Tar Sardegna, sez. I, 19 agosto 2016, n. 707.

1. In caso di mancata aggiudicazione di una gara d'appalto, laddove il ricorrente dimostri che – in mancanza dell'adozione del provvedimento illegittimo – avrebbe vinto la gara, è risarcibile ai sensi dell'art. 2043 c.c., il lucro cessante, nella misura del danno da mancato conseguimento dell'utile che risulti subìto e provato. Tale importo è ridotto in via equitativa nell'ipotesi in cui il ricorrente non provi di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa (1).

2. In caso di mancata aggiudicazione di una gara d'appalto, laddove il ricorrente dimostri che – in mancanza dell'adozione del provvedimento illegittimo – avrebbe vinto la gara, è risarcibile il danno curriculare, che deve essere computato in via equitativa e può essere calcolato in misura proporzionale alla somma già liquidata a titolo di lucro cessante, secondo una percentuale destinata a variare in considerazione dell'importanza dell'appalto illegittimamente aggiudicato ad altra impresa (2).

3. In caso di mancata aggiudicazione di una gara d'appalto non è risarcibile il danno emergente costituito dalle spese sostenute per la partecipazione alla gara, atteso che esse di norma restano a carico delle imprese partecipanti sia in caso di aggiudicazione sia in caso di mancata aggiudicazione  (3).

 

(1) conformi: Consiglio di Stato, sez. V, 8 agosto 2014, n. 4248.

(2) conformi: Consiglio di Stato, sez.VI, 4 settembre 2015, n. 4115; Consiglio di Stato, sez. VI, 18 marzo 2011, n. 1681; Consiglio di Stato, sez. VI, 4 settembre 2015, n. 4115; parzialmente difforme: Consiglio di Stato, sez. V, 8 agosto 2014, n. 4248.

(3) conformi: Consiglio di Stato, IV, 14 marzo 2016, n. 992; Consiglio di Stato, sez. VI, 12 aprile 2013, n. 1999; difformi: Cons. Stato, sez. V, 12 febbraio 2008, n. 491.

Guida alla lettura

di Federica Fulgheri

La sentenza in esame affronta il tema del risarcimento del danno da mancata aggiudicazione e, segnatamente, delle voci di danno risarcibile nonché delle modalità di quantificazione dello stesso.

Nel caso scrutinato dal T.A.R. Sardegna, l'impresa ricorrente – seconda classificata – avendo ottenuto in precedenza l'annullamento dell'aggiudicazione e avendo in tal sede dimostrato che in ipotesi di mancata adozione del provvedimento illegittimo avrebbe vinto la gara, richiede il risarcimento del danno da mancata aggiudicazione.

La sentenza si pone in continuità con l'orientamento già espresso in precedenza dalla Sezione ed in particolare fa il paio con la pronuncia T.A.R. Sardegna, sez. I, 25 settembre 2014, n. 757 (in materia di risarcimento danni da perdita di chances di aggiudicazione), dando vita - insieme ad essa - ad un vero e proprio vademecum in tema di quantificazione delle poste di danno in materia di appalti.

Il Collegio, richiamata la distinzione tra il danno da mancata aggiudicazione e il danno da perdita di chances di aggiudicazione, e rilevato che nel caso scrutinato si versa nella prima ipotesi, adotta una sentenza “sui criteri” ai sensi dell'art. 34, comma 4, c.p.a., demandando all'Amministrazione la concreta determinazione del quantum risarcitorio da corrispondere al ricorrente.

Viene, dunque, riconosciuta la ristorabilità del lucro cessante, derivante dal mancato conseguimento dell'utile per via dell'illegittima aggiudicazione della gara ad altra impresa, nonché del danno curriculare, mentre è escluso il risarcimento del danno emergente, e in particolare delle spese di partecipazione alla gara sostenute dall'operatore ricorrente.

