SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il modello europeo dei soggetti e delle funzioni di controllo. – 3. Le scelte di governance nel nuovo codice. – 3.1. L’Autorità nazionale anticorruzione. – 3.2. Inquadramento e valore giuridico delle linee guida. – 3.3. Il Consiglio superiore dei lavori pubblici nel nuovo Codice.
 

1.  Premessa

Si fa presto a dire “semplificazione” e “divieto di gold plating”, il sistema del public procurement è complesso e le direttive europee non fanno nulla per nasconderlo incidendo anche sugli assetti istituzionali nazionali.

Indicazioni rilevanti, in tal senso, sono le disposizioni che pongono agli Stati membri precisi obblighi di monitoraggio, controllo e trasparenza degli appalti e delle concessioni, anche al fine dello scambio di informazioni con la Commissione.

Le direttive non si accontentano delle garanzie e degli stili nazionali ma stabiliscono misure ben determinate implementando gli stessi sistemi nazionali di governance.

Si consideri l’art. 83 della direttiva 2014/24/UE, che può essere considerato “la norma madre” anche per le concessioni e i settori speciali, che delinea una architettura istituzionale sufficientemente precisa.

2.  Il modello europeo dei soggetti e delle funzioni di controllo

Infatti, il legislatore europeo ha stabilito che al fine di garantire in maniera effettiva un’attuazione corretta ed efficace, gli Stati membri debbano assicurare che almeno i compiti principali siano svolti da uno o più organismi, autorità o strutture.

Gli Stati membri devono espressamente indicare alla Commissione tutte le autorità, gli organismi o le strutture competenti preposti a questi compiti.

 

Gli Stati membri, infatti, hanno il dovere di garantire il controllo dell’applicazione delle norme sugli appalti pubblici e la Commissione intende vigilare direttamente sull’attuazione del diritto europeo.

Se le autorità o le strutture di controllo individuano di propria iniziativa, o sulla base di informazioni pervenute, violazioni specifiche o problemi sistemici, hanno il potere di segnalare queste criticità «ad autorità nazionali di controllo, organi giurisdizionali e altre autorità o strutture idonee quali il Mediatore, i parlamenti nazionali o le relative commissioni».

I risultati delle attività di controllo sono poi messi a disposizione del pubblico mediante idonei strumenti di informazione e sono resi disponibili anche alla Commissione.

La direttiva inoltre prevede, per dare maggiore continuità all’informazione e alle attività di controllo, che «entro il 18 aprile 2017, e successivamente ogni tre anni, gli Stati membri presentano alla Commissione una relazione di controllo contenente, se del caso, informazioni sulle cause più frequenti di scorretta applicazione o di incertezza giuridica, compresi possibili problemi strutturali o ricorrenti nell’applicazione delle norme, sul livello di partecipazione delle PMI agli appalti pubblici e sulla prevenzione, l’accertamento e l’adeguata segnalazione di casi di frode, corruzione, conflitto di interessi e altre irregolarità gravi in materia di appalti».

La Commissione può chiedere, inoltre, agli Stati membri, al massimo ogni tre anni, informazioni sull’attuazione pratica delle politiche strategiche nazionali in materia di appalti strategici. Non solo vigilanza sul rispetto del diritto alla concorrenza, dunque, ma anche monitoraggio di risultati conseguiti in termini di efficienza.

Sulla base delle informazioni ricevute, la Commissione pubblica, a intervalli regolari, una relazione sull’attuazione delle politiche nazionali in materia di appalti e sulle relative migliori prassi nel mercato interno.

Gli Stati membri provvedono affinché:

a)  siano disponibili gratuitamente orientamenti e informazioni per l’interpretazione e l’applicazione del diritto dell’Unione sugli appalti pubblici, al fine di assistere le amministrazioni aggiudicatrici e gli operatori economici, in particolare le PMI, nella corretta applicazione della normativa dell’Unione in materia;

b)  sia disponibile il sostegno alle amministrazioni aggiudicatrici per quanto riguarda la pianificazione e la conduzione delle procedure d’appalto.

