Sommario – 1. Aspetti introduttivi. – 2. L’esercizio del potere di autotutela prima della stipula del contratto. – 3. L’esercizio del potere di revoca dopo la stipula del contratto. – 4. L’annullamento d’ufficio dopo la stipula del contratto. – 4.1. Rilievi critici in ordine all’esercitabilità dell’annullamento d’ufficio a contratto concluso alla luce del d.lgs. 50/2016. 

 

1. Aspetti introduttivi.

La complessità delle dinamiche che propriamente caratterizzano la contrattualistica pubblica ha posto il problema della delimitazione dei confini entro cui, in tale specifico ambito, sia consentito alla Pubblica Amministrazione l’esercizio dei poteri di autotutela con esito c.d. demolitorio, in specie l’annullamento d’ufficio e la revoca.

La questione non si pone tanto con riferimento alle ipotesi di esercizio di tali poteri anteriormente alla stipula del contratto, bensì nei casi in cui sia già sorto il vincolo contrattuale che lega l’Amministrazione verso la controparte.

Invero, prima della conclusione del contratto, non v’è dubbio che gli atti di gara, ivi compresa l’aggiudicazione, soggiacciano al principio di autotutela decisoria, con la conseguenza che i relativi poteri sono esercitabili dalla P.A. senza incontrare limiti ulteriori rispetto a quelli derivanti dalle norme generali (art. 21-nonies e art. 21-quinquies della L. 241/1990).

Diversa è l’ipotesi in cui il contratto sia già stato stipulato; in questo caso, la portata inesauribile del potere pubblico sembra dover fare i conti con la presenza di un vincolo di natura privatistica, sul quale l’annullamento d’ufficio o la revoca dell’aggiudicazione di gara andrebbero inevitabilmente ad incidere.

Prima di esaminare nel dettaglio in che misura sia possibile l’esercizio del potere di autotutela dopo la stipula del contratto – e quale sia in tal caso la sorte del contratto medesimo – occorre soffermarsi brevemente sui presupposti e sui limiti dettati della disciplina normativa in ordine al potere pubblico di emanare provvedimenti di annullamento d’ufficio e di revoca dell’aggiudicazione, certamente ascrivibile nel novero dei provvedimenti attribuitivi di vantaggi economici.

La ratio delle recenti riforme legislative è rinvenibile nell’esigenza di contenere in misura maggiore il potere della P.A. di “farsi giustizia da sé” (secondo la definizione di autotutela amministrativa coniata da Benvenuti[i]), laddove alle ragioni di interesse pubblico si contrapponga un affidamento privato di consistenza significativa.

 

2. L’esercizio del potere di autotutela prima della stipula del contratto.

Come anticipato, prima della stipula del contratto, l’Amministrazione che esercita i poteri di autotutela sugli atti di gara è tenuta all’osservanza dei presupposti e dei limiti desumibili dalla disciplina generale dell’annullamento d’ufficio (art. 21-nonies, L. 241/1990) e della revoca (art. 21-quinquies, L. 241/1990).

Occorre, però, dare atto della particolare attenzione che il Legislatore ha riservato ai provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici sui quali l’Amministrazione, annullandoli o revocandoli, intenda “ritornare”.

All’attualità, infatti, l’art. 21-nonies prevede che, fermi i presupposti del vizio di legittimità e dell’interesse pubblico attuale e concreto da comparare con gli interessi dei destinatari e dei controinteressati, i provvedimenti di autorizzazione e di attribuzione di vantaggi economici possano essere annullati d’ufficio entro un termine ragionevole “comunque non superiore a diciotto mesi”.

Tale limite temporale massimo è stato introdotto dalla L. 124/2015, che ha sostituito il termine elastico ancorato al parametro incerto della ragionevolezza con un termine perentorio oltre il quale il provvedimento di annullamento d’ufficio non può essere adottato a pena di illegittimità.

D’altro canto, anche l’ambito di applicazione della revoca è maggiormente circoscritto qualora vengano in rilievo provvedimenti attributivi di vantaggi economici, tra i quali – si ribadisce – rientrano anche gli atti relativi ai pubblici appalti, primo fra tutti il provvedimento di aggiudicazione.

Come noto, infatti, l’attuale disciplina di cui all’art. 21-quinquies, come riformata dal d.l. 133/2014, prevede che l’Amministrazione possa disporre la revoca di un provvedimento autorizzativo o attributivo di vantaggi economici solo sulla base di sopravvenuti motivi di interesse pubblico o di un mutamento non prevedibile della situazione di fatto, ma non anche per una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.

