Il giudizio di ottemperanza rappresenta uno strumento indispensabile per garantire l’effettività della tutela giurisdizionale nei confronti della Pubblica Amministrazione, imposta dalle fonti costituzionali, euro-unitarie e convenzionali. La peculiare incisività dell’istituto, per come disciplinato nell’ordinamento italiano, rende il giudizio di ottemperanza un unicum nel panorama europeo. Oltre che per la natura mista, cognitoria ed esecutiva ad un tempo, di tale giudizio, esso si caratterizza per la ricchezza di strumenti che possono essere attivati nei confronti dell’Amministrazione.

Accanto al tradizionale modello di carattere surrogatorio, che consente al Giudice di sostituirsi – con cognizione estesa al merito – all’Amministrazione inadempiente, si è recentemente introdotto anche un modello esecutivo di tipo compulsorio.

Attraverso l’istituto, di origine francese, delle astreintes, infatti, a fronte dell’inottemperanza ad una decisione giudiziale esecutiva, il debitore pubblico può essere “indotto” ad adempiere mediante l’irrogazione di sanzioni pecuniarie.

Una questione controversa, recentemente risolta dall’Adunanza Plenaria, ha avuto per oggetto il perimetro applicativo del nuovo rimedio compulsorio nel processo amministrativo, la cui estensione anche alle condanne di dare pecuniario rimaste inadempiute è stata revocata in dubbio. L’Adunanza Plenaria, facendo leva sugli argomenti comparatistico, letterale, sistematico, costituzionale ed equitativo, accede all’indirizzo estensivo. La soluzione fatta propria dall’Adunanza Plenaria è stata, in seguito, recepita dal legislatore che ha provveduto a novellare l’art. 114 c.p.a..

Il giudizio di ottemperanza è volto a garantire nei confronti dell’Amministrazione l’attuazione delle decisioni giudiziali, rispondendo ai principi di effettività ed efficacia della tutela giurisdizionale, sanciti dagli artt. 24 e 113 Cost., nonché dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e dall’art. 13 della Cedu.

In origine il giudizio di ottemperanza, per come introdotto dalla legge Crispi del 1889, era ammesso solo per le sentenze passate in giudicato dell’Autorità giudiziaria ordinaria, aventi per oggetto diritti civili e politici. Si è avuto, in seguito, un imponente ampliamento del campo di applicazione di tale strumento, a partire dalla sentenza con cui nel 1928 il Consiglio di Stato ammise per la prima volta l’ottemperabilità delle proprie decisioni.

La legge 205/2000, recependo un precedente orientamento pretorio, ha esteso il perimetro applicativo del giudizio di ottemperanza anche alle decisioni provvisoriamente esecutive pronunciate dal Giudice amministrativo, mentre per gli altri plessi giurisdizionali l’ottemperabilità è circoscritta alle sentenze passate in giudicato e agli altri provvedimenti ad esse equiparati.

L’art. 112 c.p.a. si è posto in continuità con tale evoluzione normativa, stabilendo che possono essere oggetto di ottemperanza anche i lodi arbitrali divenuti inoppugnabili, nonché le sentenze passate in giudicato e gli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell'ottemperanza, al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della Pubblica Amministrazione di conformarsi alla decisione.

Il giudizio di ottemperanza presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni diverse, talune riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente configurata; altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente, e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito (principio che peraltro, come è noto, non ha copertura costituzionale).

Più precisamente, la disciplina dell’ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile, presenta profili affatto diversi, non solo quanto al “presupposto” (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere:

a) “l’attuazione” delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo “per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza” (art. 112, comma 2). E già in questa ipotesi tradizionale, l’ampiezza della previsione normativa impedisce di ricondurre la natura dell’azione a quella di una mera azione di esecuzione;

b) la condanna “al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza” (art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azione è evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza, poiché le somme ulteriori, al pagamento delle quali l’amministrazione è tenuta, hanno natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è già pronunciata una precedente sentenza o provvedimento equiparato);

c) il “risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato.” (art. 112, comma 3). In questo caso l’azione, che viene definita risarcitoria dallo stesso Codice, non è rivolta all’ “attuazione” di una precedente sentenza o provvedimento equiparato, ma trova in questi ultimi solo il presupposto. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperibile proprio perché è l’ottemperanza stessa che non è realizzata, e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni di economia processuale e quindi di effettività della tutela giurisdizionale (a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio), attribuita al giudice dell’ottemperanza;

d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e ciò sia al fine di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal provvedimento dichiarato nullo – l’attuazione della sentenza passata in giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei danni connessi alla predetta violazione o elusione del giudicato (art. 112, comma 3, ult. parte); danni questi ultimi che possono derivare sia dalla ritardata attuazione del giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimento, una volta verificatone l’effetto causativo di danno.

