

2.4-In esito all’acquisizione di tutti i necessari titoli autorizzatori, con provvedimento n. 123 del 9 maggio 2006, il Comune di Fasano rilasciava il permesso di costruire e la società avviava i lavori.

3 - In data 12 aprile 2007, sopravveniva un provvedimento di sospensione dell’intervento in itinere da parte della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Lecce. A fondamento dell’ordine di sospensione, l’Amministrazione poneva asserite difformità tra le previsioni di progetto ed i lavori in corso di realizzazione. L’appellante era, quindi, costretta a ricorrere dinanzi al TAR di Lecce che, con ordinanza n. 650 dell’11.7.2007, sospendeva il provvedimento gravato.

3.1 – Nelle more veniva disposto il sequestro penale dell’area, misura poi revocata con decreto del P.M. del 22.4.2008. Con successivo decreto del 18.12.2008, il G.I.P. del Tribunale di Brindisi disponeva l’archiviazione del procedimento penale.

4 - Con ordinanza prot. n. 6526 del 31.07.2008, l’Amministrazione revocava l’autorizzazione archeologica rilasciata in 9.08.2005. Con il medesimo provvedimento, il Direttore regionale ordinava al Soprintendente di procedere all’effettuazione di saggi di scavo sull’area di proprietà dei ricorrenti “entro sette giorni”.

4.1 - Con decreto del 9.9.2008, il Soprintendente per i Beni Archeologici della Puglia -Taranto disponeva l’occupazione temporanea dell’intera area della complessiva estensione di circa mq. 40.000 (ha 4.23.89), per 12 mesi, allo scopo di effettuare i saggi archeologici in questione.

4.2 - Con autonomo ricorso, gli odierni appellanti impugnavano entrambi i provvedimenti menzionati; con sentenza del TAR Lecce n. 328/2009 il ricorso veniva accolto e, con decisione del 19.1.2010 n. 187, questo Consiglio respingeva l’appello proposto dall’Amministrazione.

5-Nelle more, in data 1.9.2009, veniva adottato un nuovo decreto da parte della Soprintendenza, con cui l’occupazione sull’intera area veniva prorogata per altri 12 mesi.

5.1 - Con sentenza del TAR Lecce n. 531/2010, anche tale decreto veniva annullato e, con sentenza n. 3430 del 7.6.2011, il Consiglio di Stato respingeva l’appello proposto dall’Amministrazione.

6-Con separati ricorsi dinanzi al TAR Lecce, gli appellanti chiedevano il ristoro del pregiudizio subito a seguito dei provvedimenti illegittimi e definitivamente annullati, e precisamente: a) con un primo ricorso chiedevano la condanna al risarcimento dei danni cagionati dalla revoca illegittima dell’autorizzazione archeologica, quantificati in €100.000,00; nonché i danni in riferimento al provvedimento illegittimo di occupazione del 9 settembre 2008, quantificati in €300.000,00; b) con un secondo ricorso i danni, quantificati in €300.000,00, in riferimento al provvedimento illegittimo di occupazione del 1 settembre 2009;

7-Il TAR Lecce, con le sentenze n. 1538/2012 e n. 1568/2012, ha respinto le domande risarcitorie relative alla occupazione d’urgenza, ritenendo sufficiente l’indennità offerta dall’Amministrazione; mentre ha riconosciuto dovuta la somma di € 1.500,00 per i danni prodotti dalla revoca della autorizzazione archeologica.

8- Avverso dette sentenze sono stati proposti i due distinti ricorsi di appello all’attenzione del Collegio, che, in ragione dell’evidente connessione, ben possono essere riuniti, anche al fine di valutare complessivamente la vicenda e scongiurare il rischio di una eventuale duplicazione delle poste risarcitorie.

9 – Non è in discussione la sussistenza dei presupposti della tutela risarcitoria.

