Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 12 maggio 2017 n. 2
Dal giudicato amministrativo che riconosce la fondatezza della pretesa sostanziale, esaurendo ogni margine di discrezionalità nel successivo esercizio del potere, nasce ex lege, in capo all’amministrazione (ed in certi casi anche in capo alle parti private soccombenti) un’obbligazione, il cui oggetto (la prestazione) consiste proprio nel concedere “in natura” (cioè in forma specifica) il bene della vita di cui è stata riconosciuta la spettanza.
Rispetto alla disciplina civilistica dell’inadempimento dell’obbligazione, l’art. 112, comma 3, c.p.a. introduce un elemento di specialità, perché dispone che l’impossibilità derivante da causa non imputabile (non dovuta cioè a violazione o elusione del giudicato) non estingue l’obbligazione, ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura “risarcitoria”, avente ad oggetto l’equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato: si tratteggia una forma di responsabilità che, nei casi di impossibilità non imputabile a violazione o elusione del giudicato, ha i connotati della responsabilità oggettiva, perché- non è ammessa alcuna prova liberatoria fondata sulla carenza dell’elemento soggettivo (dolo o colpa), che, invece, necessariamente connota le ipotesi di violazione o elusione del giudicato; la responsabilità è esclusa solo per la insussistenza (originaria) o il venir meno del nesso di causalità, il cui onere probatorio grava sul debitore medesimo.
Il rimedio viene, così, ad assumere una connotazione tipicamente compensativa: una sorta di ottemperanza per equivalente, che sostituisce l’ottemperanza in forma specifica nei casi in cui questa non sia più possibile e che si traduce nel riconoscimento dell’equivalente in denaro del bene della vita che la parte vittoriosa avrebbe avuto titolo di ottenere in natura in base al giudicato.
Non si può far valere la concorrente responsabilità solidale del soggetto privato beneficiario del provvedimento illegittimo in sede di giurisdizione amministrativa, dovendosi dubitare che, nel silenzio del legislatore lo speciale regime di responsabilità oggettiva possa estendersi anche ai privati soccombenti e che, in deroga implicita alla generale regola del riparto e per connessione, possa estendersi al privato un regime di responsabilità connotato profili di specialità proprio con riguardo all’elemento soggettivo.
Resta fermo che l’amministrazione, chiamata a risarcire il danno ai sensi dell’art. 112, comma 3, c.p.a., possa vantare nei confronti del beneficiario che ha tratto vantaggio dal provvedimento illegittimo travolto dal giudicato, un’azione qualificabile come azione di regresso collegata a un’obbligazione risarcitoria di natura solidale oppure azione di ingiustificato arricchimento per il disequilibrio causale derivante dal collegamento tra le posizioni sostanziali in gioco, presupponendosi in entrambi i casi l’accertamento (della sussistenza) della giurisdizione amministrativa, l’accertamento della sua proponibilità nell’ambito del giudizio di ottemperanza, anzi che con azione ordinaria, ed una domanda in tal senso dell’amministrazione.
Nel caso di mancata aggiudicazione il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante si identifica con l'interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto). Non è dubitabile, invero, che il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico (anche a prescindere dal lucro che l'impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante), possa essere, comunque, fonte per l'impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la capacità di competere sul mercato e, quindi, la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti. Spetta, in ogni caso, all'impresa danneggiata offrire, senza poter ricorrere a criteri forfettari, la prova rigorosa dell'utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.), e la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità - o di estrema difficoltà - di una precisa prova sull'ammontare del danno.
In senso conforme: Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 29 febbraio 2016, n. 6; Cass. Sez. Un., sentenza 11 gennaio 2008 n. 577, Cass. pen. Sez. un., sentenza n. 30328 del 2002; Cass. Sez. Un., sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 13 gennaio 2012, n. 115; Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 15 ottobre 2012, n. 529; Cons. Stato, Sez. V, sentenza 8 agosto 2014, n. 4248; Consiglio di Stato Sez. V, sentenza 28 aprile 2014, n. 2195; Consiglio di Stato Sez. IV, sentenza 2 dicembre 2013, n. 5725; Consiglio di Stato Sez. III, sentenza 16 settembre 2013, n. 4574; Consiglio di Stato Sez. V, sentenza 7 giugno 2013, n. 3135; Consiglio di Stato Sez. V, sentenza 3 giugno 2013, n. 3035; Cons. giust. amm., sentenza 11 marzo 2013, n. 324; Consiglio di Stato Ad. plen., sentenza 13 novembre 2013, n. 25, Consiglio di Stato Ad. plen., sentenza 25 settembre 2013, n. 21; Consiglio di Stato Ad. plen., sentenza 19 aprile 2013, n. 7; Consiglio di Stato Ad. plen., sentenza 23 marzo 2011, n. 3; Cass. civ., sez. un., sentenza 23 marzo 2011, n. 6594; sez. un., sentenza 11 gennaio 2008, n. 576 e 582; Corte di giustizia UE, Sez. III, sentenza 30 settembre 2010, C-314/2009; sentenza 10 gennaio 2008, C-70/06; sentenza 14 ottobre 2004, C-275/03, Cass. Sez. Un. sentenza 19 aprile 2013, n. 9534; Cass. Sez. Un. sentenza 7 giugno 2012, n. 9185, Cass. Sez. Un. ord. 3 ottobre 2016, n. 19677, Cass.. sez. lav., sentenza 30 maggio 2016 n. 11122 Cons. Stato, sez. V, sentenza 9 dicembre 2013, n. 5884; Cons. Stato, sez. V, sentenza 27 marzo 2013, n. 1833; Cons. Stato, sez. V, sentenza 7 giugno 2013, n. 3155; Cons. Stato, sez. V,, sentenza 8 novembre 2012, n. 5686, Cons. Stato, sez. IV, sentenza 11 novembre 2014 n. 5531; sez. VI, sentenza 15 ottobre 2012 n. 5279, Corte di giustizia, sez. III, sentenza 30 settembre 2010, C-314/09, Stadt Graz.
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in ottemperanza iscritto nel registro generale dell’A.P. al numero 1 del 2017, proposto da:
Cavecon s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Marco Di Lullo, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale Parioli 180;
contro
A.N.A.S. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti di
Consorzio Stabile Grandi Opere s.c.a.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Francesco Sofia, Clemente Manzo, con domicilio eletto presso lo studio Giuseppe Alessi in Roma, via Oslavia, 6;
per l’ottemperanza
della sentenza del CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA n. 6/2016, resa tra le parti;
Visti il ricorso in ottemperanza e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di A.N.A.S. s.p.a e di Consorzio Stabile Grandi Opere s.c.a.r.l;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 29 marzo 2017 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti l’avvocato Marco Di Lullo, l’avvocato dello Stato Ettore Figliolia, l’avvocato Mario Pagliarulo per delega dell’avvocato Francesco Sofia, e l’avvocato Manzo Clemente;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con bando del 18 luglio 2014, l’A.N.A.S. s.p.a. ha indetto una procedura di gara per l’affidamento dei lavori di manutenzione straordinaria per la fornitura e posa in opera di giunti e contestuale rifacimento delle testate delle solette di impalcato sui viadotti presenti tra il km 243+521 ed il km 353+450-Provincia di Cosenza, con importo a base d’asta par ad € 1.171.791,30.
Con provvedimento prot. CCz-00317533-I del 22 settembre 2014, la stazione appaltante ha aggiudicato la gara all’A.T.I. Consorzio Stabile Grandi Opere s.c.a.r.l. – MAS Costruzioni, subordinando l’efficacia e l’esecutività dell’aggiudicazione alla “verifica del possesso dei requisiti dichiarati dal concorrente in sede di gara”.
2. Con provvedimento del 21 gennaio 2015, l’Amministrazione, avendo rilevato che la posizione contributiva dell’impresa mandataria MAS Costruzioni alla data del 27.8.2014 era irregolare, ha revocato l’aggiudicazione disposta in favore dell’A.T.I. Consorzio Stabile Grandi Opere s.c.a.r.l.-MAS Costruzioni e, in data 30 gennaio 2015, ha disposto l’aggiudicazione definitiva dell’appalto in favore della società Cavecon s.r.l..
3. L’A.T.I. Consorzio Stabile Grandi Opere s.c.a.r.l.-Mas Costruzioni (di seguito anche solo AT.I. Consorzio Grandi Opere) ha impugnato tali provvedimenti innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Calabria – Catanzaro, che, con sentenza 20 maggio 2015, n. 903, ha accolto il ricorso e, per l’effetto, ha annullato l’aggiudicazione in favore della Cavecon s.r.l..
4. La Cavecon s.r.l. e la Greco s.r.l. (quest’ultima in qualità di cessionaria del ramo d’azienda della prima avente ad oggetto l’attività di lavori edili, stradali, etc.) hanno impugnato tale sentenza innanzi al Consiglio di Stato, chiedendone in via cautelare la sospensione.
Nel giudizio innanzi al Consiglio di Stato, si è costituita per resistere all’appello l’A.T.I. originaria ricorrente.
L’A.N.A.S., invece, non si è costituita in giudizio.
5. All’esito della camera di consiglio del 17 settembre 2015, fissata per la decisione sull’istanza cautelare, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, ravvisando un contrasto giurisprudenziale sulla questione concernente la possibilità di ammettere la c.d. regolarizzazione del DURC negativo, ha rimesso la definizione della controversia all’Adunanza Plenaria, respingendo la domanda di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza appellata (ordinanza 29 settembre 2015, n. 4542).
6. Con la sentenza 29 febbraio 2016, n. 6, l’Adunanza Plenaria ha accolto l’appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, ha respinto il ricorso proposto in primo grado dal Consorzio Stabile Grandi Opere.
In particolare, l’Adunanza plenaria ha enunciato il seguente principio di diritto: «Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, del decreto legge 21 giugno 2013 n. 69, (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l’impresa essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva. L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma3, del decreto ministeriale 24 ottobre 2007 e ora recepito a livello legislativo dall’art. 31, comma 8, del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i) ai fini della partecipazione alla gara d’appalto».
