Nota a Corte di giustizia, Terza Sezione, sent. 14 luglio 2016, in causa C-406/14, Wrocław

1.     La sentenza Wroclaw.

Con la sentenza in commento la Corte di giustizia ha stabilito che

“la direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, come modificata dal regolamento (CE) n. 2083/2005 della Commissione, del 19 dicembre 2005, deve essere interpretata nel senso che un’amministrazione aggiudicatrice non è autorizzata ad imporre, mediante una clausola del capitolato d’oneri di un appalto pubblico di lavori, che il futuro aggiudicatario esegua una determinata percentuale dei lavori oggetto di detto appalto avvalendosi di risorse proprie” (dispositivo, punto 1).

La questione è emersa in relazione ad un contratto di lavori sopra soglia aggiudicato con procedura ristretta dalla città di Wroclaw (Breslavia) in Polonia. Il contratto era oggetto di co-finanziamento dal Fondo di coesione e dal FESR e le autorità di controllo nazionali hanno ritenuto illegittima la procedura in quanto contraria al diritto dell’Unione giacché la disciplina di gara prevedeva una clausola per la quale «L’operatore economico aggiudicatario è tenuto ad eseguire avvalendosi di risorse proprie almeno il 25% dei lavori compresi nell’appalto» (§16).

Non mi occuperò dei profili relativi al co-finanziamento ma solo di quelli relativi alla disciplina dei contratti pubblici.

Il diritto polacco applicabile al caso prevede che «L’amministrazione aggiudicatrice può indicare nel capitolato d’oneri la parte dell’appalto che non può essere subappaltata» (§13). Tale previsione sarebbe interpretata nel senso che il subappalto non è consentito se non quando e nella misura in cui sia ammesso dalla stazione appaltante (§23).

Il giudice del rinvio sollevava la questione in relazione a due profili:

1)             premesso che la sentenza 18 marzo 2004, in causa C‑314/01, Siemens e ARGE Telekom (EU:C:2004:159) interpreta la direttiva 2004/18 nel senso che sia possibile il ricorso al subappalto per l’esecuzione di appalti pubblici a condizione che ciò non abbia come effetto di privare della possibilità di partecipare alla procedura di gara gli operatori economici che intendono avvalersi delle capacità tecniche ed economiche di subappaltatori, il giudice chiede se un’amministrazione aggiudicatrice sia autorizzata a esprimere in percentuale l’entità dei lavori che l’aggiudicatario è tenuto ad eseguire personalmente (§25);

2)             inoltre, il giudice del rinvio chiede (§26) se una clausola come quella in discussione, limitando la possibilità per le piccole e medie e imprese (PMI) di partecipare alla realizzazione di lavori oggetto di un appalto pubblico, possa violare il principio dell’apertura degli appalti pubblici a una concorrenza non falsata, giacché tale apertura riguarda tutte le imprese, a prescindere dalle loro dimensioni, e un’attenzione particolare deve essere data in proposito alle PMI (richiama in particolare la sentenza della Corte di giustizia, 10 ottobre 2013, in causa C‑94/12, Swm Costruzioni 2 e Mannocchi Luigino).

La Corte liquida la questione in maniera piuttosto netta affermando che la direttiva conferisce agli operatori economici il diritto di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto, in linea di principio, in modo illimitato; fa eccezione il caso in cui l’amministrazione non sia in grado di verificare le capacità dei subappaltatori in occasione della valutazione delle offerte e della selezione dell’aggiudicatario in relazione a parti dello specifico appalto individuate come essenziali.

La decisione della Corte di giustizia non sorprende ma si inserisce in un filone consolidato sul tema dell’ampiezza del ricorso al subappalto e della sua ratio pro-concorrenziale[1].

Vale la pena riprodurre testualmente i punti 31-35 della motivazione.

“Ai sensi del primo comma dell’articolo 25 della direttiva 2004/18, l’amministrazione aggiudicatrice può chiedere o può essere obbligata da uno Stato membro a chiedere all’offerente di indicare, nella sua offerta, le parti dell’appalto che intende subappaltare a terzi, nonché i subappaltatori proposti.

Come la Corte ha constatato al punto 31 della sentenza del 10 ottobre 2013, Swm Costruzioni 2 e Mannocchi Luigino (C‑94/12, EU:C:2013:646), con tale articolo la direttiva ammette il ricorso al subappalto, senza indicare limitazioni in proposito.

Al contrario, l’articolo 48, paragrafo 3, di tale direttiva – prevedendo la facoltà per gli offerenti di provare che, facendo affidamento sulle capacità di soggetti terzi, essi soddisfano i livelli minimi di capacità tecniche e professionali stabiliti dall’amministrazione aggiudicatrice, a condizione di dimostrare che, qualora l’appalto venga loro aggiudicato, disporranno effettivamente delle risorse necessarie per la sua esecuzione, risorse che non appartengono loro personalmente – sancisce la possibilità per gli offerenti di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto, e ciò, in linea di principio, in modo illimitato.

