Consiglio di Stato., sez. V, 18 luglio 2017, n. 3554
Stante l’abrogazione referendaria dell’art. 23 bis d.l. n. 112/2008 e la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4 d.l. n. 238/2011 […] è venuto meno il principio, con tali disposizioni perseguito, della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Guida alla lettura
Con pronuncia del 18 luglio 2017 la V sezione del Consiglio di Stato ribadisce con vigore la natura ordinaria dello strumento in house.
L’ampia diffusione di tale figura, specie nel settore dei servizi pubblici, in uno alle recenti e puntuali riforme normative in materia, infatti, produce un sostanziale rinvigorimento della posizione interpretativa a parere della quale l’autorganizzazione degli affidamenti pubblici costituisce espressione di un principio generale che regola l’attività della P.A.
La possibilità di utilizzare lo strumento dell’in house in assenza di una espressa previsione normativa ha invero lungamente occupato l’attenzione della dottrina e della giurisprudenza amministrativa.
A parere di una prima posizione, i connotati qualificanti la figura dell’affidamento diretto producono la diretta e inevitabile conseguenza della eccezionalità dell’affidamento senza gara, derogatorio dei principi fondanti la procedura ad evidenza pubblica e la libera concorrenza nel mercato.
In termini si è espresso il Consiglio di Stato sez. III 17 dicembre 2015 n. 5732, a parere del quale l’in house ha carattere eccezionale, non potendo trovare applicazione al di fuori delle ipotesi espressamente delineate dal legislatore.
A sostegno si richiama il principio di legalità, il quale osta a trasferimenti di poteri e compiti amministrativi in assenza di una adeguata copertura legislativa (cfr. Corte Giust. UE, sez. V, 8 maggio 2014, in causa C-15/2013).
La più recente posizione giurisprudenziale, al contrario, fatta propria anche dalla Corte di Giustizia (Corte Giust. CE, sez. I, 6 aprile 2006, in causa C-410/2004), sancisce che l’autorganizzazione rappresenta un principio generale che connota l’attività pubblica. In sostanza, l’amministrazione può liberamente decidere di gestire una data attività a mezzo dello strumento dell’in house.
Tale tesi smentisce l’anzidetta posizione richiamante il principio di legalità in materia amministrativa sull’assunto per cui attraverso l’in house non si attua un vero e proprio trasferimento di poteri, ma una semplice attribuzione di compiti esecutivi, non comportanti l’esercizio di un potere autoritativo.
L’esposta considerazione è fatta propria dal Consiglio di Stato sez. VI 11 febbraio 2013 n. 762, il quale, parimenti a quanto espresso nella pronuncia in commento, analizza l’applicazione dello strumento in house in materia di servizi pubblici.
Al riguardo non può non considerarsi l’intervenuta abrogazione referendaria dell’art. 23 bis D.l. 112/2008 e la successiva declaratoria di incostituzionalità D.l. 238/2011, con la conseguente diffusione applicativa della figura in esame in materia di gestione di sevizi pubblici locali.
Ancora, come ribadito dalla pronuncia oggetto di nota, l’art. 34 D.l. 197/2012 ha caducato le “ultime” limitazioni all’affidamento in house.
La recente Direttiva 2014/24/UE, poi, che ha provveduto ad individuare i nuovi confini applicativi dell’in house, al V Considerando prevede che “nessuna disposizione della presente Direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o ad esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente Direttiva”.
In chiusura cenno merita il dictum del Consiglio di Stato sez. V 22 gennaio 2015 n. 257 che, nel ribadire la natura ordinaria e non eccezionale dell’affidamento senza gara ha altresì rilevato come la relativa decisione della P.A., ove adeguatamente motivata, sfugge al sindacato di legittimità del g.a. vertendosi in ipotesi di esercizio del potere pubblico discrezionale.
