Consiglio di Stato sentenza n. 3333/2017 - Sezione Terza- 22 giugno 2017
In tema di interdittive antimafia, è nell’area del ragionevole dubbio che si colloca il criterio del “più probabile che non”: ciò che lo connota non è un diverso procedimento logico, ma la minore forza dimostrativa dell’evidence inference. L’interpreta è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metologico, ma al fine di ritenere provato un determinato fatto, gli è sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50 % + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione appropriata, la c.d. probabilità cruciale.
La censura sulla non attualità del pericolo di condizionamento mafioso assume scarsa consistenza, poiché l’impresa esposta al condizionamento della mafia per definizione non se ne sottrae per il decorso di un periodo di tempo (peraltro relativamente breve) in cui ha eliminato dal suo interno i soggetti ad essa più vicini.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello proposto da 1560 del 2017, proposto da:
-OMISSIS- già -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Luigi Magno, Lorenzo Lentini, con domicilio eletto presso lo studio Antonio Colavincenzo in Roma, via Barberini, 36;
contro
Ministero dell’Interno, Ufficio Territoriale del Governo Napoli, in persona del rispettivo legale rappresentante p.t., rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
-OMISSIS- non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del TAR Campania, sede di Napoli - sez. I, n. 5858/2016.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno e dell’Ufficio Territoriale del Governo di Napoli;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 22 giugno 2017 il Cons. Francesco Bellomo e uditi per le parti gli avvocati Luigi Magno e l’Avvocato dello Stato Maria Vittoria Lumetti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con ricorso proposto dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, sede di Napoli, la -OMISSIS- domandava l’annullamento delle note protocollo n. 0095970 del 30 maggio 2016 e n. 0095856 del 30 maggio 2016 della Prefettura di Napoli - Ufficio Territoriale del Governo di Napoli - Area I Ter OSP recante informazioni antimafia ex art. 91 del D.Lgs. n.159/2011, nonché di tutti gli atti presupposti e connessi.
A fondamento del ricorso deduceva plurime censure di violazione di legge ed eccesso di potere.
Si costituivano in giudizio per resistere al ricorso il Ministero dell’interno e -OMISSIS-
Con sentenza n. 5858/2016 il TAR rigettava il ricorso.
2. La sentenza è stata appellata da -OMISSIS-, che contrasta le argomentazioni del giudice di primo grado.
Si sono costituiti per resistere all’appello il Ministero dell’interno e l’Ufficio Territoriale del Governo di Napoli.
La causa è passata in decisione alla pubblica udienza del 22 giugno 2017.
DIRITTO
1. L’informativa antimafia si fonda sui seguenti elementi:
a) l’ex amministratore delegato della -OMISSIS- (già -OMISSIS-), -OMISSIS-, è imputato, unitamente al procuratore dell’impresa, -OMISSIS-, “della compartecipazione alla turbativa della gara di appalto per l’affidamento del servizio di pulizia dei presidi ospedalieri e delle strutture della ASL di Caserta, indetta nel 2012, aggravata dalla finalità di agevolazione del sodalizio camorristico denominato clan dei Casalesi, nonché di corruzione del presidente della Commissione aggiudicatrice preposta all’affidamento della gara”
b) -OMISSIS- è stato colpito da ordinanza di custodia cautelare, confermata dal Tribunale del riesame, per i rapporti che, secondo dichiarazioni di collaboratori di giustizia e intercettazioni, lo stesso ha intrattenuto con il clan camorristico dei Casalesi;
c) in particolare, il medesimo è legato a tale -OMISSIS- (descritto negli atti giudiziari richiamati dall’informativa come imprenditore dei rifiuti e Consigliere Regionale della Campania), arrestato per il reato di associazione camorristica con il clan dei Casalesi;
d) -OMISSIS-, in definitiva, è riferibile al suddetto -OMISSIS- ed al clan dei Casalesi, al cui controllo è assoggettata;
e) anche dopo la rimozione dalla carica di amministratore delegato, non solo -OMISSIS- ha percepito compensi da -OMISSIS-, ma suoi congiunti (la figlia, -OMISSIS-, il fratello, -OMISSIS- ed il nipote, -OMISSIS-) risultano ancora tra i dipendenti della società, che, peraltro, ha sempre alle sue dipendenze familiari di persone vicine al clan camorristico.
