Consiglio di Stato, Sezione Sesta, 3 ottobre 2017, n. 4598

Quanto alla ratio dell’istituto della interdittiva antimafia, si tratta di una misura volta - ad un tempo - alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica amministrazione.

Tra gli elementi rilevanti - per quanto di interesse in base al contenuto dell’interdittiva oggetto di giudizio - vi sono i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia, di titolari, soci, amministratori, dipendenti dell'impresa con soggetti raggiunti da provvedimenti di carattere penale o da misure di prevenzione antimafia. L'amministrazione può ragionevolmente attribuire loro rilevanza quando essi non siano frutto di casualità o, per converso, di necessità; tali contatti o frequentazioni (anche per le modalità, i luoghi e gli orari in cui avvengono) possono far presumere, secondo la logica del “più probabile che non”, che l'imprenditore - direttamente o anche tramite un proprio intermediario - scelga consapevolmente di porsi in dialogo e in contatto con ambienti mafiosi; quand’anche ciò non risulti punibile (salva l'adozione delle misure di prevenzione), la consapevolezza dell'imprenditore di frequentare soggetti mafiosi e di porsi su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità (che lo Stato deve invece demarcare e difendere ad ogni costo) deve comportare la reazione dello Stato proprio con l'esclusione dell'imprenditore medesimo dal conseguimento di appalti pubblici e comunque degli altri provvedimenti abilitativi individuati dalla legge.

Non è richiesta la prova dell'attualità delle infiltrazioni mafiose, dovendosi solo dimostrare la sussistenza di elementi dai quali è deducibile - secondo il principio del “più probabile che non” - il tentativo di ingerenza, o una concreta verosimiglianza dell'ipotesi di condizionamento sulla società da parte di soggetti uniti da legami con cosche mafiose, e dell'attualità e concretezza del rischio.

È estranea al sistema delle informative antimafia, non trattandosi di provvedimenti nemmeno latamente sanzionatori, qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (né - tanto meno - occorre l'accertamento di responsabilità penali, quali il "concorso esterno" o la commissione di reati aggravati ai sensi dell'art. 7 della legge n. 203 del 1991), poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell'informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2345 del 2011, proposto da:
Geotec Ambiente s.r.l. in proprio e quale Capogruppo R.T.I., R.T.I. Ecocampania s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'avvocato Pietro Quinto, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Alfredo Placidi in Roma, via Cosseria, 2;

contro

Consorzio Ato Sud Salento Bacino Le/3, Igeco Costruzioni s.p.a., non costituiti in giudizio;
Monteco s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Federico Massa, Francesco Cantobelli, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via Claudio Monteverdi, 20;
U.T.G. - Prefettura di Lecce, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza 9 dicembre 2010,7 n. 2810 del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, Sezione staccata di Lecce, Sezione II.

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visti gli atti di costituzione in giudizio di Monteco s.r.l. e di U.T.G. - Prefettura di Lecce;

viste le memorie difensive;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 giugno 2017 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti gli avvocati Quinto e Leonardo, in dichiarata delega dell’avvocatoMassa, e l’avvocato dello Stato Alessia Urbani Neri.

 

FATTO

1.– Il responsabile dei servizi tecnici del Consorzio Ato Sud Salento Bacino Le/3 ha affidato all’ATI Geotec Ambiente s.r.l. (mandataria) ed a Ecocampania s.r.l (mandante) un appalto di servizi avente ad oggetto attività di igiene urbana nei Comuni di Castrignano del Capo e di Tricase per un importo complessivo di euro 9.267.270,00.