Quanto a queste ultime, il Collegio afferma che le spese di partecipazione alla gara non possono essere risarcite in favore dell'impresa che lamenti la mancata aggiudicazione dell'appalto (o la perdita di chances di aggiudicazione).

Il T.A.R. Sardegna, come già aveva fatto in passato, si discosta da quei precedenti del Consiglio di Stato che sostengono la ristorabilità delle spese di partecipazione alla gara (vedasi per tutte Cons. Stato n. 491/2008 sopra richiamata). A tal riguardo osserva il Collegio, ponendosi sulla scia di un ormai consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa (si può segnalare, da ultimo, la pronuncia della IV Sezione del Consiglio di Stato, 14 marzo 2016,  n. 992),  che qualora l'operatore economico ottenga il risarcimento del mancato guadagno non può conseguire anche la restituzione delle spese di partecipazione alla gara, atteso che esse restano a carico degli operatori economici partecipanti tanto in caso di aggiudicazione quanto in ipotesi di mancata aggiudicazione e che, di conseguenza, riconoscerle in sede risarcitoria avrebbe quale effetto quello di attribuire al ricorrente un beneficio maggiore di quello che avrebbe ottenuto in caso di aggiudicazione (ipotesi nella quale, come detto, le spese di partecipazione restano a carico dell'impresa).

Con riguardo, invece, al lucro cessante, i criteri di quantificazione enunciati dal T.A.R. Sardegna si pongono in continuità con l'orientamento secondo cui può essere risarcito il solo danno che risulti “subìto e provato”.

La pronuncia in esame, richiamando il dettato normativo dell'art. 124 c.p.a., si discosta dalla diversa tesi giurisprudenziale che, ritenendo di applicare analogicamente la disciplina in tema di recesso unilaterale dai contratti della Pubblica Amministrazione, riconosceva forfettariamente e in via automatica a favore del ricorrente un danno da mancato guadagno di ammontare pari al 10% dell'importo posto a base di gara, salva la prova del maggior pregiudizio subìto.

La soluzione adottata dal T.A.R. Sardegna risulta, anche sotto questo profilo, del tutto condivisibile atteso che nell'ambito dell'azione risarcitoria opera pienamente il principio dispositivo della prova, con la conseguenza che grava in capo al ricorrente l'onere di fornire la prova del lucro che avrebbe tratto dall'aggiudicazione, e dunque dell'effettivo danno subìto.

È pur vero che la prova relativa alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni; tuttavia, gli elementi indiziari posti a base del ragionamento presuntivo devono essere gravi, precisi e concordanti, con la conseguenza che non si può assegnare valenza probatoria a presunzioni fondate su basi meramente ipotetiche (quali quella secondo cui l'utile d'impresa è pari al 10% dell'importo posto a base di gara).

Così, il danno risarcibile deve essere computato - secondo il criterio individuato dal T.A.R. Sardegna - in base al margine di guadagno che residua dopo l'applicazione all'importo posto a base di gara del ribasso offerto dall'impresa ricorrente. L'importo così calcolato deve, poi, essere ridotto in via equitativa (ipotesi che si verifica nel caso scrutinato, ove esso è dimezzato) nel caso in cui il ricorrente non dimostri in giudizio di non aver potuto altrimenti utilizzare le proprie maestranze e i propri mezzi, in quanto tenuti a disposizione della Stazione appaltante in vista della commessa. In mancanza di tale dimostrazione, difatti, si ritiene che debba essere decurtato l'aliunde perceptum vel percipiendum, presumendosi che l'impresa abbia riutilizzato le proprie maestranze e i propri mezzi per svolgere altri servizi o lavori.

Infine, il T.A.R. affronta la tematica della quantificazione del cosiddetto “danno curriculare” che – osserva il Collegio -  può essere “fonte per l'impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la sua capacità di competere sul mercato e quindi la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti”.