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello iscritto a numero di registro generale 8402 del 2013, proposto da:
Aprica s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Vito Salvadori, Alberto Salvadori e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Giulio Cesare, n. 14a/4;
contro
Comune di Calcinato, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Fiorenzo Bertuzzi, Silvano Venturi, Gianpaolo Sina e Paola Ramadori, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima in Roma, via Marcello Prestinari, n. 13;
nei confronti di
Garda Uno s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Domenico Bezzi, con domicilio eletto presso lo studio legale Paolo Rolfo in Roma, via Appia Nuova, n. 96;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA - SEZ. STACCATA DI BRESCIA, Sez. II, n. 00780/2013, resa tra le parti, concernente l’affidamento del servizio di igiene urbana, raccolta e trasporto rifiuti;
FATTO
1.Con deliberazione 13 dicembre 2012, n. 61, il Comune di Calcinato – dopo aver praticato per alcuni anni l’esternalizzazione della gestione del servizio di igiene urbana – optava per dare esecuzione al suddetto servizio mediante affidamento in house: a tal fine individuava, quale gestore, la società Garda Uno s.p.a., di cui il Comune era divenuto socio mediante l’acquisto dello 0,1% del capitale, per un importo pari ad euro diecimila (con deliberazione consiliare n. 60 del 13 dicembre 2012).
La durata dell’affidamento veniva indicata in quindici anni.
La scelta di aggregare il territorio comunale all’ambito già servito da Garda Uno s.p.a. veniva giustificata come forma di attuazione anticipata del principio di cui all’art. 3-bis, commi 1 e 1-bis del d.l. 13 agosto 2011 n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), in virtù del quale lo svolgimento dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica è organizzato in modo unitario all’interno di ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei, tali da consentire economie di scala.
Poiché la Regione non aveva ancora individuato i bacini territoriali ottimali relativi al servizio di igiene urbana, né veniva esercitato il potere sostitutivo statale, il Comune si avvaleva della sua autonomia organizzativa, provvedendo all’affidamento del servizio.
A tal fine, esplicitava le ragioni che giustificavano l’affidamento in house con una relazione allegata alla deliberazione consiliare n. 61 del 2012, ex art. 34, comma 20 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179. Nel suddetto documento veniva evidenziato, tra l’altro, che Garda Uno s.p.a. operava in regime di equilibrio economico-finanziario, senza applicare margini di utile finalizzati a produrre dividendi.
2. Avverso le predette deliberazioni n. 60 e 61 la società Aprica s.p.a. proponeva ricorso al Tribunale amministrativo della Lombardia, deducendone l’illegittimità.
Secondo la ricorrente in particolare, tra i principi generali dell’ordinamento ve ne sarebbe uno che subordina l’affidamento in house all’impossibilità di applicare efficacemente, in concreto, le regole del mercato e della concorrenza (espressione di tale principio era il previgente art. 23-bis, comma 3 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112); nel caso di specie sarebbe stato inoltre carente il requisito del controllo analogo, come definito dalla giurisprudenza comunitaria, essendosi in presenza di una una minima partecipazione al capitale sociale di Garda Uno s.p.a.; inoltre, sempre ad avviso della ricorrente, sarebbe stato violato l’art. 202, comma 6, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, che prevede il passaggio diretto ed immediato – al nuovo gestore del servizio integrato dei rifiuti – del personale impiegato presso il gestore uscente, otto mesi prima dell'affidamento del servizio.
La ricorrente chiedeva inoltre il risarcimento dei danni asseritamente patiti per effetto degli impugnati provvedimenti.
3. Nel costituirsi in giudizio, sia il Comune che la Garda Uno s.p.a. chiedevano la reiezione del gravame.
4. Il Tribunale amministrativo della Lombardia respingeva infine il ricorso, con sentenza 23 settembre 2013, n. 780.
5. Avverso tale decisione la Aprica s.p.a. ha interposto appello, contestando innanzitutto – con un primo articolato motivo di gravame – la ricostruzione dell’istituto dell’in house providing effettuata dal giudice di prime cure; quindi col secondo motivo di doglianza ha dedotto la violazione dell’art. 202, comma 6 del d.lgs. n. 152 del 2006, oltre che del CCNL applicabile, ratione temporis, ai lavoratori subordinati del settore.
6. Hanno resistito al gravame il Comune di Calcinato e la Garda Uno s.p.a., chiedendone il rigetto.
Le parti hanno illustrato poi ulteriormente con apposite memorie le proprie rispettive tesi difensive e all’udienza del 18 maggio 2017, dopo la rituale discussione, la causa è passata in decisione.