Fatte salve le procedure generali, e i metodi di lavoro fissati dalla Commissione per le sue comunicazioni e per i suoi contatti con gli Stati membri, questi ultimi indicano un punto di riferimento per la cooperazione con la Commissione per quanto riguarda l’applicazione della normativa in materia di appalti pubblici.

Le amministrazioni aggiudicatrici conservano, almeno per la durata del contratto, copie di tutti i contratti conclusi aventi un valore pari o superiore a:

a)  euro 1.000.000 in caso di appalti pubblici di forniture o di servizi;

b)  euro 10.000.000 in caso di appalti pubblici di lavori.

Le amministrazioni aggiudicatrici devono garantire l’accesso a questi contratti; tuttavia, è possibile negare l’accesso a informazioni e documenti specifici nella misura e alle condizioni previste dalle disposizioni nazionali o dell’Unione applicabili in materia di accesso ai documenti e protezione dei dati.

Come si può agevolmente comprendere, si tratta di un insieme di previsioni che implicano una certa complessità organizzativa.

E ciò è ben confermato dalla indicazione, da parte del legislatore comunitario, degli specifici adempimenti riguardanti l’esercizio delle funzioni di controllo e trasparenza.

L’art. 84 della stessa direttiva, anch’esso punto di riferimento pure per le concessioni e i settori speciali, sebbene in forma leggermente semplificata, stabilisce che «per ogni appalto od ogni accordo quadro contemplato dalla presente direttiva e ogniqualvolta sia istituito un sistema dinamico di acquisizione, l’amministrazione aggiudicatrice redige una relazione contenente almeno le seguenti informazioni:

a) il nome e l’indirizzo dell’amministrazione aggiudicatrice, l’oggetto e il valore dell’appalto, dell’accordo quadro o del sistema dinamico di acquisizione;

b) se del caso, i risultati della selezione qualitativa e/o della riduzione dei numeri a norma degli articoli 65 e 66, ossia:

i) i nomi dei candidati o degli offerenti selezionati e i motivi della selezione;

ii) i nomi dei candidati o degli offerenti esclusi e i motivi dell’esclusione;

c) i motivi del rigetto delle offerte giudicate anormalmente basse;

d) il nome dell’aggiudicatario e le ragioni della scelta della sua offerta nonché, se è nota, la parte dell’appalto o dell’accordo quadro che l’aggiudicatario intende subappaltare a terzi; e, se noti al momento della redazione, i nomi degli eventuali subappaltatori del contraente principale;

e) per le procedure competitive con negoziazione e i dialoghi competitivi, le circostanze di cui all’articolo 26 che giustificano il ricorso a tali procedure;

f) per quanto riguarda le procedure negoziate senza previa pubblicazione di un bando di gara, le circostanze di cui all’articolo 32 che giustificano il ricorso a tali procedure;

g) eventualmente, le ragioni per le quali l’amministrazione aggiudicatrice ha deciso di non aggiudicare un appalto, concludere un accordo quadro o istituire un sistema dinamico di acquisizione;

h) eventualmente, le ragioni per le quali per la presentazione delle offerte sono stati usati mezzi di comunicazione diversi dai mezzi elettronici;

i) eventualmente, i conflitti di interesse individuati e le misure successivamente adottate.

La relazione non è richiesta per gli appalti basati su accordi quadro.

Nella misura in cui l’avviso di aggiudicazione dell’appalto contiene le informazioni richieste, le amministrazioni aggiudicatrici possono fare riferimento a tale avviso.