La pronuncia in esame stabilisce che esso debba essere quantificato in via equitativa, in proporzione della somma già liquidata a titolo di lucro cessante, secondo una percentuale che varia in ragione dell'importanza dell'appalto illegittimamente aggiudicato ad altra impresa.

La soluzione adottata si pone in contrasto con la tesi sostenuta dall'orientamento giurisprudenziale che richiede la prova effettiva del pregiudizio all'immagine subìto dall'operatore economico per via dell'illegittima aggiudicazione ad altri della commessa pubblica (si veda Cons. Stato n. 4248/2014 supra).

Appare maggiormente condivisibile l'orientamento fatto proprio dal Collegio sardo, che si pone in linea con la posizione espressa dalla Sez. VI del Consiglio di Stato nella sentenza del 4 settembre 2015, n. 4115, secondo la quale “per quanto riguarda il ristoro del c.d. ‘danno curriculare’, derivante dall’impossibilità di utilizzare le referenze derivanti dall’esecuzione dell’appalto nell’ambito di futuri procedimenti similari cui l’impresa potrebbe partecipare […] può essere in via di principio condiviso l’orientamento secondo cui l’esistenza di tale voce di danno patrimoniale può essere pragmaticamente ritenuta ‘in re ipsa’, in una certa (e contenuta) misura, in quanto insita nel fatto stesso dell’impossibilità di utilizzare le richiamate referenze”.

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 522 del 2014, proposto da:
La Fazenda Ristopizza S.n.c., rappresentata e difesa dall'avv. Francesco Demartis, con domicilio eletto presso Raffaele Di Tucci in Cagliari, Via Tuveri n. 47;

contro

Comune di Valledoria, rappresentato e difeso dall'avv. Enrico Pintus, con domicilio eletto presso Segreteria T.A.R. Sardegna in Cagliari, Via Sassari n. 17;

per la condanna

al risarcimento danni a seguito dell'illegittima aggiudicazione di gara per il servizio mensa scuole materne e dell'obbligo per il biennio 2002/2003.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Valledoria;

viste le memorie difensive;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 marzo 2016 il dott. Gianluca Rovelli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

La ricorrente ha partecipato alla gara bandita dal Comune di Valledoria per l’affidamento del servizio di refezione scolastica presso le scuole materne e dell’obbligo per la durata di otto mesi, dal 1.10.2002 al 31 maggio 2003 con importo a base d’asta di € 73.554,58 I.V.A. inclusa.

Al termine delle operazioni di gara risultava aggiudicataria l’ATI costituita dalla Gemeaz Cusin e dalla Cosarse s.r.l. che otteneva 87 punti contro gli 80 della ricorrente.

L’aggiudicazione veniva impugnata dinnanzi al T.a.r. Sardegna che accoglieva il ricorso con sentenza n. 656/03.

La ricorrente chiede quindi la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno.

Si è costituita l’Amministrazione chiedendo il rigetto del ricorso.

Il 5 febbraio 2016 l’amministrazione depositava memoria difensiva.

Il 17 febbraio 2016 la ricorrente depositava memoria difensiva.

Alla udienza pubblica del 23 marzo 2016 il ricorso veniva trattenuto per la decisione.

DIRITTO

Va preliminarmente esaminata l’eccezione sollevata dalla difesa dell’amministrazione con memoria depositata il 5 febbraio 2016 secondo cui il ricorso sarebbe inammissibile per violazione del ne bis in idem. Ciò in quanto la medesima domanda risarcitoria era già stata avanzata con ricorso n. 584/2010 poi dichiarato perento.

Sul punto il Collegio osserva che la pronuncia di perenzione di un ricorso non costituisce una decisione di merito, bensì un provvedimento estintivo del giudizio che incide soltanto sul rapporto processuale tra le parti in causa: ne consegue che, non costituendo essa giudicato sostanziale, di per sè sola non impedisce la delibazione di un altro ricorso non potendosi fare meccanica applicazione del principio del ne bis in idem; così come nel processo civile (art. 310 c.p.c.), anche in quello amministrativo, l'estinzione del processo non comporta l'estinzione del diritto di azione, essendo le due vicende concettualmente distinte (cfr. T.a.r. Puglia, Lecce, sez. II, 14 gennaio 2015, n. 176).