DIRITTO
7. Con il primo motivo di appello la Aprica s.p.a., premettendo di vantare una legittima aspettativa a partecipare alle gare per l’affidamento del servizio in questione, che avrebbero dovuto essere bandite laddove non si fosse proceduto ad affidamento diretto, deduce che nel caso di specie non ricorrerebbero i presupposti dell’in house providing, facendo difetto, in particolare, il requisito del controllo analogo nei rapporti tra il gestore Garda Uno s.p.a. ed il Comune di Calcinato e ciò vuoi per l’esigua partecipazione societaria (appena lo 0,1% del capitale), vuoi per l’assenza di strumenti amministrativo-societari in grado di proiettare sulla società partecipata una qualche influenza da parte del Comune, vuoi ancora per l’obiettiva impossibilità, da parte degli enti locali soci, di esercitare un controllo di tipo congiunto.
Ad avviso della società appellante, l’in house providing rappresenterebbe un’eccezione, in quanto potenzialmente sospetta di arrecare ex sevulnus alla concorrenzialità di mercato, ragion per cui la sua ammissibilità andrebbe circoscritta ai casi tassativamente indicati dal legislatore e, soprattutto, dalla giurisprudenza (comunitaria e nazionale) che nel corso degli anni ha provveduto a delineare i profili dell’istituto.
Sul punto, per ragioni di ordine sistematico, va innanzitutto smentito il presupposto di cui sopra: deve infatti farsi applicazione, al riguardo, del precedente di Cons. Stato, VI, 11 febbraio 2013, n. 762, ai sensi del quale “stante l’abrogazione referendaria dell’art. 23 bis d.l. n. 112/2008 e la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4 d.l. n. 238/2011 […] è venuto meno il principio, con tali disposizioni perseguito, della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”; ancora, con l’art. 34 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 197, sono venute meno le ulteriori limitazioni all’affidamento in house, contenute nell’art. 4, comma 8 del predetto d.l. n. 238 del 2011.
Più di recente, Cons. Stato, V, 22 gennaio 2015, n. 257 ha non solo ribadito la natura ordinaria e non eccezionale dell’affidamento in house, ricorrendone i presupposti, ma ha pure rilevato come la relativa decisione dell’amministrazione, ove motivata, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salva l’ipotesi di macroscopico travisamento dei fatti o di illogicità manifesta; motivazione che, nel caso di specie, è stata fornita anche a mezzo della citata relazione allegata alla deliberazione consiliare n. 61 del 2012.
A ciò aggiungasi la chiara dizione del quinto Considerando della direttiva 2014/24/UE, laddove si ricorda che “nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”.
Ciò premesso, va delineata, seppur per sommi capi (alla luce delle risultanze di causa) la natura giuridica della Garda Uno s.p.a.
Quest’ultima, come rappresentato nel proprio atto di costituzione in giudizio e documentato con produzioni in atti, è una società a capitale interamente pubblico costituita tra enti locali, ai sensi dell’art.113 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico degli enti locali), il cui statuto, vigente al tempo della notifica del ricorso di primo grado, da un lato non vietava la partecipazione a procedure di affidamento di servizi da parte di enti non soci (art. 4, comma 3 - doc.4 in fascicolo di primo grado) e, dall’altro, non ammetteva l’ingresso di capitale privato (art. 6, comma 4 - doc. 4 in fascicolo di primo grado).
Sempre lo statuto prevedeva, all’art. 5, una disposizione (lettera “d”) che consentiva ai singoli soci di vigilare sull’andamento della società, limitatamente al territorio di competenza: ciascun comune poteva quindi esercitare un controllo diretto nel proprio territorio, mentre tutti i comuni soci lo esercitavano congiuntamente tramite l’ATO, vigilando sul corretto adempimento degli obblighi previsti dal contratto di servizio.
Un’ulteriore forma di controllo era poi prevista all’art. 13 dello Statuto che al comma 6 individuava un meccanismo di vigilanza da parte di una minima quota azionaria (congiuntamente anche pari al solo 5% del capitale sociale), consistente nella possibilità di censurare, fino alla revoca degli amministratori (comma 7), le attività sociali poste in difformità dalle autorizzazioni assembleari concesse al consiglio di amministrazione, tra cui l’assunzione di nuovi servizi.
