brevi riflessioni
SOMMARIO: Premessa. 1. Le criticità del nuovo sistema dei contratti pubblici. 2. Le prospettive di riforma 2.1 (Segue) Gli strumenti preventivi. 2.2 (Segue) Un nuovo orizzonte per la disciplina di settore. 3. Le possibili implicazioni penalistiche.
Premessa
Le recenti riforme in materia di contratti pubblici confermano la vivacità e la dinamicità del relativo ordinamento settoriale. L’Europa ha fornito l’input necessario per rinnovare una normativa relativamente recente ma oramai inadatta sotto molteplici profili, primo fra tutti l’inefficienza nel contrasto ai fenomeni di criminalità che corrodono dall’interno l’economia pubblica. Il lavoro degli uffici giudiziari e le inchieste balzate agli altari della cronaca testimoniano la gravità del problema e la sua priorità nell’elenco delle grandi questioni irrisolte della realtà italiana. Da ciò si è inferita la necessità sistemica di riforma, dettata dalla prassi e dalla nuova architettura degli organismi coinvolti nelle procedure.
Dal 2006 al 2016 un decisivo punto di differenziazione ed evoluzione è costituito dal nuovo ruolo dell’Unione europea. In realtà, la precedente legislazione, tra cui lo stesso codice del 2006, fu il prodotto dell’armonizzazione normativa operata tramite direttive europee e strumenti di soft law, oltre che per mezzo della cooperazione istituzionale a livello informale e consultivo. La novità risiede nel fatto che la partecipazione comunitaria si è notevolmente intensificata alla vigilia dell’emanazione del pacchetto di direttive della primavera del 2014, alla base della (tardiva) emanazione del nuovo codice; l’Unione si pone come legislatore e consigliere allo stesso tempo. A ciò si è accompagnato un notevole accrescimento del ruolo istituzionale e delle funzioni accordate agli organi ed alle istituzioni di vigilanza e controllo (su tutte, l’ANAC). Si tratta di un dato importante in ottica di coordinamento con la normativa sostanziale, in particolar modo all’interno della predisposizione di un circuito informativo stabile che consenta di svolgere con successo la serie dei controlli preventivi sull’instaurazione del procedimento di selezione del contraente e dei controlli concomitanti sullo svolgimento delle procedure e l’esecuzione del contratto.
Prendendo spunto dalle più o meno recenti vicende, la precedente legislazione sembra aver palesato un effettivo fallimento. Si tratta di una valutazione riflessa ma attenta al profilo sostanziale. Infatti, seppur non si possa valutare una norma solo a partire dalla sua violazione, appare evidente che la facilità di infiltrazione criminale nell’amministrazione degli appalti sia un aspetto che denota carenze strutturali e difetti genetici di non poco conto. Inevitabile, oltre che necessario, l’avvicendamento della normativa.
Infine, anche se aspetto non meno importante dato il particolare momento storico, occorre valutare la tenuta della nuova disciplina nell’ambito della necessaria integrazione dei presidi di prevenzione, dunque il coordinamento del codice con il testo sulle leggi antimafia, con l’attività provvedimentale dell’ANAC e con le norme anticorruzione
Il breve periodo di vigenza del nuovo codice permette una valutazione soltanto embrionale delle novità. A corredo, occorre sempre tener presente che difetta la possibilità di valutare i risvolti dell’attività d’integrazione operata da parte dell’ANAC con l’emanazione delle linee guida interpretative, secondo la delega dell’art. 213 del codice, che progressivamente vanno a specificare la materia[1]. L’incompletezza richiede un “rodaggio” al fine di ponderare gli effetti delle novità, cosa che non può non avvenire se non con le prime applicazioni concrete.
Dunque, allo stato dell’arte, cosa può dirsi sulla disciplina attuale? Prescindendo dalle applicazioni concrete, la valutazione prognostica degli elementi di criticità può fornire un quadro dei difetti potenziali. Occorrerà valutare se l’ennesima riforma di settore abbia tradito i principi ispiratori dettati dell’Unione e, in parte, dalla delega parlamentare, o abbia invece tenuto fede alle aspettative. Per poter comprendere questo, è necessario fissare i parametri secondo cui operare una valutazione. In particolare, si possono individuare tre fondamentali principi che si pongono alla base dell’opera di riforma condotta dalle direttive e dalla legge delega:
- armonizzazione interna delle norme su trasparenza, pubblicità e tracciabilità delle informazioni e delle risorse;
- riconduzione degli adempimenti di qualificazione all’attività dell’Authority di settore e riduzione degli oneri documentali a carico delle imprese, ossia semplificazione;
- attenzione alla legalità e alla trasparenza e correttezza delle procedure di scelta del contraente e dell’esecuzione del contratto.
I pilastri individuati non sembrano porre problemi; anzi, in sé considerati appaiono in piena sintonia con le esigenze di riforma e la corretta interpretazione dei “bisogni” del settore. Percorrendo la strada dell’approccio critico, un primo ma decisivo punctum dolens può rinvenirsi nello svolgimento concreto della delega, apparentemente eccessiva nei modi e nei tempi (anche se rispettosa dei vincoli formali) che ha incisivamente snaturato i propositi iniziali.