In sostanza, il Legislatore ha ritenuto di apporre un limite al ripensamento della P.A., così scongiurando il rischio che gli interessi dei privati possano essere eccessivamente sacrificati qualora le ragioni di opportunità successivamente emerse siano riconducibili a precedenti inefficienze istruttorie dell’azione amministrativa.

È, dunque, evidente che il potere di autotutela con esito demolitorio incontri limiti legali più stringenti nell’ipotesi in cui la P.A. intenda incidere su provvedimenti ampliativi della sfera giuridica del destinatario, a dimostrazione del fatto che, in tal caso, risulta ancor più considerevole il peso dell’affidamento del privato nella bilancia dei valori che vede contrapposte le ragioni (di legittimità o di opportunità) di interesse pubblico con gli interessi dei consociati che dal precedente provvedimento abbiano ottenuto un vantaggio.

Ciò posto sui limiti previsti dalla legge, l’autotutela sugli atti di gara prima della stipula del contratto pone al più il problema della responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione.

Invero, accade di frequente che l’impresa che subisce il ritiro degli atti di gara contesti non tanto la validità del provvedimento, ma la scorrettezza del comportamento tenuto dalla Stazione Appaltante che abbia indotto l’operatore economico ad intrattenere trattative inutili, con conseguente perdita di altre occasioni di vantaggi economici.

La giurisprudenza[ii] ammette questa forma di responsabilità, in quanto il comportamento scorretto dell’Amministrazione (nonostante la legittimità del provvedimento), lede la libertà di autodeterminazione negoziale degli operatori economici che abbiano partecipato alla procedura di gara.

Infatti, tale responsabilità non deriva dall’inosservanza delle norme di diritto pubblico che disciplinano il potere di autotutela – posto che gli atti di gara sono stati legittimamente annullati o revocati – bensì dalla violazione dei principi generali del diritto privato che disciplinano il comportamento sulla base dei parametri della buona fede e della correttezza.

In altri termini, si afferma che nell’ambito del procedimento amministrativo e, in particolare, delle procedure a evidenza pubblica, l’Amministrazione sia tenuta al rispetto di due categorie di norme: da un lato, le norme imperative di diritto pubblico che dettano regole relative all’esercizio del potere, la cui violazione determina l’invalidità del provvedimento; dall’altro lato, i principi generali dell’ordinamento civile che fanno nascere in capo alla P.A. obblighi di comportamento, la cui inosservanza dà luogo a responsabilità precontrattuale.

In questo secondo caso, l’impresa che contesti il comportamento scorretto dell’Amministrazione può esperire l’azione risarcitoria al fine di ottenere il risarcimento del danno derivante dalla lesione di un diritto soggettivo (la libertà di autodeterminazione negoziale), che la giurisprudenza amministrativa quantifica utilizzando come criterio il c.d. interesse negativo, ovverosia le spese sostenute per partecipare alla gara (danno emergente) e la perdita di chances contrattuali alternative (lucro cessante).

In disparte i rilievi – brevemente illustrati – relativi alla responsabilità precontrattuale della P.A., si è detto che, sotto il profilo della validità provvedimentale, il potere di autotutela in corso di gara non incontra limitazioni ulteriori a quelle previste dalla disciplina generale.

La vexata quaestio, invece, riguarda la possibilità per l’Amministrazione, dopo la conclusione del contratto, di intervenire in autotutela sugli atti amministrativi che hanno portato alla conclusione dello stesso, così incidendo indirettamente sulla sorte del vincolo contrattuale.

Infatti, si potrebbe ritenere che una volta stipulato il contratto, l’unica forma di autotutela esercitabile dalla P.A. sia quella prevista dal diritto privato, ovverosia il recesso ad nutum o la risoluzione per inadempimento.

Si tratta pur sempre di espressioni di poteri unilaterali di tutela, ma di natura privatistica: gli atti con cui la Pubblica Amministrazione recede o scioglie unilateralmente il vincolo, contestando l’inadempimento, sono atti di diritto privato che colpiscono direttamente il rapporto contrattuale.

Diversamente, l’autotutela provvedimentale non incide sul rapporto (il contratto), ma sull’atto amministrativo (l’aggiudicazione) che è presupposto e fondamento dello stesso rapporto.