Nella prospettazione dell’Amministrazione – fondata sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e sulle intercettazioni – -OMISSIS- operando come “impresa pulita” di cui il clan dei casalesi si avvale per operare in circuiti economici anche internazionali secondo logiche corruttive e fa parte di un sistema di intese tra imprenditori, camorra e amministratori volte a favorire l’aggiudicazione di appalti pubblici a imprese “sponsorizzate” da organizzazioni criminali.
Con il ricorso di primo grado si era evidenziato che il fulcro dell’informativa è il ruolo all’interno di -OMISSIS- di -OMISSIS-, che però è stato da tempo allontanato dalla società, giusta revoca dell’incarico di amministratore delegato e di presidente del consiglio di amministrazione con sospensione del rapporto di lavoro (verbale di assemblea ordinaria dell’11 novembre 2013, successiva all’emissione del provvedimento cautelare del GIP del 28 ottobre 2013). A tale riguardo, la ricorrente rappresenta che la somma di euro 65.000 erogata al medesimo nel 2015 riguarda retribuzioni mensili arretrate ed indennità inerenti la cessazione del rapporto di lavoro.
Per quanto riguarda le assunzioni di dipendenti legati da rapporti di parentela con -OMISSIS- o di cui i collaboratori di giustizia hanno riferito una contiguità alla criminalità organizzata, la ricorrente ha sostenuto che esse fossero obbligatorie a seguito di passaggio di cantiere e che, comunque, quelli “compromessi” sono stati licenziati.
La ricorrente ha quindi concluso per l’assenza dei presupposti normativi richiesti per l’emissione dell’informativa e, in particolare, del requisito di attualità
Il Tar ha respinto le censure del ricorrente assumendo che:
- dalle ordinanze cautelari emessa dal GIP del Tribunale di Napoli e dal Tribunale del Riesame, atti richiamati nel provvedimento prefettizio, emerge chiaramente l’influenza esercitata dal clan dei casalesi sulla gestione della società ricorrente;
- la revoca dalla carica di amministratore di -OMISSIS- non è circostanza risolutiva, perché, come in giurisprudenza si è osservato, il subentro nella titolarità di quote sociali o nella carica di amministratore di altro soggetto, formalmente incensurato, è un elemento neutro, che può, in effetti, costituire un riammodernamento meramente apparente della compagine sociale;
- -OMISSIS-, tenuto conto dei rapporti tra il suo (ex) amministratore delegato e soggetti gravitanti in ambienti camorristici (-OMISSIS-), è divenuta uno strumento di accesso agli appalti pubblici da parte del clan camorristico dei Casalesi;
- quanto alla presenza, tra i dipendenti di -OMISSIS-, di familiari -OMISSIS- e di persone legate ad esponenti della camorra, il provvedimento prefettizio è ossequioso del principio giurisprudenziale secondo il quale deve valorizzarsi il rapporto di parentela quando questo, per le sue caratteristiche, lasci ritenere, probabile una conduzione collettiva ed una regia familiare (di diritto o di fatto) verso familiari o affiliati dei clan mafiosi;
- il decorso del tempo non è elemento idoneo per escludere la sussistenza del pericolo di infiltrazione mafiosa, tanto più che, nel caso, le condotte oggetto dei provvedimenti giudiziari restrittivi risalgono ad epoca non remota.