Inoltre, le amministrazioni aggiudicatrici devono documentare lo svolgimento di tutte le procedure di aggiudicazione, indipendentemente dal fatto che esse siano condotte con mezzi elettronici o meno. A tale scopo, garantiscono la conservazione di una documentazione sufficiente a giustificare decisioni adottate in tutte le fasi della procedura di appalto, quali la documentazione relativa alle comunicazioni con gli operatori economici e le deliberazioni interne, la preparazione dei documenti di gara, il dialogo o la negoziazione se previsti, la selezione e l’aggiudicazione dell’appalto. La documentazione deve essere conservata per almeno tre anni a partire dalla data di aggiudicazione dell’appalto.

La relazione o i suoi principali elementi sono comunicati alla Commissione o alle autorità, agli organismi o alle strutture competenti di cui all’articolo 83 quando essi ne fanno richiesta».

La norma appena richiamata, come è evidente, fa da pendant con il precedente art. 83, delineando un sistema complesso di adempimenti, report, obblighi di informazione finalizzati al controllo ma anche all’implementazione delle politiche europee in materia di appalti e concessioni.

Tutto ciò potrebbe essere semplicemente ascrivibile agli “eccessi dell’euroburocrazia” ma, a ben vedere, è impensabile che attività economiche che valgono in media il 16-18 per cento del PIL dei Paesi europei siano prive di indirizzi e controlli pubblici.

Se il ruolo degli Stati nazionali conforma l’Europa, altrettanto avviene nella fase “discendente”[1].

3.  Le scelte di governance nel nuovo Codice

Il Codice degli appalti del 2006 prevedeva gli obblighi di comunicazione alla Commissione europea, ma non un richiamo essenziale degli organismi di governance in materia.

Il nuovo Codice, viceversa, prevede l’istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei ministri di una Cabina di regia con il compito di: effettuare una ricognizione sullo stato di attuazione del presente codice; di esaminare le proposte di modifiche normative nella materia di interesse valutandone il relativo impatto sul sistema normativo vigente; di promuovere la realizzazione, in collaborazione con i soggetti competenti, di un piano nazionale in tema di procedure telematiche di acquisto, al fine della diffusione dell’utilizzo degli strumenti informatici e della digitalizzazione delle fasi del processo di acquisto. Si stabilisce, inoltre, che la Cabina di regia segnali eventuali specifiche violazioni o problemi sistemici all’ANAC per gli interventi dì competenza. Entro il 18 aprile 2017 e successivamente ogni tre anni, la Cabina di regia, anche avvalendosi dell’ANAC, deve presentare alla Commissione una relazione di controllo contenente, se del caso, informazioni sulle cause più frequenti di non corretta applicazione o di incertezza giuridica, compresi possibili problemi strutturali o ricorrenti nell’applicazione delle norme, sul livello di partecipazione delle microimprese e delle PMI.

In sostanza, la Cabina di regia, che costituisce in materia la novità del Codice, è «la struttura nazionale di riferimento per la cooperazione con la Commissione europea per quanto riguarda l’applicazione della normativa in materia di appalti pubblici e di concessioni, e per l’adempimento degli obblighi di assistenza e cooperazione reciproca tra gli Stati membri, onde assicurare lo scambio di informazioni sull’applicazione delle norme contenute nel presente decreto e sulla gestione delle relative procedure».

La composizione e le modalità di funzionamento della Cabina di regia sono stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e trasporti, sentita l’ANAC e la Conferenza unificata, entro tre mesi dall’entrata in vigore del Codice.

Come si evince anche da questo ultimo richiamo, in sostanza, le politiche delle infrastrutture in Italia si conformano su un modello “a tre punte”: Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Cabina di regia presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ANAC, cui si aggiungono i compiti istituzionali propri del CIPE e della Conferenza unificata.

Per quanto sia esplicita la vocazione della Cabina di regia quale organismo di cooperazione comunitaria non può sottacersi che solo la prassi dell’implementazione potrà offrire risposte agli interrogativi sull’equilibrio e l’efficacia del nuovo assetto istituzionale.