Ci si chiede, pertanto, se e a quali condizioni tale potere sia ancora esercitabile dopo la stipula del contratto.

La questione richiede di affrontare separatamente l’ipotesi della revoca e quella dell’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione di gara.

 

3. L’esercizio del potere di revoca dopo la stipula del contratto.

In ordine all’esercitabilità del potere di revoca rispetto a provvedimenti inerenti rapporti di matrice contrattuale successivamente all’intervenuta stipula del contratto, si sono contrapposte due tesi.

In breve, secondo un primo orientamento, sarebbe possibile per la P.A. revocare gli atti di gara anche a seguito della stipula del contratto, con conseguente automatica caducazione di quest’ultimo, stante la stretta consequenzialità che sussiste tra l’aggiudicazione e il vincolo contrattuale[iii].

Una diversa opzione interpretativa, invece, nega siffatta possibilità, ritenendo che il ripensamento dell’Amministrazione in ordine alla realizzazione dell’opera per sopravvenuti motivi di inopportunità vada ricondotto al potere contrattuale di recesso, in ragione del rapporto giuridico paritetico che si instaura tra le parti, pubblica e privata, dopo la stipula del contratto[iv].

Sul punto, si è di recente pronunciata l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. St., Ad. Plen. 14/2014), che ha fermamente escluso la ricorribilità allo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione dopo la conclusione del contratto ed ha affermato che l’unico rimedio consentito per dissolvere il vincolo contrattuale sia il recesso.

In particolare, gli elementi valorizzati dal Consiglio di Stato sono stati essenzialmente due.

Come noto, la revoca è espressione di un’autotutela pubblicistica che incide non su un atto illegittimo, bensì su un atto inopportuno e che, senza cancellare gli effetti già prodotti, impedisce la produzione di effetti ulteriori (efficacia ex nunc).

Tale circostanza ha costituito uno degli argomenti utilizzati dall’Adunanza Plenaria per escludere che dopo la stipula del contratto permanga il potere della P.A. di revocare l’aggiudicazione della gara.

In particolare, si è osservato come l’art. 21-quinquies, comma 1, faccia riferimento ai soli provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole, con la conseguenza che non sarebbe immaginabile una revoca che incida sull’aggiudicazione, che è un atto ad efficacia istantanea la cui efficacia si esaurisce nell’istante in cui il contratto viene concluso. Ne deriva che, dopo la stipula del contratto, la P.A. potrebbe intervenire soltanto sul contratto, giammai sull’aggiudicazione che ha ormai esaurito i suoi effetti.

Tuttavia, occorre dare atto delle ambiguità che presenta il dato normativo.

Infatti, l’art. 21-quinquies, se al comma 1, nell’indicare i presupposti in presenza dei quali è possibile l’esercizio del potere di revoca, fa espresso riferimento soltanto al provvedimento amministrativo ad efficacia durevole, al comma 1-bis, invece,  nell’indicare i criteri di quantificazione dell’indennizzo, si riferisce anche all’eventualità che la revoca abbia ad oggetto un atto amministrativo ad efficacia istantanea incidente su rapporti negoziali, qual è per l’appunto il provvedimento di aggiudicazione della gara.

Oltre all’obiezione derivante dal fatto che la revoca sembra essere incompatibile con gli atti ad efficacia istantanea, c’è poi un’ulteriore argomento valorizzato dall’Adunanza Plenaria per respingere la tesi della possibilità di revocare l’aggiudicazione a contratto concluso.

Si è osservato che ammettere la revoca dopo la stipula del contratto significherebbe introdurre uno strumento di autotutela amministrativa che di fatto interferisce con quello negoziale, ossia il recesso.

In altri termini, si è affermato che il potere di revoca debba ritenersi escluso dalla presenza di una disciplina che attribuisce alla P.A., dopo la conclusione del contratto, un potere speciale, quello di recesso, che ha gli stessi presupposti della revoca, ma diversa natura (negoziale e non pubblicista) e diverse conseguenze.

Infatti, ai sensi dell’art. 109 del d.lgs. 50 del 2016 (che ha sostituito il previgente art. 134 del d.lgs. 163/2006, peraltro facendo opportunamente riferimento non più solo ai lavori, ma anche ai servizi e alle forniture), la P.A. che recede è tenuta al “pagamento dei lavori eseguiti o delle prestazioni relative ai servizi e alle forniture eseguiti nonché del valore dei materiali utili esistenti in cantiere nel caso di lavoro o in magazzino nel caso di servizi o forniture, oltre al decimo dell’importo delle opere, dei servizi o delle forniture non eseguite”.