Tuttavia, qualora i documenti dell’appalto impongano agli offerenti di indicare, nelle offerte, le parti dell’appalto che essi hanno eventualmente l’intenzione di subappaltare e i subappaltatori proposti, conformemente all’articolo 25, primo comma, della direttiva 2004/18, l’amministrazione aggiudicatrice ha il diritto, per quanto riguarda l’esecuzione di parti essenziali dell’appalto, di vietare il ricorso a subappaltatori quando non sia stata in grado di verificare le loro capacità in occasione della valutazione delle offerte e della selezione dell’aggiudicatario (cfr., in tal senso, sentenza del 18 marzo 2004, in causa C‑314/01, Siemens, § 45).

Questa non è tuttavia la portata di una clausola quale quella di cui al procedimento principale, che impone limitazioni al ricorso a subappaltatori per una parte dell’appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, e ciò a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità di eventuali subappaltatori e senza menzione alcuna del carattere essenziale degli incarichi di cui si tratterebbe. Sotto tutti tali profili, una clausola del genere risulta incompatibile con la direttiva 2004/18, pertinente nell’ambito del procedimento principale”.

 

2.     Il limite quantitativo al subappalto nell’ordinamento italiano e la sua illegittimità.

Le conclusioni raggiunte dalla Corte di giustizia inducono ad interrogarsi circa la legittimità del limite del 30% delle prestazioni subappaltabili, previsto oggi dall’art. 105, comma 2, D.Lgs. n. 50/2016 (ed in precedenza dall’art. 118, comma 2, D.Lgs. 163/2006) anche alla luce della direttiva 2014/24, in particolare gli artt. 63 e 71.

La norma nazionale prevede oggi, per quanto qui rileva, che “i soggetti affidatari dei contratti di cui al presente codice eseguono in proprio le opere o i lavori, i servizi, le forniture compresi nel contratto […]. Fatto salvo quanto previsto dal comma 5, l'eventuale subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture”. Inoltre “Per le opere di cui all'articolo 89, comma 11, e fermi restando i limiti previsti dal medesimo comma, l'eventuale subappalto non può superare il trenta per cento dell'importo delle opere e non può essere, senza ragioni obiettive, suddiviso.”

Sul tema, a seguito di un esposto dell’ANCE, ha preso posizione la Commissione europea con la lettera inviata al Governo italiano il 23.03.2017 (Prot. GROW7G17LE – grow.ddg2.g.1(2017)1409821), nella quale, richiamata la giurisprudenza comunitaria, si rileva con preoccupazione l’esistenza di (i) un generale divieto di subappalto in assenza di autorizzazione e (ii) un limite massimo per le opere da subappaltare fissato in ogni caso al 30%. La Direzione Generale del Mercato interno, dell’industria, dell’imprenditoria e delle PMI conclude esortando l’Italia a modificare l’art. 105 del Codice dei contratti pubblici in occasione del primo correttivo.

L’invito della Commissione è stato disatteso dal Governo italiano benché la legge delega lasciasse ampio spazio per una azione conforme al diritto comunitario[2].

Invero la prima bozza del decreto legislativo di recepimento delle direttive consegnata al Parlamento nel 2016 aveva superato il limite del 30% e la relazione di accompagnamento esplicitamente motivava tale scelta affermando che “L'articolo non pone limiti alla possibilità di subappalto, a differenza della disciplina del codice del 2006 che stabiliva il limite del 30 per cento per le categorie prevalenti, posto che la direttiva lascia sostanzialmente libera tale facoltà e che il nostro ordinamento e la legge delega prevedono il divieto di c.d. gold plating. Tuttavia si impone che il subappaltatore debba garantire gli stessi prezzi e lo stesso standard qualitativo delle prestazioni. L'unica limitazione prevista per il subappalto attiene alle categorie super-specialistiche, nel limite del 30 per cento”. Tale soluzione è stata però posta in dubbio dal parere del Consiglio di Stato[3], ne è stata richiesta la modifica dalle commissioni parlamentari ed è stata quindi abbandonata dal Governo.

Dopo la pubblicazione della sentenza in commento, in fase di redazione del correttivo poi adottato come D.Lgs. 19.04.2017, n. 56, il Governo aveva cercato – nella prima bozza sottoposta ai pareri obbligatori - di adeguarsi alla pronuncia della corte di Lussemburgo, benché in maniera limitata[4]. Il tentativo ha trovato però di nuovo l’esplicita opposizione delle commissioni parlamentari e del Consiglio di Stato in sede consultiva, che in questa occasione si è maggiormente diffuso sul tema (Commissione speciale, affare n. 432/2017, adunanza 22.03.2017, parere n. 782/2017 spedito il 30.03.2017).

Ad avviso dei Consiglieri di Stato, il limite quantitativo del 30% costituirebbe un aspetto di maggior rigore rispetto alle direttive europee ma non “un ingiustificato goldplating”[5] e sarebbe sostenuto “da pregnanti ragioni di ordine pubblico, di tutela della trasparenza e del mercato del lavoro”[6] e, pertanto, “il maggior rigore nel recepimento delle direttive deve, da un lato, ritenersi consentito nella misura in cui non si traduce in un ostacolo ingiustificato alla concorrenza; dall’altro lato ritenersi giustificato (quando non imposto) dalla salvaguardia di interessi e valori costituzionali, ovvero enunciati nell’art. 36 del TFUE”.

