1. Introduzione – 2. Contenuto delle disposizioni del D.lgs. 50/16 – 3. I pareri ufficiali in chiave critica - 4. Osservazioni in chiave propositiva – 5. Conclusioni su possibili linee guida interpretative.
1. Introduzione
Il D.lgs. 50/16 (di seguito il Codice o c.c.p.) contiene, tra luci ed ombre, una significativa novità in ambito contenzioso e, specificamente, nel contesto dei rimedi alternativi alla tutela giurisdizionale: l’art. 207 disciplina, infatti, in termini innovativi rispetto ad istituti già noti (transazione, accordo bonario, arbitrato, tutti riproposti con qualche correttivo in funzione propositiva rispetto al previgente D.lgs. 163/06)[1], il Collegio Consultivo Tecnico (C.C.T.), uno strumento potenzialmente molto utile per comporre conflitti tra committente ed appaltatore, mutuato, molto opportunamente, dal contesto internazionale (quello, per intenderci, dove gli arbitrati sono visti come rimedio prioritario di risoluzione delle controversie nell’ambito della realizzazione delle opere pubbliche e non come precipitato di endemica corruzione, come purtroppo avvenuto nel contesto nazionale).
2. Contenuto delle disposizioni dell’art. 207 del D.lgs. 50/16
L’art. 207 si compone di 8 commi, sufficientemente puntuali ed esaustivi.
Il primo comma chiarisce subito la funzione dell’istituto: si tratta di una forma facoltativa di “assistenza preventiva” fornita da un collegio di tre membri per una rapida soluzione delle dispute di ogni natura in corso di esecuzione del contratto (con oggetto, quindi, più ampio rispetto gli altri rimedi tipizzati dell’accordo bonario e dell’arbitrato, che hanno funzione specifica per le riserve già iscritte dall’appaltatore).
Attesa la facoltà delle parti, è da ritenere che la decisione rientri nella libera autodeterminazione della stazione appaltante, anche se sarebbe quantomeno opportuna la sua indicazione direttamente all’interno della lex specialis (trattandosi di previsione che potrebbe favorire o meno la partecipazione alla procedura), salvo poi declinare puntualmente le “regole di ingaggio” all’interno della pattuizione contrattuale (ovvero, ancor meglio, la loro predeterminazione in ambito regolamentare della stazione appaltante).
La possibilità di individuare il predetto CCT deve comunque essere manifestata all’atto della stipula del contratto ovvero entro un trimestre dall’avvio dell’esecuzione: è lecito ritenere che con tale previsione il legislatore abbia voluto presidiare le finalità dell’istituto prima ancora che i rapporti siano compromessi (sovente accade, infatti, che già nei primi mesi, se non giorni, dalla stipula del contratto emergano, magari per errori progettuali, contrasti tra il committente e l’appaltatore, che sovente vanno ad aggravare ed a volte a compromettere la corretta e tempestiva esecuzione dell’opera rispetto al cronoprogramma concordato).
Il secondo comma prevede che il Collegio sia composto da tre membri: due professionisti con esperienza e qualificazione adeguati all’opera[2], scelti dalle parti e, da un presidente, individuato dai due rappresentanti individuati.
Si tratta di previsione che, rispetto alla prassi internazionale, non chiarisce la posizione di terzietà dei medesimi (possono infatti essere individuati anche all’interno della compagine dei due contraenti); peraltro non è stabilito, per gli appalti di modesta entità, il ricorso ad un unico soggetto (fattispecie che invece è prevista nel caso di accordo bonario promosso dal RUP).
A conferma di tale impostazione, il legislatore detta un criterio preferenziale per il rappresentante del committente, che dovrebbe essere individuato all’interno dei soggetti di supporto al RUP disciplinati nell’art. 31 comma 9 c.c.p.[3].
Quanto al compenso dei membri, è previsto, tramite il rinvio all’art. 209, comma 16[4], che esso debba essere coerente con i limiti previsti per l’istituto del collegio arbitrale, per i noti problemi di abuso che si sono registrati nella remunerazione dei membri di arbitrato.
Siffatta previsione limita opportunamente i rischi di abuso della prestazione ma, a ben vedere, non lascia la stazione appaltante libera di stabilire un compenso stimato da rivedere a consuntivo sulla base dell’effettivo impegno del CCT: in effetti, contrariamente alla prassi internazionale, è legittimo presumere che in ragione della natura dell’incarico (sia esso opera strategica piuttosto che appalto sotto-soglia comunitaria), il compenso debba necessariamente essere proporzionale all’impegno effettivamente richiesto, la cui congruità possa essere magari validata dalle parti o dalla stessa ANAC, attingendo dai parametri di remunerazione dei CTU in sede giurisdizionale (è noto, infatti, che questi ultimi non siano soggetti a tetti predeterminati al di fuori dei compensi professionali, ove esistenti, stabiliti dai rispettivi ordini professionali).