In applicazione di tale principio, la sentenza n. 6 del 2016 ha rilevato che «nel caso di specie è pacifico […] che la posizione MAS Costruzioni nel momento in chi ha reso la dichiarazione ai fini della partecipazione alla gara non era regolare (cfr. nota Inail del 9 dicembre 2014 che conferma l’irregolarità contributiva dell’impresa MAS alla data del 27 agosto 2014).
Risulta accertato, quindi, che la concorrente in sede di gara ha attestato, contrariamente al vero, la regolarità della posizione contributiva e che solo successivamente alla conoscenza dell’aggiudicazione ha proceduto alla relativa regolarizzazione.
Nel caso di specie, peraltro, MAS Costruzioni era certamente consapevole della propria irregolarità contributiva, trattandosi di contributi dovuti in autoliquidazione, rispetto ai quali l’impresa ha prima chiesto la rateizzazione, senza poi corrispondere quanto dovuto.
La dichiarazione ex art. 38, comma 1, lettera i) del decreto legislativo n. 163 del 2006 è stata, quindi, resa nella piena consapevolezza della non corrispondenza al vero».
7. Con il presente ricorso in ottemperanza le società Cavecon s.r.l. e Greco s.r.l. lamentano che l’A.N.A.S., nonostante la diffida inviatale con nota del 4 marzo 2016, non abbia dato attuazione al giudicato formatosi sulla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 6 del 2016.
Nel dettaglio, le ricorrenti hanno proposto le seguenti domande:
a) in via principale, accertata l’inottemperanza al giudicato, ordinare all’A.N.A.S. di provvedere ad aggiudicare definitivamente i lavori oggetto di affidamento alle società odierne ricorrenti, fissando la penalità di mora ai sensi dell’art. 114, comma 4, lett. e) c.p.a. per ogni giorno di ritardo;
b) in subordine, e cioè nella acclarata oggettiva impossibilità di dare esecuzione totale o parziale al giudicato di cui alla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 6 del 2016, condannare l’A.N.A.S. e/o il Consorzio Grandi Opere al risarcimento del danno, quantificato nella misura di € 190.324,06, oltre rivalutazione e interessi dal dì del dovuto fino soddisfo.
Si sono costituiti in giudizio per resistere al ricorso l’A.N.A.S. e il Consorzio Stabile Grandi Opere.
8. L’A.N.A.S. si è difesa sostenendo:
a) quanto alla domanda di subentro, che non vi è stata alcuna inottemperanza al giudicato in quanto quest’ultimo è intervenuto successivamente alla ultimazione dei lavori oggetto dell’appalto (avvenuta in data 17 febbraio 2016, come risultante dal certificato di ultimazione dei lavori), con conseguente impossibilità di far subentrare Cavecon nel rapporto contrattuale;
b) quanto alla domanda di risarcimento del danno, che non vi è responsabilità dell’A.N.A.S., essendosi questa limitata a dare esecuzione alla sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria – Catanzaro, n. 903 del 2015, poi riformata dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 6 del 2016, ma non sospesa in sede cautelare e, quindi, rimasta esecutiva fino alla ultimazione dei lavori;
c) quanto ancora alla domanda risarcitoria, che, comunque, l’unico responsabile è il Consorzio Stabile Grandi Opere, che è rimasto effettivamente affidatario dell’appalto, ha conseguito i corrispettivi previsti, ed ha illegittimamente partecipato alla gara nonostante l’irregolarità della propria posizione contributiva.
9. Il Consorzio Stabile Grandi Opere, a sua volta, ha sostenuto di non essere legittimato passivo rispetto alla domanda risarcitoria, essendosi limitato a dare esecuzione alla sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria – Catanzaro, n. 903 del 2015.
Con successiva memoria depositata in data 13 marzo 2017, le ricorrenti Cavecon s.r.l. e Greco s.r.l., preso atto dell’avvenuta ultimazione dei lavori, hanno sostanzialmente rinunciato alla domanda di subentro, insistendo in quella di risarcimento del danno.
10. Alla camera di consiglio del 29 marzo 2017, la causa è stata trattenuta per la decisione.
11. Nel corso della udienza camerale, il Collegio ha sottoposto al contradditorio e alla discussione delle parti sia la questione, rilevata d’ufficio, della sussistenza della giurisdizione amministrativa sulla domanda risarcitoria proposta nei confronti del Consorzio Grandi Opere, sia la questione, già sollevata negli scritti difensivi, concernente l’esistenza di un vincolo di solidarietà tra la parte privata beneficiaria dell’aggiudicazione illegittima e l’amministrazione.
12. Il ricorso merita parziale accoglimento nel senso e nei limiti di seguito specificati.
13. La domanda proposta dalle società Cavecon e Greco trova il suo fondamento normativo nell’articolo 112, comma 3, c.p.a. (nella versione risultante per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 1, lett. cc) d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195).
La disposizione in esame così recita: «Può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza, […] azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione».
Nel caso di specie il danno lamentato è proprio quello connesso all’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato. L’avvenuta ultimazione dei lavori oggetto della gara in data 17 febbraio 2016, anteriormente alla pubblicazione (avvenuta in data 29 febbraio 2016) della sentenza dell’Adunanza plenaria n. 6 del 2016, ha, infatti, vanificato l’aspettativa di ottenere il contratto controverso ed ha reso, come riconosce la stessa ricorrente, oggettivamente impossibile l’esecuzione in forma specifica del giudicato.
Occorre allora esaminare la natura, i presupposti e l’ambito soggettivo dell’azione prevista dall’art. 112, comma 3, c.p.a. e della responsabilità che essa sottende.
14. Il legislatore ha qualificato espressamente questo rimedio in termini di “azione di risarcimento dei danni”, evocando, così, l’istituto della responsabilità civile. Tuttavia, rispetto al tradizionale risarcimento del danno, l’azione in esame presenta significativi profili di peculiarità.
In primo luogo, il presupposto del rimedio è individuato nell’esistenza di un danno (anche solo) «connesso all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato». ? significativo evidenziare che l’art. 112, comma 3, c.p.a. distingue il danno “connesso” all’impossibilità (o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica del giudicato) da quello derivante dalla violazione o elusione del giudicato, indicato, subito dopo, come distinto presupposto per l’esercizio dell’azione.
Rispetto alla formulazione originaria dell’art. 112, comma 3, c.p.a. (prima della novella introdotta dal decreto legislativo n. 195 del 2011), il principale profilo di novità è proprio questo: l’avere, cioè, esteso il rimedio alle ipotesi in cui il danno, pur in assenza di violazione o elusione del giudicato, è comunque “connesso” all’impossibilità di ottenerne l’esecuzione in forma specifica.
Il legislatore, dunque, ha fatto riferimento ad una impossibilità di esecuzione che trova la sua causa in un fatto diverso dalla violazione o elusione del giudicato, prevedendo l’azione di risarcimento del danno –e non un semplice indennizzo- anche nel caso in cui, pur non configurandosi un inadempimento, non è comunque possibile attuare il giudicato.
15. Da questo punto di vista, la norma ha una portata non solo processuale (che si traduce nell’ammissibilità, nelle ipotesi indicate, dell’azione risarcitoria in sede di ottemperanza, anche quando questa si svolge in unico grado dinnanzi al Consiglio di Stato), ma anche sostanziale, perché, in deroga alla disciplina generale della responsabilità civile, ammette una forma di responsabilità che prescinde dall’inadempimento imputabile alla parte tenuta ad eseguire il giudicato.
La deroga, in particolare, è al regime della responsabilità da inadempimento dell’obbligazione, come delineato dall’art. 1218 cod. civ.
Dal giudicato amministrativo, infatti, almeno quando esso, come nel caso di specie, riconosce la fondatezza della pretesa sostanziale, esaurendo ogni margine di discrezionalità nel successivo esercizio del potere, nasce ex lege, in capo all’amministrazione (ed in certi casi anche in capo alle parti private soccombenti) un’obbligazione, il cui oggetto (la prestazione) consiste proprio nel concedere “in natura” (cioè in forma specifica) il bene della vita di cui è stata riconosciuta la spettanza. E che si tratti di obbligazione il cui inadempimento è assoggettabile al regime dell’inadempimento contrattuale è confermato dalla prescrizione decennale della relativa azione.
In base all’art. 1218 c.c., il debitore si libera dall’obbligazione se prova che l’inadempimento è stato determinato da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. La disciplina dell’art. 1218 c.c. trova riscontro nell’art. 1256 c.c., secondo cui l’obbligazione si estingue, invece, quando la prestazione diventa impossibile per una causa non imputabile al debitore.
Rispetto alla disciplina civilistica dell’inadempimento dell’obbligazione cosi sommariamente richiamata, l’art. 112, comma 3, c.p.a. introduce un elemento di specialità, perché dispone che l’impossibilità derivante da causa non imputabile (non dovuta cioè a violazione o elusione del giudicato) non estingue l’obbligazione, ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura “risarcitoria”, avente ad oggetto l’equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato.
16. Quella che la norma presuppone è, dunque, una forma di responsabilità che, nei casi di impossibilità non imputabile a violazione o elusione del giudicato, presentata i caratteri della responsabilità oggettiva, perché non è ammessa alcuna prova liberatoria fondata sulla carenza dell’elemento soggettivo (dolo o colpa), che, invece, necessariamente connota le ipotesi di violazione o elusione del giudicato; potendo la responsabilità essere esclusa solo per la insussistenza (originaria) o il venir meno del nesso di causalità, il cui onere probatorio grava sul debitore medesimo.
Viene così in rilievo un rimedio che assume una connotazione tipicamente compensativa: una sorta, in altri termini, di ottemperanza per equivalente (già conosciuta, del resto, nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale anteriore alla novella del 2011) che sostituisce l’ottemperanza in forma specifica nei casi in cui questa non sia più possibile. Essa si traduce nel riconoscimento dell’equivalente in denaro del bene della vita che la parte vittoriosa avrebbe avuto titolo di ottenere in natura in base al giudicato. Si ha, quindi, un rimedio alla impossibilità di esecuzione in forma specifica della sentenza, in un’ottica, per l’appunto, “rimediale” della tutela, quale si è andata delineando a partire dalle sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 della Corte costituzionale.