Il parere, dato atto della sentenza qui in commento, prosegue argomentando che “tale giurisprudenza eurounitaria si è appunto formata in relazione alla previgente direttiva 2004/18” mentre la nuove direttive consentono “agli Stati membri di dettare una più restrittiva disciplina del subappalto, rispetto alla maggiore libertà del subappalto nella previgente direttiva” ed “includono nella disciplina del subappalto finalità che finora erano state specifiche della legislazione italiana, ossia una maggiore trasparenza e la tutela giuslavoristica”.

Il Consiglio di Stato, pur rilevando che “nemmeno le nuove direttive, al pari delle previgenti, contemplano espressamente limiti quantitativi al subappalto, salva la possibilità per la stazione appaltante di esigere di conoscere preventivamente i nomi dei subappaltatori e la facoltà per gli Stati membri di imporre norme di tutela giuslavoristica” conclude affermando che “la complessiva disciplina delle nuove direttive, più attente, in tema di subappalto, ai temi della trasparenza e della tutela del lavoro, in una con l’ulteriore obiettivo, complessivamente perseguito dalle direttive, della tutela delle micro, piccole e medie imprese, può indurre alla ragionevole interpretazione che le limitazioni quantitative al subappalto, previste da legislatore nazionale, non sono in frontale contrasto con il diritto europeo. // Esse vanno infatti vagliate, e possono essere giustificate, da un lato alla luce dei principi di sostenibilità sociale che sono alla base delle stesse direttive, e dall’altro lato alla luce di quei valori superiori, declinati dall’art. 36 TFUE, che possono fondare restrizioni della libera concorrenza e del mercato, tra cui, espressamente, l’ordine e la sicurezza pubblici”.

Dunque, all’eccezione al ricorso illimitato al subappalto fondata sulla necessità di garantire aspetti qualitativi propri di uno specifico appalto[7], il Consiglio di Stato aggiunge l’eccezione (o le eccezioni) a portata generale sulla base di necessità legate all’ordine ed alla sicurezza pubblici nonché alla tutela della trasparenza e del mercato del lavoro.

Evidentemente il parere sulla bozza di correttivo, per l’ampiezza ed il numero degli argomenti trattati, non poteva essere la sede di una approfondita analisi della questione e tuttavia gli argomenti del Consiglio di Stato sono sufficientemente delineati per una loro analisi, limitandoci qui ai profili di diritto dell’Unione.

Non convince innanzitutto il richiamo all’art. 36 TFUE. Se davvero si ritiene che il mantenimento dell’attuale regime di limitazione del subappalto risponda alle esigenze di ordine pubblico e pubblica sicurezza, di cui all’art. 36 TFUE, allora il Consiglio di Stato avrebbe dovuto invitare il Governo a notificare la disciplina in questione alla Commissione, ai sensi dell’art. 114 TFUE, parr. 4 e ss..

Il secondo profilo di diritto dell’Unione rilevato dal parere è la maggiore flessibilità della norma sul subappalto della dir. 2014/24 rispetto a quella della dir. 2004/18 nonché una maggiore considerazione dei profili di trasparenza e tutela del lavoro.

L’osservazione è in un certo senso corretta ma non pare che vada a sostegno del mantenimento del limite quantitativo alle prestazioni subappaltabili.

Innanzitutto il primo paragrafo dell’art. 71 della dir. 2014/24 richiede agli Stati Membri azioni specifiche per garantire che i subappaltatori rispettino gli obblighi in materia ambientale, sociale e del lavoro, richiesta che certamente non autorizza la limitazione del subappalto bensì attività di indirizzo e controllo come, peraltro, espressamente indicato al par. 6.

Le restanti disposizioni sono relative a procedure di verifica e controllo dei subappaltatori, in chiave di maggiore trasparenza e rispetto della normativa, ma ancora una volta non prevedono la possibilità di limitare il subappalto, come lo stesso Consiglio di Stato riconosce, bensì maggiore trasparenza e maggiore raccolta di informazioni, come chiarisce bene il considerando (105) della direttiva.
D’altra parte oggi l’art. 63 della dir. 2014/24 ripropone il principio di affidamento sulle capacità di altri operatori che è alla base della giurisprudenza comunitaria sul subappalto[8] e, pur prevedendo espressamente al par. 2 la possibilità di escludere tale affidamento per prestazioni di particolare rilevanza, resta pienamente nel solco tracciato dalla Corte di giustizia.

Nello stesso senso l’AG Sharpston nelle Conclusioni per la causa in commento così rileva: “Sebbene il presente procedimento riguardi la direttiva 2004/18, è interessante osservare che lo stesso fondamento logico si ritrova nell’articolo 63, paragrafo 2, del suo successore normativo, la direttiva 2014/24. Ai sensi di tale disposizione, le amministrazioni aggiudicatrici possono esigere che taluni compiti essenziali siano direttamente svolti dall’offerente stesso o, nel caso di un’offerta presentata da un raggruppamento di operatori economici, da un partecipante al raggruppamento. Benché tale disposizione consenta ora espressamente limitazioni al subappalto nel corso della fase di verifica e di selezione, tali limitazioni sono accettabili solo qualora riguardino compiti ben definiti considerati «essenziali» per l’esecuzione dell’appalto” (§ 39).