Come è dato osservare, dunque, nell’ambito del giudizio di ottemperanza, il Codice disciplina azioni diverse (al di là della mera – e tradizionale – distinzione inerente la riconducibilità dell’ “attuazione” richiesta ad una “esecuzione” della sentenza (o provvedimento equiparato), ovvero a più ampi ambiti di conformazione della successiva azione amministrativa, in dipendenza del giudicato medesimo.

A tale quadro, va aggiunto il ricorso, ex art. 112, comma 5, proposto al fine di “ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza”: anche questo non presenta caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero delle azioni di ottemperanza. Ciò emerge anzitutto dalla stessa terminologia usata dal legislatore, il quale - lungi dall’affermare che è l’ “azione di ottemperanza” ad essere utilizzabile in questi casi - afferma che è “il ricorso” introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale) ad essere a tali fini utilizzabile, ma risulta anche chiaro dalla circostanza che, a differenza dell’azione di ottemperanza, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio di cognizione o in altra procedura a questa equiparabile, in questo caso il ricorso appare proponibile dalla parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica Amministrazione soccombente nel precedente giudizio).

Di conseguenza, l’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. c.p.a. (ai quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare l’attuale polisemicità del “giudizio” e dell’ “azione di ottemperanza”, dato che, sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, talaltre di chiara natura cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost.. Sicché il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite dell’art. 113 cpa, deve essere attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto.

La giurisdizione amministrativa, in sede di ottemperanza, contempla una cognizione estesa al merito, alla stregua di quanto stabilito dall’art. 134, lett a), c.p.a..

Il giudizio di ottemperanza è quindi costruito sulla base di un modello surrogatorio, che consente al Giudice, sovente per mezzo del commissario ad acta, suo ausiliario, di sostituirsi all’Amministrazione inadempiente.

Recentemente, al tradizionale modello surrogatorio, si è affiancato un meccanismo di carattere compulsorio, che trae origine dall’ordinamento francese e che è attualmente disciplinato dall’art. 114, comma 3, lett. e), c.p.a..

Ai sensi di tale disposizione, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, il Giudice in caso di accoglimento del ricorso fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo.

Si è così introdotto nel processo amministrativo l’istituto dell’astreinte.

L’esigenza di evitare che una decisione giudiziale definitiva e vincolante resti inoperante a danno di una parte è all’origine della ricerca di strumenti compulsori, suscettibili di indurre il soccombente ad eseguire la sentenza.

I mezzi esecutivi indiretti mirano, infatti, ad ‘indurre’ l’obbligato ad osservare quella condotta collaborativa che è indefettibile ai fini della realizzazione del diritto creditorio, provocando l’adempimento mediante minaccia all’obbligato di una sanzione che gli arrechi uno svantaggio più grave di quello che gli arreca l’adempimento.

Il principale mezzo di coercizione indiretta, recentemente introdotto nell’ordinamento processuale italiano ma già da tempo noto in altre esperienze europee, si rinviene nell’c.d. astreinte, definito come strumento a carattere esclusivamente patrimoniale che ha lo scopo di incentivare l’esecuzione di una sentenza di condanna, attraverso la previsione di una sanzione pecuniaria che la parte inadempiente dovrà versare a favore del creditore vittorioso in giudizio .

Tale strumento indiretto di coazione è attualmente operante, sia pur con talune rilevanti differenze, sia nel processo civile che in quello amministrativo.

Per quanto la funzione essenziale perseguita dall’astreinte sia la medesima in tutti gli ordinamenti nei quali è in vigore, l’istituto si atteggia diversamente per alcuni tratti della disciplina che ne determinano portata e incisività.