1. Le criticità del nuovo sistema dei contratti pubblici.
L’attuazione delle direttive di riforma, affidata alla delega contenuta nella legge 28 gennaio 2016, n. 11 e divenuta definitiva con l’emanazione del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, ha palesato una serie di criticità che vanno oltre le difficoltà interpretative e di collegamento con le procedure in corso e il resto della (residuale) normativa di settore. Alcune disposizioni appaiono discordi rispetto al conclamato e sostenuto intento riformatore a più voci, evidenziando una serie di potenziali criticità che rischiano di annullare i propositi di legalità necessari ad imprimere una reale svolta di sistema.
Le perplessità si possono individuare soprattutto nelle fasi di svolgimento della gara, aggiudicazione, esecuzione del contratto[2].
Riguardo alla gara, occorre concentrare l’attenzione sui motivi di esclusione dalla partecipazione (art. 80). Si tratta del punto nevralgico in quanto passa da qui la possibilità di sbarrare l’accesso alle provviste pubbliche a soggetti che presentano un certo grado di compromissione dell’immagine e dell’affidabilità; ciò pare necessitato nell’ottica di fornire un certo grado di trasparenza e correttezza all’assegnazione dei contratti pubblici e delle concessioni. Il ventaglio delle ipotesi proposte (commi 1-6) offre un panorama pressoché completo, seppur desta qualche dubbio la scelta di preservare la partecipazione fino all’intervento della sentenza definitiva di condanna (comma 2). Ovvio il necessario rispetto della presunzione di non colpevolezza, ma non si può non tenere in considerazione il complesso degli accadimenti processuali che compromettono l’accertamento e potrebbero restituire una verità giudiziaria ampiamente divergente da quella sostanziale (come nel caso di prescrizione ed estinzione del reato).
Due i particolari, di non poco conto, che offrono più di uno spunto di riflessione.
In primo luogo, il comma 7 ammette una forma di soccorso istruttorio “successivo”, che si concretizza nella possibilità di regolarizzazione, nonostante la condanna (seppur per fatto considerato lieve), nel caso in cui l’imprenditore possa fornire prova delle riparazioni e dei risarcimenti, e dunque di aver rimediato al pregiudizio arrecato dalla commissione del reato. In tal modo, viene aperta una consistente breccia alla possibilità di controvertere tutto ciò che viene imposto a titolo di norma imperativa in precedenza. Sembra essersi al cospetto di un pendant del nuovo art. 131-bis c.p. che, pur non escludendo la punibilità, dimostra un atteggiamento di favore nei confronti del reo per un illecito di scarso peso. Se nell’ambito della criminalità ordinaria può considerarsi una soluzione di politica sociale e criminale valida (anche dal punto di vista della deflazione processuale) nel delicato ambito della contrattualistica pubblica la prospettiva muta, in quanto un approccio di tal fatta rischia di generare ulteriori problematiche più che risolvere. Da questo punto di vista, appare quantomeno lecito avanzare dei dubbi sull’effettiva bontà dell’innesto normativo.
In secondo luogo, il comma 10 della stessa disposizione depotenzia la funzione accordata alla sanzione accessoria dell’incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione. Seppur il regime prospettato appaia in sintonia con la corrispondente ipotesi prevista in via generale (art. 32-ter c.p.), sarebbe preferibile modulare la risposta non in ragione della pena in concreto irrogata ma della tipologia di reato di cui il destinatario è stato accertato essere colpevole. È evidente come il parametro della pena appaia troppo astratto, in quanto destinato certamente a mutare in considerazione dell’applicazione dei criteri di commisurazione di cui all’art. 133 c.p. Un’inversione di tendenza potrebbe aversi tramite l’applicazione del più concreto criterio della tipologia di reato al meccanismo di irrogazione della sanzione accessoria, soprattutto in ottica general-preventiva.
In materia di criteri di aggiudicazione, gli artt. 95 e 97 offrono soluzioni in linea con le idee di fondo del disposto europeo, seppur con correttivi (rectius, adattamenti) singolari dal punto vista della possibile compatibilità con i propositi precedentemente enunciati. La prima disposizione continua ad ammettere, in via apparentemente esclusiva, l’offerta economicamente più vantaggiosa (declinata, secondo i canoni europei, come rapporto tra qualità e prezzo dell’offerta), oltre a ribadire l’utilizzabilità, sotto più o meno specifiche condizioni di eccezionalità, del minor prezzo.