2. Appella -OMISSIS- per error in iudicando, deducendo violazione e/o falsa applicazione degli artt. 84 e 91 del d.lgs. n. 159/2011, violazione dell’art. 34, comma 2 c.p.a., violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., eccesso di potere giurisdizionale, violazione dell’art. 41 Cost., difetto di istruttoria, travisamento dei fatti, illogicità ed irragionevolezza, difetto di motivazione, contraddittorietà, ingiustizia manifesta, sotto i seguenti profili.
1) Il giudice di primo grado non ha dimostrato in che modo la figura -OMISSIS- e dei dipendenti influenza la società, a fronte delle misure dissociative prese a seguito della conoscenza dei fatti oggetto di indagine penale, avendo la società subito revocato la carica -OMISSIS- e poi:
a) adottato (in data 11.03.2014) un Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo ai sensi del Decreto Legislativo n. 231/2001;
b) trasferito (in data 16.07.2015) gli uffici amministrativi della società a -OMISSIS- (TO), presso la sede della controllante -OMISSIS-;
c) licenziato (in data 01.10.2015) -OMISSIS- per giustificato motivo oggettivo;
d) trasferito -OMISSIS- (il fratello di -OMISSIS-) a -OMISSIS-, presso la nuova sede degli uffici amministrativi di -OMISSIS-, e successivamente, previa contestazione di addebito, intimatone il licenziamento due volte, di cui la seconda dopo la sentenza di reintegra del Tribunale di Napoli;
e) licenziato -OMISSIS- (figlia di -OMISSIS-) sin dal 05.10.2015 e transatto il relativo giudizio di impugnativa di licenziamento;
f) cessato ogni rapporto di lavoro con le dipendenti -OMISSIS-, -OMISSIS- e -OMISSIS-, assunte per passaggio di cantiere e che, secondo la stessa ricostruzione del Prefetto, sarebbero riconducibili al clan Belforte e non a quello dei casalesi;
e) licenziato -OMISSIS-.
2) Il provvedimento impugnato si fonda su meri sospetti, non essendo -OMISSIS- colpita da alcun procedimento giudiziario di natura penale, ancorché meramente preventiva. -OMISSIS- fosse stata effettivamente riconducibile ad un gestore o socio della camorra (nella ipotesi accusatoria penale, il -OMISSIS-), il giudice penale necessariamente avrebbe dovuto applicare una misura di prevenzione che, invece, non risulta neppure mai richiesta, a distanza di oltre 3 anni dai fatti. È del resto inverosimile che -OMISSIS- sia un’impresa fiancheggiatrice della camorra, facendo parte di una holding francese (-OMISSIS-), presente in ben 14 Paesi, con circa 33.000 dipendenti, la cui Capogruppo -OMISSIS- è quotata alla Borsa di Parigi, sol perché un Amministratore infedele (-OMISSIS-), tempestivamente rimosso, ha agito in uno specifico contesto territoriale limitato, per un singolo e circoscritto episodio.
3) Ferma l’insussistenza del pericolo di condizionamento mafioso, esso comunque non potrebbe essere attuale, perché al decorso tempo si accompagnano una serie di condotte tenute dalla società che hanno segnato la frattura con la precedente gestione.
3. L’appello è infondato.
I tre motivi di appello possono essere congiuntamente esaminati, devolvendo in sostanza le stesse questioni poste in primo grado, ossia l’assenza dei presupposti normativi per l’adozione dell’informativa in ragione dell’assenza di collegamenti tra la criminalità organizzata e la compagine societaria e, comunque, la non attualità del pericolo di condizionamento mafioso.
Entrambe le questioni ruotano intorno alla figura di -OMISSIS-, amministratore dell’appellante fino a circa tre anni prima dell’adozione dell’atto impugnato, che non può che essere analizzata alla luce della fenomenologia dell’impresa mafiosa, poiché questa è l’ipotesi accusatoria.