Occorre evidenziare che mentre secondo la sentenza Wroclaw “non solo la prestazione in generale, ma neppure le parti essenziali di essa possono essere vietate al subappalto, se l’amministrazione aggiudicatrice ha potuto verificare il possesso dei requisiti richiesti”[9], tale impostazione sembra però superata nel nuovo contesto dalla previsione non condizionata dell’art. 63, par. 2, della dir. 2014/24, per la quale lo Stato sembra poter sempre porre un limite qualitativo al subappalto.

Ciò chiarito, però, la scelta del legislatore europeo va nel senso di una apertura ancora maggiore al subappalto contrariamente a quanto inferisce il Consiglio di Stato, ad es. prevedendo espressamente il subappalto c.d. a cascata, che il codice italiano tuttora vieta. Il legislatore nazionale, invece, in fase di recepimento ha disposto, per i lavori, una limitazione perfino superiore a quella vigente in precedenza, giacché il limite al subappalto non si applica più solo ai lavori nella categoria prevalente e per le opere c.d. superspecialistiche ma all’intero contratto.

Va, tuttavia, osservato che la Corte di Giustizia si è già occupata delle limitazioni introdotte nelle gare al fine di ostacolare le infiltrazioni criminali[10], ritenendole in linea di principio ammissibili.

Nella sentenza 22 ottobre 2015, in causa C-425/14, Edilux, a proposito di protocolli di legalità, la Corte ha affermato che

“va riconosciuto agli Stati membri un certo potere discrezionale nell’adozione delle misure destinate a garantire il rispetto del principio della parità di trattamento e dell’obbligo di trasparenza, i quali si impongono alle amministrazioni aggiudicatrici in tutte le procedure di aggiudicazione di un appalto pubblico. Infatti, il singolo Stato membro è nella posizione migliore per individuare, alla luce di considerazioni di ordine storico, giuridico, economico o sociale che gli sono proprie, le situazioni favorevoli alla comparsa di comportamenti in grado di provocare violazioni del rispetto del principio e dell’obbligo summenzionati” (§26).

Tuttavia, secondo la Corte, tale discrezionalità trova un limite nei principi generali del diritto dell’Unione ed in particolare nel principio di proporzionalità, per cui le misure adottate non devono eccedere quanto necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito (§§ 28-29; si veda anche la sentenza 19 maggio 2009, in causa C-538/07, Assitur,§§ 21-26, in part. §23), tanto che parte del protocollo di legalità in questione veniva dichiarata dalla Corte incompatibile con il diritto dell’Unione.

La prospettiva della Corte di giustizia è assai interessante e rilegge il rischio di infiltrazioni criminali alla luce dei principi dei trattati e delle direttive in materia di appalti. È evidente, infatti, che le infiltrazioni criminali tanto nella fase di selezione del contraente quanto in quella di esecuzione del contratto impediscono il funzionamento dei meccanismi di concorrenza ed i correlati benefici per l’amministrazione, per i cittadini e per il mercato, trasformando anzi quell’appalto in uno strumento di rafforzamento della criminalità organizzata.

Occorre, pertanto, indagare le finalità del limite quantitativo e se il vincolo sia proporzionato al loro raggiungimento.

La ratio del suddetto limite non è univocamente individuata nel senso indicato dal parere del Consiglio di Stato, ovvero nell’esigenza tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica, ovvero di prevenire il rischio di infiltrazioni criminali nelle commesse pubbliche. Tale ricostruzione è prevalentemente legata all’introduzione della previsione limitativa all’art. 18 della l. 10 marzo 1990, n. 55, legge che recava Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale[11].

Autorevole dottrina ed attenta giurisprudenza, invece, rinvengono nel limite quantitativo non il fine di evitare infiltrazioni criminali bensì lo “scopo di evitare che l’affidamento dell’esecuzione dell’opera abbia un valore meramente formale e di assicurare, al contrario, l’impegno preminente (pari almeno al 70%) dell’affidatario dei lavori [della categoria prevalente], che rappresenta anche quella maggiormente connotante l’intervento”[12]. In altre parole vi si legge una disapprovazione dell’ordinamento verso l'affidamento di un appalto ad un soggetto e la sua totale esecuzione in capo a terzi, proprio in vista della corretta allocazione delle risorse pubbliche e del rischio di creazione di rendite da subappalto totale considerate non giustificate. Tale lettura sembra invero più coerente con il dato testuale dell’art. 18 della l. 10 marzo 1990, n. 55, e ss. mm., e con la sua disciplina differenziata per categoria di opere.

D’altra parte non si comprende come esigenze così pregnanti e radicali come la tutela dell’ordine pubblico, della pubblica sicurezza e dei diritti dei lavoratori possano essere tutelate con un limite quantitativo, quasi che sotto il 15 o il 30% sia tollerabile la loro messa in discussione. Se poi si considera l’attuale processo di aggregazione della domanda tramite centrali di committenza è evidente che l’idea del limite del 30% come presidio di legalità e non di qualità perde ancor più di senso.