La Prefettura di Lecce, con nota del 7 giugno 2007, n. 706, rilasciata informativa interdittiva antimafia per Geotec Ambiente, con quale si affermava che «sul conto della ditta Geotec Ambiente s.rl., con sede in Veglie, il cui amministratore unico è Serafino Alessandro, è emerso che la stessa è riconducibile al pluripregiudicato Rosario Gianluigi (di fatto, socio e responsabile amministrativo della ditta in parola), già rinviato a giudizio per i reati di cui agli articoli 110 – 81 cod. pen. e 51, comma 1, 53-bis del d.lgs. n. 22 del 1997, con l’aggravante di avere agito per agevolare l’associazione mafiosa ex art. 7 del decreto-legge n. 151 del 1991». Nella nota si aggiungeva che «dalle informazioni acquisite risulta che il Rosafio utilizzerebbe la suddetta Geotec Ambiente s.r.l. prioritariamente al fine di partecipare a gare di appalto di enti pubblici cui, stante i precedenti specifici, non potrebbe accedere». Per queste ragioni si conclude nel senso del rilascio, «acquisito il parere favorevole del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza», dell’informativa interdittiva all’affidamento «stante la contiguità del Rosafo ad ambienti criminali, in virtù anche della stretta parentela con il pluripregiudicato Giuseppe Scarlino di Taurisano».

A seguito di tale interdittiva la società, all’esito dell’assemblea dei soci del 22 giugno 2007, provvedeva ad effettuare rilevanti modifiche della compagine societaria e in particolare: a) licenziava Rosafio Giuanluigi, la moglie Scarlino Luce Tiziana e la sorella Rosafio Miriam; b) revocava, con atto notarile del 20 giugno 2007, la procura speciale conferita in data 12 aprile 2007; c) inibiva al Rosafio di accedere ai locali dell’azienda, di intrattenere rapporti con i dipendenti, con gli organi amministrativi o di controllo della società; d) diffidava i dipendenti ad intrattenere rapporti con il Rosafio; e) trasferiva la sede operativa della Geotec Ambiente s.r.l. da Taurisano a Casarano; f) comunicava agli istituti di credito l’interruzione di qualsiasi rapporto reale, personale o di garanzia tra Rosafio Gianluigi e la Getec Ambiente s.r.l.

Successivamente all’adozione di tali modifiche, la società chiedeva alla Prefettura di riesaminare la vicenda amministrativa.

La Prefettura, con nota dell’11 luglio 2007, n. 1036, confermava la propria precedente determinazione e, pertanto, la stazione appaltante, con deliberazione 22 agosto 2007, n. 67, revocava l’aggiudicazione, sopra indicata.

2.– La società ha impugnato i predetti provvedimenti innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, che, con sentenza 9 dicembre 2010,7 n. 2810, ha rigettato il ricorso.

3.– La ricorrente in primo grado ha proposto appello.

3.1.– Si è costituita in giudizio l’amministrazione intimata, chiedendo il rigetto.

3.2.– Con successiva memoria l’appellante ha dedotto che, a seguito dell’intervento della Cassazione che, con sentenza 3 febbraio 2016, n. 229, aveva annullato la sentenza 21 febbraio 2011, di condanna della Corte di appello di Lecce, quest’ultima aveva «definitivamente assolto il Rosafio dalla contestata aggravante di avere agito per agevolare l’associazione mafiosa di cui all’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991». A tale fine, la parte ha depositato il dispositivo della Corte di appello del 3 febbraio 2016.

3.3.– La Sezione, con ordinanza 4 agosto 2016, n. 3530, ha disposto l’acquisizione della motivazione della sentenza della Corte di appello.

3.4.– L’appellante, in data 26 novembre 2016, ha deposita tale sentenza, pubblicata in data 21 ottobre 2016.

4.– La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 27 giugno 2017.

DIRITTO

1.– La questione all’esame della Sezione attiene alla legittimità delle interdittive antimafia indicate nella parte motiva della presente sentenza.

2.– In via preliminare è necessario ricostruire il quadro normativo rilevante

L’art. 10 del decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252 (Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia), applicabile ratione temporis, prevede che: «quando, a seguito delle verifiche disposte dal Prefetto, emergono elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate, le amministrazioni cui sono fornite le relative informazioni, non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti o subcontratti, né autorizzare, rilasciare o comunque consentire le concessioni e le erogazioni» (comma 2).