Di quest’ultimo istituto, fonte di abusi e distorsioni delle gare, era stata auspicata, in sede di emanazione delle direttive, la definitiva eliminazione dal panorama giuridico. La perpetuazione dell’utilizzo, anche se in ipotesi non ordinarie e accompagnate da adeguata motivazione (comma 5), di un criterio che si può facilmente piegare ad interessi terzi, incide ulteriormente sulla serietà con cui viene perseguito lo scopo. A ciò si accompagna l’art. 97 che, nel definire i criteri (alquanto artificiosi) in costanza dei quali si è al cospetto di un’offerta anormalmente bassa, definisce parametri elastici nella loro possibile interpretazione e applicazione (alla luce dei parametri estremamente aperti del comma 4 della stessa disposizione). È possibile, anche solo in via teorica, che la duttilità esegetica della norma si discosti dalla ratio della norma stessa, sortendo l’effetto contrario rispetto a quello che è proprio della semplificazione riformatrice. Il rischio è quello di poter vedere deviati i procedimenti di scelta per cavilli, interpretazioni estensive e “stiracchiamenti” del dato normativo oltre la ragionevolezza. La conseguenza più probabile è che disciplina sostanziale e norme di prevenzione escano di fase, non lavorino più all’unisono, esponendo il fianco delle gare ad infiltrazioni e manipolazioni.
Soffermando l’attenzione sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, il problema è a più ampio spettro e forse più difficile da cogliere in concreto. La difficoltà di definire parametri univoci ed oggettivi per valutare l’effettiva corrispondenza al trade-off richiesto espone il fianco qualsiasi possibilità interpretativa. L’intervento dell’ANAC[3] in funzione di interpretazione ed individuazione dei metodi da utilizzare per la valutazione delle offerte non ha migliorato la situazione, in quanto rimane pur sempre limitato ad indicazioni operative. L’art. 95, comma 6, pone sullo stesso piano criteri effettivamente valutabili e criteri aperti ad una valutazione ampia e per questo sfuggevole nella sua oggettività (qualità dell’opera, organizzazione aziendale e costi, facilmente alterabili), aspetto a cui si accompagna la discrezionale valutazione accordata ad elementi di indubbio rilievo (come il rating di legalità[4]) affidata a criteri delimitati di volta in volta dalla stazione appaltante (e non, in modo rigido, dall’esterno). In questo modo si pone in serio pericolo l’imparzialità della valutazione. Sarebbe preferibile la predisposizione legislativa dei criteri valutativi. Si potrebbe storcere il naso per un potenziale conflitto tra legislazione e attività amministrativa, ma i superiori interessi a cui presiederebbe la riserva di legge potrebbe giustificare l’ingerenza nell’esplicazione del potere amministrativo.
Gettando infine uno sguardo sulla fase esecutiva, l’art. 106 sembra perpetrare la logica correttiva e “soggettivizzante” dell’esecuzione che è stata alla base di gran parte dei fenomeni di illegalità connessi all’inquinamento malavitoso. Appare quantomeno di difficile comprensione la scelta di perpetrare l’ammissibilità delle correzioni e delle modifiche alle iniziali condizioni contrattuali, rispetto alla generale esigenza di irrigidimento dei presidi. Ciò vale tanto per la modifica delle condizioni contrattuali nella sola parte economica (le varianti) quanto con riferimento al rinnovo del contratto e dalla modifica sul lato soggettivo senza indizione di nuova gara. Soprattutto il secondo aspetto è il più problematico da ammettere per le ovvie conseguenze e per gli ipotetici risvolti criminogeni che reca con sé.
In tutti i casi, ciò che risulta evidente è l’ammissione di una prassi che, seppur non miri in mala fede a piegare l’interesse pubblico ad altre ragioni, si pone in potenziale antitesi con le giuste pretese di prevenzione. Il pericolo immediato diventa la possibilità che si generino corto circuiti di sistema, anche solo e limitatamente ai casi definiti come eccezionali, ma che in realtà si presentano come null’altro che il dato costante dell’eccessiva dilatazione dell’area dell’emergenza e della deroga mascherata da migliore cura dell’interesse della collettività. Dunque, non si fa altro che registrare una serie di vittorie cadmee.
2. Le prospettive di riforma.
Sulla scorta di tali premesse, possono svolgersi una serie di considerazioni inserite in concrete prospettive di riforma, tese a conferire efficacia ed effettività al sistema dei contratti pubblici. Tale operazione non richiede una completa dismissione della disciplina in atto ma correttivi più o meno ampi, che raggiungano l’obiettivo della piena correttezza/legalità delle procedure e dell’esecuzione dei contratti.
L’analisi delle norme “distoniche” rispetto agli iniziali propositi hanno evidenziato una serie di comuni denominatori, potenzialmente condivisibili alla luce degli scandali dell’ultimo decennio, tutti riferibili al nodo della discrezionalità amministrativa utilizzata in modo distorto.
Un primo dato è il progressivo abbandono delle procedure tradizionali di scelta in favore della negoziazione e della trattativa privata. Si tratta di un aspetto che denota una palese confusione tra i concetti di semplificazione e diminuzione delle tutele, poiché si pensa di poter perseguire il primo obiettivo per mezzo del secondo strumento. È vero che i tempi dell’economia e le esigenze di recessione dalla burocrazia classica esigono una serie di correttivi alla lentezza dei procedimenti di scelta, ma ciò non può passare per il depotenziamento totale del controllo e della trasparenza dell’attività amministrativa.