Da ultimo, la nomina del consiglio di amministrazione, esclusivamente da parte degli enti locali, avveniva sulla base di un complesso meccanismo di liste finalizzato a ricomprendere in seno a tale organo dei rappresentanti di ognuno degli enti associati, singoli o in cordata tra loro (in ragione del numero non elevato di membri da eleggere – art.17).
A ciò aggiungasi, come parimenti evidenziato dalla stessa società, che “lo statuto societario (che prevede obbligatoriamente la totalità di capitale pubblico) è stato, successivamente, rafforzato per cristallizzare il meccanismo del controllo analogo; il nuovo statuto societario, approvato in data 14 dicembre 2016 al fine di adeguarsi di principi di cui al d.lgs n.175 del 2016 (doc.B), stabilisce specifiche modalità di esercizio del controllo analogo (cfr. artt.5 e 24 dello statuto, sub. doc. B).
Ad ulteriore rafforzamento, i soci (tutti) pubblici hanno, infine, approvato apposito patto parasociale (doc. C) che prevede il potere di indirizzo vincolante del singolo socio (qualunque sia la quota posseduta) sulle delibere, sia assembleari che del Consiglio di amministrazione, riguardanti le tariffe, le modalità gestionali e di espletamento del servizio etc. inerenti il proprio ambito territoriale (cfr. artt. 1 e 2 del patto parasociale 21 settembre 2016; doc.C)”.
Alla luce di tali documentati rilievi la Sezione è dell’avviso che risultino rispettati i principi generali di cui alla sentenza CGUE 29 novembre 2011 (in C-1812/2009) in materia di controllo analogo “congiunto”, laddove non si richiede certo che ciascuno degli enti pubblici partecipanti possa esercitare un potere individuale su tale entità, bensì che “ciascuna delle autorità stesse partecipi sia al capitale, sia agli organi direttivi dell’entità suddetta”.
La Corte di Giustizia non ha previsto una quota minima di partecipazione al capitale sociale, sì che quella detenuta dal Comune di Calcinato è di per sé idonea ad integrare uno dei due presupposti di cui si è detto; inoltre, in virtù dei meccanismi statutari di partecipazione di cui si è dato conto, può ritenersi sostanzialmente soddisfatto anche il secondo criterio, dato dall’effettiva partecipazione dell’ente partecipante agli organi direttivi. Invero, o direttamente o tramite la partecipazione a ”cordate” di soci, tale partecipazione viene garantita a tutti i sottoscrittori (esclusivamente pubblici) del capitale, né questa seconda ipotesi può ritenersi irragionevole e/o elusiva dei principi fondanti l’in house providing, posto che, a fronte della possibilità di adesione di un numero elevato di amministrazioni locali, il numero degli amministratori da nominare ben potrebbe risultare inferiore a quello degli enti partecipanti.
Del resto è la stessa direttiva 2014/24/UE, all’art. 12, a chiarire che “singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni partecipanti”. Non è quindi necessario che tutti i soci possiedano un proprio rappresentante all’interno del consiglio di amministrazione, ben potendo essere rappresentati congiuntamente, sia pure in posizione di minoranza.
A fronte di tale obiettiva necessità funzionale, il già sussistente potere di controllo appare confermato (ed in parte rafforzato) dalle modifiche statutarie del dicembre 2016.
Neppure coglie nel segno il rilievo di parte appellante, secondo cui il patto parasociale del 21 settembre 2016 non avrebbe alcuna rilevanza in tale contesto, non attribuendo un controllo gestionale diretto agli enti locali, bensì traducendosi sostanzialmente in una delega data da ciascun comune (laddove impossibilitato a prendervi direttamente parte) al soggetto partecipante all’assemblea, affinché lo stesso si attenga alla volontà dell’amministrazione “mandante”: invero, proprio in quanto patto parasociale (cioè negozio obbligatorio intervenuto tra i soci) e non previsione statutaria, non potrebbe comunque incidere sulla struttura del rapporto societario, imprimendogli o meno la natura di in house providing; la sua reale funzione, quindi, va letta nel complessivo contesto in cui si colloca.