Tale indagine va però inserita nella cornice teorica che presiede all’accertamento dell’Autorità amministrativa in materia e, per conseguenza al sindacato giurisdizionale su di esso, retti, come noto, dalla regola “più probabile che non”, il quale si individua per distinzione con il principio b.a.r.d. (“al di là del ragionevole dubbio”), che dunque occorre definire.
Ciò anche perché la difesa del privato – diversamente da quanto accade solitamente nei processi aventi ad oggetto questa materia – ha approfondito il tema nella discussione orale, soffermandosi proprio sul rapporto tra i due criteri, che ha ritenuto distinguibili sotto il profilo quantitativo ma non qualitativo, pervenendo così alla conclusione che l’Amministrazione non ha rispettato l’iter logico sotteso a dette regole, operando un vero e proprio “salto” concettuale, nell’affermare l’irrilevanza dei mutamenti societari intervenuti. Critica a cui la difesa erariale non ha replicato, rendendo dunque necessario che il Collegio prenda posizione sul punto, nei termini di seguito indicati.
È oramai invalso nel pensiero giuridico occidentale l’impiego nell’indagine giudiziaria – sia penale (Cass. pen. sez. un. 11 settembre 2002, n. 30328), che civile (Cass. civ. sez. un. 11 gennaio 2008, n. 58111) – del metodo scientifico, che si fonda su un compromesso delle concezioni di Hempel e di Popper, in forza del quale la probabilità (p) dell’ipotesi sul fatto (H) è proporzionale al grado di informazione coerente (K) introdotta nel processo attraverso l’acquisizione dei mezzi di prova, ed al crescere dell’informazione aumenta il grado di resistenza (r) alla falsificazione dell’ipotesi. In simboli: p(HK) = r.
Dal punto di vista logico, il ragionamento giudiziario – tradizionalmente ricondotto al sillogismo, in cui l’elemento noto (premessa minore o factum probans) viene analizzato secondo una regola (premessa maggiore) e fornisce un risultato sul fatto ignoto (conclusione o factum probandum) – segue il modello dell’abduzione e non della deduzione.
Cioè poiché nell’accertamento di un fatto – in sede civile, penale o amministrativa – si tratta di pensare a ritroso e l’impiego di leggi universali, ove disponibili, è limitato a singoli passaggi, sicché la conclusione provvisoria ha sempre natura probabilistica.
Nel processo l’abduzione si arricchisce grazie a una duplice operazione, rispettivamente di conferma e di verifica dell’ipotesi di partenza: la corroboration, che consiste nell’acquisire informazioni coerenti con quelle impiegate nella premessa minore dell’inferenza, e la cumulative redundancy, che consiste nel validare la bontà del risultato dell’inferenza, mercé la confutazione delle ipotesi alternative.
Secondo la tesi prevalente, sia in giurisprudenza che in dottrina, il procedimento di conferma – cd. evidence– ha natura induttiva ed è centrale nel ragionamento giudiziario, distinguendosi nettamente dalla fase di formulazione dell’ipotesi e da quella, subito posteriore, della generazione delle conclusioni provvisorie.
Più precisamente, l’abduzione è limitata al momento iniziale, in cui, sulla base di associazioni o analogie spontanee, l’interprete elabora una congettura esplicativa del fatto, sulla cui base prosegue l’indagine, salvo che la stessa non superi la fase della conferma e sia necessario il ritorno alla fase della formazione delle ipotesi (c.d. andamento ricorsivo del ragionamento).
Nella fase successiva si traggono deduttivamente le conclusioni suggerite dall’ipotesi di partenza, onde riscontrare l’attendibilità dell’ipotesi mediante la c.d. esplorazione, che avviene nella terza fase.
In tale fase si procede alla revisione dell’ipotesi sulla base dell’evidenza empirica disponibile: se le conclusioni provvisoriamente raggiunte ricevono conferma, l’ipotesi acquisita consistenza, passando da possibile a probabile spiegazione dei fatti, tanto più probabile quanto più ampia è l’evidence.