Altro aspetto fondamentale è l’eccesso di permissività nella regolarizzazione in corso della partecipazione alla gara. La perpetrazione dello strumento del soccorso istruttorio e dell’esenzione dell’esclusione della gara nei casi previsti (come visto per la disposizione dell’art. 80, comma 7) potrebbero nuocere agli sforzi di creare una certa rigidità strutturale in ingresso e in uscita. A nulla vale l’obiezione che la flessibilità consenta l’accelerazione dei procedimenti e l’omissione di cautele nei fatti inutili, in quanto è proprio da queste “falle” che potrebbero originare fenomeni di illegalità.
Ancora, non si risolve il nodo delle varianti che costringe l’amministrazione ad esborsi supplementari, con evidente lesione delle sostanze erariali e la destinazione delle somme richieste ad interessi più o meno distanti da quelle di miglioramento dell’opera o migliore adeguamento della stessa ad esigenze sopravvenuta in corso d’opera.
A partire da questi elementi di critica, è palese che la riforma debba interessare tutti i settori della normativa amministrativa, valutando la necessità di un miglior coordinamento della normativa di prevenzione e correttivi alla disciplina sostanziale.
2.1 (Segue) Gli strumenti preventivi.
La legislazione antimafia e anticorruzione, riscoperta negli ultimi anni da massivi interventi di ristrutturazione e riforma, necessita, per il suo corretto funzionamento, di un efficace coordinamento con la normativa di settore. Tale obiettivo può dirsi fruttuosamente perseguito tramite un duplice approccio. Da una parte, l’accentramento normativo con riordino della materia, operazione parzialmente compiuta per l’antimafia[5] ma neppure iniziata per la materia del contrasto alla corruzione, particellata in più fonti malamente connesse, di rango legislativo[6] ma anche secondario (vedasi la copiosa produzione normativa ANAC in materia interpretativa e applicativa). Dall’altra parte, l’aspetto su cui maggiormente insistere risiede nell’arresto deciso e fermo ad ogni forma di deroga ed eccezionalità sui generis, difficilmente giustificabile ma applicabile a causa delle disfunzioni normative[7]. In particolare, i provvedimenti di gestione straordinaria hanno rappresentato un vero e proprio ordinamento parallelo che ha seriamente compromesso l’applicazione delle norme di settore e l’efficacia dei presidi di legalità.
Trattando separatamente i due ordini di disfunzione, è evidente che un’organizzazione fondamentale che coniughi semplificazione e riordino consenta un’efficienza di tutt’altro livello rispetto a quella attuale. È un’osservazione da non sottovalutare nonostante l’indubbia semplicità concettuale, vista l’assenza, in un ordinamento giuridico evoluto, di uno strumento accentrato sulla normativa di prevenzione dell’illegalità nella pubblica amministrazione. Non occorre un accentramento che equivalga ad incorporazione, data l’applicazione degli strumenti preventivi a tutta l’attività amministrativa.
Passando al secondo punto, il sistema è sopravvissuto per troppo tempo sulla concezione della legge come ostacolo, come impedimento da aggirare. È una questione di gran momento dal punto di vista giuridico ma anche da quello etico. Un Paese in emergenza costante non è un Paese in emergenza ma rappresenta solo un contesto statale in cui l’ordinamento si presenta debole e malleabile, espressione di quello che Sabino Cassese definì “Stato poroso”[8]. Il fattore allarmante è costituito da due componenti che dimostrano di aver lavorato all’unisono, ovverosia l’ammissione delle deroghe sulla base di fonti subordinate rispetto a quelle che pongono le norme da derogare e l’estrema facilità nel conseguire la dichiarazione dello stato d’emergenza o l’accesso a canali di deroga giustificati dall’urgenza di terminare lavori od opere strategiche. Il grimaldello sistematico è offerto dagli strumenti “normativi” di protezione civile[9].
Porre l’ordinamento di fronte ad una perenne scelta di Hobson tra lo svolgimento dei lavori e la costruzione delle opere necessarie e il rispetto della legalità, come se i concetti fossero autoescludenti, potrebbe condurre alla più o meno consistente reiterazione degli episodi a più voci censurati. La soluzione sta in un’espressione sintetica e pregnante: stop alle deroghe “facili”. Non si tratta solo di arginare il ricorso ad un regime parallelo per il trattamento fuori dagli schemi delle emergenze. Un caso su tutti è rappresentato proprio dalle vicende di EXPO 2015. Il regime emergenziale, derivante da una pianificazione errata degli interventi da effettuare e delle scadenza da rispettare, ha comportato l’esigenza di ingresso immediato nei cantieri a favore di imprese sprovviste di documentazione antimafia liberatoria, in quanto i tempi ristretti per la realizzazione delle opere e dei lavori si ponevano in contrasto con i tempi tecnici necessari agli accertamenti prefettizi. Gli ingressi provvisori si sono tramutati in definitivi e i successivi riscontri che hanno evidenziato cause ostative all’intrattenimento di rapporti contrattuali con le stazioni appaltanti si sono forzosamente “sanati”.