Invero, i fatti così come documentati in causa dimostrano inequivocabilmente il danno ingiusto patito dalla società ricorrente in conseguenza degli atti illegittimi, già annullati dal giudice amministrativo. Come evidenziato, quest’ultima si era infatti attivata ed aveva ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie all’insediamento di uno stabilimento balneare su un’area di proprietà dei suoi soci. Illegittimamente (come è stato accertato nei giudizi avanti il TAR e il Consiglio di Stato), in data 12 aprile 2007, sopravveniva un provvedimento di sospensione dell’intervento in itinere da parte della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Lecce. Ne seguiva l’apertura di un procedimento penale, poi archiviato. Non solo, l’iniziativa imprenditoriale subiva un nuovo arresto a seguito dell’ordinanza prot. n. 6526 del 31.07.2008, con la quale si revocava l’autorizzazione archeologica rilasciata circa tre anni addietro (9.08.2005). Seguivano due decreti di occupazione dell’area, per effettuare dei saggi archeologici sull’area medesima, il secondo dei quali emesso nonostante l’annullamento giurisdizionale del primo; e anch’esso poi annullato in sede giurisdizionale. Circa le indagini concretamente effettuate ed i loro esiti, nelle sentenze che hanno annullato i provvedimenti, si riferisce di come l’Amministrazione abbia disposto l’occupazione dell’intera area di mq 40.000, nonostante gli interventi di scavo abbiano riguardato solo un’area pari a mq 1.942, “quindi la superficie dell’area oggetto delle indagini archeologiche, nei fatti, è stata inferiore al 10% di quella oggetto del provvedimento di occupazione”.

9.1 - Alla luce di tali evenienze, emerge quello che appare un vero e proprio ‘accanimento’ nei confronti dell’iniziativa imprenditoriale dell’appellante, posto in essere, senza giustificazione alcuna, in modo del tutto sproporzionato rispetto al fine da perseguire – ed invero tutti i relativi provvedimenti sono stati annullati dal giudice amministrativo – ed in totale spregio del fatto che, pochi anni prima, la stessa Soprintendenza aveva autorizzato la medesima iniziativa. Con ciò trascurando completamente l’affidamento che legittimamente il privato nutriva circa la fattibilità dell’opera e per la quale si era già attivato effettuando i necessari investimenti.

9.2 - Ciò che emerge dalla vicenda appare sintomatico di uno svolgersi dell’attività amministrativa secondo logiche lontane dal modello di correttezza e buona amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione, come si è andato evolvendo nel diritto vivente. Modello in cui, alla tradizionale ed imprescindibile funzione di garanzia di legalità nel perseguimento dell’interesse pubblico, la funzione amministrativa viene a rivestire anche un ruolo di preminente importanza per la creazione di un contesto idoneo a consentire l’intrapresa di iniziative private, anche al fine di accrescere la competitività del Paese nell’attuale contesto internazionale, secondo la logica del confronto e del dialogo tra P.A. e cittadino.

In altri termini, l’evoluzione del modello costituzionale impone di tener conto che l’attività amministrativa produce sempre un “impatto” sulla sfera dei cittadini e delle imprese (ne è conferma l’emersione del principio di accountability). Tale impatto, da un lato, deve essere considerato e quantificato, affiancando agli strumenti giuridici quelli economici di misurazione, che permeano sempre di più l’attività amministrativa; d’altro lato – e soprattutto, ai fini della tutela – tale impatto non può essere trascurato, né assorbito, e nemmeno ridotto forfettariamente in considerazione di una cura dell’interesse pubblico asseritamente prevalente.

Sono emblematiche di tale tendenza tutte le riforme ispirate alla semplificazione e alla trasparenza dell’attività amministrativa, non ultima – per quel che rileva in questa sede, dove all’origine dell’arresto dell’iniziativa degli appellanti vi è la revoca della precedente autorizzazione archeologica – la l. n. 124 del 2015, intervenuta, tra le altre cose, sui presupposti del potere di autotutela, che deve sempre considerare l’affidamento del privato rispetto a un precedente provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica e sul quale basa una precisa strategia imprenditoriale (cfr. art. 21-nonies co. 1, l. n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 25, comma 1, lettera b-quarter, l. n. 164 del 2014epoi dall’art. 6, comma 1, l. n. 124 del 2015; nonché l’art. 21-quinquies, come modificato dall’art. 25, comma 1, lettera b-ter , l. n. 164 del 2014).

Del resto, da tempo la giurisprudenza è costante nel ritenere che il provvedimento di autotutela debba essere adeguatamente motivato con riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale nonché alla valutazione comparativa dell’interesse dei destinatari al mantenimento delle posizioni e dell’affidamento insorto in capo ai medesimi (ex multis: Cons. St. n. 2468 del 2014; n. 2567 del 2012; vedasi anche la recente Ad. Plen. n. 8 del 17 ottobre 2017).