Le tre fasi, pur se concatenate e suscettibili di considerazione circolare oltre che lineare, devono essere separate sul piano gnoseologico, non solo per l’intrinseca disomogeneità della logica argomentativa sottesa, ma anche per il diverso rischio di fallacie cognitive cui ciascuna è esposta. In particolare l’argomentazione abduttiva, essendo un prodotto del “pensiero spontaneo”, da intendersi come il ragionamento umano non sostenuto «da strumenti formali correttamente appresi e correttamente applicati, come le logiche deduttive e induttive», sarebbe esposta a maggiori rischi di errore.
Orbene, la riferita classificazione strutturale del ragionamento giudiziario merita alcune precisazioni.
Nel processo l’interprete non elabora induzioni, potendo al più avvalersi di regole induttive preesistenti, siano esse leggi statistiche o massime di esperienza. L’argomentazione che giustifica un’ipotesi sul fatto tramite l’uso di un altro fatto con esso coerente o, quantomeno, compatibile, non è un’induzione.
La conferma dell’ipotesi avviene per completamento della premessa minore dell’abduzione.
È l’abduzione, dunque, il perno del ragionamento giudiziario sui fatti, come peraltro plasticamente evidenziato dalla formula matematica citata, la quale è incentrata sulla probabilità dell’ipotesi e definisce la fase di conferma come rivolta alla sua crescita, onde offrire maggiore resistenza ai successivi tentativi di falsificazione, necessari per raggiungere la soglia b.a.r.d.
Con riguardo all’abduzione, è improprio ritenere un maggiore rischio di fallacia sull’assunto che essa sarebbe il prodotto del “pensiero spontaneo”. In primo luogo l’abduzione è, al pari della deduzione e dell’induzione un procedimento formale, benché connotato da un maggiore spazio di creatività dell’interprete. In secondo luogo, il c.d. pensiero spontaneo, altro non è che l’intuizione, un’istantanea forma di ragionamento basata su formule associative e dissociative, la cui potenza è direttamente proporzionale alle conoscenze e capacità intellettuali dell’operatore umano.
Sulla base di ciascuna inferenza abduttiva (una per ogni singolo tema di prova) viene organizzata una sequenza argomentativa finale, in cui i vari risultati ottenuti si comportano come elementi del modello globale di ricostruzione del fatto e vengono interpretati sulla base di un’ipotesi esplicativa generale, in cui il complesso dei risultati ottenuti, valutati in base alle pertinenti regole di inferenza, generano la conclusione sul thema decidendum.
L’ipotesi potrà dirsi confermata quando la conclusione sia coerente con tutti i risultati ottenuti nel processo.
L’ipotesi potrà dirsi vera (oltre ogni ragionevole dubbio) quando la conclusione sia l’unica in grado di giustificare tutti i risultati ottenuti nel processo, o comunque sia nettamente preferibile rispetto ad ogni ipotesi alternativa astrattamente esistente.
L’ultimo nodo da sciogliere attiene al grado della verifica probabilistica: nei casi in cui un’ipotesi appaia non già l’unica, ma nettamente preferibile su ogni altra esistente, può non essere chiaro in cosa debba tradursi questa preferenza.
Superato, oramai, l’antico paradigma della certezza morale, l’alternativa è tra certezza scientifica (costruita su base nomologica-deduttiva: la spiegazione consiste nella deduzione di un fenomeno a partire da una serie di premesse, che siano sostenute perlomeno da una legge di natura. Le leggi scientifiche contengono una sorta di necessità intrinseca; oltre a ciò, esse non descrivono solamente il comportamento effettivo dei fenomeni, ma anche il loro comportamento virtuale) e certezza logica (costruita su base logico-deduttiva: la spiegazione razionalmente accettabile è quella in grado di giustificare deduttivamente, ponendosi come premessa, il fenomeno, ma non coperta da leggi scientifiche universali, sicché lascia spazio a ipotesi alternative astrattamente plausibili, ma dotate di capacità esplicativa quantitativamente assai inferiore).