Le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa sono desunte: «a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluno dei delitti di cui agli articoli 629, 644, 648-bis, e 648-ter del codice penale, o dall'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale; b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di cui agli articoli 2-bis, 2-ter, 3-bis e 3-quater della legge 31 maggio 1965, n. 575; c) dagli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell'interno, ovvero richiesti ai prefetti competenti per quelli da effettuarsi in altra provincia» (comma 7).

Le fattispecie di cui alle lettere a) e b) sono “tipiche” e «non lasciano all’organo statale margini di valutazione, dovendo quest’ultimo limitarsi a verificare se siano stati adottati i provvedimenti espressamente contemplati dalle medesime disposizioni».

La fattispecie di cui alla lettera c), che rileva in questa sede, prevede una fattispecie “atipica”, con la conseguenza che «la Prefettura deve fornire puntuali e motivate indicazioni in ordine agli accertamenti in concreto disposti (anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento all'uopo delegati) al fine di stabilire la sussistenza di concreti elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa idonei a condizionale le scelte dell'impresa» (Cons. Stato, sez. VI, 10 aprile 2014, n. 1730).

L’art. 11 dello stesso decreto prevede che le amministrazioni, nel caso in cui il contratto sia stato già stipulato, hanno un potere discrezionale di facoltà e di recesso.

La disciplina vigente dell’informativa antimafia è contenuta negli artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136).

In relazione a tale disciplina, la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. III, n. 669 del 2017, che richiama Cons. Stato, Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743) ha affermato, con statuizioni generali ricostruttive del sistema, che:

- l’informativa antimafia presuppone concreti elementi da cui risulti che l’attività d'impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata;

- quanto alla ratio dell’istituto della interdittiva antimafia, si tratta di una misura volta - ad un tempo - alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica amministrazione;

- l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore - pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione - meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti "affidabile") e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge;

- ai fini dell’adozione del provvedimento interdittivo, rileva il complesso degli elementi concreti emersi nel corso del procedimento: una visione “parcellizzata” di un singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame sistematico con gli altri;

- è estranea al sistema delle informative antimafia, non trattandosi di provvedimenti nemmeno latamente sanzionatori, qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (né - tanto meno - occorre l'accertamento di responsabilità penali, quali il "concorso esterno" o la commissione di reati aggravati ai sensi dell'art. 7 della legge n. 203 del 1991), poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell'informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante;

- il rischio di inquinamento mafioso deve essere valutato in base al criterio del più “probabile che non”, alla luce di una regola di giudizio, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso;

- pertanto, gli elementi posti a base dell'informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione;

- tra gli elementi rilevanti - per quanto di interesse in base al contenuto dell’interdittiva oggetto di giudizio - vi sono i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia, di titolari, soci, amministratori, dipendenti dell'impresa con soggetti raggiunti da provvedimenti di carattere penale o da misure di prevenzione antimafia, l'amministrazione può ragionevolmente attribuire loro rilevanza quando essi non siano frutto di casualità o, per converso, di necessità; tali contatti o frequentazioni (anche per le modalità, i luoghi e gli orari in cui avvengono) possono far presumere, secondo la logica del “più probabile che non”, che l'imprenditore - direttamente o anche tramite un proprio intermediario - scelga consapevolmente di porsi in dialogo e in contatto con ambienti mafiosi; quand’anche ciò non risulti punibile (salva l'adozione delle misure di prevenzione), la consapevolezza dell'imprenditore di frequentare soggetti mafiosi e di porsi su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità (che lo Stato deve invece demarcare e difendere ad ogni costo) deve comportare la reazione dello Stato proprio con l'esclusione dell'imprenditore medesimo dal conseguimento di appalti pubblici e comunque degli altri provvedimenti abilitativi individuati dalla legge;

- in altri termini, l'imprenditore che - mediante incontri, telefonate o altri mezzi di comunicazione, contatti diretti o indiretti - abbia tali rapporti (e che si espone al rischio di esserne influenzato per quanto riguarda le proprie attività patrimoniali e scelte imprenditoriali) deve essere consapevole della inevitabile perdita di 'fiducia', nel senso sopra precisato, che ne consegue (perdita che il provvedimento prefettizio attesta, mediante l'informativa)".