3.1. L’Autorità nazionale anticorruzione

Abbiamo già osservato la notevole espansione del ruolo dell’Autorità nazionale anticorruzione, che diviene l’istituzione “regina” del sistema degli appalti, anche per la problematicità dei poteri c.d. di soft law che completano, in modo coessenziale, la disciplina del Codice e il sistema delle fonti. Come noto, si è voluto sin dall’inizio usare l’espressione polisensa di soft law per connotare il passaggio da un sistema di regolazione classicamente normativo e prescrittivo ad un altro, più improntato dalle “linee guida” dell’ANAC, sebbene la legge delega abbia in definitiva curvato l’iniziale approccio in direzione di un approdo più coerente con il diritto amministrativo, stabilendo l’approvazione delle linee guida tramite decreto ministeriale e la ricorribilità degli atti dinanzi al giudice amministrativo.

Si aprono, a riguardo, formidabili questioni circa l’inquadramento dogmatico delle “linee guida” nel sistema delle fonti[2]. Vi sono vari elementi e materiali che possono indurre a ritenere che debba essere riconosciuto un potere normativo diffuso, interno alla società organizzata che si esprime in forme nuove superando la classica distinzione delle fonti indicata dall’art. 1 della legge generale del 1942.

È interessante a riguardo, sia il rapporto del Consiglio di Stato francese del 2013, nella parte dedicata a “le droit souple” che, a certe condizioni, può trasformarsi in “droit dur”[3] e sia la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 18 settembre 2015, n. 4358, che ha ritenuto che le linee guida «a prescindere dal loro inquadramento dogmatico, assumono, in ogni caso, valenza di canoni oggettivi di comportamento per gli operatori del settore la cui violazione integra un’ipotesi di negligenza (…) essendo all’Autorità riconosciuto il ruolo di garante dell’efficienza e del corretto e trasparente funzionamento del mercato nel settore dei contratti pubblici (…)».

Questa ultima considerazione ci riporta, peraltro, alle teorie neoistituzionaliste sui rapporti tra diritto ed economia che pongono l’enfasi sulla centralità della nozione di istituzione, quale terreno di incontro e punto di equilibrio, più che sul formalismo giuridico[4].

Non vi è dubbio che l’ANAC, che somma ora molteplici poteri non solo di vigilanza ma anche normativi, amministrativi, gestionali, sanzionatori, paragiurisdizionali, ben al di là dell’opportunità di un mutamento del nomen, costituisca l’istituzione di riferimento, la vera novità, il presidio pubblico, dell’intero sistema degli appalti e dei contratti pubblici.

Abbiamo già osservato[5] che le linee guida dell’ANAC, cui è affidata gran parte della manovra di riordino, hanno, a nostro avviso, natura sostanzialmente regolamentare, sulla base delle espresse previsioni di legge e del disegno istituzionale, e che, in quanto tali, vada ad esse riconosciuta efficacia vincolante nei confronti delle stazioni appaltanti e degli operatori del settore.

Da questa (provvisoria) conclusione discende che l’approvazione delle linee guida dovrebbe essere preceduta opportunamente dal parere del Consiglio di Stato.

In particolare, si può osservare che l’art. 213 del nuovo Codice attribuisce all’ANAC i poteri di vigilanza e di controllo sui contratti pubblici e l’attività di regolazione degli stessi, al fine di prevenire e contrastare la corruzione. La stessa disposizione riconosce all’ANAC la gestione del sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti e delle centrali di committenza, nonché la gestione della banca dati nazionale dei contratti pubblici e del casellario informatico. Infine, è stabilito il potere di irrogare sanzioni amministrative pecuniarie da parte della stessa ANAC sia nei confronti dei soggetti che rifiutano od omettono, senza giustificato motivo, di fornire le informazioni o di esibire i documenti richiesti sia nei confronti degli operatori economici che non ottemperano alla richiesta della stazione appaltante o dell’ente aggiudicatore di comprovare il possesso dei requisiti di partecipazione alla procedura di affidamento. Tale disciplina rafforza di molto il ruolo dell’ANAC rispetto alle vigenti norme[6].