In base alla prima la ricostruzione suscettibile di essere posto a fondamento del b.a.r.d. sarebbe solo la tesi non contraddetta da alcuna ipotesi alternativa dotata di minima plausibilità e sorretta da leggi scientifiche di carattere universale. In base alla seconda sarebbe sufficiente anche una ricostruzione del fatto sorretta da leggi induttivamente formate, ove dotata di capacità esplicativa nettamente superiore alle altre possibili ricostruzioni.
Il dualismo, tuttavia, appare superabile, alla luce della considerazione che neppure il paradigma della certezza scientifica è immune dall’esigenza di istituire una relazione tra tesi e antitesi.
Non è sufficiente che la tesi sostenuta sia nettamente preferibile rispetto ad ogni ipotesi alternativa concreta (nel qual caso si slitterebbe verso il parametro del “più probabile che non”, quand’anche caratterizzato da alti livelli di probabilità), ma occorre che essa sia capace di neutralizzare l’ipotesi alternativa, degradandola allo stadio di ipotesi puramente astratta, in assoluto non escludibile, ma appartenente all’universo delle congetture teoriche, sfornite di appigli nella realtà.
La netta preferibilità, dunque, resiste come criterio, ma si misura sull’esistenza di ipotesi alternative astratte (rispetto alle quali altro non si può predicare – per gli insanabili limiti della conoscenza umana – che un giudizio di elevata preferibilità), laddove l’esistenza di spiegazioni divergenti, fornite di un qualche elemento concreto, implica un ragionevole dubbio.
È nell’area del ragionevole dubbio che si colloca il criterio del “più probabile che non”: ciò che lo connota non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’evidenceand inference.
Sul piano teorico, dunque, la difesa dell’appellante non sbaglia: in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, ma al fine di ritenere provato un determinato fatto (nella specie il rischio di condizionamento mafioso, precisamente “la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate” ai sensi dell’art. 84, comma 3 d.lgs. 159/2013), gli è sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale.
È invece nell’applicazione di questo metodo al caso in esame che la critica dell’appellante non convince: ancorché in termini sostanziali – non potendosi pretendere da una pubblica amministrazione l’adozione delle categorie formali proprie dell’indagine giudiziaria – l’impugnata informativa ha fatto buon governo del criterio probabilistico, per la peculiarità del fenomeno mafioso.
La natura della criminalità di tipo mafioso è stata efficacemente descritta nelle pronunce della Corte costituzionale che hanno progressivamente cancellato le presunzioni di adeguatezza della custodia cautelare in cercare aggiunte dal legislatore a quella originaria, prevista in relazione al reato di cui all’art. 416-bis c.p., sottolineandone l’assoluta peculiarità. Per tutte valga la sentenza n. 164/11:
«Ciò premesso, questa Corte ha ribadito, nella citata sentenza n. 265 del 2010, che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del 2010)».
Sotto tale profitto, ai delitti a sfondo sessuale allora in discussione non poteva estendersi la ratio giustificativa del regime derogatorio già ravvisata in rapporto ai delitti di mafia: ossia che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche - legate alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice - deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure «minori» sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità) ».
Prosegue la Corte rilevando che la presunzione assoluta nel caso della violenza sessuale di gruppo, così come in quello dell’omicidio, non è rispondente a un dato di esperienza generalizzato, ricollegabile alla «struttura stessa» e alle «connotazioni criminologiche» della figura criminosa, non trattandosi di un «reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità - per radicamento nel territorio, intensità dei collegamenti personali e forza intimidatrice - vincolo che solo la misura più severa risulterebbe, nella generalità dei casi, in grado di interrompere».