La tesi che ancora il limite quantitativo alla tutela dell’ordine pubblico, della pubblica sicurezza e dei diritti dei lavoratori si scontra con un’ulteriore contraddizione. A fronte dei testi sostanzialmente allineati degli artt. 63 e 71 della dir. 24, degli artt. 79 ed 88 della dir. 25 e degli artt. 38 e 42 della dir. 23, il legislatore nazionale ha previsto all’art. 105 del Codice, per gli appalti, il limite quantitativo al subappalto ma non anche all’art. 174 per le concessioni. Se tale limite si fondasse sulle esigenze imperative, di cui sopra, esso si sarebbe dovuto imporre certamente anche in materia di concessioni.

Deve invece rilevarsi come il limite al subappalto si è aggiunto al generale divieto di cedere o subappaltare le opere senza l’autorizzazione dell’amministrazione appaltante, già vigente almeno con l’art. 339, n. 20.05.1865, n. 2248, all. f, poi rafforzato con la sanzione contravvenzionale del reato di subappalto non autorizzato, di cui all’art. 21 della l. 13/09/1982, n.646, e con il complessivo sistema di informazione antimafia correlato all’autorizzazione.

Nel complessivo sistema la finalità di evitare infiltrazioni mafiose si realizza non tanto con il limite quantitativo quanto attraverso la necessità di autorizzazione del subappalto (previe verifiche antimafia e dei requisiti tecnici) e con la richiesta di indicazione preventiva delle parti da subappaltare così da evitare una prolungata esposizione dell’appaltatore alla pressione delle organizzazioni criminali[13] oltre che, oggi, con l’indicazione in fase di gara della terna di subappaltatori.

Ciò è tanto vero che la Cassazione ha chiarito che la sanzione penale colpisce il subappalto non autorizzato ma non anche il subappalto autorizzato che nel corso dell’esecuzione superi il valore soglia, dato che “il legislatore ha inteso tutelare non l'interesse della pubblica amministrazione alla mera regolarità nell'esecuzione dell'appalto, bensì l'interesse ad evitare che, attraverso il meccanismo del subappalto o del cottimo non autorizzato, le attività esecutive vengano materialmente curate da imprese che, per i collegamenti diretti o indiretti con organizzazioni criminali, non avrebbero potuto beneficiare dell'aggiudicazione dell'appalto medesimo: scongiurando, così - come anche la Corte costituzionale ha avuto modo di sottolineare nella sentenza n. 281 del 1987 - il noto fenomeno delle "infiltrazioni" di quelle organizzazioni nel tessuto imprenditoriale e nel "lucroso" mondo degli appalti pubblici” (Cass. Pen. sez. VI, ud. 11/03/2013, dep.19/03/2013, n. 12821).

Neppure pare che la modifica del tenore testuale della norma come inserita nel D.Lgs. 50/2016, che oggi vede un limite uguale per tutti i settori nella misura del 30% dell’importo complessivo del contratto, incida sulla ratio dell’istituto. Tanto più che la previsione non è contenuta nella legge delega ed è stata inserita all’ultimo momento nel testo del decreto legislativo, con l’espressa intenzione di ripristinare il limite previgente.

Si è obiettato che le verifiche eseguite in fase di autorizzazione del subappalto sarebbero meno efficaci di quelle in fase di gara[14]. Tuttavia tale rilievo dovrebbe condurre ad un maggiore rigore verso le stazioni appaltanti, non scaturire in una limitazione della concorrenza e compressione dei diritti degli operatori economici. Peraltro, tale preoccupazione per i controlli in fase di autorizzazione dovrebbe venir meno con la messa a regime del sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti.

La norma così letta non supera neppure lo scrutinio di proporzionalità. Il diritto dell’Unione - in particolare il principio di proporzionalità - è contrario a meccanismi che limitino la libera concorrenza sulla base di indici in virtù dei quali si presuma automaticamente una situazione patologica, senza una indagine caso per caso che consenta agli interessati di dimostrare l’assenza di profili patologici.

Nella già citata sentenza Edilux si legge in tema di subappalto, al par. 39, che eccede il principio di proporzionalità “la dichiarazione di cui al punto f) del protocollo di legalità di cui trattasi nel procedimento principale, ai sensi della quale il partecipante dichiara che non subappalterà lavorazioni di alcun tipo ad altre imprese partecipanti alla gara e che è consapevole che, in caso contrario, tali subappalti non saranno autorizzati. Una tale dichiarazione, infatti, implica una presunzione irrefragabile secondo la quale l’eventuale subappalto da parte dell’aggiudicatario, dopo l’aggiudicazione dell’appalto, a un altro partecipante alla stessa gara d’appalto derivi da una collusione tra le due imprese interessate, senza lasciare loro la possibilità di dimostrare il contrario. Così, una siffatta dichiarazione eccede quanto necessario al fine di prevenire comportamenti collusivi”[15].