La funzione sostitutiva del rimedio giustifica, allora, la scelta del legislatore sia di prevederne l’ammissibilità in sede di ottemperanza, anche in un unico grado, in quanto “connessa” all’impossibilità oggettiva di esecuzione del giudicato, sia di slegarla dal requisito della colpa, sia pure intesa, in tema di illecito della pubblica amministrazione, nella lettura “oggettiva” che ne dà la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea: trattandosi di una tutela che sostituisce l’ottemperanza non più possibile in forma specifica, essa soggiace, sia sul piano del rito, sia sul piano dei presupposti sostanziali, alle stesse regole dell’azione di ottemperanza (in forma specifica), che pure si caratterizza come rimedio “oggettivo”, sganciato dalla prova del dolo o della colpa. E’, in altri termini, una ragionevole scelta del legislatore in tema di allocazione del rischio della impossibilità di esecuzione del giudicato.
17. La nascita dell’obbligazione risarcitoria ex lege in conseguenza dell’impossibilità di eseguire il giudicato presuppone, comunque, la presenza, se non dell’elemento soggettivo, degli altri elementi minimi ed essenziali ai fini della configurazione di un illecito.
18. Tali elementi essenziali, significativamente necessari anche nelle ipotesi di responsabilità oggettiva, sono il rapporto di causalità e l’antigiuridicità della condotta.
Affinché sorga il rimedio di cui all’art. 112, comma 3, c.p.a., dunque, è necessario e al tempo stesso sufficiente che l’impossibilità di ottenere in forma specifica l’esecuzione del giudicato sia riconducibile, sotto il profilo causale, alla condotta del soggetto dal quale si pretende il risarcimento e che tale condotta non risulti assistita da una causa di giustificazione, la cui presenza precluderebbe l’insorgenza della responsabilità e, dunque, la nascita dell’obbligazione risarcitoria ex lege.
19. Ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità civile, si deve muovere dall’applicazione di princìpi generali dell’illecito, oggetto di particolare elaborazione nel diritto penale e che trovano, in quel codice, positiva espressione negli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non), ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che nell’accertamento del nesso causale in materia civile (ed amministrativa) vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. rispettivamente Cass. Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 577 e Cass.pen. Sez. un. n. 30328 del 2002).
Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova, peraltro, il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto.
20. Venendo al regime probatorio, deve rilevarsi che in materia di responsabilità da inadempimento dell’obbligazione (quale è, come si è detto, la responsabilità da impossibilità di esecuzione del giudicato che riconosce la spettanza del bene della vita), il creditore ha il solo onere – ex art. 1218 c.c. – di allegare e provare l’esistenza del titolo (in questo caso rappresentato dal giudicato), e di allegare l’esistenza di un valido nesso causale tra la condotta della parte obbligata e la mancata attuazione del giudicato (cfr. Cass. Sez. Un. 30 ottobre 2001, n. 13533).
Spetta, viceversa, alla parte “debitrice”, l’onere di provare il caso fortuito (inteso come specifico fattore capace di determinare autonomamente il danno), comprensivo del fatto del terzo (che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno), rimanendo a suo carico il fatto ignoto in quanto inidoneo a eliminare il dubbio in ordine allo svolgimento eziologico dell’accadimento.
21. Così inquadrati in termini generali la natura e i presupposti dell’azione, occorre esaminarne l’ambito soggettivo di applicazione.
La questione è rilevante nel presente giudizio in quanto le società ricorrenti hanno chiesto la condanna in solido sia dell’amministrazione, sia della parte privata che, nelle more del giudizio, ha eseguito il contratto, rendendosi così impossibile l’esecuzione in forma specifica del subentro nel rapporto contrattuale.
22. A tale riguardo, va ricordato come una parte della giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 13 gennaio 2012, n. 115; Cons. Stato, sez. VI, 15 ottobre 2012, n. 529) abbia in alcuni casi ritenuto che in materia di risarcimento del danno da aggiudicazione illegittima, vi sarebbe, ex art. 2055 c.c., e cioè in tema di responsabilità aquiliana e non contrattuale, una responsabilità solidale tra l’amministrazione e l’impresa beneficiaria del provvedimento illegittimo. Si è ammessa, quindi, la possibilità per il giudice amministrativo sia di pronunciare la condanna in solido al risarcimento del danno, sia di ripartire, anche solo ai fini del futuro esercizio dell’azione di regresso da parte dell’amministrazione, le quote interne di responsabilità.
Gli argomenti a sostegno di questo orientamento possono essere così sintetizzati:
- il vincolo di solidarietà tra l’amministrazione e il beneficiario dell’atto illegittimo (e il conseguente potere del giudice amministrativo di pronunciare statuizione anche nei confronti di quest’ultimo), troverebbe il suo presupposto normativo nell’art. 41, comma 2, ultimo periodo, c.p.a., il quale ha previsto che «qualora sia proposta azione di condanna, anche in via autonoma, il ricorso è notificato altresì agli eventuali beneficiari dell’atto illegittimo ai sensi dell’art. 102 del codice di procedura civile; altrimenti il giudice provvede ai sensi dell’art. 49» all’integrazione del contraddittorio;
- sotto il profilo processuale, l’accertamento della responsabilità concorrente dell’impresa aggiudicataria e delle quote concorsuali di riparto interno tra quest’ultima e l’amministrazione sarebbe in linea con i principi fondanti la giustizia amministrativa, in base ai quali la controversia va decisa con l’esercizio di poteri decisori e conformativi, ed imposto dal principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, da intendersi, in assenza di una formale domanda di regresso da parte dell’amministrazione, sulla base di un’interpretazione sostanzialistica degli atti processuali di parte, idoneo a ricomprendere nelle richieste e difese formulate dalle parti anche gli evidenziati momenti di accertamento (in altri termini, il fatto stesso che l’amministrazione, pur senza formulare azione di regresso, si difenda eccependo che la responsabilità è ascrivibile, in tutto o in parte, all’impresa aggiudicataria, consentirebbe al giudice di accertare il riparto delle quote di responsabilità nei rapporti interni).
23. Nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, la domanda di risarcimento del danno sia proposta in sede di ottemperanza ai sensi dell’art. 112, comma 3, c.p.a. e sia diretta ad ottenere il ristoro del danno connesso all’impossibilità di ottenere in forma specifica l’esecuzione del giudicato, agli argomenti appena indicati se ne aggiunge un altro, desunto dalla specifica disciplina dettata per il giudizio di ottemperanza.
L’art. 112, comma 1, c.p.a. ha previsto, infatti, che i provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti non solo dalla pubblica amministrazione, ma anche dalla altre parti.
L’obbligazione di eseguire il giudicato grava, quindi, su tutte la parti soccombenti, ivi compresa la parte privata, che, di conseguenza, deve ritenersi a sua volta investita di legittimazione passiva rispetto all’azione di ottemperanza.
Se si ritiene allora che l’azione di risarcimento del danno da impossibilità oggettiva di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato di cui all’art. 112, comma 3, c.p.a., costituisca un rimedio con funzione sostitutiva dell’ottemperanza in forma specifica, coerentemente dovrebbe ammettersi pure che essa condivida con l’ottemperanza la platea dei soggetti passivamente legittimati.
La relativa domanda risarcitoria, pertanto, anche a prescindere dall’applicazione dell’art. 41, comma 2, ultimo periodo, c.p.a., potrebbe essere proposta anche contro il soggetto privato (nella specie l’impresa beneficiaria dell’aggiudicazione illegittima).
24. Gli argomenti così sintetizzati per ammettere la possibilità di far valere dinnanzi al giudice amministrativo, specie in sede di ottemperanza, la concorrente responsabilità del soggetto privato beneficiario del provvedimento illegittimo non sono, tuttavia, risolutivi.
25. In senso contrario, va, innanzitutto, rilevato che tutte le richiamate norme processuali vanno coordinate ed interpretate alla luce dei limiti che incontra la giurisdizione amministrativa. Esse sono, infatti, norme sul rito, che presuppongono (e non pongono) la giurisdizione, che deve, quindi, desumersi dai criteri generali di riparto e non direttamente da esse.
In punto di riparto, la domanda che la parte privata danneggiata dall’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato proponga nei confronti dell’altra parte privata, beneficiaria del provvedimento illegittimo, esula dall’ambito della giurisdizione amministrativa.
Si tratta, infatti, di una controversia tra due soggetti privati, avente ad oggetto una diritto soggettivo di contenuto patrimoniale.
Sul punto va ricordato che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, anche di recente (cfr. Cass. Sez. Un. ord. 3 ottobre 2016, n. 19677), hanno ribadito che, in base agli articoli 103 Cost. e 7 c.p.a., il giudice amministrativo ha giurisdizione solo per le controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione o un soggetto ad essa equiparata; con la conseguenza che esula dalla sua giurisdizione la domanda di risarcimento del danno proposta da un privato contro un altro privato, ancorché connessa con una vicenda provvedimentale (nella specie, si trattava della domanda di risarcimento del danno contro il funzionario autore materiale del provvedimento illegittimo).
Tale lettura riduttiva dell’estensione della giurisdizione amministrativa viene fondata sul dato testuale dell’art. 103 Cost. e dell’art. 7 c.p.a., in specie laddove, nell’individuare la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie, di diritti soggettivi, riferisce tali controversie a «l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo» e le afferma come «riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni». Tale ultimo inciso viene quindi valorizzato come limite all’estensione della giurisdizione amministrativa.
26. Né in senso contrario possono invocarsi ragioni di connessione, in quanto, come affermato anche da questa Adunanza plenaria con sentenza 29 gennaio 2014, n. 6, «salvo deroghe normative espresse, nell’ordinamento processuale vige il principio generale della inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione» (in termini cfr. Cass. Sez. Un. 19 aprile 2013, n. 9534; Cass. Sez. Un. 7 giugno 2012, n. 9185).
27. La carenza del presupposto processuale della giurisdizione risulta, quindi, risolutiva e costituisce, già di per sé, un ostacolo insormontabile all’interpretazione “sostanzialistica” sostenuta dall’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato.