Le prime applicazioni dei mezzi di esecuzione indiretta si rinvengono nel diritto romano classico, giusta il quale, nei casi di condanna a rilasciare un fondo o a realizzare un opus, si stabiliva che il soccombente avrebbe dovuto in difetto pagare una somma pari ad una multa del valore del fondo o dell’opera da realizzare.

Giova porre in rilievo che secondo il diritto romano i mezzi di coazione indiretta erano irrogabili per assicurare l’esecuzione di qualunque sentenza di condanna, a prescindere dalla fungibilità dell’oggetto, e si configuravano come misure alternative all’esecuzione. Viceversa, in epoca medievale l’applicazione degli strumenti di induzione all’adempimento era circoscritta ai casi in cui l’interesse del creditore non potesse essere soddisfatto attraverso l’esperimento dell’esecuzione diretta, abbisognando necessariamente della partecipazione del debitore.

In Francia, madrepatria dell’astreinte e precursore – ancora una volta – delle novelle codicistiche italiane, tale strumento d’induzione all’adempimento è stato per la prima volta formalizzato da una sentenza del Tribunale di Cray del 1811, mediante la quale il soccombente fu condannato a “compiere una pubblica ritrattazione sotto pena di dover pagare tre franchi per ogni giorno di ritardo nell’adempimento”, di conseguenza, l’astreinte fu strutturato come una pena privata, non avente il fine di riparare un pregiudizio bensì quello di retribuire una disobbedienza.

La legge 5 luglio 1972, n, 626, ha qualificato l’astreinte come sanzione oggetto di condanna accessoria il cui adempimento non estingue l’obbligazione principale. Conseguentemente, il soccombente può essere condannato a corrispondere un determinato importo al creditore vittorioso a prescindere dall’allegazione di un danno ed in aggiunta al risarcimento del medesimo, stante la cumulabilità della misura reintegrativa con quella sanzionatoria.

Occorre rilevare che nell’ordinamento francese, al pari di quello romano, l’astreinte è comminabile per indurre il soccombente ad eseguire ogni sentenza di condanna, non rilevando che la condotta ordinata sia infungibile, come statuito peraltro dalla giurisprudenza di legittimità in numerosi arresti.

Da ciò discende che lo strumento in esame è costruito, nell’ordinamento francese, come mezzo sanzionatorio che giustifica un trasferimento di ricchezza dal soccombente inadempiente al creditore vittorioso e che, in ossequio alla sua natura meramente compulsorio-retributiva, mira a “punire” l’inosservanza di ogni tipo di sentenza di condanna, indipendentemente dalla fungibilità della prestazione ordinata dal Giudice.

Ulteriore conseguenza è la possibilità di concorso tra due distinte procedure esecutive, una per l’astreinte e l’altra per l’esecuzione forzata della prestazione originaria.

Emerge qui una rilevante differenza tra la struttura dell’astreinte vigente nel diritto processuale francese ed i connotati essenziali degli analoghi strumenti diffusi negli altri ordinamenti europei.

La natura compulsoria dell’istituto, infatti, mirante a punire una disobbedienza all’ordine del Giudice prescindendo dall’allegazione dalla dimostrazione di un qualunque pregiudizio subìto dal creditore, ha indotto i legislatori tedesco ed inglese ad individuare nello Stato il destinatario dell’importo che il soccombente inadempiente è condannato a corrispondere.

Alla stregua della legislazione inglese e tedesca, dunque, non può tradursi in arricchimento del creditore vittorioso la sanzione irrogata per mera inosservanza di un comando dell’autorità giudiziaria, perché altrimenti quest’ultimo conseguirebbe un vantaggio patrimoniale surrogandosi, nei fatti, allo Stato il cui comando è rimasto ineseguito.

Nel sistema processuale tedesco ed inglese, del pari, l’astreinte conserva la funzione di induzione all’adempimento, tuttavia, a differenza dell’ordinamento francese, è rigidamente salvaguardato il principio secondo cui un creditore non può lucrare alcunché dall’esperimento di una azione giudiziaria, potendo viceversa ottenere solo ristoro per una condotta contra ius del soccombente.