Dalle considerazioni svolte, due paiono essere le uniche possibilità di sopravvivenza del concetto di emergenza. Il primo si sostanzia nell’imprevedibilità strictu sensu, in cui la situazione da fronteggiare non possano considerarsi ponderabile alla luce di dati scientifici e massime di comune esperienza (sulla base del concetto penalistico dell’id quod plerumque accidit). Quindi, si fa riferimento a quegli episodi che non sarebbero stati evitabili con l’impiego degli ordinari criteri di diligenza e nel rispetto del principio di buon andamento dell’azione amministrativa.[10] Strettamente collegata è la seconda possibilità, ossia il criterio dell’impossibilità di gestione secondo la legge vigente. Essa sarebbe da valutare alla stregua dell’imprevedibilità, secondo un giudizio diagnostico che comporti anche una superficiale valutazione degli elementi di fatto e le caratteristiche del fenomeno da fronteggiare, i quali finiscano per non consentire di fronteggiare utilmente e vantaggiosamente la repentina increspatura nel continuum del mantenimento dell’ordine pubblico. Si tenga conto della formulazione linguistica: non si parla di ostacoli prodotti dalla legislazione ma di inadeguatezza della stessa per la situazione che va a presentarsi.
Tirando le fila del discorso, il delicato contatto tra stato d’emergenza e appalti pubblici andrebbe regolato secondo la tassativa previsione di un’inderogabile regime bifasico:
- al ricorrere dei requisiti di assoluta imprevedibilità e di impossibilità di gestione secondo la legge vigente, nei termini su indicati, il differimento dell’applicazione della normativa di prevenzione andrebbe operato (non eliminata) per consentire lo svolgimento delle attività urgenti e indispensabili, ivi compresa l’aggiudicazione immediata di appalti di opere, lavori, servizi e forniture utili a far fronte alla situazione attuale. Al venir meno della cornice fenomenica a fondamento dei presupposti, i controlli vanno recuperati, nella forma di controlli ispirati ad un giudizio prognostico ex ante, di derivazione penalistica, in grado di assicurare la valutazione di eventuali irregolarità o fattori di illecito con la stessa intensità che si sarebbe avuta nella possibilità di effettuare canonicamente i controlli in entrata;
- in tutti gli altri casi, il difetto dei requisiti de quibus non dovrebbe ragionevolmente essere d’ostacolo, o anche differire o ostacolare i controlli e gli adempimenti antimafia o anticorruzione.
2.2 (Segue) Un nuovo orizzonte per la disciplina di settore.
Il passaggio ad una disciplina sostanzialmente collegata al rispetto della legalità ruota attorno a vari aspetti fondamentali che coinvolgono, in prima battuta, le procedure di scelta del contraente.
Da una parte, sarebbe preferibile rivedere parzialmente il meccanismo della negoziazione, o perlomeno arginarne la portata attualmente prospettata che lo interpreta come strumento principe dell’approvvigionamento pubblico. Dall’altra, utilità supplementari possono raggiungersi per tramite del rafforzamento del segreto procedimentale come momento difensivo e opportunità di preservazione della parità di trattamento dei concorrenti e delle condizioni contrattuali, oltre che della trasparenza della procedura. In entrambi i casi, sembra che debba mettersi da parte, almeno in una certa misura, la logica acceleratoria perseguita dal codice in vigore, una logica che si accompagna ad un palese problema di compatibilità con gli stessi propositi di legalità che trasmodano in logiche di convenienza ed opportunismo che poco hanno a che vedere con la migliore cura dell’interesse pubblico.
In questo senso, la summa divisio da operare consiste nel differenziare la disciplina da destinare alle grandi opere da quella da imporre per gli appalti e i contratti in genere caratterizzati da modico valore o a basso costo.
Per quanto concerne le prime, episodi come quelli occorsi durante EXPO 2015, in vista dei mondiali di nuoto o della ricostruzione dopo il sisma abruzzese hanno ribadito come garantire la trasparenza delle procedure sia un aspetto fondamentale. A fronte della funzione pubblica a cui sovraintende una grande opera strutturale, i meccanismi successivi di scrematura non fanno altro che imporre un iter procedimentale facilmente inquinabile. Nei fatti, la negoziazione così come concepita nel codice (artt. 124 e 125[11]) non agisce come deflattivo della burocrazia ma solo quale potenziale meccanismo di interferenza e intralcio per la corretta esplicazione dei controlli necessari. Per questo, sarebbe auspicabile il recupero della procedura aperta secondo il modello dell’incanto come metodo unico, ovviamente corretto alla luce del progresso tecnologico, con spinta all’utilizzo di procedure informatizzate rese massimamente imparziali, secondo i meccanismi dappresso indicati. Con riguardo agli appalti “ordinari”, di scarso impatto, la procedura aperta non appare ragionevole, potendosi ricorrere a meccanismi di controllo su più ridotta scala ma ugualmente incisivo. Una possibilità in linea con le esigenze di semplificazione è offerta dall’utilizzo del sistema dinamico di acquisizione, secondo protocolli già sperimentati o in atto (si pensi al “modello Consip” per le forniture), adeguato anche in questo caso al contesto e al progresso informatico. Occorre tenere in considerazione che i modelli di acquisizione telematica soffrono molteplici problematiche a livello pratico, per cui la proposta di applicazione potrebbe condurre perlomeno al rigetto immediato di un’ipotesi di tal fatta. In realtà, auspicando correttivi normativi anche su tale versante, è il modello ideale (filosoficamente parlando, la potenza aristotelica in luogo dell’attualità), adattato secondo le reali esigenze di sistema qui evidenziate.