28. Del resto, va osservato che l’art. 41, comma 2, ultimo periodo, c.p.a. non prevede, a rigore (e in senso tecnico), un litisconsorzio necessario nei confronti del privato beneficiario dell’atto illegittimo. Litisconsorzio la cui necessità è del resto esclusa, come è noto, anche nel caso di obbligazioni solidali. Nei confronti di tale soggetto, infatti, la citata norma processuale non consente la formale proposizione di una domanda risarcitoria, ma stabilisce solo che la domanda proposta contro l’amministrazione (che, quindi, è individuata come unica legittimata passiva), gli debba essere notificata, al fine di realizzare la c.d. denuntiatio litis. In base all’art. 41, comma 2, ultimo periodo c.p.a., in altri termini, il privato non è destinatario di una domanda di risarcimento del danno contro di lui diretta, ma solo destinatario della notificazione della domanda proposta contro l’amministrazione, al fine di rendere possibile l’opponibilità del giudicato.
Lo scopo della norma in esame è, infatti, solo quello di fare in modo che l’eventuale giudicato di condanna tra il privato danneggiato dal provvedimento e l’amministrazione possa essere opposto anche al terzo beneficiario, come “fatto” che accerta l’antigiuridicità, nell’eventuale giudizio di “rivalsa”, quanto all’illegittimità dell’atto e ai presupposti della condanna risarcitoria subita dall’amministrazione.
29. Non sembrano decisivi neanche gli argomenti desumibili dall’art. 112, comma 1, c.p.a., nella parte in cui prevede che l’obbligo di eseguire il giudicato grava non solo sull’amministrazione, ma anche sulle altre parti.
La norma è coerente con la constatazione che in moltissimi casi l’esecuzione in forma specifica del giudicato richiede, in particolare se si tratta di attuarne gli effetti restitutori e ripristinatori, oltre all’azione dell’amministrazione, l’ingerenza nella sfera giudica e materiale di soggetti privati, specie nel caso in cui sono stati destinatari di provvedimento favorevoli poi annullati e devono, per effetto del giudicato, adempiere ad obblighi –a ben guardare meramente conseguenziali o riflessi – restitutori e ripristinatori.
Escludere in tali casi la giurisdizione amministrativa solo perché vi è il coinvolgimento indiretto (e inevitabile) di soggetti privati vanificherebbe la funzione del giudizio di ottemperanza e, con essa, il valore fondamentale dell’effettività del giudicato (corollario del principio, di rango costituzionale ed europeo, del diritto di azione in giudizio).
Nel caso in cui, tuttavia, l’impossibilità di eseguire in forma specifica il giudicato apra le porte all’alternativa di una forma di tutela compensativa per equivalente, si può ragionevolmente dubitare che, nel silenzio del legislatore (che nel comma 3 dell’art. 112 non specifica che l’azione risarcitoria sostitutiva possa essere proposta nei confronti di tutte le parti), lo speciale regime di responsabilità oggettiva sopra delineato possa estendersi anche ai privati soccombenti; che, cioè, per giunta in deroga implicita alla generale regola del riparto e per connessione, possa estendersi al privato un regime di responsabilità connotato dagli evidenziati profili di specialità proprio con riguardo al fondamentale rilievo dell’elemento soggettivo.
30. La ricostruzione che precede non esclude che l’amministrazione, chiamata a risarcire il danno ai sensi dell’art. 112, comma 3, c.p.a., possa vantare un’azione nei confronti del beneficiario che ha tratto vantaggio dal provvedimento illegittimo travolto dal giudicato.
Si tratti di azione di regresso collegata a un’obbligazione risarcitoria di natura solidale o di azione di ingiustificato arricchimento per il disequilibrio causale derivante dal collegamento tra le posizioni sostanziali in gioco, essa – secondo la disciplina sostanziale e processuale propria dell’azione che si ritenga esperibile – presupporrebbe l’accertamento (della sussistenza) della giurisdizione di questo giudice, della sua proponibilità nell’ambito del giudizio di ottemperanza, anzi che con azione ordinaria, ma, soprattutto, richiederebbe una domanda in tal senso dell’amministrazione
31. Nel caso di specie, infatti, non occorre approfondire le segnalate problematiche, per la dirimente considerazione che l’amministrazione non ha ritualmente proposto una domanda in tal senso, non potendosi, a tal fine, ritenere sufficiente che (come avvenuto nel presente giudizio) l’amministrazione si limiti, nella sola memoria difensiva, ad eccepire l’ingiustificato arricchimento dell’aggiudicatario o, comunque, ad invocare l’esclusiva o concorrente responsabilità di quest’ultimo nella causazione del danno. In ogni caso, la sede processuale per esaminare la domanda in esame non potrebbe essere il giudizio di ottemperanza, ma l’ordinario giudizio di cognizione. Si tratta, invero, di una domanda che non rientra fra quelle che, ai sensi dell’art. 112, comma 3, c.p.a., sono proponibili in sede di ottemperanza.
32. Vanno a questo punto esaminate ulteriori questioni peculiari che si pongono nell’ambito del presente giudizio.
33. Nel caso di specie, invero, l’originario provvedimento di aggiudicazione adottato dall’amministrazione non era illegittimo. L’amministrazione, infatti, aveva legittimamente escluso l’A.T.I. Consorzio Stabile Grandi Opere perché non in possesso di un DURC regolare ed aveva, altrettanto legittimamente, aggiudicato la gara alla società Cavecon s.r.l. (che ha poi ceduto l’azienda alla società Greco s.r.l., co-ricorrente nel presente giudizio).
L’esito della gara, come determinato dai provvedimenti dell’amministrazione, è stato capovolto per effetto della pronuncia giurisdizionale di primo grado, che ha accolto il ricorso dell’A.T.I. Consorzio Stabile Grandi Opere, annullando l’aggiudicazione a favore di Cavecon.
In esecuzione di quella sentenza l’A.N.A.S. ha, quindi, aggiudicato la gara all’A.T.I. Consorzio Stabile Grandi Opere, procedendo alla successiva stipula del contratto (che poi è stato interamente eseguito nelle more del giudizio di appello).
34. Se non che tale peculiarità della vicenda, legata e influenzata dall’andamento processuale della controversia che ne è insorta, non è idonea a far venir meno l’obbligazione ex lege scaturente dal fatto oggettivo dell’impossibilità di eseguire il giudicato proprio per la chiarita irrilevanza di una colpa e per la insussistenza di ogni ipotesi di scusabilità del comportamento dell’obbligato, la cui responsabilità, come si è detto, può essere esclusa solo dalla mancanza o dal venir meno del nesso di causalità nei termini dianzi precisati. E, sotto tale profilo, è da escludere che l’esistenza di un provvedimento giurisdizionale esecutivo (come la sentenza di primo grado) possa valere a “coprire” l’operato della pubblica amministrazione, recidendo il nesso di causalità tra il comportamento dell’amministrazione e l’impossibilità di eseguire il giudicato.
35. Le sopra evidenziate caratteristiche in termini “oggettivi” della responsabilità delineata dall’art. 112, comma 3, c.p.a., peraltro, è coerente con l’orientamento espresso dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, in materia di mancata aggiudicazione di un contratto d’appalto.
Secondo la giurisprudenza comunitaria, in materia di risarcimento da (mancato) affidamento di gare pubbliche di appalto e concessioni, non è necessario provare la colpa dell’amministrazione aggiudicatrice, poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività della tutela previsto dalla normativa comunitaria; le garanzie di trasparenza e di non discriminazione operanti in materia di aggiudicazione dei pubblici appalti fanno sì che una qualsiasi violazione degli obblighi di matrice sovranazionale consente all’impresa pregiudicata di ottenere un risarcimento dei danni, a prescindere da un accertamento in ordine alla colpevolezza dell’ente aggiudicatore e dunque della imputabilità soggettiva della lamentata violazione (Corte di giustizia, sez. III, 30 settembre 2010, C-314/09, Stadt Graz).
36. In ogni caso, ferma la natura oggettiva della responsabilità della stazione appaltante e la natura sostanzialmente ed eminentemente sostitutiva, rispetto alla tutela reale, del peculiare rimedio di cui all’art. 112, comma 3, c.p.a., questa Adunanza plenaria ritiene opportuno sottolineare gli aspetti fattuali della vicenda processuale in oggetto, che fanno emergere profili di imprudenza in capo all’amministrazione e alla stessa impresa esecutrice.
Sono significative le seguenti circostanze di fatto, nella loro scansione temporale.
La sentenza del T.a.r. è stata pubblica il 20 maggio 2015, l’ordinanza della Quarta Sezione che ha rimesso la causa all’Adunanza plenaria, respingendo, nelle more, l’istanza cautelare, è stata pubblicata il 29 settembre 2015 e la relativa camera di consiglio si è tenuta il 17 settembre 2015.
La nuova aggiudicazione a favore dell’A.T.I. Consorzio Grandi Opere, in esecuzione della sentenza del Tribunale amministrativo regionale, è stata disposta in data 8 giugno 2015 (quando ancora erano pendenti i termini per l’appello). Il contratto è stato stipulato il 2 settembre 2015, senza neanche attendere, non solo la decisione sull’istanza di sospensiva, pubblicata solo il 29 settembre 2015, ma neanche la data di celebrazione (17 settembre 2015) della camera di consiglio fissata per la trattazione collegiale della domanda cautelare.
I lavori sono stati ultimati in data 17 febbraio 2016, con significativo anticipo rispetto al termine previsto di trecento giorni, che sarebbe scaduto (come indicato nello stesso certificato di ultimazione dei lavori) solo in data 9 maggio 2016.
Vi è stata, quindi, subito dopo la sentenza di primo grado, una particolare accelerazione sia della fase amministrativa (con la nuova aggiudicazione avvenuta circa quindici giorni dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado), sia della fase di esecuzione dei lavori (ultimati circa tre mesi prima del termine previsto).
Non risulta dagli atti né è allegato dalle parti resistenti che tale rapidità fosse giustificata da particolari ragioni di urgenza, né risulta, per quanto riguarda in particolare la posizione dell’A.N.A.S. (che è l’unica a venire in rilievo nel presente giudizio), che l’amministrazione sia stata compulsata (e, quindi, indotta all’immediata esecuzione) da iniziativa dell’A.T.I. Consorzio Grandi Opere finalizzate ad ottenere l’ottemperanza della sentenza di primo grado.
L’attività successiva alla pubblicazione della sentenza di primo grado risulta, quindi, connotata dall’assenza di qualsiasi forma di cautela rispetto al possibile esito del giudizio di appello. Da questo tipo di condotta emergono profili di colpa, che integrerebbero, comunque, il presupposto dell’assenza della “normale prudenza” cui fa riferimento l’art. 96, comma 2, c.p.c.