Proprio le caratteristiche assunte dall’istituto nei vari ordinamenti consentono di apprezzarne meglio la natura, unica nonostante le specificità nazionali.

Sul piano generale, la tutela coercitiva, mirante a prevenire la verificazione di un pregiudizio, è distinta dalla tutela risarcitoria, la quale ha invece lo scopo di neutralizzare successivamente un pregiudizio già verificatosi, attraverso la reintegrazione in forma specifica del bene danneggiato, o - nei casi in cui ciò non sia possibile - attraverso l’attribuzione di una somma di denaro.

Nella specie, la dottrina, pressoché unanime, qualifica l’astreinte come strumento di esecuzione indiretta che tende ad influire sulla volontà dell’obbligato perché si determini a prestare ciò che deve, cui si aggiunge la finalità di retribuire la disobbedienza ad un ordine del Giudice. Se questo è il tratto comune a tutte le applicazioni dell’istituto, le legislazioni nazionali pongono diverso accento sulla finalità compulsoria ovvero retributiva dell’astreinte.

Ulteriore differenza si riscontra per quanto concerne le condotte coercibili, sia pure indirettamente, mediante astreintes. In taluni ordinamenti (Germania, Romania, Grecia, Slovenia e, parzialmente, Italia) lo strumento è concepito per assistere le sole sentenze di condanna che non possono essere utilmente eseguite tramite esecuzione forzata, quali quelle che ordinano una condotta di fare infungibile o non fare, mentre in altri ordinamenti (Francia, Regno Unito e, parzialmente, Italia) l’astreinte è configurato come un rimedio di carattere generale, impiegabile a prescindere dalla qualificazione della condotta ordinata con la condanna.

Il processo che ha condotto all’introduzione delle misure coercitive indirette nell’ordinamento italiano è stato lungo ed articolato, poiché molto hanno pesato le diffidenze liberal-individualistiche verso strumenti che si riteneva integrassero una forma di eccessiva ingerenza dello Stato nelle libere scelte degli individui anche in merito all’osservanza, in forma specifica o meno, di un comando giudiziale.

Tuttavia, e sia pur limitatamente ai soli obblighi di facere e non facere, già nel 1923 l’art. 667 del Progetto Carnelutti affermava che “Se l’obbligo consiste nel fare o non fare, il creditore può chiedere che il debitore sia condannato a pagargli una pena pecuniaria per ogni giorno di ritardo nell’adempimento a partire dal giorno stabilito dal giudice”. Nei medesimi termini, inoltre, si esprimeva il disegno di legge Reale risalente al 1975.

 La dottrina italiana, nonostante le resistenze riscontrate in sede legislativa, aveva in ogni caso raggiunto un consenso nell’escludere che la tutela tramite astreintes fosse ammissibile nei casi in cui fosse viceversa esperibile l’esecuzione diretta. Tale convinzione ha goduto di una duratura influenza, sino a costituire una delle ragioni che hanno indotto il Consiglio di Stato a pronunciare, in Adunanza Plenaria, la sentenza in commento.

Misure coercitive indirette di carattere pecuniario sono state introdotte, prima della novella del 2009 al codice di procedura civile, solo con riguardo ad ipotesi previste da leggi speciali ed insuscettibili di applicazione analogica.

Tra le principali applicazioni dell’istituto è da menzionare l’art. 18, ult. comma, della l. 20 maggio 1970, n. 300, cosiddetto Statuto dei lavoratori, in virtù del quale, nelle ipotesi di licenziamento illegittimo dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza che dispone la reintegra è tenuto, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari alla retribuzione dovuta al lavoratore.

Ulteriori sanzioni pecuniarie sono previste dagli artt. 124, comma 2, e 131, comma 2 del codice della proprietà industriale, nonché dall’art. 156 della legge sul diritto d’autore, che dispongono l’irrogazione della misura nei casi in cui l’autore della violazione non ottemperi alla pronuncia inibitoria. Tali norme perseguono una funzione preventiva, in quanto mirano a dissuadere il soccombente dal reiterare l’illecito.

Occorre tuttavia segnalare che, nei casi da ultimo citati, autorevole dottrina ha espresso riserve sull’autonomia delle misure in parola dalla riparazione, sia pure indiretta, del pregiudizio insito nella prosecuzione di una condotta attuata in violazione dell’altrui diritto d’autore o di privativa industriale.