La materia ora ha trovato un assetto più maturo nella versione finale del Codice che ha in sostanza recepito l’impostazione del parere del Consiglio di Stato.

3.2. Inquadramento e valore giuridico delle linee guida ANAC

Nella fase finale dei lavori per il nuovo Codice, anche sulla base di un positivo e costruttivo dialogo tra i soggetti implicati, si è pervenuti ad un più preciso e condiviso inquadramento sistematico della natura giuridica delle linee guida ANAC, che ha trovato nel parere dell’Adunanza della Commissione speciale del 21 marzo del Consiglio di Stato, la più chiara e autorevole espressione.

Sulla base dei principi della legge delega, e delle fonti del diritto in generale, sono state identificate tre diverse tipologie di atti attuativi:

a)  quelli adottati con decreto del Ministro delle infrastrutture e trasporti, su proposta dell’ANAC, previo parere delle competenti commissioni parlamentari;

b)  quelli adottati con delibera dell’ANAC a carattere vincolante erga omnes, e in particolare le linee guida;

c)  quelli adottati con delibera dell’ANAC a carattere non vincolante.

Come evidenziato dal Consiglio di Stato, appare necessario individuare in questa sede la natura giuridica di tali provvedimenti (ministeriali e dell’ANAC), nonché la loro collocazione nella gerarchia delle fonti del diritto.

Ciò sia per individuare una chiara disciplina sul piano procedimentale e delle garanzie per gli stakeholders, sia per evitare inutili, anzi onerose e defatiganti incertezze applicative (che possono derivare anche dal riferimento improprio, operato dai primi commentatori, al concetto di soft regulation, estraneo all’ordinamento nazionale e comunque troppo generico, in assenza di una definizione della sua disciplina sostanziale e procedimentale).

In altri termini, tale operazione interpretativa è necessaria proprio per assicurare al quadro regolatorio, che Ministero e ANAC dovranno comporre sulla base della cornice legislativa in esame, quella necessaria organicità, “razionalizzazione” e “chiarezza” richieste dallo stesso legislatore delegante, alla lett. d).

Osserva il Consiglio di Stato che, dal punto di vista sostanziale, la delega riconduce le linee guida e gli atti in questione al genere degli “atti di indirizzo” (lett. t) e li qualifica come strumenti di “regolamentazione flessibile” (termine anch’esso estraneo al nostro sistema delle fonti, di cui va qui identificata la disciplina applicabile).

Dal punto di vista procedimentale, la delega non reca alcuna disciplina, né rinvia ad atti-fonte del Ministero o della stessa ANAC. L’unica disposizione specifica al riguardo è quella (lett. u) che prevede la trasmissione alle Camere di apposite relazioni nei casi individuati dal codice, oltre a quella prevista dal citato comma 5 dell’art. 1 della legge delega per le linee guida “ministeriali”. L’art. 213, comma 2, secondo periodo dello schema di codice identifica (non senza genericità) gli atti da trasmettere in quelli “ritenuti maggiormente rilevanti in termini di impatto della regolamentazione”.

Le conclusioni di questo inquadramento sono riportate nel parere, nel modo testualmente seguente «alla stregua di quanto esposto, questo Consiglio di Stato ritiene che le linee guida e gli altri decreti ‘ministeriali’ (ad esempio, in tema di requisiti di progettisti delle amministrazioni aggiudicatrici: art. 24, comma 2; e direzione dei lavori: art. 111, commi 2 e 3) o ‘interministeriali’ (art. 144, comma 5, relativo ai servizi di ristorazione) abbiano una chiara efficacia innovativa nell’ordinamento, che si accompagna ai caratteri di generalità e astrattezza delle disposizioni ivi previste.