Il medesimo principio è affermato sempre in materia di appalti nelle sentenze 23 dicembre 2009, in causa C-376/08, Serrantoni, §§ 39-40; 19 maggio 2009, in causa C-538/07, Assitur, in part. §§ 29-30; 16 dicembre 2008 (Grande Chambre), in causa C-213/07, Michaniki, §§ 65-69; 3 marzo 2005, in cause riunite C-21/03 e C-34/03, Fabricom §§ 32-35.

Vi è una diversa prospettiva, più operativa che giuridica, sotto la quale si possono leggere le esigenze di pubblica sicurezza legate agli appalti. Dato l’impatto operativo dei controlli con finalità antimafia da effettuare a carico degli esecutori degli appalti pubblici, non solo documentali ma anche in situ ed investigativi, potrebbe esserci il rischio che una quantità di subappalti superiore al 30% metta in crisi il sistema[16] sia per errori di impostazione dello stesso sia per carenza di organico e strumenti.

Tale esigenza, ove verificata, non sarebbe affatto trascurabile. Tuttavia, nella prospettiva del diritto comunitario e della buona amministrazione, difficilmente un problema organizzativo potrebbe tradursi in una permanente compressione della libera concorrenza e nella privazione per il sistema dei correlati benefici. A fronte di questa esigenza andrebbe seriamente programmato (e concordato con le istituzioni europee) un piano progressivo per portare il sistema dei controlli e l’apertura del mercato a regime in un lasso di tempo ragionevolmente breve, proprio nella prospettiva per cui la concorrenza è effettiva se i controlli garantiscono che non sia dirottata da parte delle organizzazioni criminali.

Dunque per un verso non sembra che il limite quantitativo al subappalto nella misura del 30% abbia una finalità diretta di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblici e per altro verso, quand’anche lo si volesse leggere in tale prospettiva, non sarebbe uno strumento proporzionato all’obiettivo perseguito. Qualora tale limite dipendesse da una ridotta capacità operativa del sistema dei controlli, andrebbe messo a regime quest’ultimo.

La prevenzione dell’infiltrazione criminale è certamente meglio perseguita, in un mercato pienamente concorrenziale, dai processi di riduzione e qualificazione delle stazioni appaltanti, aggregazione della spesa, informatizzazione dei dati e dei processi, raccolta ed elaborazione delle informazioni, controlli ed accessi in fase di esecuzione, collaborazione fra autorità ed analisi preventiva, solo per citare gli strumenti più recenti messi in campo.

Infine, va rilevato che il limite quantitativo al subappalto, analizzato sotto profili diversi da quello di sicurezza ed ordine pubblico, risulta comunque in contrasto con il diritto dell’Unione.

La sentenza Wroclaw al § 35 è chiara nel richiedere che le limitazioni al subappalto siano imposte dalla stazione appaltante (e non dal legislatore una volta per tutte) in relazione a casi specifici e motivati e non in maniera astratta ed indiscriminata (nello stesso senso la sentenza 10 ottobre 2013, in causa C‑94/12, Swm Costruzioni 2 e Mannocchi Luigino, §§ 35-36[17]).

La disciplina italiana attuale, invece, non attribuisce tale potere alle stazioni appaltanti e non differenzia in alcun modo il tipo di prestazioni a cui applicare il limite o i settori a cui tale limite debba applicarsi. Ne deriva una chiara limitazione della concorrenza, esattamente quello che il diritto dell’Unione intende rimuovere.

Invero non è infrequente che i maggiori operatori del mercato rinvengano nel limite quantitativo al subappalto un ottimo scudo che consente di limitare la competizione ai soggetti in grado di eseguire direttamente la maggior parte delle prestazioni.

L’AG Sharpston, nelle conclusioni per la causa Wroclaw (§ 38), ha evidenziato che il requisito deve riguardare l’esecuzione di “compiti ben definiti” e non “semplicemente una percentuale del valore complessivo dell’appalto” poiché tale limite sarebbe legittimo solo per garantire l’efficace e corretta esecuzione concreta dell’appalto (si veda anche CG, sentenza 27 ottobre 2016, in causa C-292/15, Hörmann Reisen, nonché AVCP, parere sulla normativa del 20.12.2012, n. AG 25/2012). Di “taluni compiti essenziali” parla, esprimendo lo stesso concetto, l’art. 63, par. 2, della dir. 2014/24.

Dunque il diritto dell’Unione non si oppone ad una limitazione del subappalto ma solo se questa è legata non alla quantità delle prestazioni subappaltate ma ad aspetti qualitativi dell’opera o del servizio ed in particolare a compiti definiti necessari per garantire l’efficace e corretta esecuzione concreta dell’appalto.

 

3.     In attesa di un nuovo intervento della Corte di giustizia?

La evidente violazione del diritto dell’Unione impone alle amministrazioni nazionali, inclusa l’Autorità nazionale anticorruzione, di disapplicare la norma illegittima ovvero di interpretarla in maniera conforme al preciso dettato della Corte di giustizia.