L’eccezione è quindi infondata.

Nel merito il ricorso è fondato nei limiti che di seguito si espongono.

Intanto va chiarito che la domanda risarcitoria è stata preceduta da separata azione di annullamento che era stata accolta con sentenza di questa Sezione n. 656/03.

E’ utile riportare uno stralcio della stessa:

Nel merito i ricorsi sono fondati con riguardo al primo motivo di impugnazione.

Ed invero la certificazione di qualità mira ad assicurare che l’impresa che ne è in possesso svolga la sua attività secondo un livello minimo di prestazioni accertate da un organismo qualificato secondo parametri rigorosi, delineati a livello europeo, che valorizzano l’organizzazione complessiva dell’attività nello svolgimento delle sue diverse fasi.

Pertanto, allorché un bando di gara richiede il possesso di detta certificazione il relativo accertamento va esteso a tutti i soggetti tenuti ad eseguire le prestazioni contrattuali in quanto, diversamente, l’interesse della stazione appaltante ad ottenere un certo livello qualitativo delle prestazioni risulterebbe vanificato.

In particolare, nel caso di associazioni temporanee di imprese la garanzia qualitativa richiesta presuppone che tutti i soggetti compresi nel raggruppamento abbiano ottenuto l ’accertamento prescritto perché, altrimenti, verrebbe meno la dimostrazione dell’idoneo livello qualitativo dell’esecutore del servizio.

Tali principi sono stati enunciati, con motivazione integralmente condivisa dal Collegio, dalla recente sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 5517 del 18 ottobre 2001.

Con riguardo al caso in esame, la prescrizione del bando attribuisce rilievo al requisito qualitativo ai soli fini dell’attribuzione di un ulteriore punteggio (e non già dell’ammissione alla gara) riferendolo al concorrente visto nella sua complessiva articolazione strutturale.

Si tratta di una regola senz’altro ragionevole, in quanto il requisito qualitativo assume rilievo proprio in considerazione della garanzia di maggiore affidabilità assicurata dalla certificazione tecnica.

Ebbene, è incontestato che la certificazione di qualità è posseduta, in concreto, solo dall’impresa mandataria (la GEMEAZ CUSIN), mentre l’altra impresa dell’ATI aggiudicataria (la CO.SAR.SE.) ne è sprovvista.

Ne consegue l’illegittimità del punteggio attribuito all’ATI aggiudicataria alla quale, pertanto, devono essere sottratti i 10 punti relativi al possesso dell’anzidetta certificazione.

Del resto il bando di gara non prevede alcuna graduabilità del punteggio relativo al possesso del certificato di qualità, stabilendo che i punti aggiuntivi possono essere riconosciuti o negati secondo una rigida alternativa. Ad avviso del Collegio, infatti, solo la previsione di punteggi intermedi o l’espresso riferimento ai requisiti di alcuni soltanto dei componenti del raggruppamento avrebbe al più consentito di valutare le certificazioni possedute da talune soltanto delle imprese facenti parte dell’ATI.

Né assume rilievo decisivo la circostanza, affermata dalla difesa dell’Amministrazione, che la GEMEAZ CUSIN, titolare della certificazione di qualità, avrebbe avuto i requisiti per poter svolgere anche da sola l’intero servizio, rilevando in questa sede solo il fatto che l ’offerta di gara sottoposta all’esame della commissione giudicatrice prevedeva una cooperazione con la società COSARSE che, come detto, è priva di tale certificazione.

Per quanto sopra, quindi, deve ritenersi illegittima l’attribuzione alla controinteressata del punteggio aggiuntivo.