37. Va aggiunto che sia l’aggiudicazione, sia il successivo contratto stipulato in esecuzione della sentenza di primo grado, devono ritenersi, per effetto dell’accoglimento dell’appello da parte dell’Adunanza plenaria con la sentenza n. 6 del 2016, automaticamente travolti in applicazione della regola del c.d. effettivo espansivo esterno della sentenza di appello sancito dall’art. 334, comma 2, c.p.c. ed applicabile al processo amministrativo in virtù del rinvio contenuto nell’art. 39, comma 1, c.p.a.
Non può, quindi, trovare accoglimento la tesi sostenuta, in particolare dal Consorzio Stabile Grandi Opere, secondo cui la condotta contestata sarebbe coperta dal contratto, mai dichiarato inefficace. Quel contratto, al contrario, così come il presupposto atto di aggiudicazione, sono stati automaticamente travolti in conseguenza della riforma della sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 334, comma 2, c.p.c.
38. Alla luce delle considerazioni svolte e facendone applicazione al caso in esame, si può quindi ritenere che:
- la domanda di condanna in solido nei confronti del Consorzio sia in questa sede inammissibile per difetto di giurisdizione (trattandosi di controversia tra privati);
- la domanda di risarcimento del danno nei confronti dell’A.N.A.S. è, invece, fondata, per quanto concerne l’an della responsabilità.
39. Rispetto alla posizione dell’A.N.A.S. è ancora il caso di precisare quanto segue.
In primo luogo, non assume alcuna rilevanza, trattandosi di responsabilità oggettiva, l’eventuale carenza dell’elemento soggettivo.
In secondo luogo, per quanto concerne il necessario presupposto del nesso di causalità, l’A.N.A.S. non ha dimostrato (come avrebbe dovuto trattandosi di responsabilità contrattuale) l’interruzione del rapporto eziologico. Infatti, si deve ritenere che sia la condotta del Consorzio Stabile Grandi Opere (che ha concluso ed eseguito il contratto), sia la sentenza di primo grado (che ha annullato l’originaria e legittima aggiudicazione), operino come mere concause del danno lamentato, concause che, in base al principio dell’equivalenza causale desumibile dagli articoli 40 e 41, commi 1 e 3 c.p., non escludono il rapporto di causalità.
In terzo luogo, le considerazioni sopra svolte in ordine alla peculiare natura dell’obbligazione risarcitoria ex lege di cui all’art. 112, comma 3, c.p.a. escludono che la rilevanza concausale della condotta del Consorzio possa rilevare (se non per escludere) quantomeno per ridurre la responsabilità dell’A.N.A.S. verso le società Cavecon e Greco.
40. Può, quindi, passarsi, per quanto concerne la domanda risarcitoria proposta nei confronti dell’A.N.A.S., a determinare il quantum debeatur.
41. Vanno a tal proposito ribaditi i principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di quantificazione del danno da mancata aggiudicazione (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 8 agosto 2014, n. 4248; Sez. V, 28 aprile 2014, n. 2195; Sez. IV, 2 dicembre 2013, n. 5725; Sez. III, 16 settembre 2013, n. 4574; Sez. V, 7 giugno 2013, n. 3135; Sez. V, 3 giugno 2013, n. 3035; Cons. giust. amm., 11 marzo 2013, n. 324; Ad. plen., 13 novembre 2013, n. 25, Ad. plen., 25 settembre 2013, n. 21; Ad. plen., 19 aprile 2013, n. 7; Ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3; Cass. civ., sez. un., 23 marzo 2011, n. 6594; sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576 e 582; Corte di giustizia UE, Sez. III, 30 settembre 2010, C-314/2009; 10 gennaio 2008, C-70/06; 14 ottobre 2004, C-275/03), dai quali questo Collegio non intende discostarsi:
a) ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell’an e del quantum del danno che assume di aver sofferto;
b) nel caso di mancata aggiudicazione il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante si identifica con l’interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell’immagine professionale per non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto). Non è dubitabile, invero, che il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico (anche a prescindere dal lucro che l’impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante), possa essere, comunque, fonte per l’impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la capacità di competere sul mercato e, quindi, la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti.
c) spetta all’impresa danneggiata offrire la prova dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.); quest’ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria informativa tra amministrazione e privato la quale contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell’azione di impugnazione, mentre non si riscontra in quella di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, primo comma, c.c.;
d) la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull’ammontare del danno;
e) le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente tecnico d’ufficio neppure nel caso di consulenza cosiddetta “percipiente”, che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l’accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;
f) la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni; per la configurazione di una presunzione giuridicamente rilevante non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla base della regola della «inferenza necessaria»), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù della regola della «inferenza probabilistica»), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici;
g) va esclusa la pretesa di ottenere l’equivalente del 10% dell’importo a base d’asta, sia perché detto criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata (non potendo formularsi un giudizio di probabilità fondato sull’id quod plerumque accidit secondo il quale, allegato l’importo a base d’asta, può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% del detto importo);
h) anche per il c.d. danno curricolare il creditore deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito (il mancato arricchimento del proprio curriculum professionale), quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somme liquidata a titolo di lucro cessante;
i) il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell’aggiudicazione impugnata e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa. In difetto di tale dimostrazione, può presumersi che l’impresa abbia riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori ovvero che avrebbe potuto riutilizzare, usando l’ordinaria diligenza dovuta al fine di non concorrere all’aggravamento del danno, a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum;
j) tale ripartizione dell’onere probatorio in materia di aliunde perceptum ha sollevato in dottrina alcune perplessità, avvalorate dal pacifico orientamento della Corte di cassazione secondo cui, costituendo l’aliunde perceptum vel percipiendum un fatto impeditivo (in tutto o in parte) del diritto al risarcimento del danno, il relativo onere probatorio grava sul datore di lavoro (da ultimo, Cass.. sez. lav., 30 maggio 2016 n. 11122).
Se non che, anche a volersi convenire con la ragionevole considerazione che l’aliunde perceptum costituisca un fatto impeditivo del danno, non potrebbe addivenirsi a diversa conclusione rispetto a quella poc’anzi prospettata, segnatamente in relazione al settore degli appalti; e ciò per un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo, non può negarsi che, ai fini della sussistenza dell’aliunde perceptum, possa essere invocato il meccanismo della presunzione (semplice). In forza di tale meccanismo può quindi individuarsi una presunzione in tal senso, a sua volta fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente un’attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili. Pertanto, in mancanza di prova contraria, che l’impresa che neghi l’aliunde perceptum può fornire anche sulla base dei libri contabili, deve ritenersi che essa abbia comunque impiegato proprie risorse e mezzi in altre attività, dovendosi quindi sottrarre al danno subito per la mancata aggiudicazione l’aliunde perceptum, calcolato in genere in via equitativa e forfettaria. Del resto –e si è al secondo ordine di considerazioni – nell’ambito delle gare d’appalto, tale conclusione risulta avvalorata dalla distinta, concorrente circostanza che, da un lato, non risulta ragionevolmente predicabile la condotta dell’impresa che immobilizza le proprie risorse in attesa dell’aggiudicazione di una commessa, o nell’attesa dell’esito del ricorso giurisdizionale volto ad ottenere l’aggiudicazione, atteso che possono essere molteplici le evenienze per cui potrebbe risultare non aggiudicataria della commessa stessa (il che corrobora la presunzione); dall’altro che, ai sensi dell’art. 1227, secondo comma, c.c., il danneggiato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare il danno, sicché il comportamento inerte dell’impresa ben può assumere rilievo in ordine all’aliunde percipiendum. (cfr. Cons. Stato, sez. V, 9 dicembre 2013, n. 5884; Cons. Stato, sez. V,, 27 marzo 2013, n. 1833; Cons. Stato, sez. V, 7 giugno 2013, n. 3155; Cons. Stato, sez. V,, 8 novembre 2012, n. 5686). Tale orientamento –assolutamente prevalente, sia pure con sfumature diverse in punto di motivazione (tra le varie: Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2014 n. 5531; sez. VI, 15 ottobre 2012 n. 5279)- consente del resto di evitare che la sentenza che vede l’impresa vittoriosa diventi occasione e strumento di ingiusta locupletazione.
42. Applicando tali principi al caso di specie il danno subito dalle società Cavecon e Greco può essere liquidato riconoscendo le seguenti voci.
43. Va, innanzitutto, riconosciuto, a titolo di lucro cessante, l’utile che Cavecon (o meglio Greco in quanto cessionaria del ramo d’azienda) avrebbe conseguito attraverso l’esecuzione del contratto di appalto.
Le ricorrenti hanno puntualmente allegato e dimostrato (depositando sia l’offerta economica sia una dettagliata scheda riepilogativa) che l’utile ammonta ad € 173.021,88, che è l’importo risultante dalla somma dell’utile rispetto a ciascuna categoria di lavorazione da eseguire.
Rispetto a tale puntuale allegazione (supportata documentalmente dall’offerta e dai prospetti depositati in giudizio), l’amministrazione non ha mosso contestazioni specifiche.
Pertanto, anche in applicazione del principio di non contestazione enunciato espressamente dall’art. 64, comma 2, c.p.a., tale utile deve ritenersi provato.
44. Non può essere riconosciuto, invece, il c.d. danno curricolare, in quanto nel caso di specie le ricorrenti non hanno offerto un prova rigorosa e puntuale del nocumento che asseriscono di aver subito in termini di mancato arricchimento del proprio curriculum professionale. E ciò anche a non volersi prendere in considerazione l’orientamento secondo cui un’impresa leader nel settore difficilmente subisce un danno curricolare dalla mancata aggiudicazione di un appalto, attesa l’inidoneità della mancata assegnazione a scalfirne il prestigio (Cons. Stato, sez. III, 10 aprile 2015 n. 1839).
Gli elementi offerti, in relazione a tale voce di danno, risultano insufficienti e privi di quei caratteri di gravità, precisione e concordanza necessari per fondare quanto meno una presunzione semplice ai sensi dell’art. 2729 c.c..