Il successivo comma 3 prevede che il Collegio si intende costituito al momento della sottoscrizione dell’accordo e che ai membri debba essere fornita copia della documentazione. Nulla vieta, sempre secondo la prassi internazionale, di invitare il CCT a visitare il cantiere e a prendere consapevolezza dell’impegno richiesto dall’appaltatore circa l’esecuzione dell’opera affidata.
Il CCT, secondo la disposizione del successivo comma 4 e nel caso di insorgenza di controversie, può procedere all’ascolto delle parti, anche in contraddittorio, e, secondo il comma 5, può procedere alla risoluzione dei conflitti adottando con forma scritta una proposta di soluzione dando “sintetico atto della motivazione”.
Contrariamente alla prassi internazionale, è previsto che le parti non possano delegare l’esercizio di decisioni di carattere vincolante: si tratta di una forte criticità su cui è lecito esprimere alcune perplessità alla luce dei dati forniti nel contesto globale (v. infra, paragrafo 4), ma che appare – probabilmente – giustificata dalla vincolatività delle decisioni suscettibili di giudicato e non delle transazioni basate su una mediazione di tipo pur sempre negoziale.
Il comma 6 prevede che, se le parti accettano la proposta, la sottoscrizione dell’accordo alla presenza di almeno due componenti del CCT costituisce prova del suo contenuto e vale come transazione a tutti gli effetti. Viceversa, è previsto il divieto di testimonianza dei membri del collegio nel caso di mancata sottoscrizione della medesima.
L’ultimo comma 8 prevede che il CCT è sciolto al termine dell’esecuzione, ovvero se esiste accordo delle parti anche in data anteriore.
3. I pareri ufficiali in chiave critica
La previsione in commento è stata oggetto di critiche sia da parte del Consiglio di Stato che dell’ANAC.
Con parere n. 855/16, l’organo consultivo di Stato ha infatti proposto la soppressione dell’istituto per la sua confondibilità con l’accordo bonario e la mancata perimetrazione del concetto di “dispute” utilizzata dal legislatore[5].
Anche il Presidente dell’ANAC, seppur in sede di audizione parlamentare[6], non ha mancato di svolgere le proprie critiche allo strumento, giudicato come posologia troppo svincolata ed assimilabile all’ “arbitrato libero” rispetto al ruolo che potrebbe svolgere la medesima autorità di vigilanza.
Si tratta di critiche generiche, non supportate da idonea istruttoria rispetto alla prassi internazionale, e che probabilmente confermano la bontà dell’istituto e la sensazione che i veri nodi che imbrigliano la complessa tematica del contenzioso in materia di contratti pubblici non siano tanto la correttezza o meno degli istituti stragiudiziali ma la generale sfiducia (motivata rispetto alle esperienze nazionali passate) verso gli strumenti di tutela alternativa alla giurisdizione, per ciò solo flessibili nella loro definizione.
4. Osservazioni in chiave propositiva
Come anticipato in premessa, l’istituto in commento prende spunto dal c.d. “Dispute Review Board”[7] di derivazione anglosassone con caratteristiche di intervento diretto in cantiere (c.d. “risoluzione job site”) ed apprezzamento in tempo reale: la cogenza è costituita dal fatto che viene istituito prima dell’inizio del contratto e che i membri sono parte del progetto anche se conservano spiccate caratteristiche di terzietà[8].
Questi in sintesi le caratteristiche ed i vantaggi dell’istituto:
- maggior cooperazione delle parti a risolvere i conflitti in modo flessibile;
- possibilità di coinvolgimento dei subappaltatori;
- la delega a procedere con accordo vincolante deve essere accettata dalle parti[9];
- la scelta di tutti i membri deve essere approvata di comune accordo;
- il compenso è forfettario, salvo maggiori spese rispetto all’effettiva attività svolta (visite sul sito, riunioni ecc.).
Si tratta quindi di uno strumento potenzialmente molto utile, situato a metà strada tra le procedure dell’accordo bonario e della transazione, soprattutto all’interno del dibattito concernente la riforma delle tutele alternative alla giurisdizione riguardanti la Pubblica Amministrazione[10].