Il recesso, quindi, determina l’obbligo per l’Amministrazione di pagare non solo quello che già ha ricevuto, ma anche il lucro cessante nei limiti del 10% dei lavori, servizi o forniture che devono ancora essere eseguiti.

Al contrario, la revoca comporta l’obbligo della P.A. di corrispondere un indennizzo (trattandosi, in caso di revoca legittima, di responsabilità da atto lecito ma dannoso), che è correlato al solo danno emergente e non è tale nemmeno da ricoprirlo per l’intero.

Appare, dunque, evidente come il recesso risulti essere più costoso per la P.A., in quanto, al pari di un risarcimento del danno, implica il pagamento sia del danno emergente che di parte del lucro cessante.

Sotto tale aspetto, il recesso dell’Amministrazione è in linea con il recesso c.d. di pentimento della nostra tradizione civilistica che, pur non quantificando il lucro cessante, prevede anch’esso il risarcimento del danno a carico della parte che recede, così da non contraddire l’efficacia vincolante del contratto.

Pertanto, il Consiglio di Stato ha ritenuto che, poiché la revoca e il recesso si fondano sugli stessi presupposti, ossia su una valutazione di convenienza economica dell’atto, dopo la stipula del contratto la revoca è da ritenersi esclusa per il fatto che in fase di svolgimento del rapporto contrattuale esiste una norma speciale, quella sul recesso, destinata a prevalere.

Detto altrimenti, la revoca sarebbe preclusa dal fatto che, concluso il contratto, viene in rilievo un potere speciale di recesso previsto da una norma speciale, che esclude l’applicazione del potere di revoca.

Tuttavia, la tesi della specialità del recesso rispetto alla revoca parte da una premessa – l’identità dei presupposti su cui si fondano i due istituti – che non sembra essere del tutto condivisibile; infatti, il recesso, a differenza della revoca, è libero e non va motivato al privato.

Non è un caso che l’Adunanza Plenaria, per giustificare la teoria dell’identità dei presupposti, ha affermato che, nonostante il recesso sia ad nutum, la P.A. debba comunque indicare le ragioni di interesse pubblico poste a fondamento del recesso, cosicché il privato possa contestarlo anche sotto il profilo motivazionale.

Nonostante i punti di criticità della giurisprudenza esaminata, all’attualità l’orientamento prevalente è quello secondo cui la conclusione del contratto costituisce lo spartiacque tra l’esercizio del potere di revoca e il diritto potestativo di recesso, il quale, essendo un atto negoziale, può essere contestato dal privato dinanzi al giudice ordinario.

 

4. L’annullamento d’ufficio dopo la stipula del contratto.

La questione circa la possibilità di annullare l’aggiudicazione dopo la stipula del contratto si è posta in termini differenti, che riflettono la diversa natura della revoca rispetto a quella dell’annullamento d’ufficio.

Se, da un lato, in dottrina si sono registrate opinioni dissonanti, dall’altro lato, invece, la giurisprudenza[v] è stata tendenzialmente unanime – per lo meno da un certo momento in poi – nell’ammettere l’annullamento officioso a contratto stipulato.

D’altronde, in questo caso non sembrano porsi le problematiche di ordine sistematico presenti nella diversa ipotesi della revoca.

Infatti, come noto, l’annullamento d’ufficio ha efficacia ex tunc, nel senso che elimina retroattivamente gli effetti del provvedimento annullato, pertanto non si pongono problemi di compatibilità con atti ad efficacia istantanea che hanno completamente esaurito la loro efficacia, qual è l’aggiudicazione.

Peraltro, fondandosi su vizi di legittimità, non v’è neanche pericolo di sovrapposizione tra autotutela pubblicistica e autotutela privatistica relativa alla fase negoziale, posto che, in questa fase, la possibilità per la P.A. di recedere o sciogliersi unilateralmente dal vincolo contrattuale deriva da valutazioni di opportunità e convenienza economica, che nulla hanno a che vedere con l’illegittimità dell’atto di gara.