È probabile nel frattempo l’apertura di un procedimento di infrazione da parte dalla Commissione e non è confortante la posizione espressa nel già citato parere del Consiglio di Stato n. 782/2017 e di fatto seguita dal Governo, per la quale “il Governo ben potrebbe scegliere “l’opzione zero” ossia di non intervenire sulla scelta di fondo già operata dal codice, difendendo la scelta italiana in sede di eventuale procedura di infrazione (ove essa venisse avviata dalla Commissione europea, a seguito della denuncia formalizzata da ANCE), e se del caso modificando in un secondo momento la norma de quo, a seguito di una eventuale condanna in sede comunitaria”. Sarebbe certamente più saggio superare il limite quantitativo per introdurre e portare a regime un sistema di limitazione qualitativa delle prestazioni subappaltabili invece di inseguire gli esiti di una assai probabile condanna.

In ogni caso i giudici, amministrativi, civili o contabili, che dovessero trovarsi ad applicare la norma in questione dovranno procedere alla sua disapplicazione o dovranno rimettere la questione nuovamente alla Corte di giustizia perché vagli, nella sua esclusiva competenza, una interpretazione dell’art. 71 della dir. 2014/24 e della sentenza Wroclaw, che essi riterranno eventualmente di sviluppare “a difesa” della norma nazionale[18]. Certamente però non potranno applicare la norma tout court a fronte di una sentenza chiarissima dei giudici di Lussemburgo, se non al prezzo di concorrere attivamente all’inadempimento dello Stato agli obblighi comunitari non solo sotto il profilo della violazione della direttiva 2014/24 ma anche dell’art. 267 TFUE[19].

 

[1] Sentenze 14 aprile 1994, in causa C-389/92, BNG I; 18 dicembre 1997, in causa C-5/97, BNG II; 2 dicembre 1999, in causa C-176/98, Holst Italia; 12 luglio 2001, in causa C.-399/98, Ordine degli Architetti delle Provincie di Milano e Lodi; 18 marzo 2004, in causa C-314/01, Siemens; 23 dicembre 2009, in causa C.305/08, CoNISMa; 10 ottobre 2013, in causa C-94/12, Swm Costruzioni 2 e Mannocchi Luigino; 14 gennaio 2016, in causa C-234/14, Ostas celtnieks; 2 giugno 2016, in causa C-27/15, Pippo Pizzo; 7 aprile 2016, in causa C-324/14, Partner Alpeski Dariusz.

[2] Il criterio direttivo dettato dalla l. n. 11/2016, all’art. 1, comma 1, lettera rrr) recita: “introduzione nei contratti di lavori, servizi e forniture di una disciplina specifica per il subappalto, prevedendo in particolare: l'obbligo per il concorrente di indicare in sede di offerta le parti del contratto che intende subappaltare; l'espressa individuazione dei casi specifici in cui vige l'obbligo di indicare, in sede di offerta, una terna di nominativi di subappaltatori per ogni tipologia di attività prevista in progetto; l'obbligo di dimostrare l'assenza in capo ai subappaltatori indicati di motivi di esclusione e di sostituire i subappaltatori relativamente ai quali apposita verifica abbia dimostrato la sussistenza di motivi di esclusione; l'obbligo per la stazione appaltante di procedere al pagamento diretto dei subappaltatori in caso di inadempimento da parte dell'appaltatore o anche su richiesta del subappaltatore e se la natura del contratto lo consente, per i servizi, le forniture o i lavori forniti; ove il subappaltatore sia una microimpresa o una piccola impresa, l'espressa individuazione delle fattispecie in cui la stazione appaltante procede al pagamento diretto, fatta salva la facoltà per le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano, sulla base dei rispettivi statuti e delle relative norme di attuazione e nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea, di disciplinare ulteriori casi di pagamento diretto dei subappaltatori”.

[3] Nel parere n. 855 del 1.4.2016 si legge: “andrebbe valutato se ripristinare tout court, e non solo per le opere superspecialistiche, il (pre)vigente limite del 30% in ordine al subappalto. In tal caso l'AIR dovrebbe indicare con pregnante motivazione le ragioni di ancor più generale interesse pubblico (tutela della trasparenza e del lavoro), poste a base della scelta –ovviamente politica -dì estensione dei limiti al subappalto”.

[4] Vi si leggeva: “Fatto salvo quanto previsto dal comma 5, l'eventuale subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell'importo dei lavori della categoria prevalente, per i lavori. Per i servizi e le forniture, tale quota è riferita all’importo complessivo del contratto”. Sostanzialmente un ritorno al regime del Codice De Lise, non immune di per se stesso dalle medesime critiche di limitazione del subappalto, specie per i servizi.

[5] Quanto al divieto di goldplating previsto come criterio direttivo dalla legge delega n. 11/2016, la Commissione speciale ribadisce quanto già espresso nel parere sul decreto legislativo di recepimento delle direttive 2014, ovvero che “il “divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive” va rettamente interpretato in una prospettiva di riduzione della “oneri non necessari”, e non anche in una prospettiva di abbassamento del livello di quelle garanzie che salvaguardano altri valori costituzionali, in relazione ai quali le esigenze di massima semplificazione e efficienza non possono che risultare recessive. Così, in termini generali, il maggior rigore nel recepimento delle direttive deve, da un lato, ritenersi consentito nella misura in cui non si traduce in un ostacolo ingiustificato alla concorrenza; dall’altro lato ritenersi giustificato (quando non imposto) dalla salvaguardia di interessi e valori costituzionali, ovvero enunciati nell’art. 36 del TFUE”. Una sostituzione del legislatore.