In tale ottica è auspicabile un’attività di promozione dell’istituto che risolva però alcune criticità all’interno della Pubblica Amministrazione e, segnatamente:
- la necessità di assicurare un’adeguata copertura finanziaria analogamente alle sentenze giurisdizionali attraverso meccanismi procedurali di valutazione della congruità;
- la possibilità di prevedere un possibile esonero o incentivo rispetto alla responsabilità amministrativa, valorizzando l’orientamento della Corte dei conti incline a promuovere l’utilizzo delle transazioni;
- la scelta di prevedere un collegio misto con funzioni affidate propriamente ai tecnici ed eventualmente agli avvocati delle strutture pubbliche. In alternativa, sarà necessario raccordare la previsione con l’art. 208, comma 2, che espressamente prevede il parere dell’avvocatura pubblica di riferimento dell’ente che sottoscrive la transazione.
5. Conclusioni su possibili linee guida interpretative.
In conclusione, seppur con qualche rilevante differenza rispetto alla prassi internazionale (decisione non vincolante, non obbligo di terzietà, costo prefissato per legge), l’introduzione del CCT nell’ordinamento italiano deve essere valutata con pieno favore.
In tale contesto sarebbe opportuno che le stazioni appaltanti si dotino di necessari regolamenti per disciplinarne la procedura, atteso che il legislatore non ha ritenuto ex ante di imporre l’enucleazione di specifiche linee guida sul tema da parte dell’ANAC. Al momento quindi in attesa di possibili sviluppi e richiamando alcune specifiche esperienze positive già praticate nell’ordinamento italiano si auspica una pronta diffusione di tale strumento anche attraverso il coinvolgimento di appositi referenti istituzionali (id est camere amministrative o consigli dell’ordine) che ne sappiano cogliere l’estrema utilità soprattutto nella fase iniziale di esecuzione dell’opera.
Da ultimo, in riferimento alla transazione prevista ex art. 208 del medesimo Codice, che espressamente prevede sopra una certa soglia (pari ad € 100.000) il parere dell’Avvocatura dello Stato ovvero del legale interno, non può non evidenziarsi l’apparente contraddizione rispetto alla procedura in commento, pur sempre ad esito transattivo, che, a contrario, non contempla alcuna verifica da parte di tali soggetti istituzionalmente preposti alla difesa dell’ente.
In tale contesto, una possibile soluzione potrebbe essere quella di affidare comunque una richiesta di parere alle avvocature pubbliche anche in relazione alle proposte emergenti dal Collegio consultivo tecnico quando nessuno dei membri individuati possieda una expertise di tipo legale che, per definizione, potrebbe essere individuata proprio nel plesso di tali uffici che tutelano l’ente pubblico, salvaguardando quell’approccio di terzietà ed autonomia rispetto all’Amministrazione di appartenenza più volte riconosciuto dalla giurisprudenza, anche costituzionale, rispetto a tale funzione[11].
[1] Per un puntuale commento degli istituti sia consentito rinviare a AA.VV., Commento al codice dei Contratti Pubblici, Rimini, 2012, a cura di Nardocci e D’Ottavi nella vigenza del D.lgs. 163/06. Per una letteratura specifica sull’istituto cfr. Bruni, I metodi di A.d.r. nell’esperienza americana, Roma; AA. Matthews, RJ Smith & PE Sperry, Construction Dispute Review Board Manual, 1996.
[2] Il riferimento alla nozione di “opera” sembrerebbe limitarne l’operatività ai soli lavori pubblici. A contrario, non si rinvengono ragioni per non estenderne la portata anche ai servizi ed alle forniture.
[3] Stabilisce infatti la richiamata previsione che “la stazione appaltante, allo scopo di migliorare la qualità della progettazione e della programmazione complessiva, può, nell’ambito della propria autonomia organizzativa e nel rispetto dei limiti previsti dalla vigente normativa, istituire una struttura stabile a supporto dei RUP, anche alle dirette dipendenze del vertice della pubblica amministrazione di riferimento. Con la medesima finalità, nell’ambito della formazione obbligatoria, organizza attività formativa specifica per tutti i dipendenti che hanno i requisiti di inquadramento idonei al conferimento dell’incarico di RUP, anche in materia di metodi e strumenti elettronici specifici quali quelli di modellazione per l’edilizia e le infrastrutture”.