La stessa Adunanza Plenaria sopra richiamata (Cons. St., Ad. Plen. 14/2014), se da un lato ha escluso la possibilità di revoca a contratto stipulato, dall’altro ha, seppure indirettamente, aderito all’orientamento che ammette invece l’annullamento d’ufficio anche successivamente al sorgere del vincolo contrattuale, affermando in un obiter dictum che resta impregiudicata “la possibilità di annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione definitiva anche dopo la stipulazione del contratto”.

Tuttavia, in assenza di certezza normativa sul punto, rimane controversa la questione in ordine alla sorte del contratto in caso di annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione, nonché alle conseguenze in termini di giurisdizione.

Infatti, l’ordinamento disciplina espressamente soltanto i rapporti tra annullamento giurisdizionale e sorte del contratto, devolvendo al giudice che annulla l’aggiudicazione anche il potere di dichiarare l’inefficacia del contratto (artt. 121 e 122 c.p.a.).

In linea di principio, in  caso di annullamento in autotutela, poiché l’aggiudicazione viene annullata fuori dal giudizio, si potrebbe sostenere che venga meno l’esigenza di concentrazione che giustifica la giurisdizione esclusiva; sarebbe pertanto logico assumere la giurisdizione ordinaria, posto che, in tale ipotesi, la controversia è incentrata interamente sul contratto.

In altri termini, potendo la giurisdizione esclusiva operare a rigore solo nei limiti in cui è prevista, si dovrebbe concludere che l’eventuale controversia avente ad oggetto esclusivamente la sorte del contratto a seguito dell’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione spetti al giudice ordinario.

Qualche perplessità potrebbe nascere laddove nel medesimo giudizio dinanzi al giudice amministrativo in cui il privato contesti la legittimità dell’autotutela, la P.A. faccia una sorta di domanda riconvenzionale tramite ricorso incidentale con cui chiede non solo il respingimento del ricorso principale, ma propone anche una domanda sulla sorte del contratto.

In tal caso, il problema che si pone è se, stante la connessione tra la domanda di annullamento del provvedimento di autotutela e la domanda sulla sorte del contratto, il giudice amministrativo possa pronunciarsi.

Detto altrimenti, ci si chiede se sia ipotizzabile una sorta di deroga ai criteri di riparto di giurisdizione giustificata dalla connessione delle domande, al fine di garantire la trattazione unitaria, sulla falsariga di ciò che accade per la competenza.

A questo riguardo, le Sezioni Unite hanno osservato che, nonostante la giurisdizione sia prevista da norme di ordine pubblico inderogabili, eccezionalmente possa ritenersi ammissibile lo spostamento della giurisdizione per ragioni di connessione, al ricorrere di certe condizioni.

Invero, affinché ciò accada, è necessario che le due domande siano proposte innanzi allo stesso giudice e che il giudice che invoca l’attrazione abbia su quella materia giurisdizione esclusiva, mentre l’altro giudice (la cui giurisdizione è attratta) abbia una giurisdizione circoscritta alla relativa situazione giuridica.

In materia di appalti, in cui il giudice amministrativo ha cognizione sia di interessi legittimi che di diritti soggettivi, questo sembra effettivamente accadere.

Peraltro, la Suprema Corte ha affermato che, in tal caso, il giudice amministrativo possa occuparsi non solo della sorte del contratto, ma anche delle eventuali pretese di restituzione o ingiustificato arricchimento che potrebbero derivare dal venir meno del contratto con efficacia retroattiva.

Stabilita la giurisdizione, si pone poi l’ulteriore problema di quale sia la sorte del contratto a seguito di annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione.

In materia di appalti, come noto, il Legislatore – nel tentativo di superare le annose incertezze relative alla sorte del contratto a seguito di impugnazione degli atti di gara – ha attribuito al giudice amministrativo il potere di dichiarare l’inefficacia del vincolo negoziale: annullata l’aggiudicazione in sede giurisdizionale, infatti, spetta al giudice stabilire, alla luce della valutazione comparativa degli interessi coinvolti, se il contratto debba o meno essere dichiarato inefficace.

Nel caso di annullamento d’ufficio il discorso è più critico.

L’annullamento giurisdizionale, infatti, si basa sulla semplice illegittimità, mentre l’annullamento in autotutela richiede anche ragioni di opportunità.

Detto altrimenti, quando l’Amministrazione annulla d’ufficio un provvedimento, è tenuta ad esplicare nella motivazione le ragioni di interesse pubblico che ha ritenuto prevalenti sugli opposti interessi in gioco. Il provvedimento contiene, dunque, una parte in cui si dà atto della valutazione comparativa degli interessi coinvolti.