[6] ad vocem “Articolo 105 (Subappalto)”.

[7] L’argomento esposto dalla Corte di Giustizia nella sentenza Wroclaw è in evidente continuità con quello sulla possibilità che determinate prestazioni debbano essere rese da un unico soggetto svolto nella sentenza 10 ottobre 2013, in causa C-94/12, Swm Costruzioni 2 e Mannocchi Luigino (§§ 32-38), e già in via di principio sintetizzato nelle Conclusioni dell’AG nella causa C-176/98 Holst Italia dove l’avv. Leger scriveva che “benché l'abbondanza delle offerte contribuisca, di per sé, agli interessi dell'amministrazione, essa non può essere realizzata al prezzo di prestazioni mediocri. Tale necessità legittima queste barriere e giustifica il fatto che l'interpretazione data alle norme che le istituiscono tiene conto dei rischi di frode che possono soffocarne gli effetti protettivi. Le conseguenze di una soluzione che consista nell'ammettere che le condizioni normative fissate dalla direttiva 92/50 siano soddisfatte da persone diverse dall'impresa offerente devono quindi essere valutate attentamente” (§ 28). Il principio è oggi positivizzato dall’art. 63, par. 2, della dir. 2014/24.

[8] ed in ambito nazionale ha dato vita all’istituto dell’avvalimento,

[9] Così riassume efficacemente C. Rangone, Il subappalto nella giurisprudenza della Corte di giustizia ovvero vietato vietare, intervento al Convegno IGI del 18 ottobre 2016.

[10] Con riferimento ai meccanismi finalizzati a contrastare la corruzione si veda anche la sentenza 16 dicembre 2008 (Grande Chambre), in causa C-213/07, Michaniki, § 59.

[11] Oltre al richiamato parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato, si veda A. Varlaro Sinisi, Art. 105, in F. Caringella, M Protto, Il codice dei contratti pubblici dopo il correttivo, Dike, 2017, pagg. 506 e ss. Le sentenze Cons. Stato nn. 1713 e 1721 del 2010 richiamate dall’autore sembrano però fare riferimento al meccanismo di autorizzazione del subappalto piuttosto che al limite quantitativo.

[12] Così A. Cianflone, G. Giovannini, L’appalto di opere pubbliche, Giuffrè 2003, pag. 712-713, in nota (11); nello stesso senso D. Vagnozzi, Il subappalto nei contratti pubblici, in Riv. Trim. Appalti, 2001, pag. 731. Nello stesso senso ex multis Cons. Stato, V, 15 luglio 2013, n. 3857, e più risalente, IV, 6 giugno 2006, n. 3364. Per altri riferimenti si vedano le pronunce richiamate nella nota alla sentenza in commento in Foro it., 2016, IV, 397.

[13] In tal senso C. Linda e A. Di Ruza, Art. 118, in S. Baccarini, G. Chinè, R. Proietti (a cura di) Codice dell’appalto pubblico, Giuffrè, 2015, pag. 1369.

[14] A. Varlaro Sinisi, op. loc. cit.

[15] Incidentalmente si rileva come in aperto contrasto con tale dictum della Corte di giustizia il legislatore delegato abbia con il correttivo introdotto all’art. 105, comma 4, lettera a), il medesimo divieto dichiarato contrario al diritto dell’Unione.

[16] Così sembra leggersi fra le righe della Relazione conclusiva dei lavori del III Comitato della Commissione parlamentare di inchiesta su fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali anche straniere della XVI legislatura.

[17] Sul limite ritenuto in ipotesi legittimo dalla sentenza Swm Costruzioni 2 e Mannocchi Luigino l’AG Sharpston, nelle conclusioni per la causa Wroclaw, rileva che “nella sentenza Swm Costruzioni 2 e Mannocchi Luigino, la Corte ha ritenuto che non si può escludere l’esistenza di lavori che presentino peculiarità tali da richiedere una determinata capacità che non si ottiene associando capacità inferiori di più operatori. […]. Tuttavia, ciò non costituisce un motivo specifico in quanto tale per un divieto o una limitazione del subappalto. Non vi è nulla che osta all’ipotesi che un «operatore economico unico» o un «numero limitato di operatori economici» sia un subappaltatore o più subappaltatori dell’aggiudicatario” (§ 34).

[18] Non ricorre, infatti, nessuna delle condizioni che possa esonerare dal rinvio secondo la giurisprudenza elaborata dalla Corte di giustizia a partire dalle sentenze 6 ottobre 1982, in causa C-283/81, Cilfit, e 15 settembre 2005, in causa C-495/03, Intermodal Transports.

[19] Principio affermato a partire dalle sentenze 30 settembre 2003, in causa C-224/01, Köbler, e 13 giugno 2006, in causa C‑173/03, Traghetti del Mediterraneo.