Per quanto concerne, inoltre, la materia dei ritardi nei pagamenti delle transazioni commerciali, nei casi in cui sia accertata l’iniquità dell’accordo sulla data del pagamento, o sulle conseguenze del ritardo, il Giudice può disporre, anche su richiesta dell’associazione esponenziale procedente, il pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell’adempimento da parte del soccombente (art. 8, comma 3, d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231).

Tra le misure coercitive previste da leggi speciali, particolare rilevanza va annessa al cosiddetto astreinte consumeristico, previsto dall’art. 140, comma sette, del codice del consumo. In virtù di tale disposizione il Giudice, con il provvedimento che definisce il giudizio, stabilisce un termine per l’adempimento degli obblighi stabiliti e, anche su domanda della parte attrice, dispone il pagamento di una somma di denaro per ogni inadempimento ovvero giorno di ritardo rapportati alla gravità del fatto.

Occorre evidenziare che in materia di protezione dei consumatori, così come dei lavoratori illegittimamente licenziati, l’importo dovuto dal soccombente inadempiente non è destinato alla parte vittoriosa in giudizio, bensì ad un fondo pubblico, in armonia con la natura retributiva e non riparatoria dell’astreinte. Dispone, infatti, l’art. 140, comma 7, ult. periodo, codice del consumo, che le somme determinate dal Giudice devono essere versate “all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze al fondo da istituire nell’ambito di apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministro delle attività prodottive [attualmente, Ministro dello sviluppo economico, n.d.A.], per finanziare iniziative a vantaggio dei consumatori”.

Un’ulteriore ipotesi di astreinte, inserita nel codice di rito dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, si rinviene nell’art. 709 ter, secondo comma, n. 4), c.p.c., giusta il quale nell’ambito di controversie insorte tra genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento, il Giudice può condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria a favore della Cassa delle ammende.

Tale assetto normativo, di carattere frammentario e asistematico, è stato innovato dall’introduzione nel codice di procedura civile, ad opera della legge 18 giugno 2009, n. 69, di una figura generale di astreinte preordinata ad assicurare l’attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare.

Ai sensi dell’art. 614 bis, dunque, il Giudice può, con il provvedimento di condanna, determinare su richiesta di parte la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento.

Requisito negativo della fattispecie è costituito dalla manifesta iniquità dell’irrogazione dell’astreinte, il cui ammontare è determinato “tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”.

La caratteristica saliente dell’istituto si rinviene nel potere attribuito al Giudice di comminare l’astreinte già nel giudizio di cognizione, con il provvedimento che definisce il merito, anteriormente, quindi, alla verificazione dell’inadempimento da parte del soccombente alla sentenza di condanna.

L’astreinte ex art. 614 bis c.p.c. si configura, quindi, come “sanzione ad esecuzione differita, in quanto la sentenza che la commina si atteggia a condanna condizionata (o in futuro) al fatto eventuale dell’inadempimento del precetto giudiziario nel termine all’uopo contestualmente fissato”. È inoltre il caso di rilevare che, per espressa disposizione del codice di rito, il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza.

È rilevante evidenziare che con il decreto legge 27 giugno 2015, n. 83, è stato sostituito l’art. 614 bis c.p.c. L’articolo di nuova formulazione, la cui rubrica reca “Misure di coercizione indiretta”, afferma che, con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro, il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Si conferma, peraltro, che il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni sull’astreinte, inoltre, non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico o privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409.
Si precisa, ulteriormente, che il giudice determina l'ammontare della somma dovuta conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile.

Il d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, ha introdotto anche nel processo amministrativo italiano l’istituto dell’astreinte, sia pure con talune rilevanti differenze rispetto al modello francese.

L’art. 114, comma 4, lett. e), attribuisce al Giudice amministrativo il potere di fissare “la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato”. A differenza dell’ordinamento francese, in Italia l’astreinte può essere irrogato solo in sede di ottemperanza e non anche di merito, da ciò discendendo che nel processo amministrativo italiano la misura coercitiva non si configura come sanzione ad esecuzione differita, destinata a divenire attuale se ed in quanto l’Amministrazione non esegua l’ordine contenuto nella sentenza di merito, ma presuppone che l’inadempimento del debitore sia già stato accertato dal Giudice dell’ottemperanza.