Alla luce delle disposizioni statutarie precedentemente indicate, il patto in esame mira ad agevolare e rafforzare il concreto esercizio dei poteri di controllo da parte dei enti territoriali titolari del capitale della Garda Uno s.p.a., in particolar modo allorché vengano in questione interessi territoriali specifici degli stessi.
Correttamente, dunque, per il giudice di prime cure – ben lungi dall’attribuire al patto parasociale una funzione discriminante e decisiva circa la configurabilità o meno dell’in house providing – il fatto che “i firmatari del patto parasociale si impegnano a votare in assemblea, su questioni che riguardano i servizi prestati in uno specifico comune, in conformità alla volontà espressa dal comune direttamente interessato […]”, alla luce di quanto già previsto dalle disposizioni statutarie, contribuisce ad assicurare “a ciascun comune il ruolo di dominus nelle decisioni circa il frammento di gestione relativo al proprio territorio”.
Trattasi di uno dei vari elementi caratterizzanti, in concreto, il rapporto in essere, per di più in continua evoluzione, stante la necessità di adeguare i meccanismi di funzionamento dell’ente ad un progressivo incremento della compagine sociale (e, dunque, di assicurare comunque l’effettività del principio del “controllo analogo” anche in presenza di partecipazioni al capitale ultra-minoritarie).
In concreto, peraltro, la rilevanza di tale patto appare tutt’altro che trascurabile: ai sensi dell’art. 1, “i soci firmatari del patto si impegnano a votare nelle assemblee sociali in maniera conforme all’orientamento espresso dal socio direttamente e specificamente interessato”, il che comporta la necessità, per l’organo gestionale, di acquisire il preventivo parere favorevole (di fatto vincolante, per effetto del patto) dell’ente territoriale interessato, prima di poter procedere all’adozione delle proprie deliberazioni (art. 2).
Altro elemento che contribuirebbe a rafforzare l’in house, in presenza di un numero crescente di partecipanti, è poi il Comitato di coordinamento, di recente istituzione.
Sul punto, l’appellante definisce “sviante il ragionamento sviluppato dal Tar in ordine alla importanza del “Comitato di coordinamento”, ritenuto come comprovante la possibilità da parte degli Enti Locali di esercitare il controllo analogo, poiché le funzioni assegnate a detto organismo, così come emergono dallo Statuto prodotto dalle controparti, fanno deporre per una conclusione diametralmente opposta.
In primo luogo […] il predetto “Comitato” è stato inserito nello Statuto di Garda Uno solo in data 11.4.2013, dopo quindi l’affidamento impugnato […] e in ogni caso lo stesso è stato depositato agli atti solo come bozza, sicché non si sa se poi sa stato davvero approvato. […] Ad ogni buon conto, è svuotato di qualsiasi concreta funzione tipicamente in house”.
In realtà, il Tribunale amministrativo della Lombardia ha piuttosto visto in tale nuovo istituto una “diretta espressione della popolazione degli enti locali, che partecipa alle riunioni dell’organo amministrativo ed esprime pareri da cui l’organo amministrativo può discostarsi solo con congrua motivazione (art. 24-bis dello statuto)”, dunque non un elemento decisivo nella caratterizzazione in house del rapporto, quanto piuttosto un indice statutario di come l’attività della società fosse in qualche misura conformata dagli interessi locali degli enti partecipanti.
L’istituzione del Comitato e l’adozione del patto parasociale, dunque, per il giudice di prime cure non fondano certo l’in house providing (già esistente), bensì “rafforzano in modo significativo il ruolo dei soci minoritari e ultraminoritari”, contribuendo pertanto a confermare il giudizio in precedenza condotto sulla base delle clausole statutarie.
Inoltre, l’art. 19 dello Statuto della Garda Uno s.p.a. prevede espressamente che il consiglio di amministrazione ha solamente un potere di proposta circa gli atti di indirizzo generale della società, l’approvazione degli stessi spettando invece, in via esclusiva, all’assemblea dei soci.
Alla luce di tali rilievi, deve ritenersi che le doglianze prospettate da parte appellante in merito all’insussistenza dei presupposti del cd. “controllo analogo” non siano fondate.