Vi è di più: nel caso di specie, non è stato solo vulnerato il legittimo affidamento del privato, ma ciò si è concretizzato attraverso dei provvedimenti giudicati di per sé illegittimi, che in quanto tali consentono l’accesso alla tutela risarcitoria, quale quella azionata nel presente giudizio. Provvedimenti illegittimi, reiterati anche dopo il primo annullamento del giudice amministrativo, che, pertanto, giova ribadirlo, appaiono a maggior ragione emblematici di modalità di svolgimento dell’attività amministrativa, viziata, nel suo complesso, sotto il profilo della mancanza di correttezza e del difetto macroscopico di proporzionalità e ragionevolezza.

9.3 - Nessun dubbio, quindi, sulla sussistenza del presupposto oggettivo della tutela risarcitoria. Come messo in luce dal Giudice di prime cure, risulta parimenti integrato il requisito della colpa, non avendo trovato giustificazione alcuna i provvedimenti di revoca dell’autorizzazione archeologica e di occupazione dell’area, tanto più che, come già sottolineato, il secondo provvedimento di occupazione è stato emesso nonostante l’accertamento dell’illegittimità del primo. Anche da tale punto di vista, non può inoltre trascurarsi che nel 2005 la medesima autorità aveva invece autorizzato l’iniziativa.

Infine, come sarà di seguito illustrato, sussiste il nesso causale tra l’illegittimità degli atti di revoca e di occupazione dell’area ed il pregiudizio, consistente nella mancata attivazione dello stabilimento entro i termini previsti in ragione del comportamento tenuto dall’amministrazione, complessivamente considerato e in relazione ai provvedimenti illegittimi adottati, da cui è conseguito il mancato introito dei relativi utili per circa due anni.

10 – Appurata la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del risarcimento del danno, di seguito devono esaminarsi le censure svolte dall’appellante, vertenti sulla dedotta errata liquidazione di detto danno da parte del Giudice di prime cure.

11 – Con una prima censura si deduce la violazione dell’art. 50, d.lgs. 327/2001 e dell’art. 2043 c.c.; violazione dei principi sull’onere della prova. In particolare, l’appellante censura la sentenza del TAR nel punto in cui ha respinto la domanda risarcitoria relativa all’occupazione d’urgenza, ritenendo le somme dovute dall’amministrazione assorbite nella indennità già offerta, determinata in €15.215,00 annui. Tale importo è stato calcolato dall’amministrazione attribuendo al suolo un valore di esproprio pari a €169.576,00, sulla base del “valore agricolo medio” determinato dalla Commissione provinciale espropri. In primo grado è stata depositata una perizia che quantificava il valore di mercato dell’area, tenuto conto della sua concreta destinazione derivante dalla autorizzazione dello stabilimento balneare, in un importo ben 10 volte maggiore (€ 1.850.000,00); pertanto, applicando il coefficiente stabilito dal citato art. 50, d.lgs. 327/2001 (un dodicesimo del valore di esproprio), l’indennità di occupazione sarebbe pari ad €154.167,00 per ogni anno di occupazione.

12 - Sotto tale profilo la domanda non può trovare accoglimento.

Deve, infatti, rammentarsi che la finalità generale e prioritaria dello strumento risarcitorio è essenzialmente compensativa. In altre parole, lo scopo è di reintegrare la sfera giuridica del danneggiato, ponendolo, in attuazione del cd. principio di indifferenza, nella situazione in cui si sarebbe trovato senza il fatto illecito.

12.1 - Tanto precisato, in primo luogo, quanto ai ricorrenti persone fisiche, ai quali, secondo la prospettazione di parte appellante spetterebbe il ristoro per l’illegittima occupazione, deve evidenziarsi che gli stessi avevano concesso in comodato gratuito l’area. Ne consegue che non può dirsi integrato alcun danno, posto che, indipendentemente dai sopravvenuti provvedimenti di occupazione, stante la natura gratuita del contratto di comodato, i proprietari non avrebbero tratto alcun frutto dall’area. Così che unico soggetto danneggiato dai provvedimenti illegittimi è la società.