L’astreinte amministrativistico contempla, inoltre, due requisiti negativi, cioè che il provvedimento di condanna alla misura coercitiva non sia “manifestamente iniquo” e che non ricorrano “ragioni ostative”, quest’ultimo requisito non previsto dalla corrispondente fattispecie civilistica.

L’art. 114 c.p.a. tace, a differenza dell’art. 614 bis c.p.c., sia sui parametri in base ai quali calcolare il quantum della sanzione sia sui genera di condotte che possono essere assisti dallo strumento in esame. Dottrina e giurisprudenza hanno avuto, dunque, il compito di chiarire il perimetro applicativo dell’art. 114 c.p.a., profilandosi due opzioni ermeneutiche che tra loro si distinguono in base alla ricostruzione della ratio nonché in base all’autonomia che viene annessa all’istituto di diritto amministrativo rispetto alla generale previsione di astreinte prevista nel codice di procedura civile.

Secondo un più risalente orientamento, “tutte le volte in cui un obbligo sia eseguibile in una delle forme tipiche di esecuzione non è ammissibile la tutela indiretta”, in virtù della considerazione secondo cui comminare una misura coercitiva nelle ipotesi in cui siano utilmente esperibili rimedi surrogatori vulnererebbe la ratio stessa dell’istituto, preordinato ad assicurare uno strumento di “pressione” nei casi in cui, attesa l’infungibilità della condotta, la soddisfazione del creditore non può prescindere dalla collaborazione dell’obbligato soccombente.

Tale orientamento dottrinario, di conseguenza, recisamente nega la possibilità di ricorrere all’astreinte per assicurare l’esecuzione di una condotta fungibile, ed in particolare di dare pecuniario. Inoltre, a prescindere da ogni discorso sulla struttura ontologica dell’istituto, la cumulabilità della somma ricevuta a titolo di astreinte con gli interessi legali sarebbe suscettibile di condurre ad una “duplicazione ingiustificata delle misure volte a ridurre l’entità del pregiudizio”, finanche con la conseguenza paradossale che tale cumulo possa raggiungere un ammontare maggiore della sorte per cui è stata proposta l’azione, determinando un ingiustificato arricchimento per il creditore.

Un altro indirizzo dottrinario, accolto dalla giurisprudenza maggioritaria, sostiene invece che, in termini di ratio, nulla osta all’applicazione delle misure coercitive anche al di fuori del tradizionale perimetro degli obblighi infungibili. In particolare, finalità dell’astreinte sarebbe quella di sanzionare la mancata conformazione del soccombente all’ordine del Giudice, non rilevando in chiave strutturale il genus della condotta rimasta inadempiuta, analogamente a quanto, del resto, è previsto nell’ordinamento francese.

Deporrebbe, inoltre, a favore dell’interpretazione estensiva l’argomento a contrario, atteso che il Legislatore quando ha inteso circoscrivere l’astreinte alle sole condotte infungibili lo ha statuito espressamente (art. 614 bis c.p.c. nonché ipotesi previste dalle leggi speciali), mentre l’art. 114 c.p.a. nulla dispone al riguardo.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 25 giugno 2014, n. 15, ha condiviso l’interpretazione estensiva alla stregua del seguente iter logico-argomentativo.

Anzitutto viene posto in rilievo un argomento di diritto comparato che, prendendo a modello il sistema francese, sulla cui scorta sono stati coniati gli istituti nazionali, rileva che l’astreinte si caratterizza per un’indiscussa funzione sanzionatoria, essendo finalisticamente orientato a costituire una pena per la disobbedienza alla statuizione giudiziaria, piuttosto che un risarcimento per il pregiudizio sofferto a causa di tale inottemperanza.

L’argomento di diritto comparato è corroborato dall’argomento letterale. Si osserva che il legislatore ha scelto di non riprodurre nel Cod. proc. amm. il limite, contenuto nella rubrica dell’art. 614 bis, formulazione previgente, della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi per oggetto un non fare o un fare infungibile. A ciò si aggiunge che l’art. 114 c.p.a. non contiene un rinvio esplicito all’art. 614 bis, né richiama – sia pure implicitamente – il modello processual-civilistico.