[4] Stabilisce infatti l’art. 209, comma 16, che “La Camera arbitrale, su proposta del collegio arbitrale, determina con apposita delibera il compenso degli arbitri nei limiti stabiliti con decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Sono comunque vietati incrementi dei compensi massimi legati alla particolare complessità delle questioni trattate, alle specifiche competenze utilizzate e all'effettivo lavoro svolto. Il compenso per il collegio arbitrale, comprensivo dell'eventuale compenso per il segretario, non può comunque superare l'importo di 100 mila euro, da rivalutarsi ogni tre anni con i decreti e le delibere di cui al primo periodo. Per i dirigenti pubblici resta ferma l’applicazione dei limiti di cui all’articolo 23-ter del decreto legge 6 dicembre 2011, n.201, convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n.214, nonché all’articolo 1, comma 24 della legge 6 novembre 2012, n. 190. L'atto di liquidazione del compenso e delle spese arbitrali, nonché del compenso e delle spese per la consulenza tecnica, costituisce titolo per l'ingiunzione di cui all'articolo 633 del codice di procedura civile”.
[5] Il Consiglio di Stato ha infatti evidenziato “non essendo agevolmente definibili i casi di dispute (espressione atecnica) che si prevede possano nascere. La norma, in particolare, non chiarisce se ricorso al collegio consultivo costituisca un sistema alternativo all’accordo bonario e come i due istituti si rapportino tra loro. Infine tale previsione potrebbe influire sui compiti della Camera arbitrale e pone problemi di compatibilità con il criterio di delega di cui alla lett. aaa), art. 1 n. l. 11/2016. Alla luce di tali profili di criticità si propone la soppressione della norma”.
[6] Cfr. Audizione del Presidente dell’ANAC del 17 marzo 2016 presso le Commissioni riunite di Camera e Senato in sede di obbligo di recepimento delle direttive comunitarie sui contratti pubblici. Il Presidente ha osservato che il CCT “consente, di fatto, l’introduzione di un sistema alternativo (meno garantito sia nei presupposti che nelle modalità di funzionamento) all’accordo bonario e che fra l’altro non sembra nemmeno trovare un aggancio sicuro nella legge delega. Le parti, infatti, possono nominare i tre componenti del CCT - senza alcuna intermediazione di terzi, come per l’accordo bonario - in funzione di assistenza per l’intera vita dell’appalto, compresa la possibilità di proporre possibili soluzioni di controversie che possano poi essere recepite in vere e proprie transazioni. D’altra parte, inoltre, il CCT, per convenzione esplicita delle parti, potrebbe anche avere funzioni di assistenza per la risoluzione delle controversie insorte durante l’esecuzione del contratto; in tal modo, trasformandosi in una sorta di arbitrato libero, influisce sui compiti e sulle funzioni della Camera arbitrale e aggira, nella sostanza, il criterio di delega di cui alla lett. aaa), secondo cui l’arbitrato nei contratti pubblici può essere solo amministrato”.
[7] C.d. DRB. o DAB, Dispute Adjudication Board, se vincolante CDB, secondo le codifiche ICC 2014.
[8] Secondo i dati forniti dall’omonima federazione l’istituto ha successo nella quasi totalità dei casi con riduzione dei costi legali (ca. 10% contratti e 50% valore originario) cfr. The Dispute Board Federation (Geneva) 2008 International Survey www.dbfederation.org. Secondo la Fondazione omonima, con sede a Seattle (DRBF), nel 2000 ca. il 97% delle controversie in materia di lavori sono stati risolti con questo strumento (ca. 757 progetti per un valore complessivo pari a $ 39.5 miliardi).
[9] Si segnala una questione molto dibattuta nella letteratura internazionale concernente la possibilità di eseguire una decisione parziale comunque vincolante sulla base della specifica accettazione delle parti rispetto alle clausole FIDIC: cfr. ex plurimis T. Dedezade, Are binding DAB decisions enforceable?, in Construction Law International, Issue 6 – October 2011.
[10] Secondo il gruppo di riforma della mediazione operante in Confindustria: “Sotto un altro profilo, sarebbe auspicabile incentivare il ricorso alla mediazione per la risoluzione delle controversie in cui sia parte una Pubblica Amministrazione e aventi a oggetto comportamenti o attività di diritto privato. Il DL n. 132/2014, in tema di negoziazione assistita e arbitrato “speciale”, ha già introdotto misure specifiche per le controversie in cui sia parte una PA (la presunzione del consenso della PA al trasferimento della controversia in sede arbitrale; l’obbligo della PA di farsi assistere nella procedura di negoziazione assistita dalla propria Avvocatura, ove presente), sarebbe, pertanto opportuno prevedere simili accorgimenti anche in tema di mediazione”. Cfr.http://www.mondoadr.it/cms/articoli/commissione-di-studio-la-riforma-degli-strumenti-adr-contributo-di-confindustria.html.