12.2 – Da un differente punto di vista, non pare delimitabile un “ulteriore” danno da occupazione illegittima, distinto dal più ampio danno che la società allega di aver subito per il ritardo con il quale è stata avviata l’attività imprenditoriale sull’area. Difatti, occorre considerare che la medesima società chiede, altresì, un danno da mancato guadagno commisurato al tempo durante il quale, a causa dell’illegittima occupazione dell’area, non ha potuto svolgere la propria attività imprenditoriale, e che tale danno – come si vedrà – appare al Collegio meritevole di integrale ed effettivo risarcimento.

Orbene, alla stregua delle considerazioni svolte in precedenza sulla necessità di considerare l’“impatto economico effettivo” dell’attività amministrativa, di qualsiasi tipo (legittima o illegittima), nei confronti delle iniziative private, anche al fine di accrescere la competitività del Paese, si ritiene che nel caso di specie l’impatto della (illegittima) attività di cui si discute vada quantificato nella sua effettiva portata. Tale portata non può che ricondursi, ad avviso della Sezione, al danno massimo sopportato dal privato per la illegittima attività dell’amministrazione: il mancato funzionamento dell’impianto produttivo, il mancato svolgimento dell’attività d’impresa, il mancato percepimento dei guadagni.

Proprio poiché il danno da risarcire va commisurato, ad avviso del Collegio, alla integralità del pregiudizio economico subito, si ritiene che tale riconoscimento – in assenza di ulteriori voci di danno (come, ad es., il danno da fermo cantiere) – abbia carattere assorbente di ogni altra richiesta, di tipo sia indennitario che risarcitorio. Pertanto, anche il riconoscimento di un’ulteriore voce di danno da occupazione illegittima concretizzerebbe una indebita duplicazione del risarcimento stesso.

13 – Come si è detto, sotto il profilo del negato riconoscimento del danno da mancato guadagno commisurato all’impossibilità di svolgere la propria attività imprenditoriale l’appello merita di essere accolto, con le precisazioni che seguono.

Al riguardo, a supporto della domanda, i ricorrenti hanno depositato in giudizio perizia recante un’analitica quantificazione del presumibile utile annuale derivante dall’esercizio dell’attività di stabilimento balneare, in tale stima il lucro cessante veniva quantificato in circa €400.000,00 per ogni anno di piena attività dello stabilimento balneare.

13.1 - Il Giudice di prime cure ha ritenuto che tale voce di danno non sarebbe sufficientemente provata; ciò perché il “potenziale pieno funzionamento della struttura risulta del tutto indimostrato”, considerato che “l’area in questione si trova tuttora allo stato incolto ... risultando realizzata solo la ristrutturazione del trullo”. In altre parole, ad avviso del Giudice, la mancata realizzazione della iniziativa imprenditoriale “nel periodo successivo all’annullamento degli atti impeditivi pone fondati dubbi sull’effettività dell’impedimento costituito da questi ultimi”.

Come anticipato la valutazione del primo giudice non risulta condivisibile.

13.2 – A tal fine è utile ricordare il criterio che deve governare la materia in questione desumibile dalla norma di cui all’art. 1223 c.c., in base al quale è risarcibile il danno “conseguenza immediata e diretta” dell’illecito.

Secondo l’orientamento dominante tale formula sarebbe espressione del criterio della c.d. causalità adeguata, in base al quale devono ritenersi risarcibili anche le conseguenze indirette e mediate dell’illecito, purché normali, prevedibili e non anomale. In questo ambito, la giurisprudenza civile (Cass. 26042/2010) ha chiarito che la regola dell’art. 1223 cod. civ. “riguarda la determinazione dell’intero danno cagionato oggetto dell’obbligazione risarcitoria, attribuendosi rilievo, all’interno delle serie causali così individuate, a quelle che, nel momento in cui si produce l’evento, non appaiono del tutto inverosimili, come richiesto dalla cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, fondata su un giudizio formulato in termini ipotetici”. Più in generale, l’orientamento prevalente della Corte di Cassazione impone di considerare danni-conseguenza risarcibili quelli riconducibili al fatto illecito secondo principi di regolarità causale che fanno applicazione del criterio dell’id quod plerumque accidit. In questa ottica, la giurisprudenza ritiene risarcibile anche il danno mediato o indiretto, purché sia prodotto da una sequela normale di eventi che traggono origine dal fatto originario secondo la regola probatoria del “più probabile che non” (Cass. civ., sez. III, n. 29 febbraio 2016, 3893; id., sez. II, 24 aprile 2012, n. 6474; id., sez. III, 4 luglio 2006, n. 15274; id., sez. III, 19 agosto 2003, n. 12124; Cass. civ., sez. III, 17 settembre 2013, n. 21255).