Nella sentenza si richiamano anche i seguenti principi affermati da altra giurisprudenza del Consiglio di stato:

- non è richiesta la prova dell'attualità delle infiltrazioni mafiose, dovendosi solo dimostrare la sussistenza di elementi dai quali è deducibile - secondo il principio del “più probabile che non” - il tentativo di ingerenza, o una concreta verosimiglianza dell'ipotesi di condizionamento sulla società da parte di soggetti uniti da legami con cosche mafiose, e dell'attualità e concretezza del rischio (Cons. Stato, Sez. III, 5 settembre 2012 n. 4708);

- l'ampia discrezionalità di apprezzamento del Prefetto in tema di tentativo di infiltrazione mafiosa comporta che la valutazione prefettizia sia sindacabile in sede giurisdizionale in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (Cons. Stato, sez. V, 7 agosto 2001, n. 4724);

- tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo sotto il solo profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (Cons. Stato, sez. V, 25 giugno 2010, n. 7260).

2.– Con un primo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto che, in forza di un giudicato, formatosi a seguito dell’adozione della sentenza 29 aprile 2010, n. 2460 del Consiglio di Stato, che ha annullato gli atti presupposti in questo giudizio, costituiti dalle interdittive antimafia, il ricorso di primo grado avrebbe dovuto essere accolto. In altri termini, si afferma che la presente vicenda sarebbe “coperta” da un giudicato favorevole all’appellante.

Il motivo non è fondato.

La giurisprudenza è costante nel ritenere che l’autorità del giudicato sostanziale esterno «opera soltanto entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell'azione e presuppone che tra la precedente causa e quella in atto vi sia identità di parti, di “petitum” e di “causa petendi » (tra le altre, Cass. civ., sez. I, 24 marzo 2014, n. 6830).

Nella fattispecie in esame non sussiste tale identità.

Nel processo amministrativo la valutazione del profilo oggettivo relativo al contenuto delle statuizioni contenute nelle sentenze deve avere riguardo alla natura dell’azione proposta, all’atto impugnato in relazione alla specifica posizione soggettiva fatte valere e alle effettive illegittimità riscontrate alla luce del complessivo rapporto nell’ambito del quale l’atto si inserisce.

Nella fattispecie oggetto della precedente sentenza è stata impugnata, in particolare, l’interdittiva antimafia del 15 dicembre 2007, che confermava un provvedimento precedente e che ha costituito il presupposto degli atti consequenziali adottati dal Comune di Casarano, con i quali è stato esercitato il potere discrezionale di recesso. In particolare, si è provveduto a revocare l’aggiudicazione del servizio di igiene urbana e a risolvere il contratto di appalto stipulato in data 21 aprile 2006. Nella sentenza citata si è messo in rilievo come l’amministrazione locale abbia proceduto ad interrompere i rapporti contrattuali «sull’erroneo presupposto di un inesistente automatismo di portata caducante del contratto». Tale amministrazione, si sottolinea sempre nella sentenza, avrebbe dovuto effettuare un’autonoma valutazione delle ragioni idonee a giustificare lo scioglimento del vincolo contrattuale. Detto obbligo, si prosegue, «appare nella fattispecie ancora più pregnante alla luce degli indiscutibili elementi di dissociazione medio tempore intervenuti (sostituzione dell’Amministratore unico e della compagine sociale e cambio della sede legale) e comunicati alla stazione appaltante dall’impresa affidataria del servizio pubblico in questione»; aggiungendosi che «sul punto si deve altresì rilevare che gli elementi posti a fondamento dell’interdittiva non appaiono raggiungere la soglia di rilevanza minima e così deve dirsi, peraltro, per gli accertamenti a carico delle società eseguiti successivamente all’adozione del provvedimento di interdizione».