In entrambi i casi, quando si parla di adeguamento tecnologico, si intende fare riferimento ad un’evoluzione giuridica e informatica del sistema degli appalti. Ciò costituisce il secondo, seppur apparentemente scontato, tratto fondamentale dei nuovi orizzonti di riforma. La tutela della confidenzialità delle informazioni e la limitazione dei casi di “fuoriuscita di notizie” sono operazioni che coinvolgono modifiche strutturali ingenti, una rivalutazione del ruolo dell’ANAC (in primis) e del ruolo delle amministrazioni appaltanti. Questi propositi potrebbero essere proficuamente realizzati mediante l’istituzione di un sistema su tre livelli, a comparti stagni e decentrati, integrati tra loro per la formulazione di un modello unico di composizione delle gare d’appalto. La predisposizione di un sistema di tal fatta garantisce la trasparenza delle procedure a partire dalla corretta composizione delle commissioni di gara (uguale sistema dovrebbe applicarsi per la scelta del responsabile unico del procedimento).
Il primo livello di “impermeabilizzazione” deve garantire la massima imparzialità dei soggetti componenti. Un sistema potenzialmente efficace potrebbe concretizzarsi in un meccanismo di rotazione e trasferta da un plesso amministrativo all’altro della dirigenza e dei funzionari, tale da impedire il consolidarsi di una gerarchia forte che possa influenzare le procedure d’appalto facenti capo a quella struttura. Adottare un certo grado di fluidità ed interscambio delle persone fisiche addette al settore impedisce il formarsi di un centro di potere soggettivizzante ed influenzabile. Appare poco proficuo basare tale sistema sull’instaurazione di semplici attribuzioni incrociate; preferibile, invece, una soluzione in linea con le esigenze di oggettività. Un’idea può provenire dall’istituzione di un apposito organismo di intermediazione, magari da collocarsi in seno all’ANAC, indipendente dalle stazioni appaltanti. Lo stesso personale dell’organismo deve essere soggetto ad un particolare sistema di controllo delle nomine nell’ambito di ruoli afferenti le procedure d’appalto, esteso oltre la durata dell’incarico.
Passando al secondo livello, è evidente come l’organismo in sé per sé possa presentare delle pecche provenienti proprio dai soggetti in esso operanti. Con ciò non si intende semplicemente porre un alto grado di sospetto nei confronti delle scelte umane, ma piuttosto constatare la necessità di limitare l’impiego della discrezionalità nella preferenza di un professionista rispetto ad un altro, non sempre correttamente operata. A questo compito sovraintende la creazione di appositi albi professionali, annualmente aggiornati, che comprendano i nominativi dei soggetti qualificati che possono ricoprire incarichi nelle procedure d’appalto (anche qui, è ovvio che essi debbano essere debitamente qualificati).
Infine, terzo ed ultimo livello, posto in funzione di chiusura sistematica, è quello che, con funzione precipuamente preventiva, tutela il segreto istruttorio. La confidenzialità delle informazioni si pone ovviamente nell’ottica di limitare la conoscenza dall’esterno. Se precedentemente è stato chiarito come delimitare l’area della discrezionalità tecnica, resta da vedere come impedire agli operatori economici di conoscere la composizione delle commissioni prima della gara. Interviene un sistema informatizzato per la comunicazione delle scelte operate dall’organismo ANAC, altamente garantito, cogestito dal Ministero dell’Interno (con funzione di controllo sull’organo di controllo primario) e dalla stessa Autorità indipendente.
È da tenere presente come il meccanismo di triplice intervento e correzione prospettato dovrebbe sfruttare, eccettuata la costruzione del sistema informatico di base, risorse già esistenti e poste in seno all’amministrazione, rispettando, sostanzialmente oltre che formalmente, la clausola di invarianza tanto cara al legislatore odierno.
3. Le possibili implicazioni penalistiche.
La prevenzione deve necessariamente coesistere e combinarsi con un’efficace repressione. Questo aspetto è da intendersi come prerogativa assoluta delle forme del diritto penale. La predisposizione di illeciti amministrativi, violazioni a cui conseguono “semplici” sanzioni pecuniarie, può rappresentare un valido strumento sanzionatorio solo per condotte offensive ma poco incisive. Laddove si realizzi un’aggressione al bene pubblico sotto forma di deviazione degli interessi di cui si fa portatrice l’amministrazione verso il soddisfacimento di interessi propri o prossimi a quelli del funzionario, financo quelli del privato che interferisce nell’attività dell’amministrazione, l’unica strada percorribile è il sentiero del diritto penale. La progressiva defenestrazione dell’area d’incriminazione dall’ordinamento, conseguenza diretta degli interventi di depenalizzazione, si deve necessariamente arrestare di fronte alla tutela da apprestare al bene pubblico.