Pertanto, anche indipendentemente dal nomen juris fornito dalla delega e dallo stesso codice (che potrà comunque precisarlo in sede di approvazione definitiva, nei singoli articoli di riferimento), tali atti devono essere considerati quali ‘regolamenti ministeriali’ ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, con tutte le conseguenze in termini di:

–   forza e valore dell’atto (tra l’altro: resistenza all’abrogazione da parte di fonti sotto-ordinate, disapplicabilità entro i limiti fissati dalla giurisprudenza amministrativa in sede giurisdizionale);

–   forma e disciplina procedimentale stabilite dallo stesso comma 3 (ad esempio: comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri prima della loro emanazione) e dal successivo comma 4 della legge da ultimo citata;

–   implicazioni sulla potestà regolamentare costituzionalmente riconosciuta a favore delle Regioni (art. 117, sesto comma, Cost.), tenuto conto dell’esistenza nella materia dei contratti pubblici di titoli di competenza di queste ultime (cfr. Corte Cost., sentenza 23 novembre 2007, n. 401);

–   rispetto alle regole codificate nell’art. 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988 per i regolamenti ministeriali, la legge delega “rafforza” il procedimento, prescrivendo in aggiunta – nell’evidente considerazione dell’importanza e delicatezza della materia – il parere delle competenti commissioni parlamentari».

Nello specifico delle linee guida dell’ANAC, il parere precisa quanto segue «mentre quelle a carattere “non vincolante” appaiono pacificamente inquadrabili come ordinari atti amministrativi, qualche considerazione in più richiedono le linee guida a carattere “vincolante” (ad esempio: art. 83, comma 2, in materia di sistemi di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici; art. 84, comma 2, recente la disciplina degli organismi di attestazione SOA; art. 110, comma 5, lett. b), concernente i requisiti partecipativi in caso di fallimento; art. 197, comma 4, relativo ai requisiti di qualificazione del contraente generale), e gli altri atti innominati aventi il medesimo carattere (art. 31, comma 5, relativo ai requisiti e ai compiti del r.u.p. per i lavori di maggiore complessità; art. 197, comma 3, di definizione delle classifiche di qualificazione del contraente generale) e comunque riconducibili all’espressione “altri atti di regolamentazione flessibile”.

Il riconoscimento per tali provvedimenti di una vera e propria natura normativa extra ordinem – pure proposta da taluno – suscita non poche perplessità di tipo sistematico e ordinamentale, soprattutto in assenza di un fondamento chiaro per un’innovazione così diretta del nostro sistema delle fonti.

Questo Consiglio di Stato ritiene, invece, preferibile l’opzione interpretativa che combina la valenza certamente generale dei provvedimenti in questione con la natura del soggetto emanante (l’ANAC), la quale si configura a tutti gli effetti come un’Autorità amministrativa indipendente, con funzioni (anche) di regolazione. Pertanto, appare logico ricondurre le linee guida (e gli atti a esse assimilati) dell’ANAC alla categoria degli atti di regolazione delle Autorità indipendenti, che non sono regolamenti in senso proprio ma atti amministrativi generali e, appunto, ‘di regolazione’.

Tale ricostruzione consente di chiarire e di risolvere una serie di problemi sul piano applicativo.

In primo luogo, essa non pregiudica, ma anzi riconferma, gli effetti vincolanti ed erga omnes di tali atti dell’ANAC, come disposto dalla delega (in particolare dalla lett. t), che come si è detto parla di “strumenti di regolamentazione flessibile, anche dotati di efficacia vincolante”.

In secondo luogo, tale assimilazione consente di assicurare anche per questi provvedimenti dell’ANAC tutte le garanzie procedimentali e di qualità della regolazione già oggi pacificamente vigenti per le Autorità indipendenti, in considerazione della natura ‘non politica’, ma tecnica e amministrativa, di tali organismi, e della esigenza di compensare la maggiore flessibilità del ‘principio di legalità sostanziale’ con un più forte rispetto di criteri di ‘legalità procedimentale’. Tra queste, se ne segnalano in particolare tre:

–   l’obbligo di sottoporre le delibere di regolazione ad una preventiva fase di ‘consultazione’, che costituisce ormai una forma necessaria, strutturata e trasparente di partecipazione al decision making process dei soggetti interessati e che ha anche l’ulteriore funzione di fornire ulteriori elementi istruttori/motivazionali rilevanti per la definizione finale dell’intervento regolatorio;

–   l’esigenza di dotarsi – per gli interventi di impatto significativo – di strumenti quali l’analisi di impatto della regolazione-AIR e la verifica ex post dell’impatto della regolazione-VIR, strumenti per i quali occorrerà sviluppare modelli ad hoc per l’ANAC, sulla scorta di quanto già attualmente fanno le Autorità di regolazione (e secondo quanto già prevedeva l’art. 8, comma 1, d.lgs. n. 163/2006 per l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici);

–   la necessità di adottare tecniche di codificazione delle delibere di regolazione tramite la concentrazione in “testi unici integrati” di quelle sulla medesima materia (best practice ormai diffusa presso le principali Autorità di regolazione, in primis quella per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico): tale strumento appare significativamente necessario per il settore degli appalti allo scopo di evitare il rischio di proliferazione delle fonti che si volevano ridurre e di perdita di sistematicità ed organicità dell’ordinamento di settore, violando in sede attuativa il vincolo a una “drastica riduzione” dello stock normativo imposto dalla lett. d) della delega.

In terzo luogo, tale ricostruzione consente anche la realizzazione, per gli “atti di regolazione” dell’ANAC, di forme di adeguata pubblicità: certamente sul sito della stessa Autorità, che andrà appositamente strutturato, ma anche per una pubblicità sulla Gazzetta Ufficiale, non richiesta per le autorità amministrative indipendenti ma altamente opportuna, ad avviso di questo Consiglio di Stato, in ragione della trasversalità della materia dei contratti pubblici e della latitudine dell’ambito applicativo dei provvedimenti de quibus. Una chiara previsione sulla pubblicità di tali delibere – da inserire, nel caso, all’art. 213 dello schema – rende meno delicata (e comunque lascia impregiudicata) la questione se debba o meno essere disposta la successiva comunicazione alle Camere (come pure sarebbe preferibile ai fini della conoscibilità del quadro regolatorio da parte degli operatori del settore), che in base allo schema di decreto sussiste solo in virtù di un requisito sostanziale di tipo rinforzato (rilevante impatto regolatorio), ancorché privo di una definizione oggettiva.

In quarto luogo, pur in assenza del parere obbligatorio del Consiglio di Stato ex art. 17 della l. n. 400 del 1988, si rileva che tale sostegno consultivo resta pur sempre possibile in via facoltativa, sotto forma di quesito, sia in ragione della generalità delle questioni e dell’impatto erga omnes dei provvedimenti, sia per analogia con l‘art. 17, comma 25, della l. 15 maggio 1997, n. 127, che prevede il parere obbligatorio del Consiglio sugli schemi generali di contratti-tipo, accordi e convenzioni dei Ministeri.

Per ultimo, ma non da ultimo, resta confermata la piena giustiziabilità delle linee guida dell’ANAC di fronte al giudice amministrativo, peraltro affermata chiaramente già dalla legge delega (lett. t).

In conclusione, la esposta ricostruzione appare compatibile, oltre che con il dettato della delega e con il sistema delle fonti, anche con l’esigenza inderogabile di un riformato contesto di ‘qualità’ e ‘certezza regolatoria’, con valenza erga omnes (che le Authorities di regolazione già oggi garantiscono, nei loro settori, quando si attengono agli indicati principi di better regulation)»[7].

L’ampio riferimento dell’analisi del parere del Consiglio di Stato sul punto è a conferma dell’ampia condivisione sin qui registrata.

Occorre, tuttavia, rilevare che il testo finale approvato non segue del tutto il parere del Consiglio di Stato, in particolare per quanto concerne l’omessa previsione dell’obbligatorietà del parere ai fini dell’emanazione delle linee guida di carattere generale.