13.3 - Tanto precisato, è indubbio che parte appellante avesse di mira la realizzazione di uno stabilimento balneare, avendo già ottenuto tutte le autorizzazioni a tal fine necessarie ed avendo già iniziato i lavori nel momento in cui è sopravvenuta la revoca del precedente provvedimento di assenso. Non può, altresì, essere messo in discussione che attraverso i provvedimenti illegittimi, con i quali è stata revocata l’autorizzazione archeologica e si è proceduto all’occupazione dell’area, si è di fatto precluso all’appellante di ultimare le opere nei termini preventivati. Ciò ha comportato un ritardo nell’attivazione dell’iniziativa commerciale; la quale è stata, poi, pacificamente, avviata, e con successo, come si evince inequivocabilmente dai documenti comprovanti l’attuale effettivo funzionamento dello stabilimento, che, oltretutto, ha ottenuto anche diversi riconoscimenti per la bontà del progetto particolarmente attento al rispetto dell’ambiente in cui si colloca.

13.4 - A giudizio del Collegio, rientra pertanto nelle conseguenze immediate e dirette, nel senso innanzi precisato, il pregiudizio consistente nel mancato introito dei guadagni ricavabili dall’attività commerciale poi effettivamente attivata sull’area.

Per la quantificazione di tale importo non si ritiene necessario disporre una consulenza tecnica di ufficio, anche in considerazione delle esigenze di economia processuale e del lungo tempo già trascorso dall’epoca del fatto dannoso. Difatti, ad un risultato analogo si può pervenire direttamente in questa sede, alla stregua delle considerazioni che seguono.

Nel caso di specie, il mancato introito deve essere correttamente parametrato al ritardo con il quale è stata avviata l’attività, ovvero al periodo nel quale, a causa dei provvedimenti illegittimi dell’amministrazione, la società non ha potuto disporre dell’area.

In altri termini, è comprovato che l’illegittima apprensione dell’area da parte dell’amministrazione ha ritardato la realizzazione del progetto, impedendo la percezione dei relativi frutti per circa un biennio. Invero, senza l’occupazione illegittima, è ragionevole ritenere che la società avrebbe terminato i lavori due anni prima e, perciò avrebbe conseguito maggiori guadagni corrispondenti a due anni di attività ‘a regime’ (avendo dovuto comunque scontare, con due anni di ritardo, un periodo di primo avviamento, con ricavi comprensibilmente inferiori: v. §14.2).

14 – Tanto precisato, deve osservarsi che parte appellante chiede il risarcimento derivante sia dall’illegittimità dei decreti di occupazione dell’area, sia dell’illegittimità della revoca dell’autorizzazione archeologica; rispetto a quest’ultimo aspetto, l’appellante allega che il provvedimento di revoca, intervenuto nel luglio del 2008, ha impedito ogni attività per tale stagione balneare e ha impedito anche la prosecuzione dei lavori preparatori dello stabilimento. In tale prospettiva, la revoca dell’autorizzazione ha, quindi, prodotto un ritardo nella realizzazione dell’intervento per il lasso di tempo in cui ha avuto autonoma efficacia impeditiva e cioè sino alla emanazione del decreto di occupazione. È, pertanto, evidente che il pregiudizio derivante dalla revoca dell’autorizzazione archeologica e dai decreti di occupazione dell’area hanno la medesima natura, così che tale voce di danno ben può essere valutata congiuntamente, anche al fine di scongiurare indebite duplicazioni.