Se solo la detenzione carceraria è ritenuta misura adeguata a interrompere il vincolo mafioso, si può ben comprendere come le condotte dissociative indicate dall’appellante non dimostrino la recisione del legame tra essa e la criminalità organizzata, di cui la passata presenza -OMISSIS- nelle vesti di amministratore delegato e di alcuni familiari o persone vicine al clan dei casalesi come dipendenti sono solo gli indici, neppure esclusivi.
Metaforicamente potrebbe dirsi che la debellazione di alcuni sintomi non implichi la cura della malattia.
Né rileva la circostanza che la società appellante faccia parte di una holding. Le associazioni criminali, infatti, si sono progressivamente evolute lungo due diverse direttrici: la mimetizzazione delle strutture illecite e la progressiva assunzione di modalità operative proprie dell’impresa legale. Alcune di esse, poi, somigliano sempre più ad holding, da un lato conservano il monopolio dei mercati illegali e, dall’altro, reimpiegano i proventi delle attività criminali in attività legali, massimizzando i propri profitti ed ottenendo la credibilità ed il prestigio propri del mondo dell’imprenditoria lecita. Se la criminalità organizzata può comportarsi a sua volta come un gruppo finanziario, non vi è nessun ostacolo a ritenere che nella sua sfera d’influenza possano entrare società controllate che si trovino nel suo territorio.
Nel quadro delineato, la censura sulla non attualità del pericolo di condizionamento mafioso assume scarsa consistenza, poiché l’impresa esposta al condizionamento della mafia per definizione non se ne sottrae per il decorso di un periodo tempo (peraltro relativamente breve) in cui ha eliminato dal suo interno i soggetti ad essa più vicini.
Conclusivamente, il Collegio ritiene che la prova del rischio di condizionamento raggiunga nel caso in esame la soglia della probabilità cruciale: l’ipotesi alternativa prospettata dall’appellante (l’impresa si è allontanata dalla criminalità organizzata) è ragionevole, ma il rischio di condizionamento mafioso rimane l’ipotesi più probabile.
3. L’appello è respinto.
Gli argomenti spesi dall’appellante giustificano la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Terza, respinge l’appello.
Spese compensate.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellante.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 giugno 2017 con l’intervento dei magistrati:
Franco Frattini, Presidente
Francesco Bellomo, Consigliere, Estensore
Lydia Ada Orsola Spiezia, Consigliere
Giulio Veltri, Consigliere
Sergio Fina, Consigliere
Guida alla lettura
La sentenza in oggetto riguarda la complessa quanto delicata materia delle interdittive antimafia e dei presupposti che ne consentono l’adozione. In particolare il Consiglio di Stato si è pronunciato sull’appello proposto per la riforma della sentenza del Tar Campania- sezione di Napoli- che rigettava il ricorso presentato avverso due informazioni antimafia ex art. 91 del D.lgs. 159/2011 emesse dalla Prefettura di Napoli- Ufficio Territoriale del Governo di Napoli.
Tale pronuncia assume un connotato importante in quanto stabilisce i limiti del sindacato giurisdizionale nei confronti di provvedimenti che devono confrontarsi con i due principi del “più probabile che non” e del “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Essa, infatti, consente in maniera dettagliata e rigorosa, di affermare come valido criterio di giudizio, quello della c.d. probabilità cruciale. Il ragionamento svolto da parte dei giudici consente di poterlo applicare alle valutazioni condotte da parte dell’amministrazione in merito alla natura stessa della criminalità organizzata.
Riassumendo in maniera sintetica la vicenda processuale, l’informativa antimafia si basava su alcuni elementi ritenuti idonei a dimostrare uno stretto collegamento tra la vita d’impresa e la presenza camorristica del territorio con conseguente influenza sulla gestione da parte dei clan.