Ne consegue che, nel caso in cui il provvedimento di annullamento d’ufficio non venga impugnato o l’impugnazione venga rigettata, quest’ultimo diviene intangibile anche nella parte motivazionale – in cui vengono esposte le ragioni di interesse pubblico che rendono recessivo l’interesse del privato alla prosecuzione del rapporto contrattuale –, nonché insindacabile da parte del giudice amministrativo.

Diversamente opinando, infatti, si consentirebbe al giudice che ha rigettato l’impugnativa avverso il provvedimento di autotutela di compiere una valutazione di merito e non di legittimità, come noto preclusa finanche nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva.

In quest’ottica, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha ribadito – stante la stretta consequenzialità tra aggiudicazione della gara pubblica e la stipula del relativo contratto – che l’annullamento a seguito di autotutela della procedura amministrativa determina la caducazione automatica del contratto stipulato[vi], producendo effetti non dissimili alla declaratoria di nullità.

 

4.1. Rilievi critici in ordine all’esercitabilità dell’annullamento d’ufficio a contratto concluso alla luce del d.lgs. 50/2016.

L’assunto dell’esercitabilità dell’annullamento officioso dopo la stipula del contratto, pacificamente avallato dalla giurisprudenza amministrativa, sembra all’attualità destinato ad essere messo nuovamente in discussione dalla nuova disciplina introdotta dal d.lgs. 50 del 2016 (c.d. “Codice dei contratti pubblici”).

Si tratta di una normativa dai tratti ambigui che, se da un lato, fa salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti (art. 32 del codice), dall’altro lato ha innovato la precedente disciplina tipizzando, all’art. 108, diverse ipotesi di risoluzione facoltativa e di risoluzione obbligatoria, che sembrano contraddire l’inesauribilità del potere di annullamento d’ufficio a contratto concluso.

Tali ipotesi di risoluzione, particolarmente eterogenee, assorbono alcune fattispecie che, inficiando a monte la legittimità della procedura di gara, legittimavano la P.A. all’esercizio del potere di autotutela, quali – a titolo esemplificativo – la ricorrenza in capo all’aggiudicatario di uno dei motivi di esclusione stabiliti all’art. 80, le condotte di falsa documentazione o dichiarazioni mendaci dell’appaltatore, o anche la violazione degli obblighi derivanti dai Trattati.

Si potrebbe sostenere che l’intento perseguito dal Legislatore sia quello di apprestare nella fase di esecuzione del contratto uno strumento civilistico di autotutela in senso lato, che, in ragione della sua specialità, sostituisca quello pubblicistico dell’annullamento d’ufficio, sulla falsariga di quanto affermato dalla giurisprudenza amministrativa rispetto ai rapporti intercorrenti tra revoca e recesso.

Tale conclusione, per quanto ipotizzabile, appare per certi versi estrema e sconta talune obiezioni.

Invero, oltre ad essere contraddetta dal riferimento ai poteri di autotutela contenuto all’art. 32 del codice, sembra peraltro smentita dalla stessa formulazione dell’art. 108, che, nell’indicare le condizioni al ricorrere delle quali le Stazioni Appaltanti possano o debbano risolvere il contratto, fa riferimento ad una serie di ipotesi che appaiono integrare un’elencazione tassativa.

Se così fosse, non vi sarebbe motivo alcuno per negare che negli altri casi permanga il potere dell’Amministrazione di annullamento ex officio, con salvezza di tutte le considerazioni suesposte in ordine alla caducazione automatica del contratto.

La questione è nuovamente aperta. Nell’incertezza normativa, non v’è dubbio che per avere maggiore chiarezza sarà ancora una volta fondamentale l’apporto degli interpreti.


[i] Benvenuti F., Autotutela (dir. amm.), in Enciclopedia del diritto, Milano, 1959, p. 537.

[ii] Cons. St., Sez. VI, 633/2013.

[iii] Cons. St., Sez. IV, 156/2013; Sez. VI, 5993/2012; Sez. VI, 1554/2010.

[iv] Cass. SU, 10160/2003; Cass. 29425/2008.

[v] Cons. St., Sez. V, 11/2011; Sez. V, 743/2010.

[vi] Cons. St., Sez. V, 11/2011; Sez. V, 7578/2010.