14.1 - Tenuto conto che un nuovo decreto di occupazione con efficacia di dodici mesi è stato emesso in data 1 settembre 2009, ne consegue che, valutando complessivamente il pregiudizio subito dal privato – essendo inopportuno parcellizzarlo in riferimento a ciascun atto illegittimo, pena il rischio di sopravvalutare il danno effettivamente patito – questo può essere valutato come coincidente con il mancato introito di due annualità di utili, anche in applicazione dell’art. 1226 c.c., nonché delle affermazioni delle parti che in più punti hanno lamentato un ritardato avvio dei lavori, e quindi dell’attività, di durata sostanzialmente biennale. Come anticipato, tale valutazione include anche il danno derivante dalla revoca dell’autorizzazione archeologica. Difatti, l’autonomo effetto impeditivo di tale provvedimento, seppur ricadente nella stagione estiva, non pare possa incidere in senso accrescitivo sul pregiudizio come innanzi determinato, posto che nel luglio del 2008 l’attività non era ancora attiva, pertanto, non può affermarsi che gli effetti del provvedimento abbiano inciso sugli introiti della stagione; avendo, invero, influito solo sulla tempistica di ultimazione della struttura, con l’arresto dei lavori un solo mese prima del decreto di occupazione, oltretutto in coincidenza con il mese di agosto. Ne consegue che, come anticipato, il danno effettivamente patito dall’appellante può essere complessivamente determinato in via equitativa facendo riferimento a due intere annualità di utili ‘a regime’.

14.2 – Deve, infatti, precisarsi che, avendo il danneggiato già di fatto scontato sui bilanci dei primi esercizi di attività gli oneri legati alla fase iniziale di avviamento dell’attività, l’utile da considerare deve essere quello ‘a regime’.

Al riguardo, l’appellante allega che i lavori sono stati ultimati in tempo utile per la stagione balneare del 2012, “nel corso della quale lo stabilimento balneare ha finalmente avviato l’attività, sia pure non a pieno regime”; può, quindi, ragionevolmente individuarsi il 2013 come il primo anno in cui la struttura ha operato ‘a regime’ secondo l’originario progetto.

15 - Pertanto, in assenza di contestazioni sul punto, si può determinare il danno subito nell’importo pari alla somma degli utili ante imposte risultanti dai bilanci depositati relativi agli esercizi 2013 e 2014, dovendosi a tal fine intendere per “utile ante imposte” il risultato del conto economico, depurato da proventi e oneri straordinari, così come risultante dal predetto conto economico ai sensi dell’art. 2425 c.c. (A - B +/- C +/- D), riguardante il ramo d’azienda riferibile alla gestione dello stabilimento balneare per il quale è causa. Fermo il fatto che la somma complessiva così determinata, nel rispetto del principio della domanda, non potrà in ogni caso superare l’importo delle somme richieste nei due ricorsi. Su tale somma andranno calcolati interessi e rivalutazione, secondo le regole ordinarie, a decorrere dal momento in cui tali utili avrebbero potuto essere prodotti, ovvero dal 1° gennaio 2013 (considerando, equitativamente, i primi due anni di utili ‘a regime’ 2013 e 2014 come virtualmente percepiti due anni prima, ovvero negli anni 2011 e 2012, come se i lavori fossero stati ultimati secondo le originarie previsioni) fino al saldo.

Alla luce delle considerazioni che precedono, come già affermato al §13.4, si ritiene non necessario procedere a quantificare il danno a mezzo di una CTU che, se prima dell’istaurazione del giudizio aveva lo scopo di valutare in via prospettica il lucro cessante derivante dall’illecito, ora non risulta più di alcuna utilità, potendosi fare affidamento, in assenza di contestazioni specifiche da parte dell’amministrazione appellata, sui dati storici effettivi, così come risultanti dai bilanci pubblicati dalla stessa società, secondo le modalità di calcolo prima fornite.

16 – Vista la soccombenza, l’amministrazione appellata deve essere condannata alla refusione delle spese di lite dei due gradi di giudizio che si liquidano in complessivi €8.000,00.

 

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, riunisce gli appelli e li accoglie nei sensi di cui in motivazione, riformando, per l’effetto, la sentenza impugnata.

Condanna l’amministrazione appellata a versare alla società Penna Grande s.r.l. l’importo pari alla somma degli utili ante imposte, come definiti in motivazione, risultanti dai bilanci depositati relativi agli esercizi 2013 e 2014, con relativi interessi e rivalutazione a decorrere dal 1° gennaio 2013 e fino al saldo.

Condannata altresì l’amministrazione alla refusione delle spese di lite dei due gradi di giudizio, che si liquidano in complessivi €8.000,00, oltre accessori come per legge.

Dispone che, a cura della Segreteria della Sezione, copia della presente sentenza sia trasmessa alla Procura della Corte dei conti per la Puglia, per quanto di eventuale competenza.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 febbraio 2018 con l'intervento dei magistrati:

Luigi Carbone, Presidente

Silvestro Maria Russo, Consigliere

Marco Buricelli, Consigliere

Giordano Lamberti, Consigliere, Estensore

Italo Volpe, Consigliere

 

 

Guida alla lettura

Il Consiglio di Stato esamina approfonditamente i presupposti ed i caratteri della tutela risarcitoria spettante a fronte di un’attività amministrativa scorretta e lesiva dell’affidamento del privato.