Si valorizza, inoltre, l’argomento sistematico. La diversità delle scelte compiute dal legislatore per il processo civile e per quello amministrativo si giustifica in ragione della diversa conformazione dei modelli di esecuzione in cui si inserisce il rimedio in questione. Nel processo civile, stante la distinzione tra sentenze eseguibili in forma specifica e pronunce non attuabili in re, la previsione della penalità di mora per le sole pronunce non eseguibili in modo forzato mira a introdurre una tecnica di coercizione indiretta che supplisce all’assenza di una forma di esecuzione diretta. Nel processo amministrativo, all’opposto, la norma si inserisce in un archetipo processuale in cui, in forza del modello surrogatorio che consente in sede di ottemperanza al Giudice di sostituirsi all’Amministrazione, tutte le prestazioni sono surrogabili, senza distinzioni a seconda della natura delle condotte imposte.

Si considera poi l’argomento costituzionale. L’Adunanza Plenaria rileva che il riscontro di profili di disparità deve essere effettuato tenendo conto dei soggetti di diritto e non delle tecniche di tutela dagli stessi praticabili. Ne deriva che la possibilità, per un creditore pecuniario della Pubblica Amministrazione, di utilizzare due diversi meccanismi di esecuzione, evidenzia un arricchimento del bagaglio delle tutele normativamente garantite in attuazione dell’art. 24 Cost., in uno con i canoni europei e comunitari richiamati dall’art. 1 c.p.a.

Né può ravvisarsi, per l’Adunanza Plenaria, una discriminazione ai danni del debitore pubblico, per essere lo stesso soggetto, diversamente dal debitore privato, a tecniche di esecuzione diversificate e più incisive. La pregnanza dei canoni costituzionali di imparzialità, buona amministrazione e legalità che informano l’azione dei soggetti pubblici qualificano in termini di maggior gravità l’inosservanza, da parte di tali soggetti, del precetto giudiziale, in modo da giustificare la previsione di tecniche di esecuzione più penetranti, tra le quali si annovera il meccanismo delle penalità di mora.

Viene inoltre in rilievo l’argomento equitativo, in virtù del quale essendo le penalità di mora una pena e non una forma di risarcimento, non sussiste un’inammissibile doppia riparazione di un unico danno ma l’aggiunta di una misura sanzionatoria ad una tutela risarcitoria. L’Adunanza Plenaria precisa che la funzione deterrente e general-preventiva delle penalità di mora verrebbe frustrata dalla mancata erogazione della tutela ove vi sia già stato o possa essere assicurato un integrale risarcimento.

Si rileva, infine, che la considerazione delle peculiari condizioni del debitore pubblico, al pari dell’esigenza di evitare locupletazioni eccessive o sanzioni troppo afflittive, costituiscono fattori da valutare non ai fini di un’astratta inammissibilità della domanda relativa a inadempimenti pecuniari, ma in sede di verifica concreta della sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura nonché al momento dell’esercizio del potere discrezionale di graduazione dell’importo.

Non va sottaciuto che l’art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a., proprio in considerazione della specialità, in questo caso favorevole, del debitore pubblico - con specifico riferimento alle difficoltà nell’adempimento collegate a vincoli normativi e di bilancio, allo stato della finanza pubblica e alla rilevanza di specifici interessi pubblici – ha aggiunto al limite negativo della manifesta iniquità, previsto nel codice di rito civile, quello, del tutto autonomo, della sussistenza di altre ragioni ostative.

Il legislatore, recependo l’orientamento fatto proprio dall’Adunanza Plenaria, ha novellato l’art. 114, comma 3, lett. e), c.p.a.. Attraverso la legge 28 dicembre 2015, n. 208, è stato infatti aggiunto alla disposizione un ulteriore periodo, alla cui stregua nei giudizi di ottemperanza aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, la penalità di mora di cui al primo periodo decorre dal giorno della comunicazione o notificazione dell'ordine di pagamento disposto nella sentenza di ottemperanza; detta penalità non può considerarsi manifestamente iniqua quando è stabilita in misura pari agli interessi legali.