Ne segue che l’appalto si sarebbe dovuto aggiudicare all’odierna ricorrente (che ha conseguito 80 punti) in quanto, per effetto della diminuzione di punteggio conseguente al mancato possesso della richiesta certificazione, l’ATI aggiudicataria avrebbe dovuto conseguire 77 punti anziché 87.

Di qui, assorbita ogni altra censura, l’accoglimento del ricorso e l’annullamento, per l’effetto, degli atti impugnati”.

Come è noto, la violazione delle regole che presiedono alla corretta conduzione delle procedure ad evidenza pubblica viene ascritta allo schema astratto dell'illecito aquiliano.

Si deve conseguentemente ritenere risarcibile anche l'interesse positivo e, cioè, nella voce relativa al lucro cessante, la perdita del guadagno (o della sua occasione) connesso all'esecuzione del contratto (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27 ottobre 2003, n. 6666).

Occorre distinguere la fattispecie in cui il ricorrente riesce a dimostrare che, in mancanza dell'adozione del provvedimento illegittimo, avrebbe vinto la gara dai casi in cui non è possibile acquisire alcuna certezza su quale sarebbe stato l'esito della procedura in mancanza della violazione riscontrata.

Nella prima ipotesi (che è quella qui esaminata tenuto conto del giudicato formatosi sulla sentenza n. 656/03) spetta, evidentemente, all'impresa danneggiata un risarcimento pari ad una percentuale dell'utile che effettivamente avrebbe conseguito ove fosse risultata aggiudicataria, ferma restando la possibilità di conseguire una somma superiore, in presenza della dimostrazione che il margine di utile sarebbe stato maggiore di quello presunto.

Sul quantum del risarcimento vanno richiamati principi più volte espressi da questa Sezione che qui si ribadiscono integralmente (ex multis, T.a.r. Sardegna, 25 settembre 2014, n. 757).

In sede di determinazione del quantum risarcitorio, esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, non essendo oggetto di applicazione automatica e indifferenziata, è necessaria la prova, a carico dell'impresa, della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, prova desumibile in primis dall'esibizione dell'offerta economica presentata; tale principio trova, infatti, conferma nell'art. 124 del codice del processo amministrativo che, nel rito degli appalti, prevede il risarcimento del danno subito e provato.

Sulla base di tutti gli elementi sopra descritti si può statuire mediante ricorso all’art art. 34, comma 4, c.p.a. stabilendo i criteri (basati su pacifica giurisprudenza anche di questa Sezione) che l’Amministrazione dovrà seguire per la determinazione del quantum del risarcimento.

In particolare, la stazione appaltante dovrà:

1) attenersi all'offerta economica presentata dalla ricorrente in sede di gara;

2) determinare il margine di guadagno che residua dopo l'applicazione del ribasso indicato in sede di gara;

3) determinare una riduzione in via equitativa in misura pari al 50% dell'utile (comunque non superiore al 10% del corrispettivo) che effettivamente essa avrebbe conseguito, ove fosse risultata aggiudicataria ab initio tenuto conto che con riferimento alla quantificazione del danno per l'illegittima mancata aggiudicazione dell'appalto, è necessaria la prova di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa; in difetto di tale dimostrazione (come è qui accaduto), che compete all'impresa fornire, è da ritenere che l'impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità;