Pur senza approfondire la questione in questa sede, necessita osservare che le criticità maggiori risiedono nella potenziale impossibilità, per le norme penali classiche, di trattare adeguatamente ed efficacemente la necessaria protezione contro aggressioni che si discostano dalle classiche condotte di concussione, corruzione o abuso d’ufficio. È evidente l’evanescenza di condotte che, seppur particolarmente offensive, in molti casi non si incasellano agevolmente nel paradigma canonico, con l’inevitabile conseguenza di lasciare scoperta (per l’insuperabile divieto di analogia) una serie di comportamenti, capaci di degenerare e aggredire in modo immediato la corretta tutela dell’interesse pubblico e l’attività amministrativa nel suo complesso.
Come agire in prospettiva di una efficace riforma? Un primo step è rappresentato dalla possibilità di cristallizzazione della condotta di conflitto d’interessi in un’apposita disposizione incriminatrice, anche sulla base di quanto acquisito, ad esempio, proprio dal nuovo codice degli appalti[12], senza possibilità di trasposizione diretta per gli evidenti limiti contenutistici della disposizione (in particolare, la preponderante attenzione all’aspetto economico). Tale fine può essere perseguito anche sulla base del raffronto con esperienze e realtà giuridiche differenti, rintracciando meccanismi di tutela penale similari o assimilabili negli ordinamenti penali prossimi a quello interno.[13] La definizione della condotta è utile per il riconoscimento del conflitto “amministrativamente rilevante”, che rappresenta la questione irrisolta e più irta di complicazioni (considerando tutto sommato risolti gli analoghi problemi in campo politico e privato, in particolare societario[14]). Ciò può stigmatizzarsi tanto in una incriminazione autonoma quanto in una forma aggravata di altro reato. È palese che l’approccio debba essere bilaterale, prevedendo condotte similari e coordinate sul versante del soggetto pubblico e su quello privato allo stesso tempo, ampliando il novero dei rispettivi titoli di reato. In entrambi i casi, la copertura dovrebbe essere estesa a tutte le condotte para-corruttive e para-concussive, o anche ai confini dell’abuso d’ufficio, che tuttora non trovano cittadinanza nel codice penale e che si pongono come fatti apparentemente non punibili.
Un secondo, decisivo passo da operare, coordinato con lo ius novum prospettato, potrebbe essere quello concretizzantesi nell’adeguamento della disciplina esistente. Il termine sta ad indicare la necessaria rivisitazione del trattamento sanzionatorio e degli accessori alle norme incriminatrici. Le scelte di politica criminale, a volte incomprensibili, hanno ridotto le finestre di opportunità di applicazione di istituti processuali di non poco conto[15], soprattutto nell’ottica di valutare condotte e prassi invisibili o di arduo riconoscimento. Ciò che ne può conseguire è un difficile accertamento dei fatti, derivante dalla limitazione dell’azione giudiziaria. Conseguenza ulteriore e mediata si può ravvisare nella provocata incapacità di far fronte a situazioni per cui difetta ab ovo una qualche forma di tutela penale. Dunque, non si tratta solamente di operare un maquillage ma di effettuare una valutazione di quali siano gli interessi realmente prevalenti all’interno del bilanciamento tra certezza del diritto, salvaguardia del bene pubblico ed esigenze di politica economica.
[1] Al novembre 2016, l’Autorità ha emanato quattro delibere contenenti linee guida sulla materia: n. 973 del 14 settembre 2016 (Indirizzi generali sull’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria), n. 1005 dl 21 settembre 2016 (Offerta economicamente più vantaggiosa), n. 1096 del 26 ottobre 2016 (Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l’affidamento di appalti e concessioni), n. 1097 del 26 ottobre 2016 (Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici).
[2] Infatti, almeno all’apparenza, non sembrano riscontrarsi problemi formali per la disciplina di ingresso alla gara, impostata correttamente. In particolare, l’art. 38, nel definire i criteri di qualificazione, prevede una forma di verifica preventiva di legalità operata dall’ANAC (comma4, lettera b, n. 1), in tema di prevenzione dei rischi di corruzione e criminalità. Inoltre, la precedente disposizione (art. 37) prevede il principio di aggregazione della domanda, utile nell’ottica della semplificazione e dello “snellimento” delle strutture amministrative, con conseguente concentrazione e semplificazione (in malam partem) dell’attività di controllo.
[3] Si fa riferimento alla già citata delibera n. 1005 del 21 settembre 2016.
[4] La delibera afferma «Al comma 13 dell’art. 95 viene anche stabilito che, compatibilmente con il rispetto dei principi che presidiano gli appalti pubblici, le stazioni appaltanti possono inserire nella valutazione dell’offerta criteri premiali legati al rating di legalità, all’impatto sulla sicurezza e salute dei lavoratori, a quello sull’ambiente e per agevolare la partecipazione delle microimprese e delle piccole e medie imprese, dei giovani professionisti e per le imprese di nuova costituzione.» (p. 5), affermazione a cui si accompagna l’ulteriore valutazione per cui «Gli elementi di valutazione cosiddetti qualitativi richiedono una valutazione discrezionale da parte dei commissari di gara. […] è assolutamente necessario che vengano indicati i criteri motivazionali a cui deve attenersi la commissione per la valutazione delle offerte.»
[5] Come testimoniato dal decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia).