Le ricorrenti affermano, infatti, di essere qualificate SOA nelle categorie OS 11 cat. III bis, OG 3 e OS 10 – quelle oggetto di gara – e che avrebbero potuto conseguire la qualificazione in nuove categorie ovvero implementare la classifica in categorie per le quali erano qualificate.
Affermano, inoltre, che l’esecuzione del rilevante appalto per cui è causa avrebbe assunto rilievo anche ai fini del mantenimento dei requisiti per la conferma dell’attestazione di qualificazione posseduta.
I danni prospettati sono, però, meramente potenziali e ipotetici, non essendovi alcuna prova in ordine al fatto che le ricorrenti abbiano perso la qualificazione posseduta o non abbiano potuto incrementarla proprio a causa della mancata esecuzione dell’appalto per cui è causa.
Il c.d. danno curricolare, quindi, nel caso di specie non può essere riconosciuto, perché sfornito di prova.
45. Sempre in applicazione dei principi sopra richiamati, deve, inoltre, procedersi alla decurtazione del c.d. aliunde perceptum vel percipiendum.
Vanno, a tal proposito, richiamati alcuni significativi dati temporali.
La sentenza del T.a.r. Calabria (n. 903/2015), che ha annullato l’aggiudicazione originariamente disposta a favore di Cavecon, è stata pubblicata il 20 maggio 2015.
La sentenza dell’Adunanza plenaria (n. 6/2016), che ha accolto l’appello, riformando la sentenza del T.a.r., è stata pubblicata il 26 febbraio 2016.
Nonostante la rapidità dei tempi di definizione del giudizio di appello, non vi è dubbio che nella ordinaria gestione di una impresa nove mesi rappresentino un periodo di tempo apprezzabile, nell’arco del quale è del tutto inverosimile ritenere (anche alla luce delle considerazioni sopra svolta in ordine alla naturale propensione al profitto dell’impresa societaria) che le ricorrenti non abbiano eseguito, o comunque non avrebbero potuto svolgere, altri contratti fonte di guadagno. Né peraltro, le ricorrenti hanno presentato elementi idonei a vincere tale presunzione.
Occorre, quindi, procedere alla decurtazione dell’aliunde perceptumvel percipiendum, che può essere in via equitativa determinato (tenendo conto delle caratteristiche sia dell’impresa sia dell’appalto la cui esecuzione è sfumata) nella percentuale del 25% della somma riconosciuta a titolo di lucro cessante.
46. Sulla base delle considerazioni che precedono, applicata la decurtazione del 25%, il danno complessivamente subito dalle ricorrenti (alle quali, avendo agito congiuntamente, viene rimessa la ripartizione della somma liquidata nei rapporti interni) risulta pari ad € 129.766,41.
47. Ai fini dell’integrale risarcimento del danno, che costituisce debito di valore, occorre riconoscere, inoltre, al danneggiato (dalla data di pubblicazione della sentenza dell’Adunanza plenaria n. 6 del 2016, della cui ottemperanza si tratta) sia la rivalutazione monetaria (secondo l’indice medio dei prezzi al consumo elaborato dall’Istat) che attualizza al momento della liquidazione il danno subito, sia gli interessi compensativi (determinati in via equitativa assumendo come parametro il tasso di interesse legale) calcolati sulla somma periodicamente rivalutata, volti a compensare la mancata disponibilità di tale somma fino al giorno della liquidazione del danno, sia, infine, gli interessi legali sulla somma complessiva dal giorno della pubblicazione della sentenza (che con la liquidazione del credito ne segna la trasformazione in credito di valuta) sino al soddisfo.
48. Si ritiene opportuno fissare sin da ora le modalità per l’esecuzione della sentenza di condanna (a maggior ragione considerando che la domanda è proposta in sede di ottemperanza).
Al pagamento della somma liquidata l’amministrazione dovrà provvedere entro il termine di giorni 60 dalla comunicazione in via amministrativa della presente decisione o dalla sua notificazione – se anteriore – ad istanza di parte.
Scaduto infruttuosamente tale termine, senza che in tutto o in parte sia stata prestata ottemperanza, il signor Prefetto di Catanzaro designerà, nel termine di giorni 10 dalla ricezione di apposita richiesta scritta da parte dell’interessata, un funzionario munito di adeguata professionalità, affinché provveda, quale commissario ad acta, a tutto quanto necessario per l’esaustiva ottemperanza al giudicato in questione nel termine di giorni 60 decorrenti dalla nomina.
Il commissario potrà accedere agli atti della amministrazione ed avvalersi dei relativi apparati burocratici.
49. Non vi è luogo a provvedere sulla domanda volta ad ottenere, a titolo di penalità di mora, ai sensi dell’art. 114, comma 4, lett. e), una somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del giudicato. La domanda di c.d. astreintes, infatti (come si evince dall’ordine delle conclusioni formulate nel ricorso introduttivo), è stata proposta solo con riferimento all’ipotesi di accoglimento della domanda principale di conseguire l’aggiudicazione e subentrare nel contratto, domanda, tuttavia, divenuta improcedibile a fronte dell’ultimazione dei lavori anteriormente alla pubblicazione della sentenza della cui ottemperanza di tratta.
50. In conclusione, l’Adunanza plenaria enuncia i seguenti principi di diritto:
1. Dal giudicato amministrativo, quando riconosce la fondatezza della pretesa sostanziale, esaurendo ogni margine di discrezionalità nel successivo esercizio del potere, nasce ex lege, in capo all’amministrazione, un’obbligazione, il cui oggetto consiste nel concedere “in natura” il bene della vita di cui è stata riconosciuta la spettanza.
2. L’impossibilità (sopravvenuta) di esecuzione in forma specifica dell’obbligazione nascente dal giudicato – che dà vita in capo all’amministrazione ad una responsabilità assoggettabile al regime della responsabilità di natura contrattuale, che l’art. 112, comma 3, c.p.a., sottopone peraltro ad un regime derogatorio rispetto alla disciplina civilistica – non estingue l’obbligazione, ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura risarcitoria, avente ad oggetto l’equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato in sostituzione della esecuzione in forma specifica; l’insorgenza di tale obbligazione può essere esclusa solo dalla insussistenza originaria o dal venir meno del nesso di causalità, oltre che dell’antigiuridicità della condotta.
3. In base agli articoli 103 Cost. e 7 c.p.a., il giudice amministrativo ha giurisdizione solo per le controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione o un soggetto ad essa equiparato, con la conseguenza che la domanda che la parte privata danneggiata dall’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato proponga nei confronti dell’altra parte privata, beneficiaria del provvedimento illegittimo, esula dall’ambito della giurisdizione amministrativa.
4. Nel caso di mancata aggiudicazione, il danno conseguente al lucro cessante si identifica con l’interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell’immagine professionale per non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto). Spetta, in ogni caso, all’impresa danneggiata offrire, senza poter ricorrere a criteri forfettari, la prova rigorosa dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.), e la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità - o di estrema difficoltà - di una precisa prova sull’ammontare del danno.
5. Il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell’aggiudicazione impugnata e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa. In difetto di tale dimostrazione, può presumersi che l’impresa abbia riutilizzato o potuto riutilizzare mezzi e manodopera per altri lavori, a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum.
51. La complessità e la parziale novità delle questioni esaminate giustifica l’integrale compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sul ricorso in ottemperanza, come in epigrafe proposto:
- dichiara improcedibile la domanda diretta a conseguire l’aggiudicazione e la correlata domanda proposta ai sensi dell’art. 114, comma 4, lett. e) c.p.a. ;
- dichiara il difetto di giurisdizione sulla domanda proposta nei confronti del Consorzio Stabile Grandi Opere;
- accoglie, in parte, la domanda di risarcimento del danno nei confronti dell’A.N.A.S. e, per l’effetto, la condanna al pagamento, a favore delle società Cavecon s.r.l. e Greco s.r.l., della somma complessiva di € 129.766,41, oltre ad interessi e rivalutazione come specificato in motivazione;
- fissa il termine di giorni 60 decorrenti dalla comunicazione in via amministrativa della presente decisione o dalla sua notificazione – se anteriore – ad istanza di parte per il pagamento della somma dovuta;
- nomina per il caso di perdurante inadempimento oltre tale termine come commissario ad acta il Prefetto di Catanzaro, che provvederà all’esecuzione della sentenza secondo le modalità indicate in motivazione;
- compensa integralmente le spese del giudizio fra tutte le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Guida alla lettura
Premessa
La sentenza che si segnala conclude una complessa controversia, sulla quale si è già pronunciata la stessa Adunanza Plenaria stabilendo il divieto di regolarizzazioni postume della posizione previdenziale per le imprese che partecipano a gare d’appalto, dovendo le stesse essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, con conseguente irrilevanza di un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva.
Ad instaurare il giudizio è il ricorso in ottemperanza presentato dalle imprese, che si sono viste annullare l’aggiudicazione dal giudice di prime cure e, benché vincitrici del precedente giudizio di appello, al fine di ottenere il risarcimento del danno connesso all’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato adiscono nuovamente il Consiglio di Stato, che, in sede di Adunanza Plenaria, ha esaminato le questioni della sussistenza della giurisdizione amministrativa sulla domanda risarcitoria proposta nei confronti del e dell’esistenza di un vincolo di solidarietà tra la parte privata beneficiaria dell’aggiudicazione illegittima e l’amministrazione.
Merita precisare che, in punto di fatto, l’avvenuta ultimazione dei lavori oggetto della gara, anteriormente alla pubblicazione della sentenza dell’Adunanza plenaria n. 6 del 2016, ha, in radice, vanificato l’aspettativa di ottenere il contratto controverso ed ha reso oggettivamente impossibile l’esecuzione in forma specifica del giudicato.
L’azione risarcitoria prevista dall’art. 112, comma 3, c.p.a.: natura e regime probatorio.
Fatte queste premesse, il Collegio analizza la natura, i presupposti e l’ambito soggettivo dell’azione prevista dall’art. 112, comma 3, c.p.a., qualificata espressamente in termini di “azione di risarcimento dei danni”, e sottolinea, da un lato, il richiamo all’istituto della responsabilità civile, dall’altro la presenza di significative peculiarità.