In particolare i vertici della società risultavano imputati per turbativa d’asta aggravata dal sodalizio camorristico nonché di corruzione del Presidente della Commissione aggiudicatrice preposta per l’affidamento di gara pubblica. Nonostante la revoca dell’amministratore delegato avvenuta in seguito all’emissione di misure cautelari da parte del Gip di Napoli, la Prefettura riteneva non si trattasse di circostanze risolutive in quanto il subentro nella titolarità di quote sociali o nella carica di amministratore formalmente incensurato, avrebbe potuto rappresentare un elemento neutro che solo apparentemente avrebbe comportato un riammodernamento della compagine societaria. Ad avviso della Prefettura, quindi, si versava nell’ipotesi di una c.d. “impresa pulita” che i clan dei casalesi utilizzavano per operare in circuiti economici anche internazionali all’interno di un sistema più ampio di intese tra imprenditori, camorra e criminalità organizzata.
Ad avviso dei ricorrenti di primo grado e degli appellanti, il provvedimento impugnato si basava esclusivamente su dei sospetti e non teneva conto in nessun modo di una seria di condotte tenute dalla società che segnavano una frattura con la precedente gestione.
L’intera vicenda processuale si basa sul giudizio probabilistico che trova le sue basi nell’applicazione del metodo scientifico. Tale metodo si fonda su un compromesso tra le concezioni di Hempel e di Popper in virtù del quale la probabilità dell’ipotesi sul fatto è proporzionale al grado di informazione coerente introdotto nel processo attraverso l’acquisizione dei mezzi di prova. Al crescere dell’informazione aumenta il grado di resistenza alla falsificazione dell’ipotesi. Appare vidente, secondo i giudici di Palazzo Spada, come nell’accertamento del fatto in sede civile, penale e amministrativa, la conclusione cui giunge l’operatore del diritto è provvisoria in quanto ha natura probabilistica.
Seguendo l’iter logico dei giudicanti, il modello dell’abduzione utilizzato per qualsiasi decisione, si arricchisce di una duplice operazione da distinguere in “corroboration” attraverso la quale acquisire informazioni coerenti con la propria premessa, e la “cumulativ redundancy” che permette di validare la bontà del risultato dell’inferenza. La terza fase, invece, quella conclusiva dove poter riscontrare l’attendibilità dell’ipotesi mediante l’esplorazione.
L’alternativa dinnanzi la quale si trova quotidianamente l’operatore del diritto è quella di rispettare la “certezza scientifica” (attraverso la quale spiegare un fenomeno a partire da leggi scientifiche) o la “certezza logica” (costruita su base logico- deduttiva in virtù del quale la spiegazione accettabile è quella che consente di giustificare deduttivamente il fenomeno). Allo stesso modo, però, neanche il paradigma della certezza scientifica è immune dall’esigenza di istituire una relazione tra tesi e antitesi. Occorre, infatti, secondo quanto riportato nella pronuncia, che la tesi sia capace di neutralizzare l’ipotesi alternativa assumendola esclusivamente come ipotesi puramente astratta.
A sostenere la legittimità dell’informazione antimafia emessa dalla competente Prefettura sulla base di un criterio probabilistico, anche l’adeguatezza della custodia cautelare in carcere così come statuito da parte della Corte Costituzionale in materia di criminalità organizzata (si veda sentenza n° 164/2011) la quale si è così espressa: “ sotto tale profilo, ai delitti a sfondo sessuale allora in discussione non poteva estendersi la ratio giustificativa del regime derogatorio già ravvisata in rapporto ai delitti di mafia: ossia che dalla struttura stessa della fattispecie e della sue connotazioni criminologiche- legate alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere”.
Appare rilevante la circostanza secondo cui le associazioni criminali si siano progressivamente evolute tramite “mimetizzazione delle strutture illecite e la progressiva assunzione di modalità operative proprie dell’impresa legale”.
Pertanto, nel caso in cui si raggiunga la probabilità cruciale risulta ragionevole e quindi più probabile il rischio di condizionamento mafioso. Da qui la legittimità delle informazioni antimafie emesse dall’Amministrazione.