Nella fattispecie in esame sono state impugnate due interdittive antimafia, il cui contenuto è stato sopra riportato, che hanno costituito il presupposto dell’atto di revoca dell’aggiudicazione disposta dai Comuni, con conseguente impedimento alla stipulazione del contratto.

Alla luce di quanto esposto, risulta come i due giudizi non siano sovrapponibili.

In primo luogo, perché, pur essendo stata proposta in entrambi tali giudizi, un’azione di annullamento, essa ha avuto ad oggetti provvedimento di interdittiva antimafia differenti in ragione della loro natura individuale, come risulta anche dalla diversità di numero e data.

In secondo luogo, e soprattutto, le illegittimità riscontrate sono state diverse in ragione della diversità del rapporto all’interno del quali i provvedimenti si sono collocati.

Nel primo giudizio, definito, con la sentenza n. 2460 del 2010, l’amministrazione comunale, essendo stato stipulato già il contratto, era titolare di un potere di autonoma valutazione che, nella specie, non aveva esercitato in modo adeguato. Nel giudizio in esame il contratto non era stato ancora stipulato, con la conseguente mancanza di uno spazio di autonoma valutazione da parte dei Comuni.

In definitiva, le “ragioni” dell’annullamento non sono state identiche, con la conseguenza che non può operare il vincolo del giudicato nella definizione della presente controversia.

3.‒ L’appellante assume, anche se non sembra avere prospettato un autonomo motivo di appello, che il quadro delineato dalla Prefettura sarebbe mutato a seguito della sentenza della Corte di Appello 21 ottobre 2016, che è seguita alla sentenza 3 febbraio 2016, n. 229 della Corte di Cassazione, che, a sua volta, aveva annullato la sentenza 21 febbraio 2011 della stessa Corte di appello di Lecce.

Il rilievo, a prescindere dai profili di ammissibilità, non è condivisibile.

Con tale sentenza la Corte di appello si è limitata a ritenere prescritto il reato ma non ha ritenuto insussistente la materiale commissione di fatti idonei ad integrare l’aggravante dell’intimidazione mafiosa. In particolare, nella prima sentenza la Corte di appello aveva accertato la commissione dei reati relativi alla gestione di rifiuti non autorizzati e al traffico illecito di rifiuti (artt. 51 e 53 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22), con l’aggravante del metodo mafioso di cui all’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152. In particolare, tale metodo era stato ritenuto sussistente per la «continua evocazione da parte del Rosafio della figura del suocero onde allontanare possibili concorrenti nella gestione illecita dei rifiuti e creare una situazione di monopolio nella zona».

A seguito dell’annullamento con rinvio da parte della Cassazione per accertamenti relativi al tempo di commissione dei reati, la Corte di appello, con la seconda sentenza, ha affermato che «deve considerarsi definitivamente acclarato che il Rosafio abbia in concreto posto in essere le condotte descritte nel capo di imputazione (…)ed abbia gestito le imprese di rifiuti a lui direttamente o indirettamente riconducibili con i metodi descritti nel capo di imputazione, i quali, sempre secondo la Corte di Cassazione, integrano una forma meno “diretta” ». Nondimeno, la Corte di Cassazione «ha colto un elemento di discrasia di tipo cronologico tra gli atteggiamenti integranti il metodo mafioso e la data del reato commesso avvalendosi di detto metodo». In particolare, si è ritenuto non condivisibile «il principio dell’immanenza del metodo mafioso una volta avviato» negli anni novanta ma, si legge nella seconda sentenza della Corte di appello, «occorreva e occorre la prova che anche quando andava a compiere i fatti specifici» di cui al reato contestato «egli abbia operato mantenendo intatto e dunque avvalendosi del metodo mafioso». Mancando la prova che il suddetto metodo sia stato posto in essere nell’arco temporale relativo alla contestazione dei reati, quest’ultimi, senza la circostanza aggravante, sono stati ritenuti prescritti.