Trova applicazione, al riguardo, il precedente di Cons. Stato, V, 8 marzo 2011, n. 1447, a mente del quale “nel caso di affidamento in house, conseguente all’ istituzione da parte di più enti locali di una società di capitali da essi interamente partecipata […] il requisito del controllo analogo deve essere quindi verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico, sicché è sufficiente che il controllo della mano pubblica sull’ente affidatario, purché effettivo e reale, sia esercitato dagli enti partecipanti nella loro totalità, senza che necessiti una verifica della posizione di ogni singolo ente (v. C.d.S., Sez. V, 24 settembre 2010, n. 7092; 26 agosto 2009, n. 5082; 9 marzo 2009, n. 1365)”.
Nel caso di specie, già inizialmente lo Statuto della Garda Uno s.p.a. riservava ai soci il controllo degli obiettivi strategici e, comunque, le decisioni di maggior rilievo per la società, devolvendo all’assemblea di una serie di poteri di vigilanza e controllo: ciò, peraltro, non all’interno di uno scema rigidamente predeterminato e definitivo, ma con continue modifiche ed adattamenti nell’ottica di assicurare, per quanto compatibile con la struttura stessa (e le finalità) dell’ente societario, un costante rafforzamento dei soci minoritari, sante il progressivo incremento degli stessi per effetto di nuove partecipazioni al capitale sociale.
Conclusivamente, nel caso di specie possono ritenersi sussistere i presupposti di cui all’art. 12 della già richiamata direttiva 2014/24/UE ai fini della legittimità dell’affidamento diretto, ossia:
1. la totale partecipazione pubblica del capitale della società incaricata della gestione del servizio (nel caso di specie, non è consentito l’apporto di capitali privati – art. 8 statuto);
2. la realizzazione, da parte della suddetta società, della parte preponderante della propria attività con gli enti controllanti (l’art. 4, p.to 4 dello statuto prevede espressamente che, nel rispetto delle norme pro tempore vigenti – adesso gli artt. 5 del d.lgs. n. 50 del 2016 e 16, commi 3, 4 e 5 del d.lgs. n. 175 del 2016 – la società dovrà operare in via prevalente con gli enti partecipanti);
3. il controllo analogo – per le ragioni in precedenza esposte – sulla società partecipata da parte dei medesimi enti (cd. controllo frammentato o congiunto).
Lungi dall’attribuire un illimitato potere gestionale al consiglio di amministrazione, lo statuto di Garda Uno s.p.a. attribuisce ai soci – tramite l’assemblea ed il Comitato di coordinamento – dei penetranti poteri di controllo e di cogestione (in particolari materie): l’art. 13 p.to 1 dello statuto, in particolare, sottopone i principali atti della società alla preventiva autorizzazione dell’assemblea dei soci, laddove i successivi p.ti 5 e 6 prevedono particolari obblighi di informazione e facoltà di convocazione dell’assemblea a quote minoritarie di soci.
Conclusivamente il primo motivo di appello va dunque respinto.
8. Con secondo motivo di gravame, la Aprica s.p.a. censura poi la presunta violazione dell’art. 202 del d.lgs. n. 152 del 2006, in ordine all’obbligatorio passaggio del personale dal precedente gestore al nuovo.
Anche questo motivo non è fondato.
Nel caso di specie non si è in presenza di una società terza che subentra ad un’altra (di analoga natura) nell’esecuzione di un contratto, bensì nella riassunzione, da parte della stazione appaltante, della diretta gestione di determinati servizi, sia pure per il tramite di una società operativa.
In ogni caso trova applicazione il precedente di Cons. Stato, III, 30 marzo 2016, n. 1255, a mente del quale “la c.d. clausola sociale […] non comporta invece alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria (cfr. Cons. Stato, III, n. 1896/2013)”.
Deve quindi concludersi che non sussistono i presupposti fondanti il predetto subentro.
Di conseguenza anche il secondo motivo di appello andrà respinto.
9. In conclusione l’appello deve essere respinto
La particolarità e complessità delle questioni trattate giustifica peraltro l’integrale compensazione, tra le parti, delle spese di lite del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa interamente tra le parti le spese di lite del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.