I fatti di causa si incentrano sull’impedimento all’iniziativa imprenditoriale della società appellante frapposto da più atti amministrativi, tutti però annullati dal giudice amministrativo.

La società, infatti, in un primo tempo aveva diligentemente ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie all’insediamento di uno stabilimento balneare, ma successivamente era stata colpita da un illegittimo provvedimento di sospensione dei lavori in itinere emesso dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio e da un ulteriore atto di revoca dell’autorizzazione archeologica, revoca seguita da due decreti di occupazione dell’area per effettuarvi saggi archeologici, parimenti illegittimi.

Il Consiglio di Stato, ricostruita brevemente la sequenza di atti amministrativi illegittimi ed annullati, coglie, nella condotta della P.A., un vero e proprio ‘accanimento’ nei confronti dell’iniziativa imprenditoriale dell’appellante, realizzato, senza giustificazione alcuna, in modo del tutto sproporzionato rispetto al fine da perseguire – tant’è che tutti i relativi provvedimenti sono stati annullati dal giudice amministrativo – e contraddittorio, nella radicale illogicità del venire contra factum proprium, perché avvenuto in spregio del fatto che, pochi anni prima, la stessa Soprintendenza aveva autorizzato la medesima iniziativa, trascurandosi, così, completamente l’affidamento che legittimamente il privato nutriva circa la fattibilità dell’opera e per la quale si era già attivato effettuando i necessari investimenti.

Il Collegio reputa la vicenda chiaramente sintomatica di uno svolgersi dell’attività amministrativa secondo logiche lontane dal modello di correttezza e buona amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione, come delineatosi nel diritto vivente, modello in cui – oltre alla tradizionale ed imprescindibile funzione di garanzia di legalità nel perseguimento dell’interesse pubblico - la funzione amministrativa viene a rivestire anche un ruolo di preminente importanza per la creazione di un contesto idoneo a consentire l’intrapresa di iniziative private, anche al fine di accrescere la competitività del Paese nell’attuale contesto internazionale, secondo la logica del confronto e del dialogo tra P.A. e cittadino.

Si sottolinea che è stata l’evoluzione del modello costituzionale ad imporre di tener conto che l’attività amministrativa produce sempre un “impatto” sulla sfera dei cittadini e delle imprese (ne è conferma l’emersione del principio di accountability).

Tale impatto, da un lato, deve essere non solo considerato, ma anche quantificato, affiancando agli strumenti giuridici quelli economici di misurazione, che permeano sempre di più l’attività amministrativa; d’altro lato – e soprattutto, ai fini della tutela – tale impatto non può essere certo trascurato, né assorbito, e nemmeno ridotto forfettariamente in considerazione di una cura dell’interesse pubblico asseritamente prevalente.

A conferma di tale tendenza, il Consiglio di Stato ricostruisce l’attuale contesto normativo e giurisprudenziale.

Sotto il profilo legislativo, richiama tutte le recenti riforme ispirate alla semplificazione e alla trasparenza dell’attività amministrativa, soffermandosi sulla l. n. 124 del 2015, intervenuta, in particolare, sui presupposti del potere di autotutela, imponendo alla P.A. di considerare sempre l’affidamento del privato rispetto a un precedente provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica e sul quale basa una precisa strategia imprenditoriale (cioè l’art. 21-nonies co. 1, l. n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 25, comma 1, lettera b-quarter, l. n. 164 del 2014 e poi dall’art. 6, comma 1, l. n. 124 del 2015; nonché l’art. 21-quinquies, come modificato dall’art. 25, comma 1, lettera b-ter , l. n. 164 del 2014).

Dal punto di vista giurisprudenziale, precisa che l’orientamento ormai prevalente ritiene che il provvedimento di autotutela debba essere adeguatamente motivato con riferimento:

- alla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale

- nonché alla valutazione comparativa dell’interesse dei destinatari al mantenimento delle posizioni e dell’affidamento insorto in capo ai medesimi.