In definitiva, fermo quanto sopra esposto in ordine all’autonomia degli accertamenti amministrativi compiuti dalla Prefettura, la sentenza del giudice penale, alla luce del suo contenuto, non ha inciso sul quadro indiziario ricostruito nelle note prefettizie impugnate, che, in difetto di una dimostrata loro manifesta irragionevolezza, mantengono intatta la loro idoneità interdittiva.

3.– Il rigetto dei motivi sopra riportati rende infondate le pretese risarcitorie basate sulla illegittimità degli atti impugnati, mancando uno degli elementi costitutivi del fatto illecito.

4.– La natura della controversia e in particolare delle questioni poste giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando:

a) rigetta l’appello proposto con il ricorso indicato in epigrafe;

b) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 giugno 2017 con l'intervento dei magistrati:

Luciano Barra Caracciolo, Presidente

Silvestro Maria Russo, Consigliere

Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore

Francesco Mele, Consigliere

Francesco Gambato Spisani, Consigliere

 

 

Guida alla lettura

 

Il Consiglio di Stato conferma la ratio e i requisiti di legittimità delle interdittive prefettizie antimafia individuati dalla giurisprudenza amministrativa. Se questi requisiti sussistono, allora la stazione appaltante può revocare l'aggiudicazione o recedere dal contratto già stipulato con l'impresa controllata dalla mafia.

In particolare, la ratio dell'interdittiva antimafia è impedire che operatori economici contigui a consorterie mafiose si aggiudichino le commesse pubbliche. Evidente è allora lo scopo ultimo dell'interdittiva: impedire alla criminalità organizzata di arricchirsi tramite le imprese che essa controlla. E arricchire le mafie devolvendo loro denaro pubblico è probabilmente più riprovevole che farlo in altro modo. Questa osservazione è solo apparentemente metagiuridica, poiché  riassume verosimilmente lo spirito generale della legislazione antimafia in materia di contratti pubblici: dunque anche lo spirito delle interdittive prefettizie. Se infatti le mafie incrementano i loro profitti incamerando denaro pubblico, viene danneggiata l'intera collettività; non un solo individuo o un circoscritto gruppo sociale. Quel denaro proviene infatti dalla collettività e ad essa deve ritornare in forma di opere pubbliche, servizi, beni. Il danno è quindi maggiore perché più vasto: investe tutti e non qualcuno in particolare. Ciò vale anche quando la p.a. non sopporta un esborso finanziario: è sufficiente che le imprese mafiose non traggano un vantaggio dall'esercizio del potere pubblico. Diversamente, quindi, verrebbe violato innanzitutto il principio concorrenziale. Le imprese mafiose possono infatti aggiudicarsi gli affidamenti più facilmente che i comuni operatori economici: esse sfruttano la loro forza di intimidazione e spesso la connivenza o la collusione dei funzionari pubblici; i secondi no. Può perciò accadere che un'impresa mafiosa sprovvista dei requisiti tecnico-finanziari previsti dal bando, oltre che ovviamente di quelli morali, vinca una gara pubblica solo perché ha intimidito i componenti della stazione appaltante, o perché ha sfruttato la loro connivenza o la loro collusione. E che quindi esegua un lavoro, un servizio o una fornitura scadenti. In queste ipotesi è la collettività a subire un danno, per esempio se l'impresa mafiosa ha realizzato un'opera pubblica violando le norme sulla sicurezza; se il servizio prestato è inefficiente; se il bene fornito è pericoloso. Risponde dunque all'interesse pubblico aggiudicare le gare alle imprese adatte moralmente, tecnicamente e finanziariamente. Solo queste ultime possono infatti garantire alla collettività la buona qualità di lavori, servizi e forniture. Perciò: "Quanto alla ratio dell’istituto della interdittiva antimafia, si tratta di una misura volta - ad un tempo - alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica amministrazione".

L'interdittiva antimafia è inoltre legittima se è proporzionata agli accertamenti compiuti sui suoi destinatari. Sono cioè possibili tre fondamentali ipotesi:

  1. un imprenditore concorrente in una gara pubblica frequenta abitualmente mafiosi o ne è amico, ma non commette alcun reato.
  2. un imprenditore concorrente in una gara pubblica frequenta abitualmente mafiosi o ne è amico, e commette reati. Per esempio: associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa.
  3. i reati di mafia commessi da un imprenditore concorrente in una gara pubblica sono stati dichiarati prescritti.