In relazione all’art. 112, comma 3, c.p.a., l’Adunanza plenaria osserva che:
- il presupposto del rimedio è individuato nell’esistenza di un danno (anche solo) «connesso all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato», introducendo la distinzione, innovativa rispetto alla formulazione originaria della disposizione in parola, tra:
- il danno “connesso” all’impossibilità (o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica del giudicato), danno che costituisce il principale profilo di novità, perché estende il rimedio alle ipotesi in cui il danno, pur in assenza di violazione o elusione del giudicato, è comunque “connesso” all’impossibilità di ottenerne l’esecuzione in forma specifica;
- da quello derivante dalla violazione o elusione del giudicato, indicato come distinto presupposto per l’esercizio dell’azione.
Il legislatore, dunque, ha fatto riferimento ad una impossibilità di esecuzione che trovi causa in un fatto diverso dalla violazione o elusione del giudicato, prevedendo l’azione di risarcimento del danno – e non un semplice indennizzo- anche nel caso in cui, pur non configurandosi un inadempimento, non è comunque possibile attuare il giudicato.
Il Collegio rimarca, quindi, la portata non solo processuale (che si traduce nell’ammissibilità, nelle ipotesi indicate, dell’azione risarcitoria in sede di ottemperanza, anche se si svolge in unico grado dinnanzi al Consiglio di Stato), ma anche sostanziale della norma, perché, in deroga alla disciplina generale della responsabilità civile, ammette una forma di responsabilità che prescinde dall’inadempimento imputabile alla parte tenuta ad eseguire il giudicato.
Ciò comporta una deroga rispetto all’ordinario regime civilistico della responsabilità da inadempimento dell’obbligazione, delineato dall’art. 1218 cod. civ.
Dal giudicato amministrativo, infatti, che riconosce la fondatezza della pretesa sostanziale, esaurendo ogni margine di discrezionalità nel successivo esercizio del potere, nasce ex lege, in capo all’amministrazione (ed in certi casi anche in capo alle parti private soccombenti) un’obbligazione, il cui oggetto (la prestazione) consiste proprio nel concedere “in natura” (cioè in forma specifica) il bene della vita di cui è stata riconosciuta la spettanza. E che si tratti di obbligazione il cui inadempimento è soggetto al regime dell’inadempimento contrattuale è confermato dalla prescrizione decennale della relativa azione.
Infatti, secondo l’art. 1218 c.c., il debitore si libera dall’obbligazione se prova che l’inadempimento è stato determinato da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, disciplina che trova riscontro nell’art. 1256 c.c., secondo cui l’obbligazione si estingue, invece, quando la prestazione diventa impossibile per una causa non imputabile al debitore.
Rispetto alla disciplina civilistica dell’inadempimento dell’obbligazione appena delineata, l’art. 112, comma 3, c.p.a. introduce un elemento di specialità, perché dispone che l’impossibilità derivante da causa non imputabile (non dovuta cioè a violazione o elusione del giudicato) non estingue l’obbligazione, ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura “risarcitoria”, avente ad oggetto l’equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato.
Si tratteggia una forma di responsabilità che, nei casi di impossibilità non imputabile a violazione o elusione del giudicato, ha i connotati della responsabilità oggettiva, perché:
- non è ammessa alcuna prova liberatoria fondata sulla carenza dell’elemento soggettivo (dolo o colpa), che, invece, necessariamente connota le ipotesi di violazione o elusione del giudicato;
- la responsabilità è esclusa solo per la insussistenza (originaria) o il venir meno del nesso di causalità, il cui onere probatorio grava sul debitore medesimo.
Il rimedio viene, così, ad assumere una connotazione tipicamente compensativa: una sorta di ottemperanza per equivalente, che sostituisce l’ottemperanza in forma specifica nei casi in cui questa non sia più possibile e che si traduce nel riconoscimento dell’equivalente in denaro del bene della vita che la parte vittoriosa avrebbe avuto titolo di ottenere in natura in base al giudicato. Si ha, quindi, un rimedio alla impossibilità di esecuzione in forma specifica della sentenza, in un’ottica “rimediale” della tutela, quale si è andata delineando a partire dalle sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 della Corte costituzionale.
La funzione sostitutiva del rimedio giustifica, allora, la duplice (e ragionevole) scelta del legislatore, in tema di allocazione del rischio della impossibilità di esecuzione del giudicato, di:
- prevederne l’ammissibilità in sede di ottemperanza, anche in un unico grado, in quanto “connessa” all’impossibilità oggettiva di esecuzione del giudicato;
- slegarla dal requisito della colpa, sia pure intesa, in tema di illecito della pubblica amministrazione, nella lettura “oggettiva” che ne dà la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Trattandosi di una tutela che sostituisce l’ottemperanza non più possibile in forma specifica, essa soggiace, sia sul piano del rito, sia sul piano dei presupposti sostanziali, alle stesse regole dell’azione di ottemperanza (in forma specifica), che pure si caratterizza come rimedio “oggettivo”, sganciato dalla prova del dolo o della colpa.
La nascita dell’obbligazione risarcitoria ex lege in conseguenza dell’impossibilità di eseguire il giudicato presuppone, comunque, la presenza, se non dell’elemento soggettivo, degli altri elementi minimi ed essenziali ai fini della configurazione di un illecito, che sono (cumulativamente):
- rapporto di causalità: è necessario e al tempo stesso sufficiente, per agire ex art. 112 c.p.a., che l’impossibilità di ottenere in forma specifica l’esecuzione del giudicato sia riconducibile, sotto il profilo causale, alla condotta del soggetto dal quale si pretende il risarcimento e che tale condotta non risulti assistita da una causa di giustificazione, la cui presenza precluderebbe l’insorgenza della responsabilità e, dunque, la nascita dell’obbligazione risarcitoria ex lege.
- l’antigiuridicità della condotta. Ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità civile, si deve muovere dall’applicazione di princìpi generali dell’illecito, elaborati nel diritto penale e che trovano positiva espressione negli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non), ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che nell’accertamento del nesso causale in materia civile (ed amministrativa) vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”.
Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova, comunque, il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto.
In merito al regime probatorio, l’Adunanza plenaria osserva che in materia di responsabilità da inadempimento dell’obbligazione (quale è la responsabilità da impossibilità di esecuzione del giudicato che riconosce la spettanza del bene della vita):
- il creditore ha il solo onere – ex art. 1218 c.c. – di allegare e provare l’esistenza del titolo (in questo caso rappresentato dal giudicato), e di allegare l’esistenza di un valido nesso causale tra la condotta della parte obbligata e la mancata attuazione del giudicato.
- la parte “debitrice” ha l’onere di provare il caso fortuito (inteso come specifico fattore capace di determinare autonomamente il danno), comprensivo del fatto del terzo (che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno), rimanendo a suo carico il fatto ignoto in quanto inidoneo a eliminare il dubbio in ordine allo svolgimento eziologico dell’accadimento.
L’ambito soggettivo dell’azione risarcitoria: non sussiste la responsabilità solidale tra amministrazione e privato beneficiario del provvedimento illegittimo.
Dopo aver inquadrato, in termini generali, la natura e i presupposti dell’azione, occorre esaminarne l’ambito soggettivo di applicazione, questione rilevante in quanto le società ricorrenti hanno chiesto la condanna in solido sia dell’amministrazione, sia della parte privata che, nelle more del giudizio, ha eseguito il contratto, rendendosi così impossibile l’esecuzione in forma specifica del subentro nel rapporto contrattuale.
Il Collegio riporta le due contrapposte due tesi che si contendono il campo in materia.
- In base ad un orientamento della giurisprudenza amministrativa, in materia di risarcimento del danno da aggiudicazione illegittima, vi sarebbe, ex art. 2055 c.c., e cioè in tema di responsabilità aquiliana e non contrattuale, una responsabilità solidale tra l’amministrazione e l’impresa beneficiaria del provvedimento illegittimo. Ne conseguirebbe la possibilità per il giudice amministrativo sia di pronunciare la condanna in solido al risarcimento del danno, sia di ripartire, anche solo ai fini del futuro esercizio dell’azione di regresso da parte dell’amministrazione, le quote interne di responsabilità.
Gli argomenti a sostegno di questo orientamento sono:
- il vincolo di solidarietà tra l’amministrazione e il beneficiario dell’atto illegittimo (e il conseguente potere del giudice amministrativo di pronunciare statuizione anche nei confronti di quest’ultimo), ha come presupposto normativo l’art. 41, comma 2, ultimo periodo, c.p.a., il quale ha previsto che «qualora sia proposta azione di condanna, anche in via autonoma, il ricorso è notificato altresì agli eventuali beneficiari dell’atto illegittimo ai sensi dell’art. 102 del codice di procedura civile; altrimenti il giudice provvede ai sensi dell’art. 49» all’integrazione del contraddittorio;
- sotto il profilo processuale, l’accertamento della responsabilità concorrente dell’impresa aggiudicataria e delle quote concorsuali di riparto interno tra quest’ultima e l’amministrazione sarebbe in linea con i principi fondanti la giustizia amministrativa, in base ai quali la controversia va decisa con l’esercizio di poteri decisori e conformativi, ed imposto dal principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, da intendersi, in assenza di formale domanda di regresso da parte dell’amministrazione, sulla base di un’interpretazione sostanzialistica degli atti processuali di parte, idoneo a ricomprendere nelle richieste e difese formulate dalle parti anche gli evidenziati momenti di accertamento (il fatto stesso che l’amministrazione, pur senza formulare azione di regresso, si difenda eccependo che la responsabilità è ascrivibile, in tutto o in parte, all’impresa aggiudicataria, consentirebbe al giudice di accertare il riparto delle quote di responsabilità nei rapporti interni).
- Nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, la domanda di risarcimento del danno sia proposta in sede di ottemperanza ai sensi dell’art. 112, comma 3, c.p.a. e sia diretta ad ottenere il ristoro del danno connesso all’impossibilità di ottenere in forma specifica l’esecuzione del giudicato, agli argomenti appena indicati si aggiunge che l’art. 112, comma 1, c.p.a. ha previsto, infatti, che i provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti non solo dalla pubblica amministrazione, ma anche dalla altre parti. L’obbligazione di eseguire il giudicato grava, quindi, su tutte la parti soccombenti, ivi compresa la parte privata, che, di conseguenza, investita di legittimazione passiva rispetto all’azione di ottemperanza.