4) quanto alla risarcibilità del danno all’immagine, avanzata dalla ricorrente, da intendersi come richiesta di danno curriculare, anche tale domanda va accolta; la giurisprudenza (ex multis Consiglio di Stato sez. VI 18 marzo 2011, n. 1681) afferma infatti in modo concorde che l'esecuzione di un appalto pubblico, anche a prescindere dal lucro derivante dal corrispettivo pagato dalla stazione appaltante, può essere comunque fonte per l'impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la sua capacità di competere sul mercato e quindi la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti (sul danno curriculare vanno condivisi in particolare i principi espressi dal Consiglio di Stato nella sentenza della Sez. VI, 4 settembre 2015, n. 4115). Il danno da perdita di qualificazione può essere calcolato in proporzione della somma già liquidata a titolo di lucro cessante, secondo una percentuale destinata a variare in considerazione dell'importanza dell'appalto illegittimamente aggiudicato ad altra impresa; nel caso di specie, il Collegio stima equo riconoscere una somma pari al 3% di quanto liquidato a titolo di lucro cessante: alla somma quantificata come al punto precedente va quindi aggiunta la predetta percentuale a titolo di danno curriculare.

Trattandosi di debito di valore, alla ricorrente spetta anche la rivalutazione monetaria dal giorno della stipulazione del contratto da parte della ditta illegittima aggiudicataria fino alla pubblicazione della presente sentenza, a decorrere dalla quale, in forza della liquidazione giudiziale, il debito di valore si trasforma in debito di valuta.

Sulla somma totale, calcolata secondo le indicazioni fatte sopra, andranno computati gli interessi legali dalla data del deposito della presente sentenza sino all'effettivo soddisfo (giurisprudenza pacifica, il che esime da citazioni particolari).

Va precisato che non possono entrare a far parte delle componenti della somma da risarcire le spese sostenute per la partecipazione alla procedura concorsuale.

Il danno emergente, consistente nelle spese sostenute per la partecipazione ad una gara d'appalto, non è risarcibile, in favore dell'impresa che lamenti la mancata aggiudicazione dell'appalto (o anche la sola perdita della relativa chance). E’ pacifico che la partecipazione alle gare pubbliche di appalto comporta per le imprese costi che, di norma, restano a carico delle imprese medesime sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione. Detti costi di partecipazione si colorano come danno emergente solo se l'impresa illegittimamente esclusa lamenti questi profili dell'illegittimità procedimentale, perché in tal caso viene in considerazione soltanto la pretesa risarcitoria del contraente che si duole del fatto di essere stato coinvolto in trattative inutili. Tali danni, peraltro, vanno, in via prioritaria e preferenziale, ristorati in forma specifica, mediante rinnovo delle operazioni di gara e, solo ove tale rinnovo non sia possibile, vanno ristorati per equivalente. Nel caso in cui l'impresa ottenga il risarcimento del lucro cessante per mancata aggiudicazione (o per la perdita della possibilità di aggiudicazione) non vi sono i presupposti per il risarcimento per equivalente dei costi di partecipazione alla gara, atteso che mediante il risarcimento non può farsi conseguire all'impresa un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall'aggiudicazione (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 12 aprile 2013, n. 1999).

Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va accolto, sussistendo l'obbligo del Comune intimato di risarcire alla ricorrente entro 60 giorni (sessanta) dalla notificazione della presente sentenza o dalla comunicazione se anteriore, la somma che sarà determinata con i suddetti criteri, ai sensi dell'art. 34, comma 4, c.p.a.

Le spese seguono la regola della soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, così decide:

1) accoglie la domanda risarcitoria nei sensi e nei limiti di quanto esposto in motivazione e per l’effetto condanna l'amministrazione resistente a risarcire il danno e ordina alla stessa ai sensi dell’art. 34 comma 4 del d.lgs. 104 del 2010 di proporre alla ricorrente il pagamento di una somma di denaro entro il termine ed in base ai criteri indicati in motivazione.

2) condanna l'Amministrazione al pagamento delle spese processuali in favore della ricorrente che liquida in complessivi Euro 2.000,00 (duemila/00) oltre accessori di legge e restituzione contributo unificato.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Cagliari nella camera di consiglio del giorno 23 marzo 2016 con l'intervento dei magistrati:

Caro Lucrezio Monticelli, Presidente

Grazia Flaim, Consigliere

Gianluca Rovelli, Consigliere, Estensore