[6] La normativa repressiva è contenuta nel codice penale (artt. 318 - 322-ter c.p.), mentre per le disposizioni di prevenzione si possono citare molteplici interventi, di cui due con aspirazione organica. Si tratta della legge 6 novembre 2012, n. 190, e della legge 27 maggio 2015, n. 69.
[7] Un lampante esempio di questa affermazione è offerto dalle ordinanze del Governo emesse nell’ambito dei lavori per la realizzazione degli impianti che avrebbero dovuto ospitare l’esposizione universale di Milano nel 2015 (d.P.C.M. 18 ottobre 2007, n. 3623, e d.P.C.M. 19 gennaio 2010, n. 3840), ulteriormente specificati con l’introduzione della figura del Commissario straordinario per l’evento (d.P.C.M. nn. 3900 e 3901 del 5 e 11 ottobre 2010).
[8] Cfr. S. CASSESE, Lo Stato introvabile – modernità e arretratezza delle istituzioni italiane, Donzelli, Roma, p. 83. L’autore fa riferimento allo Stato italiano (con particolare attenzione all’apparato dell’amministrazione pubblica) come ad un modello statocentrico ma a centro debole, disgregato ed esposto ad infiltrazioni di stampo affaristico. Successivamente, sulla stessa idea, l’autore cita lo scrittore Jorge Luis Borges definendo una sorta di parametro di riferimento per superare la caratteristica della “porosità”, affermando che sarebbe necessario «un severo minimo di regole valide per tutti», percorrendo il concetto di legislazione “a doppio fondo” proprio del pensiero di Piero Calamandrei.
[9] Il fondamento normativo della disciplina emergenziale è fornito dall’art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225 (che consente la deliberazione, da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, dello stato d’emergenza per accadimenti ed eventi eccezionali) e l’art. 5-bis, comma 5, del decreto-legge 7 settembre 2001, n. 343, convertito dalla legge 9 novembre 2001, n. 133 (in tema di applicazione dei poteri di protezione civile per i grandi eventi).
[10] Si pensi a cataclismi naturali o situazioni di grave disordine interno che mina l’ordine pubblico, la sanità o igiene pubblica (es: sommossa popolare, guerra civile, attacco terroristico)
[11] A fronte dell’apparente libertà di scelta accordata alle stazioni appaltanti (art. 123), è indubbia la spinta all’utilizzo della negoziazione, vista l’ampiezza dedicata alla disciplina relativa. La prima disposizione, nel definire le coordinate fondamentali della procedura con previa indizione di gara, pone delle serie problematiche nel porre la condizione della scrematura della platea dei concorrenti tramite il meccanismo dell’invito seguente alla valutazione delle offerte, apparentemente senza fornire adeguati meccanismi di controllo sulla scelta dell’ente aggiudicatore. La seconda, nell’omettere anche la previa indizione della gara, offre gli stessi spunti di riflessione, in tema di vaghezza, genericità e pericolosa indeterminatezza, già svolte nel caso della valutazione dell’anomalia dell’offerta.
[12] Si legga a tal proposito il disposto dell’art. 42: «1. Le stazioni appaltanti prevedono misure inadeguate per contrastare le frodi e la corruzione nonché per individuare, prevenire e risolvere in modo efficace ogni ipotesi di conflitto di interesse nello svolgimento delle procedure di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni, in modo da evitare qualsiasi distorsione della concorrenza e per garantire la parità di trattamento di tutti gli operatori economici. 2. Si ha conflitto di interesse quando il personale di una stazione appaltante o di un prestatore di servizi che, anche per conto della stazione appaltante, interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni o può influenzarne, in qualsiasi modo, il risultato, ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza, nel contesto della procedura […]. 3. Il personale che versa nelle ipotesi del comma 2, è tenuto a dare comunicazione della stazione appaltante, ad astenersi dal partecipare alla procedura […]. 4. Le disposizione di commi 1, 2 e 3 valgono anche per la fase di esecuzione […]»
[13] Un esempio, audace nel paragone, può essere offerto dal codice penale svizzero (Schweizes Strafgeseztbuch), che all’art. 314 prevede il reato di infedeltà nella gestione pubblica. Il testo della disposizione recita «I membri di un’autorità o i funzionari che, al fine di procurare a sé o ad altri un indebito profitto, recano danno in un negozio giuridico agli interessi pubblici che essi dovrebbero salvaguardare, sono puniti con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria. Con la pena detentiva è cumulata una pena pecuniaria.»
[14] Si fa riferimento ad una disciplina che esula dai confini penali e definisce il trattamento civilistico del conflitto di interessi. Per dovere di completezza sul punto, si fa riferimento all’introduzione, da parte del decreto legislativo n. 6 del 2003 in materia di riforma del diritto societario, degli artt. 2391 e 2475-bis c.c., dettati rispettivamente in materia di società per azioni e società a responsabilità limitata.
[15] Si fa riferimento all’utilizzo delle intercettazioni telefoniche (artt. 266 ss. c.p.p.), che richiedono un limite minimo di pena per l’esecuzione (5 anni), e della custodia cautelare (art. 286 c.p.p.), richiedente lo stesso requisito edittale.