Se si ritiene allora che l’azione di risarcimento del danno da impossibilità oggettiva di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato di cui all’art. 112, comma 3, c.p.a., costituisca un rimedio con funzione sostitutiva dell’ottemperanza in forma specifica, dovrebbe ammettersi pure che essa condivida con l’ottemperanza la platea dei soggetti passivamente legittimati.
La relativa domanda risarcitoria, pertanto, anche a prescindere dall’applicazione dell’art. 41, comma 2, ultimo periodo, c.p.a., potrebbe essere proposta anche contro il soggetto privato (nella specie l’impresa beneficiaria dell’aggiudicazione illegittima).
- Secondo un altro orientamento, cui aderisce l’Adunanza plenaria, non si può far valere la responsabilità solidale in sede di giurisdizione amministrativa. Gli argomenti addotti a sostenere la possibilità di far valere dinnanzi al giudice amministrativo, specie in sede di ottemperanza, la concorrente responsabilità del soggetto privato beneficiario del provvedimento illegittimo non sono, tuttavia, risolutivi.
Di seguito gli argomenti contrari.
- Le norme processuali indicate vanno coordinate ed interpretate alla luce dei limiti che incontra la giurisdizione amministrativa: sono, infatti, norme sul rito, che presuppongono (e non pongono) la giurisdizione, che deve, quindi, desumersi dai criteri generali di riparto e non direttamente da esse.
In punto di riparto, la domanda che la parte privata danneggiata dall’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato proponga nei confronti dell’altra parte privata, beneficiaria del provvedimento illegittimo, esula dall’ambito della giurisdizione amministrativa, per rientrare in quella ordinaria.
Si tratta, infatti, di una controversia tra due soggetti privati, avente ad oggetto una diritto soggettivo di contenuto patrimoniale: le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, anche di recente hanno ribadito che, in base agli articoli 103 Cost. e 7 c.p.a., il giudice amministrativo ha giurisdizione solo per le controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione o un soggetto ad essa equiparata; con la conseguenza che esula dalla sua giurisdizione la domanda di risarcimento del danno proposta da un privato contro un altro privato, ancorché connessa con una vicenda provvedimentale (nella specie, si trattava della domanda di risarcimento del danno contro il funzionario autore materiale del provvedimento illegittimo).
- Né in senso contrario possono invocarsi ragioni di connessione, in quanto vige il principio generale della inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione». La carenza del presupposto processuale della giurisdizione risulta, quindi, risolutiva e costituisce, già di per sé, un ostacolo insormontabile all’interpretazione “sostanzialistica” sostenuta dall’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato.
- Infine, l’art. 41, comma 2, ultimo periodo, c.p.a. non prevede, a rigore (e in senso tecnico), nei confronti del privato beneficiario dell’atto illegittimo un litisconsorzio necessario, che non ricorre neanche nel caso di obbligazioni solidali. La domanda proposta contro l’amministrazione (unica legittimata passiva), deve essere notificata al privato al fine di realizzare la c.d. denuntiatio litis, al fine di rendere possibile l’opponibilità del giudicato di condanna tra il privato danneggiato dal provvedimento e l’amministrazione anche al terzo beneficiario, come “fatto” che accerta l’antigiuridicità, nell’eventuale giudizio di “rivalsa”, quanto all’illegittimità dell’atto e ai presupposti della condanna risarcitoria subita dall’amministrazione.
- Non sembrano decisivi neanche gli argomenti desumibili dall’art. 112, comma 1, c.p.a., nella parte in cui prevede che l’obbligo di eseguire il giudicato grava non solo sull’amministrazione, ma anche sulle altre parti.
La norma considera che in moltissimi casi l’esecuzione in forma specifica del giudicato richiede, in particolare se si tratta di attuarne gli effetti restitutori e ripristinatori, oltre all’azione dell’amministrazione, l’ingerenza nella sfera giudica e materiale di soggetti privati, specie nel caso in cui sono stati destinatari di provvedimento favorevoli poi annullati e devono, per effetto del giudicato, adempiere ad obblighi –a ben guardare meramente conseguenziali o riflessi – restitutori e ripristinatori.
Escludere in tali casi la giurisdizione amministrativa solo perché vi è il coinvolgimento indiretto (e inevitabile) di soggetti privati vanificherebbe la funzione del giudizio di ottemperanza ed il valore fondamentale dell’effettività del giudicato (corollario del principio, costituzionale ed europeo, del diritto di azione in giudizio).
Nel caso in cui, tuttavia, l’impossibilità di eseguire in forma specifica il giudicato apra le porte all’alternativa di una forma di tutela compensativa per equivalente, si può ragionevolmente dubitare che, nel silenzio del legislatore (che nel comma 3 dell’art. 112 non specifica che l’azione risarcitoria sostitutiva possa essere proposta nei confronti di tutte le parti), lo speciale regime di responsabilità oggettiva possa estendersi anche ai privati soccombenti; che, in deroga implicita alla generale regola del riparto e per connessione, possa estendersi al privato un regime di responsabilità connotato dagli evidenziati profili di specialità proprio con riguardo all’elemento soggettivo.
Resta fermo che l’amministrazione, chiamata a risarcire il danno ai sensi dell’art. 112, comma 3, c.p.a., possa vantare nei confronti del beneficiario che ha tratto vantaggio dal provvedimento illegittimo travolto dal giudicato, un’azione qualificabile come:
- azione di regresso collegata a un’obbligazione risarcitoria di natura solidale
- oppure azione di ingiustificato arricchimento per il disequilibrio causale derivante dal collegamento tra le posizioni sostanziali in gioco,
presupponendosi in entrambi i casi:
- l’accertamento (della sussistenza) della giurisdizione amministrativa,
- l’accertamento della sua proponibilità nell’ambito del giudizio di ottemperanza, anzi che con azione ordinaria,
- una domanda in tal senso dell’amministrazione
La ricostruzione in termini “oggettivi” della responsabilità delineata dall’art. 112, comma 3, c.p.a., peraltro, è coerente con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza comunitaria, in materia di risarcimento da (mancato) affidamento di gare pubbliche di appalto e concessioni, secondo cui non è necessario provare la colpa dell’amministrazione aggiudicatrice, poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio comunitario di effettività della tutela e le garanzie di trasparenza e di non discriminazione operanti in materia di aggiudicazione dei pubblici appalti fanno sì che una qualsiasi violazione degli obblighi di matrice sovranazionale consente all’impresa pregiudicata di ottenere un risarcimento dei danni, a prescindere da un accertamento in ordine alla colpevolezza dell’ente aggiudicatore e dunque della imputabilità soggettiva della lamentata violazione.
La quantificazione del danno
Per determinare il quantum debeatur, il Collegio applica i principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di quantificazione del danno da mancata aggiudicazione, secondo cui:
a) ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell’an e del quantum del danno che assume di aver sofferto;
b) nel caso di mancata aggiudicazione il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante si identifica con l’interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell’immagine professionale per non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto), posto che il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico (anche a prescindere dal lucro che l’impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante), è, comunque, fonte per l’impresa di un vantaggio economicamente valutabile, accrescendone la capacità di competere sul mercato e la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti.
c) spetta all’impresa danneggiata offrire la prova dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.); quest’ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria informativa tra amministrazione e privato - la quale contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell’azione di impugnazione - mentre non si riscontra in quella di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, primo comma, c.c.;
d) la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull’ammontare del danno;
e) le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente tecnico d’ufficio neppure nel caso di consulenza cosiddetta “percipiente”, che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l’accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;
f) la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni; per la configurazione di una presunzione giuridicamente rilevante non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla base della regola della «inferenza necessaria»), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù della regola della «inferenza probabilistica»), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, se sono integrati i requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici;
g) va esclusa la pretesa di ottenere l’equivalente del 10% dell’importo a base d’asta, sia perché detto criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata (non potendo formularsi un giudizio di probabilità fondato sull’id quod plerumque accidit secondo il quale, allegato l’importo a base d’asta, può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% del detto importo);
h) anche per il c.d. danno curricolare il creditore deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito (il mancato arricchimento del proprio curriculum professionale), quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somme liquidata a titolo di lucro cessante;
i) il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell’aggiudicazione impugnata e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa. In difetto di tale dimostrazione, può presumersi che l’impresa abbia riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori ovvero che avrebbe potuto riutilizzare, usando l’ordinaria diligenza dovuta al fine di non concorrere all’aggravamento del danno, a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum;
j) tale ripartizione dell’onere probatorio in materia di aliunde perceptum ha sollevato in dottrina alcune perplessità, avvalorate dal pacifico orientamento della Corte di cassazione secondo cui, costituendo l’aliunde perceptum vel percipiendum un fatto impeditivo (in tutto o in parte) del diritto al risarcimento del danno, il relativo onere probatorio grava sul datore di lavoro.
L’Adunanza plenaria precisa come - anche a volersi convenire con la ragionevole considerazione che l’aliunde perceptum costituisca un fatto impeditivo del danno - non potrebbe addivenirsi a diversa conclusione in relazione al settore degli appalti, per un duplice ordine di considerazioni:
- In primo luogo, ai fini della sussistenza dell’aliunde perceptum, si può invocare il meccanismo della presunzione (semplice), fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria) – quale soggetto che esercita professionalmente un’attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili - normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative per trarre utili. Pertanto, in mancanza di prova contraria (che l’impresa può fornire anche sulla base dei libri contabili) deve ritenersi che essa abbia comunque impiegato proprie risorse e mezzi in altre attività, con conseguente sottrazione dell’aliunde perceptum al danno subito per la mancata aggiudicazione, calcolato in genere in via equitativa e forfettaria.
- A conferma di ciò vi è la distinta, concorrente circostanza che, da un lato, non risulta ragionevolmente predicabile la condotta dell’impresa che immobilizza le proprie risorse in attesa dell’aggiudicazione di una commessa, o dell’esito del ricorso giurisdizionale volto ad ottenerla; dall’altro che, ai sensi dell’art. 1227, secondo comma, c.c., il danneggiato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare il danno, sicché il comportamento inerte dell’impresa ben può assumere rilievo in ordine all’aliunde percipiendum.
Ciò permette di evitare che la sentenza che vede l’impresa vittoriosa diventi occasione e strumento di ingiusta locupletazione.