Secondo il Consiglio di Stato, l'interdittiva è legittima in tutte e tre le ipotesi. E legittimi sono dunque la revoca dell'aggiudicazione o il recesso dal contratto stipulato con l'impresa mafiosa. Nelle tre ipotesi, infatti, è ragionevole presumere: che l'imprenditore sfrutti le sue frequentazioni o amicizie mafiose per aggiudicarsi la gara; e che voglia aggiudicarsi la gara per arricchirsi e arricchire la consorteria mafiosa alla quale è contiguo. Se perciò queste frequentazioni o amicizie sono provate, l'amministrazione non può fidarsi dell'imprenditore: non può quindi stipulare un contratto con lui. In caso contrario, infatti, opere, servizi o forniture di interesse pubblico incrementerebbero probabilmente le risorse finanziarie dei sodalizi mafiosi. Rafforzandone quindi la capacità operativa e il potere economico. Il criterio probatorio che legittima l'adozione dell'interdittiva antimafia è dunque quello civilistico del "più probabile che non"; non è quello penalistico dell'"oltre ogni ragionevole dubbio". In parole più semplici: un imprenditore che frequenta mafiosi può anche astrattamente essere onesto e persino possedere i requisiti tecnico-finanziari previsti dal bando; ma è più probabile che così non sia: lo suggerisce l'esperienza. Lo scopo ultimo dell'interdittiva antimafia è quindi prevenire che i sodalizi mafiosi si arricchiscano acquisendo risorse finanziarie pubbliche o altrimenti traendo vantaggi dalla contiguità al potere pubblico; non è invece reprimere un illecito già commesso. Questa seconda funzione è infatti devoluta all'autorità giudiziaria penale; la prima è devoluta invece all'autorità di pubblica sicurezza e, consequenzialmente, alle stazioni appaltanti. Prefetture ed Enti appaltanti evitano infatti che gli affidamenti pubblici siano aggiudicati alle mafie: le prime con lo strumento dell'interdittiva; i secondi revocando l'aggiudicazione o recedendo dai contratti stipulati con gli operatori raggiunti dall'interdittiva. Perciò: "I contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia, di titolari, soci, amministratori, dipendenti dell'impresa con soggetti raggiunti da provvedimenti di carattere penale o da misure di prevenzione antimafia (...) possono far presumere, secondo la logica del “più probabile che non”, che l'imprenditore - direttamente o anche tramite un proprio intermediario - scelga consapevolmente di porsi in dialogo e in contatto con ambienti mafiosi; quand’anche ciò non risulti punibile (salva l'adozione delle misure di prevenzione), la consapevolezza dell'imprenditore di frequentare soggetti mafiosi e di porsi su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità (che lo Stato deve invece demarcare e difendere ad ogni costo) deve comportare la reazione dello Stato proprio con l'esclusione dell'imprenditore medesimo dal conseguimento di appalti pubblici e comunque degli altri provvedimenti abilitativi individuati dalla legge".

L'interdittiva è allora un provvedimento largamente discrezionale. Come si è detto, non è necessario accertare rigorosamente l'effettiva pericolosità dell'operatore economico che partecipa alla gara: è invece sufficiente che egli frequenti mafiosi per negargli l'affidamento. Si presuppone infatti che solo persone moralmente equivoche intrattengano rapporti amicali con esponenti del mondo criminale o li frequentino a diverso titolo. E le gare pubbliche devono essere aggiudicate a persone moralmente integre. Quelle equivoche vanno escluse. Anche se non commettono reati. Quindi: "L'ampia discrezionalità di apprezzamento del Prefetto in tema di tentativo di infiltrazione mafiosa comporta che la valutazione prefettizia sia sindacabile in sede giurisdizionale in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento".