Sommario: 1. Premessa; 2. La concorrenza tra diritto dell’Unione europea e diritto nazionale secondo l’esegesi della Corte costituzionale; 3. Cenni sull’evoluzione della teoria economica della concorrenza e del ruolo dello Stato: fallimenti del mercato e fallimenti del settore pubblico; 4. Brevi riferimenti alla nozione di servizio pubblico nell’ordinamento nazionale ed in quello europeo; 5. Concorrenza e servizi pubblici nell’ordinamento europeo; 6. L’evoluzione della normativa nazionale in materia di servizi pubblici in chiave di promozione della concorrenza; 6.1. Il referendum abrogativo del giugno 2011 ed i rapporti tra principi europei e principi nazionali in tema di gestione dei servizi pubblici; 7. Concorrenza e servizi pubblici de jure condito e de jure condendo: il d.lgs. n. 175/2016 e lo schema di decreto legislativo in materia di servizi pubblico locali di interesse economico generale; 8. Conclusioni.

 

 

 

1. Premessa.

Un’analisi a compartimenti stagni della nostra carta costituzionale e del Trattato sull’Unione europea ci consegna nozioni disallineate di concorrenza, sicché per favorire un processo di convergenza dell’individuazione della nozione a livello nazionale e sovranazionale risulta inevitabile procedere ad una lettura storica[1]. Ossia adottare un approccio che consenta di apprezzare come la nozione giuridica di concorrenza sia mutata nel tempo, da un lato, sulla scorta del mutare delle teorie economiche e delle esperienze economiche, dall’altro, in ragione degli evidenti tentativi di utilizzare la leva del diritto per influire sulle sorti dell’economia.

La rappresentazione delle ragioni del passato consente non solo di comprendere l’esatta portata del ruolo riconosciuto alla concorrenza in relazione ai valori perseguiti nel nostro ordinamento multilivello, ma anche di parametrare e giudicare la correttezza delle scelte operate dal legislatore nazionale nel promuovere la concorrenza in un settore particolare quale quello dei servizi pubblici.

Le insidie della presente indagine, anche in sede di mera formulazione dei presupposti della stessa, sono, peraltro, molteplici e le più significativi sono da individuare: a) nella stessa perimetrazione del suo oggetto, giacché anche la nozione di servizio pubblico risulta di non agevole formulazione; b) nell’intervenire in un momento di transizione a livello legislativo, giacché l’esile trama della disciplina nazionale attualmente in vigore dovrebbe essere sostituita da un “Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale”, che attende il via libera definitivo del Consiglio dei Ministri.

 

2. La concorrenza tra diritto dell’Unione europea e diritto nazionale secondo l’esegesi della Corte costituzionale.

Il modello ideologico alla base della nostra Costituzione disegnato dagli artt. 41 e 43 tutela la libertà economica soggettiva, prevede la possibilità di una regolazione amministrativa correttiva delle distorsioni del mercato e consente l’esistenza di monopoli pubblici regolati. Secondo questo primo disegno la concorrenza non rappresenta una condizione da soddisfare ad ogni costo, poiché la tutela dell’interesse pubblico viene perseguita attraverso la regolazione o, al più, la previsione di un monopolio regolato. Nel recinto di quella che viene definita la Costituzione economica[2] viene, quindi, dato spazio ad istanza di matrice diversa, e la concorrenza non viene posta in primo piano, restando sullo sfondo, quale condizione possibile dell’economia.

Quest’impostazione risulta superata con l’istituzione della Comunità europea, che persegue il mantenimento di una condizione di concorrenza tra le imprese appartenenti agli Stati membri quale obiettivo fondamentale, al fine di creare un mercato unico europeo, attraverso la piena attuazione delle libertà economiche fondamentali. Pertanto, il fine della creazione di un mercato unico viene accompagnato da quello del mantenimento di una condizione di concorrenza tra le imprese.

L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, però, comporta la riformulazione dell’art. 3 del Trattato sull’Unione europea che non cita più come obiettivo fondamentale dell’Unione una “concorrenza non falsata[3]. Infatti, il par. 3 del citato art. 3, dispone che: “L'Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico”. La nuova formulazione sottende l’idea che la concorrenza non possa rappresentare un valore in sé, quanto uno strumento per il soddisfacimento di finalità sociali[4], promuovendo quale riferimento teorico quello della “economia sociale di mercato”. Una via mediana tra le ali del liberismo estremo e del dirigismo economico, ossia tra un’impostazione che ritiene debba essere salvaguardata la capacità del mercato di autoregolarsi e quella che assegna al decisore pubblico il compito di influenzare in profondità i fenomeni economici.

Gli esiti di una riflessione così matura mancano all’apparenza a livello nazionale. Infatti, l’ultimo intervento del legislatore nazionale (l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3) sulla nostra carta costituzionale si limita ad inserire la tutela della concorrenza all’interno delle materie di legislazione esclusiva statale. La disposizione contenuta nell’art. 117 cost. individua, quindi, la concorrenza quale bene meritevole di tutela da parte dello Stato, senza specificarne ulteriormente il significato. Un deficit che viene colmato attraverso l’interpretazione del giudice delle leggi.

Così, la Corte costituzionale già a partire dalla sentenza n. 14/2004, precisa che: “proprio l'aver accorpato, nel medesimo titolo di competenza, la moneta, la tutela del risparmio e dei mercati finanziari, il sistema valutario, i sistemi tributario e contabile dello Stato, la perequazione delle risorse finanziarie e, appunto, la tutela della concorrenza, rende palese che quest'ultima costituisce una delle leve della politica economica statale e pertanto non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell'accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali”. La Corte nel delimitare la competenza legislativa statale e quella regionale assegna allo Stato la tutela della concorrenza in chiave macroeconomica, riservando alle Regioni possibilità di intervento in ambito microeconomico, purché non contrastanti con le scelte statali. Pertanto, allo Stato viene riconosciuto dalla Corte Costituzionale (Corte cost., n. 272/2004) non solo il compito di tutela della concorrenza, intesa quale materia trasversale (Corte cost., n. 443/2007), ma anche di sua promozione. Rispetto a ciò la Corte ha ribadito la possibilità di verifica del rispetto dei parametri di costituzionalità in termini di proporzionalità ed adeguatezza da parte del legislatore ordinario (Corte cost., n. 175/2005).

La promozione della concorrenza rappresenta, quindi, uno dei due corni, assieme alla tutela in senso stretto, nel quale si articola l’ambito di intervento del legislatore statale. Sicché quest’ultimo può adottare misure, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l'apertura, eliminando barriere all'entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, in generale i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche. In tale maniera, vengono perseguite finalità di ampliamento dell'area di libera scelta sia dei cittadini, sia delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (Corte cost., n. 430/2007; Id., n. 124/2014). Pertanto, tra le misure utilizzabili dal legislatore ordinario per promuovere la concorrenza vi sono quelle tese a promuovere la concorrenza “nel mercato” e “per il mercato” (Corte cost., n. 200/2012), al fine di assicurare la salvaguardia della concorrenza sia in senso statico attraverso interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, sia in senso dinamico attraverso misure pubbliche volte a ridurre gli squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali (Corte cost., n. 299/2012).

La convergenza tra la nozione di concorrenza utilizzata dall’art. 117 cost. e quella operante in ambito europeo è assunta dalla giurisprudenza costituzionale come un elemento costante sia prima che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (Corte cost., n. 291/2012). A ben vedere, però, la Corte non ha occasione di confrontarsi con quell’indirizzo fatto proprio dal Trattato di Lisbona che afferma la centralità dell’economia sociale di mercato. Ed infatti, il giudice delle leggi nel precisare la portata del principio della liberalizzazione delle attività economiche, quale corollario del principio di promozione della concorrenza precisa che il primo può trovare limitazione solo nella tutela di interessi di rango costituzionale o in contrasto con l’utilità sociale (Corte cost., n. 46/2013, 65/2013). Un approccio quest’ultimo che merita di essere ulteriormente approfondito per ciò che concerne la materia dei servizi pubblici, al fine di comprendere se possa dirsi raggiunto un punto di equilibrio simile a quello operante a livello europeo, pur non valorizzando espressamente il dettato dell’art. 3, par. 3, TUE.

Appare, infatti, che il rapporto tra concorrenza e diritti fondamentali a livello nazionale venga declinato in chiave oppositiva, nel senso che i secondo rappresentano un limite per l’attuazione della prima. Mentre a livello europeo risulta che sia la prima a poter essere impiegata in chiave pretensiva per la realizzazione dei secondi.

 

3. Cenni sull’evoluzione della teoria economica della concorrenza e del ruolo dello Stato: fallimenti del mercato e fallimenti del settore pubblico.

I principi sopra enunciati rappresentano il punto di arrivo sul piano giuridico di un lungo percorso che trae impulso dalla scienza economica, dal momento che quest’ultimo, sia pure in termini di scelta politica, fotografa in relazione al tema della nostra indagine le acquisizioni che le teorie economiche raggiungono in ordine al rapporto tra Stato e mercato. L’idea che lo Stato dovesse perseguire il fine di assicurare la concorrenza tra gli operatori economici si deve com’è noto ad Adam Smith che nel 1776 nel volume: “La ricchezza delle nazioni”, teorizzo l’idea che la concorrenza spingerebbe gli individui nel perseguire il loro fine a perseguire anche il fine pubblico, come mosso da una mano invisibile. L’incontro tra offerta e domanda non condizionato da interventi statuali e spinto dalla ricerca del profitto delle imprese, da un lato, consentirebbe all’imprenditore di sviluppare nuovi processi produttivi in grado di produrre un dato bene a costi inferiori; dall’altro, al consumatore di ottenere quel dato bene ad un prezzo inferiore, così favorendo il progresso economico-sociale e premiando, al contempo, l’interesse dei consociati.

La storia (basti pensare alle crisi del 1930 e del 2008) ci ha insegnato che il libero mercato non consente sempre di raggiungere i risultati sopra descritti, sicché lo Stato non può abdicare all’idea di operare scelte che incidono sull’economia[5]. Ciò ha favorito il diffondersi di un modello di economia mista, che secondo differenti gradazioni vede il mercato influenzato oltre che dalle decisioni di imprese e famiglie anche da quelle dello Stato. Il criterio per valutare l’efficienza del mercato è stato individuato nel cd. ottimo paretiano, secondo il quale gli interventi efficienti sono quelli che consentono di modificare una data allocazione delle risorse, migliorando la situazione di qualcuno senza peggiorare al contempo quella di un altro. Pertanto, ogni intervento che possa condurre ad un miglioramento paretiano si ritiene vada nella direzione di assicurare l’efficienza del mercato.

Accade, però, che il mercato non sempre sia in grado di raggiungere da solo situazioni nelle quali si realizza l’ottimo paretiano. Ciò può dipendere da diversi fattori[6], quali: a) insufficiente concorrenza, tale da non far ritenere che alcuna impresa possa influenzare il prezzo del prodotto; b) l’esistenza di beni pubblici[7] che il mercato non produce; c) esternalità negative, ossia quelle azioni di un individuo o di un’impresa che impongono un costo ad altri; d) mercati incompleti, nel senso che i mercati privati non offrono in misura sufficiente un bene o un servizio; e) carenza di informazioni; f) elevata disoccupazione o inflazione.

Nelle ipotesi sopra elencate l’intervento dello Stato viene ammesso per favorire il ristabilimento di una situazione di ottimo-paretiano, ossia di efficienza del mercato. Ciò nonostante l’intervento pubblico può essere motivato anche da due altre ragioni, ossia la redistribuzione del reddito e la diffusione dei cd. beni meritori. In queste due ipotesi l’intervento pubblico fa sì che vi sia una riduzione dell’efficienza del mercato a favore dell’equità.

Non vi è dubbio che la formula utilizzata dall’art. 3 del TUE legittimi l’intervento da parte dello Stato e degli organi dell’Unione europea in ognuno dei casi sopra analizzati, giacché la formula ivi utilizzata individua la situazione concorrenziale non come fine, ma come strumento.

Tanto premesso, in ordine ai casi nei quali l’intervento dello Stato è auspicabile, va precisato che i fallimenti del mercato non giustificano di per sé la produzione pubblica, a meno che non possano realizzarsi le condizioni per un mercato di concorrenza perfetta ovvero le particolari dimensioni dell’interesse pubblico suggeriscano che la produzione di quel determinato bene o servizio sia affidata allo Stato. Pur in presenza delle cennate condizioni vi possono essere condizioni che rappresentano argomenti contrari rispetto alla produzione pubblica, potendo il settore pubblico risultare inefficiente.

La più rilevante inefficienza del mercato che conduce all’intervento pubblico si verifica quando il mercato non è concorrenziale. Ovvero quando l’efficienza economica richiede la presenza di un numero limitato di imprese, in ragione del fatto che il costo medio di produzione diminuisce all’aumentare della quantità prodotta. Esempio tipico è quello dell’erogazione dell’acqua. La realizzazione delle tubature rappresenta il costo più rilevante, sicché una volta affrontato il costo aggiuntivo legato all’erogazione dell’acqua ad un ulteriore individuo risulta irrilevante. Si ha in questo caso un’ipotesi di monopolio naturale[8], che può essere a gestione pubblica, nel qual caso tendenzialmente gli Stati impongono di operare collocando il prezzo del prodotto ad un livello che eguagli il costo medio di produzione, ossia senza profitto. Nel caso in cui il detto monopolio naturale non sia pubblico[9], lo Stato in genere eroga una sovvenzione che consenta all’impresa privata di ottenere un profitto ed interviene attraverso forme di regolazione, al fine di impedire al monopolista di avvantaggiarsi della propria posizione ed imporre un prezzo elevato.

Qualora la produzione di un bene o di un servizio sia in capo allo Stato, la mancanza dell’obiettivo del profitto può, però, portare al radicarsi di fonti di inefficienza, quali: a) l’assenza del rischio di fallimento, dal momento che il bilancio delle imprese pubbliche viene ripianato dallo Stato; b) le restrizioni nelle politiche del personale, sia con riferimento alla possibilità di punire che di premiare i dipendenti; c) il costo delle procedure utilizzate al fine di evitare la spendita erronea di risorse pubbliche.

Il tentativo di superamento di queste fonti di inefficienza è affidato, com’è noto, a fenomeni di privatizzazione formale ossia di adozione da parte di soggetti pubblici di strumenti e vesti tipicamente privatistiche, che vanno dalla trasformazione in società per azioni delle imprese pubbliche all’adozione della disciplina privatistica per il rapporto di impiego. Ovvero a fenomeni di privatizzazione sostanziale, che comportano il ritiro dello Stato dal mercato.

Il consenso raggiunto attorno all’idea che lo Stato debba ritirarsi dall’ambito della produzione di un bene privato, lascia, però, in primo piano la questione fondamentale del ruolo dello Stato nella produzione dei beni pubblici e della possibilità, nonché dei limiti dell’eventuale affidamento della produzione anche di quest’ultimi ad imprese private.

 

4. Brevi riferimenti alla nozione di servizio pubblico nell’ordinamento nazionale ed in quello europeo.

La nozione di servizio pubblico risulta a dir poco sfuggente, tanto da risultare difficile delimitarne in astratto confini, che offrano un riferimento ulteriore rispetto all’idea di un compito di interesse generale, cui sia preposto un soggetto pubblico o privato[10]. Questo è il frutto della nota contrapposizione tra la cd. teoria soggettiva del servizio pubblico e la cd. teoria oggettiva del servizio pubblico. La prima includeva nella nozione quelle attività, svolte da soggetti pubblici o da concessionari privati, diverse da quella autoritative e caratterizzate dalla prestazione di utilità materiali rese in favore della collettività. Pertanto, i dati caratterizzanti venivano individuati nella gestione diretta o indiretta del servizio da parte di un soggetto pubblico e nella destinazione delle prestazioni a favore della collettività.

Una diversa e successiva teoria evidenzia la connotazione oggettiva del servizio pubblico[11]. Si elimina in questo modo il legame di corrispondenza tra soggetto erogatore e natura dell’attività e si pone in luce la dimensione oggettiva dell’attività e la sua capacità di corrispondere ad un interesse generale, anche grazie alla previsione di programmi e di controlli pubblici. In questo senso si valorizza il portato dell’art. 43 cost., che lascia intendere che un’attività possa essere ricondotta nell’ambito del servizio pubblico anche prima della riserva e del trasferimento di impresa alla mano pubblica.

Quest’ultima teoria è stata a sua volta sottoposta a critica[12] per l’ampia latitudine di attività ricondotte in questo modo nel paradigma del servizio pubblico, che non consente di sceverare quest’ultimo da quelle attività economiche oggetto di mera programmazione. Da qui il tentativo di precisare che le attività riconducibili nel novero dei servizi pubblici si caratterizzerebbero per la presenza di poteri ulteriori rispetto a quelli meramente programmatori.

Il dibattito sulla nozione di servizio pubblico ha avuto un ulteriore impulso con l’entrata in vigore della l. n. 142/1990, il cui art. 22 (poi ripreso dall’art. 112, T.U. n. 267/2000) rappresenta il primo intervento legislativo organico dopo la disciplina di municipalizzazione dei servizi contenuta nella l. 103/1903. La norma in questione, pur non dettando una definizione di servizio pubblico, contiene il riferimento al fatto che, da un lato, l’imputazione dell’attività è in capo ad un soggetto pubblico; dall’altro, che le attività in questione debbano essere rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali. Permangono, quindi, elementi sia tipicamente soggettivi attraverso l’assunzione da parte dell’ente pubblico del servizio sia oggettivi nella misura in cui si evidenzia l’elemento teleologico dell’attività ed i destinatari della stessa.

Il diritto europeo, dal canto suo, distingue i SIEG («servizi di interesse economico generale») dai SIG («servizi di interesse generale»): questi ultimi ricomprendono, oltre ai SIEG, anche i servizi che non sono suscettibili di essere gestiti esclusivamente in regime di impresa e che attengono ai bisogni primari del cittadino (quale, ad esempio, scuola, sanità, assistenza sociale).

Nel Libro verde della Commissione europea del 21 maggio 2003 ai paragrafi 16 e 17, si rileva che: «L’espressione “servizi di interesse generale” non è presente nel Trattato, ma è derivata nella prassi comunitaria dall’espressione “servizi di interesse economico generale” che invece è utilizzata nel Trattato. È un’espressione più ampia di “servizi di interesse economico generale” e riguarda sia i servizi di mercato che quelli non di mercato che le autorità pubbliche considerano di interesse generale e assoggettano a specifici obblighi di servizio pubblico […]».

In sostanza, dal riferimento alla nozione positiva di «servizio di interesse economico generale» contenuto in alcune norme del Trattato, si è giunti ad enucleare la più ampia nozione di «servizio di interesse generale», formalmente assente. La norme contenute nei trattati non ci consegnano una definizione di SIEG, ma pongono l’accento sulla specifica missione che caratterizza le dette attività (art. 106, par. 2, TFUE), sul loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale (art. 14 TFUE), sull’esigenza di perseguire un alto livello di qualità sicurezza e accessibilità economica, sull’accesso universale e sui diritti degli utenti (art. 1 Protocollo n. 26 al TFUE). Elemento rilevatore del carattere di servizio di interesse economico generale è a giudizio della giurisprudenza della Corte di Giustizia[13], la circostanza che gli stessi siano assoggettati ad obblighi di servizio pubblico, tanto in ragione del fatto che in mancanza di espressione prescrizioni in capo all’operatore economico quel tipo di servizio non sarebbe erogato o lo sarebbe con modalità diverse.

 

5. Concorrenza e servizi pubblici nell’ordinamento europeo.

All’interno dell’ordinamento europeo la massima spinta verso l’introduzione della libera concorrenza nel settore dei servizi pubblici si è avuta nel corso dell’ultimo decennio del secolo scorso, quando si è data piena attuazione alle disposizioni oggi traslate nell’art. 106 TFUE. Pertanto, esclusi quei servizi di interesse generale sottratti a fenomeni di liberalizzazione e di privatizzazione per i quali come sottolinea il Protocollo n. 26 al Trattato di Lisbona: “Le disposizioni dei trattati lasciano impregiudicata la competenza degli Stati membri a fornire, a commissionare e ad organizzare servizi di interesse generale non economico”, si è avuta in quegli anni un’accelerazione del processo di apertura al mercato. I fattori propulsivi di questo percorso possono essere individuati: a) nell’affermarsi di una tendenza politico-economica di stampo liberista; b) nella previsione di strumenti di tutela giurisdizionale ed a livello di Authorities a favore degli utenti; c) nell’evoluzione organizzativa e tecnica che ha condotto a poter separare l’aspetto gestionale da quello inerente alla proprietà delle reti.

L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona sposta l’asse di attrazione del fenomeno dei servizi di interesse economico generale, che non può più dirsi esclusivamente centrato sull’attuazione del regime di concorrenza con l’eventuale deroga degli obblighi di servizio pubblico rispetto ai quali è stata ritagliata la nozione di servizio universale[14], quale riconoscimento di un’ipotesi di fallimento del mercato. Infatti, il protocollo n. 26 al Trattato di Lisbona pone l’accento non sul regime concorrenziale dei servizi in questione, quanto sui valori comuni dell’Unione, individuandoli: a) nel ruolo essenziale e l'ampio potere discrezionale delle autorità nazionali, regionali e locali di fornire, commissionare e organizzare servizi di interesse economico generale il più vicini possibile alle esigenze degli utenti; b) nella diversità tra i vari servizi di interesse economico generale e le differenze delle esigenze e preferenze degli utenti che possono discendere da situazioni geografiche, sociali e culturali diverse; c) nell’alto livello di qualità, sicurezza e accessibilità economica, parità di trattamento e promozione dell'accesso universale e dei diritti dell'utente.

Il cd. trade off tra diritto pubblico e mercato non resta, quindi, confinato al mero obbligo di servizio pubblico, inteso quale salvaguardia del servizio universale, ma apre a favore del primo. Da ciò deriva che, sebbene non possa parlarsi di un ritorno al passato che giustifichi l’illimitato intervento pubblico da parte dello Stato, si pone l’accento sulla necessità che la disciplina dei servizi di interesse economico generale valorizzi il loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, principio contenuto anche nell'art. 36 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (Nizza, 7 dicembre 2000). Si tratta di un mutamento non marginale, se letto alla luce della nuova formulazione dell’art. 3 TUE.

 

6. L’evoluzione della normativa nazionale in materia di servizi pubblici in chiave di promozione della concorrenza.

La l. 142/1990 rappresenta la prima disciplina generale dedicata ai servizi pubblici locali che guarda al mercato. La disposizione, infatti, conteneva una timida apertura alla concorrenza, prevedendo che il servizio in questione potesse essere gestito da società a capitale misto pubblico-privato. Nel panorama degli strumenti disegnato dal legislatore, l’apertura alla concorrenza sia pure nelle forme della società mista rappresentava, nella formulazione risultante dalle modifiche della l. 127/1997, un’ipotesi tra quelle riconosciute all’ente locale, percorribile qualora “opportuna in relazione alla natura o all'ambito territoriale del servizio la partecipazione di più soggetti pubblici o privati”.

Passi in avanti vengono fatti registrare dall’art. 35, l. n. 448/2002, nel modificare gli artt. 113 e 114 d.lgs. 267/2000, per i servizi avente contenuto industriale, quali la possibilità di gestione separata della rete ed alcuni limiti di operatività in capo alle società affidatarie di un precedente servizio. Un passo indietro è rappresentato, invece, dalle modifiche portate dapprima dal d.l. n. 269/2003, quindi, dalla l. 350/2004, all’art. 113 d.lgs. 267/2000, in particolare al comma 5. La norma, infatti, veniva strutturata nel senso di lasciare libertà all’ente locale di affidare il servizio a privati mediante gara, ovvero affidarlo in via diretta ad una società mista o, infine, affidarlo in via diretta in house. Quest’impostazione dava spazio a critiche, non solo per la scelta non concorrenziale operata dal legislatore, ma anche per la compromissione del punto di equilibrio tra l’azione amministrativa e la libera concorrenza, giacché all’ente locale in questo modo è stata data la possibilità di mantenere la gestione diretta del servizio nelle forme dell’affidamento in house attraverso enti societari spogliandosi in tal modo della responsabilità politica dei risultati del servizio[15]. Gli effetti di questa impostazione sono stati in parte mitigati dall’esegesi della Corte di Giustizia, a partire dal caso Teckal, che ha ristretto in modo sensibile l’ipotesi di affidamenti in house[16].

Un’ulteriore lesione del principio di concorrenza veniva rinvenuto nella regola dell’affidamento diretto a società mista nella quale la scelta del socio sia pure con gara poteva essere sganciata dalla particolare natura del servizio ed, inoltre, l’affidamento del servizio poteva avere durata particolarmente lunga. Le suddetta criticità sono state superate com’è noto con l’introduzione della gara a doppio oggetto, che ha consentito di scegliere il socio anche in ragione del servizio erogato, istituendo un rapporto sociale di pari durata rispetto a quello dell’affidamento del servizio.

Un limite alla possibile rendita di posizione in capo agli affidatari diretti del servizio è stato introdotto con l’art. 13, d.l. 223/2006, che nella sua versione definitiva, però, non si applica ai servizi pubblici locali. La norma, espressione del timore che i vantaggi maturati al di fuori del mercato concorrenziale possano finire per distorcere il mercato stesso, esclude che le società, a capitale interamente pubblico o misto possano svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, in affidamento diretto o con gara, o che possano partecipare ad altre società o enti aventi sede nel territorio nazionale.

Una vera e propria svolta deve registrarsi con l’introduzione dell’art. 23-bis, d.l. 112/2008, modificato dall’art. 15, d.l. 135/2009, che affermava in modo perentorio che i servizi pubblici locali di rilevanza economica dovevano essere affidati in via ordinaria attraverso il ricorso al mercato. Ossia attraverso una procedura di evidenza pubblica tesa ad individuare il gestore del servizio ovvero attraverso gara pubblica a doppio oggetto tesa ad individuare il socio privato di società mista. Rispetto a queste due ipotesi ordinarie, il cd. affidamento in house era utilizzabile per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato. A garanzia del suddetto precetto l'ente affidante era onerato di dare adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un'analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorità garante della concorrenza e del mercato per l'espressione di un parere preventivo, da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione.

La nuova disciplina agiva anche sul piano della limitazione degli ulteriori e potenziali effetti distorsivi del mercato discendenti dall’affidamento diretto. Infatti, il comma 9 del citato art. 23-bis, prevedeva che le società gestori del servizio in virtù di affidamento diretto non potessero acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, né svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, né direttamente, né tramite loro controllanti o altre società che siano da essi controllate o partecipate, né partecipando a gare.

L’impatto della riforma non riscontrava, però, solo un coro di critiche positive, e si affacciavano in dottrina[17] rilievi di segno negativo in ordine alla possibile contrarietà dell’impianto stesso della riforma con i precetti costituzionali e con quelli contenuti nel TUE, nel TFUE e nella Carta europea dei diritti fondamentali. Si metteva l’accento, in particolare, sulla volontà, fin dal piano programmatico, di anteporre ed assolutizzare il principio della concorrenza rispetto a quello del perseguimento delle missioni di servizio pubblico. Si sottolineava, quindi, non solo un potenziale contrasto con l’art. 43 cost.[18], ma anche con l’art. 3 TUE, gli artt. 14 e 106 TFUE, nonché con l’art. 36 Carta europea dei diritti fondamentali.

Il percorso sin qui delineato fa vedere come il nostro ordinamento abbia aperto il settore dei servizi pubblici al mercato con un certo ritardo e, quando lo ha fatto, è quasi andato in controtendenza con le indicazioni provenienti dall’Europa, che ripensavano al mercato concorrenziale non più in senso meramente teleologico, ma piuttosto strumentale.

 

6.1. Il referendum abrogativo del giugno 2011 ed i rapporti tra principi europei e principi nazionali in tema di gestione dei servizi pubblici.

Il radicale mutamento di approccio sul tema dei servizi pubblici locali ha contribuito a canalizzare una riflessione sull’opportunità politica della riforma specie in relazione al servizio idrico integrato. Da qui la formulazione di due quesiti referendari in ordine: a) ai modi di gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, quindi, sul testo dell’art. 23-bis, d.l. 112/2008; b) alla remunerazione del capitale investito attraverso la determinazione della tariffa, ossia sul testo del comma 1 dell’art. 154, d.lgs. 152/2006.

Prima della consultazione referendaria interveniva un’importante pronuncia della Corte costituzionale, la n. 325/2010, che contribuiva in modo fondamentale al coordinamento tra la nozione nazionale di servizio pubblico locale di rilevanza economica e quella europea di servizio di interesse economico generale. La Corte  nell’occasione confrontava le nozioni di servizio pubblico di rilevanza economica e di servizio di interesse economico generale, giungendo alla conclusione che: “entrambe le suddette nozioni, interna e comunitaria, fanno riferimento infatti ad un servizio che: a) è reso mediante un’attività economica (in forma di impresa pubblica o privata), intesa in senso ampio, come «qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato» (come si esprimono sia la citata sentenza della Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione c. Italia, sia le sentenze della stessa Corte 10 gennaio 2006, C-222/04, Ministero dell’economia e delle finanze, e 16 marzo 2004, cause riunite C-264/01, C-306/01, C-354/01 e C-355/01, AOK Bundesverband, nonché il Libro verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003, al paragrafo 2.3, punto 44); b) fornisce prestazioni considerate necessarie (dirette, cioè, a realizzare anche “fini sociali”) nei confronti di una indifferenziata generalità di cittadini, a prescindere dalle loro particolari condizioni (Corte di giustizia UE, 21 settembre 1999, C-67/96, Albany International BV). Le due nozioni, inoltre, assolvono l’identica funzione di identificare i servizi la cui gestione deve avvenire di regola, al fine di tutelare la concorrenza, mediante affidamento a terzi secondo procedure competitive ad evidenza pubblica”.

Tanto premesso le differenze tra le due nozioni venivano individuate nel fatto che l’ordinamento comunitario ammetteva la gestione diretta nel caso in cui l’applicazione delle regole di concorrenza (e, quindi, anche della regola della necessità dell’affidamento a terzi mediante una gara ad evidenza pubblica) ostacolasse, in diritto od in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico. Il giudice delle leggi precisava, quindi, che la scelta del legislatore nazionale di vietare l’affidamento diretto ricadeva nell’ambito di quella sfera di discrezionalità consentita dall’ordinamento comunitario anche nella parte in cui l’allora vigente art. 23-bis, restringeva le ipotesi di ricorso all’affidamento in house. Tanto premesso, la Corte chiariva, altresì, che la sfera di autonomia privata e la concorrenza non ricevevano dall’ordinamento una protezione assoluta e potevano subire limitazioni necessarie per il soddisfacimento di interessi costituzionalmente rilevanti nei limiti in cui ciò rappresenti la sola misura in grado di assicurarne la tutela.

Ulteriore notazione fondamentale operata dalla Corte poneva in luce come la rilevanza economica del servizio fosse del tutto sganciata dall’apprezzamento soggettivo dell’ente pubblico. Pertanto, anche per i servizi ancora da immettere nel mercato la rilevanza economica doveva intendersi discendesse dal fatto che: a) l’immissione del servizio possa avvenire anche in un mercato meramente potenziale; b) l’esercizio dell’attività avvenga con metodo economico, ossia possa essere svolta in vista almeno della copertura dei costi.

La Corte costituzionale con la pronuncia n. 26/2011 in sede di giudizio di ammissibilità referendaria confermava che i quesiti referendari non si ponevano in contrasto con il diritto dell’Unione europea, dal momento che la disciplina di cui al citato art. 23-bis, aveva introdotto una disciplina non imposta dal diritto dell’Unione, andando oltre l'assetto concorrenziale minimo inderogabilmente richiesto dal diritto comunitario.

Com’è noto, l’esito positivo del referendum abrogativo comportava l’abrogazione dell’art. 23-bis, la cui disciplina, però, veniva reintrodotta con l’art. 4, d.l. 138/2011. Questa disposizione veniva dichiarata incostituzionale dalla pronuncia n. 199/2012, con la quale il giudice delle leggi aveva modo di chiarire che la disciplina oggetto di sindacato rendeva ancor più remota l’ipotesi dell’affidamento diretto dei servizi, contrastando l’effetto del referendum abrogativo. Infatti, la detta disciplina non solo limitava, in via generale, «l’attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità» (comma 1), analogamente a quanto disposto dall’art. 23-bis (comma 3) del d.l. n. 112 del 2008, ma imponeva l’utilizzo della gara per l’affidamento del servizio al di sopra di una soglia commisurata al valore dei servizi stessi (900.000 euro, nel testo originariamente adottato; ora 200.000 euro, nel testo vigente del comma 13).

Questo effetto si verificava a prescindere da qualsivoglia valutazione dell’ente locale, oltre che della Regione, ed anche – in linea con l’abrogato art. 23-bis – in difformità rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria, che consente, anche se non impone (sentenza n. 325 del 2010), la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, allorquando l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico (art. 106 TFUE), alle sole condizioni del capitale totalmente pubblico della società affidataria, del cosiddetto controllo “analogo” (il controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario deve essere di “contenuto analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante sui propri uffici) ed infine dello svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante.[19]

All’indomani della pronuncia n. 199/2012 della Corte costituzionale sono applicabili i principi dell’Unione Europea che impongono il rispetto della procedura di gara per l’affidamento del servizio, nonché le disposizioni contenute nell’art. 34, d.l. 179/2012, che impone: a) la pubblicità e l’obbligo di motivazione delle decisioni assunte dagli enti locali; b) un termine certo per la scadenza degli affidamenti in atto; c) lo svolgimento di gare d’ambito per i servizi pubblici a rete anche in omaggio a quanto disposto dall’art. 3-bis, d.l. 138/2011.

Da qui la necessità di accertare se l’obbligo di ricorrere alla gara pubblica possa annoverarsi tra quelle regole di concorrenza, la cui applicazione è imposta dal diritto dell’Unione Europea. In dottrina[20], infatti, è stato osservato che l’utilizzo della procedura di evidenza pubblica quale strumento per assicurare l’apertura dei mercati degli appalti pubblici alla concorrenza è un mezzo che assicura il rispetto del principio di non discriminazione delle imprese secondo la nazionalità (art. 12), di diritto di stabilimento e della libertà di prestazione dei servizi. Allo stesso modo la compatibilità dell’affidamento diretto in house non è valutato nella giurisprudenza della Corte di Giustizia alla stregua delle regole di tutela della concorrenza, quali l’art. 106 TFUE, ma appunto degli artt.18, 49 e 56 TFUE.

Pertanto, la disciplina delle procedure di gara garantisce l’imparzialità dell’operare dell’amministrazione ed assicura il rispetto dei detti principi, ma non rientra tra le regole della concorrenza. In questo senso l’impostazione fatta propria dal diritto dell’Unione Europea è di indifferenza rispetto alla gestione diretta del servizio o dell’affidamento dello stesso a terzi, dovendo soltanto essere assicurato che in quest’ultimo caso il servizio deve essere affidato secondo una procedura competitiva. Ciò spiega la piena compatibilità dell’affidamento in house con il rispetto delle libertà economiche fondamentali, dal momento che in quest’ultimo caso non vi è alcun pericolo che le stesse possano essere violate in quanto l’amministrazione autoproduce il servizio.

Diversamente nella lettura offerta dalla Corte costituzionale, come sopra ricordato, si assume che la gestione del servizio debba avvenire ordinariamente mediante l’affidamento del servizio a terzi previa gara, ritenendo eccezionale l’utilizzazione dello strumento dell’in house, ossia consentita solo laddove la missione sottesa al servizio non potrebbe, altrimenti, essere perseguita. Pertanto, il giudice delle leggi finisce per unificare all’interno della categoria delle misure a tutela della concorrenza, oltre alle misure antitrust in senso stretto, sia quelle volte a favorire la concorrenza nel mercato, che quelle volte a favorire la concorrenza per il mercato. Tra queste ultime vi sarebbe la regola che impone l’utilizzo della procedura di gara per l’assegnazione del servizio. Di conseguenza il precetto contenuto nell’art. 106, par. 2 TFUE, viene letto nel senso che il servizio pubblico non può che essere affidato mediante gara pubblica salvo l’eccezione già ricordata. Ciò nonostante si può sollevare più di un dubbio in ordine alla conclusione che la regola che impone l’utilizzo della procedura di evidenza pubblica per l’assegnazione del servizio sia una regola di concorrenza, non potendosi ritenere tale ogni precetto che imponga un confronto competitivo.

L’eventuale adesione ad una conclusione di questo tipo comporterebbe una revisione del riparto legislativo tra Stato e Regioni, in materia di modalità di affidamento dei servizi pubblici locali, ma soprattutto imporrebbe una riflessione politica piena in relazione alla maggiore ampiezza che si dovrebbe riconoscere al legislatore nazionale in ordine al limite entro il quale consentire la gestione diretta dei servizi pubblici locali.

 

7. Concorrenza e servizi pubblici de jure condito e de jure condendo: il d.lgs. n. 175/2016 e lo schema di decreto legislativo in materia di servizi pubblico locali di interesse economico generale.

Gli artt. 16 e 19 della l. 124/2015, hanno delegato al Governo il compito di adottare numerosi decreti legislativi uno dei quali in materia di servizi di interesse economico generale. L’iniziativa vuole così superare un periodo temporale caratterizzato come sopra indicato da una massiccia disorganicità del tessuto normativo.

I criteri direttivi contenuti nell’art. 19 delle legge delega impegnano il legislatore delegato sulla strada già intrapresa in termini di promozione della concorrenza nel mercato e per il mercato, ponendo le basi per una valorizzazione del ruolo degli enti locali e per un’adeguata tutela degli utenti.

Al fine di assicurare una più efficiente gestione dei servizi pubblici locali nell’interesse degli enti locali, degli utenti e delle imprese, si ritiene debbano essere superate criticità, quali: a) la non adeguata qualità del servizio reso in rapporto alle risorse pubbliche investite; b) la presenza di ostacoli alla concorrenza; c) l’assenza di adeguati strumenti di regolazione; d) un tessuto normativo non sufficiente e disorganico; e) la mancanza di congrui strumenti di tutela a favore degli utenti.

L’impatto del testo adottando è direttamente proporzionale al travaglio politico e normativo abbozzato nelle pagine precedenti. In attesa di una sua definitiva adozione è possibile, da un lato, riscontrare alcune anticipazioni all’interno del Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (d.lgs. n. 175/2016); dall’altro, verificare le scelte che il legislatore delegato si appresta ad operare.

Sul primo versante deve rilevarsi che una definizione di SIG e di SIEG è ora stata introdotta dall’art. 2, comma 1, lett. h) ed i), del d.lgs. n. 175/2016. La definizione contenuta nella citata lett. i) ricalca quella contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. a), dello schema di decreto attuativo della delega in materia di servizi pubblici locali. Si tratta di una scelta definitoria in linea con l’ordinamento europeo, fatte salve due precisazioni: a) dal punto di vista oggettivo si àncora la definizione del SIEG alla circostanza che il servizio non sarebbe stato svolto senza intervento pubblico o sarebbe stato svolto a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione qualità e sicurezza; b) si perimetra la nozione di SIEG dal punto di vista soggettivo, prevedendo che sia tale solo quello «assunto», cioè considerato come necessario dagli enti locali per il soddisfacimento dei bisogni delle comunità locali. Risulta evidente il riferimento al Protocollo n. 26 al Trattato, ma solo in parte dal momento che, come sopra ricordato quest’ultimo pone in luce quali valori comuni dell’Unione in materia anche: a) il ruolo essenziale e l'ampio potere discrezionale delle autorità nazionali, regionali e locali di fornire, commissionare e organizzare servizi di interesse economico generale il più vicini possibile alle esigenze degli utenti; b) la diversità tra i vari servizi di interesse economico generale e le differenze delle esigenze e preferenze degli utenti che possono discendere da situazioni geografiche, sociali e culturali diverse. La sensazione è dunque quella che il legislatore italiano abbia optato per una nozione più ristretta di SIEG, che non contrasta con la discrezionalità rimessa dall’Unione Europea ai singoli Stati membri, sindacabile solo nei limiti dell’errore manifesto.

Inoltre, guardando alla disciplina contenuta nell’art. 4, d.lgs. n. 175/2016 ed all’art. 7 dello schema di decreto legislativo in materia di servizi pubblici locali di interesse economico generale emerge con chiarezza la scelta proconcorrenziale operata dal legislatore delegato. Dalla prima norma, infatti, si evince che la costituzione di società pubbliche in materia di SIEG può essere ammessa solo per il caso di autoproduzione di beni o servizi strumentali all'ente o agli enti pubblici partecipanti, nel rispetto delle condizioni stabilite dalle direttive europee in materia di contratti pubblici e della relativa disciplina nazionale di recepimento, restando altrimenti il fine fondamentale delle suddette società quello della produzione di un servizio di interesse generale, ivi inclusa la realizzazione e la gestione delle reti e degli impianti funzionali ai servizi medesimi. Sul punto il legislatore ha ignorato i rilievi operati in sede consultiva dalla Commissione Speciale del Consiglio di Stato nel parere n. 968/2016, che pure aveva evidenziato che: “La lettera a) ammette l’attività diretta alla «produzione di un servizio di interesse generale».

La Commissione speciale rileva come lo schema di decreto abbia omesso di richiamare anche la nozione di «servizio di interesse economico generale».

Il diritto europeo distingue due tipologie di servizi: «servizi di interesse economico generale» e «servizi di interesse generale». I primi sono quelli che presuppongono l’esistenza di un’attività di impresa che si colloca sul mercato ma che, per assicurare la «specifica missione», è conformata da obblighi di servizio finalizzati a garantire determinati standard di prestazione che, in assenza dell’intervento statale regolatorio, non sarebbe garantito dal libero esplicarsi dell’iniziativa di impresa. I secondi, invece, presuppongono lo svolgimento di un’attività che non si colloca sul mercato in quanto finalizzata a garantire bisogni primari del cittadino (cfr., retro, parte I, par. 2).

Entrambi devono rientrare espressamente nel campo applicativo del Testo unico sia perché la legge delega, all’art. 18, comma 1, lettera b), richiama espressamente i «servizi di interesse economico generale», sia perché è lo stesso Testo unico che, al precedente art. 2, lettera i), richiama tale tipologia di prestazioni, dimostrando con ciò di volere mantenere concettualmente separate le due nozioni. Le nozioni in esame devono, inoltre, essere coordinate con quelle impiegate nello schema di decreto sui “servizi pubblici locali di interesse economico generale”. I rilievi ora formulati assumono, ad avviso del Collegio, portata condizionante sub lettera a) dell’art. 4 della legittimità della previsione del decreto”.

La seconda individua quattro opzioni per la gestione del servizio locale di interesse economico generale: 1) affidamento mediante procedura di evidenza pubblica secondo le disposizioni in materia di contratti pubblici;

2) affidamento a società mista il cui socio sia scelto con procedura di evidenza pubblica in ossequio alla disciplina comunitaria ed a quella contenuta nel decreto delegato sulle società partecipate di cui all’art. 18, l. 124/2015; 3) affidamento in house nel rispetto della disciplina comunitaria e di quella in materia di contratti pubblici e di società partecipate; 4) nel caso di servizi diversi da quelli a rete, gestione in economia o mediante azienda speciale. La scelta per la terza o per la quarta opzione non è, però, libera, come pure il diritto dell’Unione europea consentirebbe, ma è condizionata alla verifica in ordine al fatto che il ricorso al mercato non sia vantaggioso, né per i cittadini, né per l’ente locale.

Da un’analisi comparata dei testi legislativi succedutisi nel tempo risulta che:

1) l’art. 23-bis d.l. 112/2008 prevedeva quale presupposto per l’affidamento in house la presenza di «[…] situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato […]»;

2) l’art. 4 d.l. 138/2011 imponeva di verificare la realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, liberalizzando tutte le attività economiche compatibilmente con le caratteristiche di universalità e accessibilità del servizio e limitando, negli altri casi, l'attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risultasse idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità;

3) la definizione di SIEG locale contenuta all’art. 2, lett. a), dello schema di decreto in materia, ricalca quella di cui all’art. 2, comma 1, lett. i) d.lgs. n. 175/2016 e nella misura in cui opta per un’accezione più ristretta della nozione di SIEG rappresenta una norma che attua la concorrenza nel mercato, perché impone una liberalizzazione. Inoltre, il testo del comma 3 dell’art. 7 dello schema di decreto legislativo prevede una formula più articolata che fa leva sul vantaggio in termini economici e qualitativi del servizio per l’utente e per la collettività, che deve essere dimostrato per poter utilizzare la formula dell’in house providing o dell’azienda speciale.

 

8. Conclusioni.

Tanto premesso si possono abbozzare alcune conclusioni in ordine al tentativo del legislatore delegato di valorizzare il ruolo degli enti locali, senza abbandonare la convinzione che la promozione della concorrenza sia imprescindibile in materia.

Sotto un primo profilo, tale scelta sembra rimettere ai singoli enti locali valutazioni molto complesse in ordine alla presenza di situazioni contrarie al ricorso al mercato, che potrebbero non essere adeguatamente dimensionate in relazione alle professionalità a disposizione degli enti locali minori. Il ché apre la possibilità nel caso in cui il compito affidato agli enti locali si riveli troppo gravoso di operare un percorso di nuova centralizzazione, come quando all’indomani dell’introduzione del T.U. 15 ottobre 1925, n. 2578, e il successivo decreto di attuazione d.P.R. n. 602/1926 emersero la difficoltà da parte dei singoli enti locali di organizzare in modo adeguato la gestione dei servizi tecnicamente più complessi. Conseguentemente, il legislatore nazionale, invece di intervenire con una riforma complessiva, provvide surrettiziamente a sottrarre spazio agli enti locali attraverso la nazionalizzazione di alcuni servizi, ad esempio il servizio telefonico, quello di fornitura di energia elettrica, quello ferroviario, ossia i servizi rispetto ai quali la presenza di un bacino d’utenza non coincidente con le dimensioni dell’ente locale aveva impedito a quest’ultimo di reggerne efficacemente il peso. Una strada analoga del resto è stata già percorsa in materia di contratti pubblici, laddove il nuovo codice ha limitato il numero delle stazioni appaltanti.

Sotto un secondo profilo, la nuova disciplina ripropone un’impostazione di promozione della concorrenza, che va in senso contrario rispetto agli esiti referendari, sebbene si muova all’interno della libertà concessa in materia agli Stati membri dal diritto dell’Unione Europea, nella misura in cui considera il mancato ricorso al mercato come extrema ratio.

La promozione della concorrenza nel settore dei servizi pubblici è spinta dall’esigenza di: I) valorizzare la capacità dei soggetti economici di soddisfare le esigenze degli utenti secondo un criterio di efficienza paretiana; II) rimediare ai casi di mala gestione dovute al gap di efficienza nella gestione tra settore pubblico e settore privato; III) contrastare la cd. rent extraction dall’attività delle imprese pubbliche e le politiche clientelari da parte degli operatori politici[21]. Allo stesso tempo i fallimenti del mercato, sopra illustrati, hanno sviluppato un sentimento contrario al ritiro dello Stato da un settore così sensibile quale quello dei servizi pubblici.

Il punto focale della questione è, dunque, nella ricerca di un equilibrio tra l’efficienza, spinta dalla ricerca del

 

[1] La storicità coinvolge la nostra esperienza nel presente come insegna R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, Milano, 1987, 11,

[2] Cfr. ex multis, S. Cassese, La nuova Costituzione economica, Bari, 2011,

[3] Il riferimento alla “concorrenza non falsata” è stato mantenuto in un considerando del Protocollo 27 al TUE.

[4] Sul tema cfr. M. Libertini, Concorrenza, in Enc. dir., Annali (III), Milano, 2010.

[5] Sul tema cfr. G Rossi, Liberalismo, diritto dei mercati e crisi economica, in Riv. Soc., 2013, 749 ss.

[6] Sul tema cfr. J. E. Stiglitz, Economia del settore pubblico, Milano, 2015, 56 ss.

[7] Tra i beni pubblici si individuano i beni pubblici puri, che si caratterizzano per il fatto che il godimenti dei benefici dei beni pubblici da parte di un individuo addizionale non costa nulla e per il fatto che è impossibile o estremamente difficile impedirne la fruizione a qualcuno.

[8] I monopoli naturali possono essere anche a produzione multipla, quando il bene o servizio prodotto non è uniforme, come nel caso del servizio postale, dal momento che il costo del recapito della stessa lettera varia a seconda della destinazione. In quest’ipotesi il servizio in pareggio viene in genere assicurato da un sussidio incrociato, ossia l’utente il cui servizio ha un costo inferiore è chiamato a pagare una somma leggermente superiore per coprire una parte del costo più elevato del diverso servizio.

[9] Non mancano, peraltro, orientamenti teorici (H. Demsetz, G. Stigler), che ritengono che anche nel caso di monopolio naturale a gestione privato lo Stato non dovrebbe intervenire, poiché la perdita associata al prezzo di monopolio sarebbe relativamente piccola.

[10] Cfr. ex plurimis, S. Cattaneo, Servizi pubblici, in Enc. dir., Milano, 1990.

[11] Sul tema cfr. U. Pototsching, I pubblici servizi, Padova, 1964.

[12] Cfr. E. Scotti, Il pubblico servizio tra tradizione nazionale e prospettive europee, Padova, 2003.

[13] Cfr. Corte Giust., 10 dicembre 1991, C-179/90.

[14] Sul tema G. F. Cartei, Servizio universale, in Enc. dir., Annali III, Milano, 2010.

[15] F. Cintioli, Concorrenza, istituzioni e servizio pubblico, Milano, 2010, 222.

[16] Secondo Corte giust., 18 novembre 1999, C-107/98, l’affidamento diretto è consentito solo ove: a) il capitale sociale sia interamente detenuto dall’ente pubblico affidante; b) l’ente pubblico svolga sulla società un controllo analogo a quello operato sui propri uffici; c) la società svolga la parte più importante del servizio per l’ente controllante.

[17] G. Bassi, La riforma dei servizi pubblici locali, Rimini, 2008, 21; L. Longhi, Dimensioni, percorsi e prospettive dei servizi pubblici locali, Torino, 2015, 152.

[18] A. Lucarelli, La riforma dei servizi pubblici locali. I modelli di gestione, in Quale Stato, 3-4, 2008, 374.

[19] Sul tema cfr. F. Trimarchi Banfi, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto dell'unione e nella costituzione (all'indomani della dichiarazione di illegittimità delle norme sulla gestione dei servizi pubblici economici), in Riv. trim. dir. pubbl. comunit., 2012, 723 ss.

[20] F. Trimarchi Banfi, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza, cit.

[21] M. Midiri, Servizi pubblici locali e sviluppo economico: la cornice istituzionale, in Servizi pubblici locali e regolazione, a cura di M. Midiri ed S. Antoniazzi, Napoli, 2015, 14.