La peculiarità della controversia esaminata dal Collegio risiede nella circostanza che non è stato solo vulnerato il legittimo affidamento del privato, ma ciò si è concretizzato attraverso dei provvedimenti giudicati di per sé illegittimi - reiterati anche dopo il primo annullamento del giudice amministrativo ed emblematici di modalità di svolgimento dell’attività amministrativa, viziata sotto il profilo della mancanza di correttezza e del difetto macroscopico di proporzionalità e ragionevolezza – con ampi spazi per la tutela risarcitoria.

Affermata la sussistenza del presupposto oggettivo della tutela risarcitoria, la VI Sezione reputa parimenti integrati:

- il requisito della colpa, non avendo giustificazione alcuna i provvedimenti di revoca dell’autorizzazione archeologica e di occupazione dell’area, tanto più che il secondo provvedimento di occupazione è emesso nonostante l’accertamento dell’illegittimità del primo e che nel 2005 la medesima autorità aveva, invece, autorizzato l’iniziativa;

- il nesso causale tra l’illegittimità degli atti di revoca e di occupazione dell’area ed il pregiudizio, consistente nella mancata attivazione dello stabilimento entro i termini previsti in ragione del comportamento tenuto dall’amministrazione, complessivamente considerato e in relazione ai provvedimenti illegittimi adottati, che ha causato il mancato introito dei relativi utili per circa due anni.

In merito alla liquidazione del danno, il Collegio rileva che la finalità generale e prioritaria dello strumento risarcitorio è essenzialmente compensativa: lo scopo è di reintegrare la sfera giuridica del danneggiato, ponendolo, in attuazione del cd. principio di indifferenza, nella situazione in cui si sarebbe trovato senza il fatto illecito.

Non si configura, quindi, un “ulteriore” danno da occupazione illegittima, distinto dal più ampio danno che la società allega di aver subito per il ritardo con il quale è stata avviata l’attività imprenditoriale sull’area: il danno, infatti, si correla al mancato guadagno commisurato al tempo durante il quale, a causa dell’illegittima occupazione dell’area, non ha potuto svolgere la propria attività imprenditoriale.

In applicazione delle considerazioni svolte in precedenza sulla necessità di considerare l’“impatto economico effettivo” dell’attività amministrativa, di qualsiasi tipo (legittima o illegittima), nei confronti delle iniziative private, anche al fine di accrescere la competitività del Paese, si conclude che l’impatto della (illegittima) attività amministrativa vada quantificato nella sua effettiva portata, comprensiva del mancato funzionamento dell’impianto produttivo, del mancato svolgimento dell’attività d’impresa, del mancato percepimento dei guadagni.

Il danno da risarcire deve coprire, in altri termini, l’integralità del pregiudizio economico subito, con carattere assorbente di ogni altra richiesta, di tipo sia indennitario che risarcitorio, in assenza di ulteriori voci di danno (come, ad es., il danno da fermo cantiere). Pertanto, anche il riconoscimento di un’ulteriore voce di danno da occupazione illegittima concretizzerebbe una indebita duplicazione del risarcimento stesso.

Infatti, il criterio che deve governare la materia in questione è desumibile dalla norma di cui all’art. 1223 c.c., in base al quale è risarcibile il danno “conseguenza immediata e diretta” dell’illecito.

Secondo l’orientamento dominante tale formula sarebbe espressione del criterio della c.d. causalità adeguata, in base al quale devono ritenersi risarcibili anche le conseguenze indirette e mediate dell’illecito, purché normali, prevedibili e non anomale. In questo ambito, la giurisprudenza civile ha chiarito che la regola dell’art. 1223 cod. civ. “riguarda la determinazione dell’intero danno cagionato oggetto dell’obbligazione risarcitoria, attribuendosi rilievo, all’interno delle serie causali così individuate, a quelle che, nel momento in cui si produce l’evento, non appaiono del tutto inverosimili, come richiesto dalla cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, fondata su un giudizio formulato in termini ipotetici”.

Più in generale, l’orientamento prevalente della Corte di Cassazione impone di considerare danni-conseguenza risarcibili quelli riconducibili al fatto illecito secondo principi di regolarità causale che fanno applicazione del criterio dell’id quod plerumque accidit. In questa ottica, la giurisprudenza ritiene risarcibile anche il danno mediato o indiretto, purché sia prodotto da una sequela normale di eventi che traggono origine dal fatto originario secondo la regola probatoria del “più probabile che non”.