La circostanza non può non destare qualche preoccupazione poiché nel corso dei lavori si era manifestato un ampio consenso sull’inquadramento giuridico riferito e perché è altresì chiaro che il parere preventivo del Consiglio di Stato sulle linee guida generali ha lo scopo di dare certezza ed efficacia, attraverso il massimo organo di consulenza giuridico-amministrativa dello Stato, alle regole per gli operatori.

Nondimeno, come già osservato, il mantenimento in capo all’ANAC, stabilito dall’art. 211 del nuovo codice, di un generale potere di supremazia gerarchica su tutte le stazioni appaltanti attraverso il meccanismo di raccomandazione/stand still/sanzione pecuniaria nei confronti del responsabile del procedimento che non si adegua alla raccomandazione, rischia davvero di snaturare gli equilibri nel sistema ordinamentale degli appalti pubblici.

Si tratta, tuttavia, di un terreno innovativo in materia di regolazione e gran parte della “tenuta” concettuale di questo inquadramento è pur sempre affidata alla valutazione degli esiti della prassi e degli eventuali decreti correttivi.

3.3. Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e struttura tecnica di missione nel nuovo Codice

Nell’ambito della governance in materia l’articolo 214 prevede che il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti promuova le attività tecniche e amministrative occorrenti ai fini della adeguata e sollecita progettazione e approvazione delle infrastrutture e degli altri interventi ed effettui, con la collaborazione delle regioni o province autonome interessate, le attività di supporto necessarie per la vigilanza sulla realizzazione delle infrastrutture. In particolare il Ministero: promuove e riceve le proposte delle regioni o province autonome e degli altri enti aggiudicatori; promuove e propone intese quadro tra Governo e singole regioni o province autonome, al fine del congiunto coordinamento e realizzazione delle infrastrutture; promuove la redazione dei progetti delle infrastrutture da parte dei soggetti aggiudicatori; provvede, eventualmente in collaborazione con le regioni, le province autonome e gli altri enti interessati con oneri a proprio carico, alle attività di verifica dello stato della realizzazione delle infrastrutture; ove necessario, collabora alle attività dei soggetti aggiudicatori o degli enti interessati alle attività istruttorie con azioni di indirizzo e supporto. Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti si avvale della Struttura tecnica di missione, per le attività di indirizzo e pianificazione strategica, ricerca, supporto e alta consulenza, valutazione, revisione della progettazione, monitoraggio e alta sorveglianza delle infrastrutture.

è importante evidenziare che la Struttura svolge, altresì, le funzioni del Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici, previste ai sensi dell’articolo 1 della legge 17 maggio 1999, n. 144 e dall’articolo 7 del decreto legislativo 29 dicembre 2011, n. 228. L’art. 214 prevede, infine, che il Ministero anche per le esigenze di detta struttura di missione, possa avvalersi, quali advisor, di Università statali e non statali legalmente riconosciute, di Enti di ricerca e società specializzate nella progettazione e gestione di lavori pubblici e privati.

Qui prescindendo da valutazioni ulteriori, circa l’inquadramento del MIT nell’ambito dell’ordinamento di governo, è opportuno invece evidenziare il ruolo innovativo della Struttura tecnica di missione che potrebbe inter alia assumere il ruolo di advisor collaborativo anche nella fondamentale azione di riqualificazione e riduzione delle stazioni appaltanti in Italia.

3.4. Il Consiglio superiore dei lavori pubblici nel nuovo Codice

Il Consiglio superiore dei lavori pubblici nasce in Italia nel 1859, su ispirazione delle riforme francesi di matrice illuministica, quale suprema istituzione tecnica dello Stato.

Esso può dunque ritenersi una gloriosa istituzione, di quelle, che hanno fatto l’Unità d’Italia.

Per l’alto grado di competenze in esso presente si è per decenni ritenuto che una circolare del Consiglio superiore valesse in effetti più di una legge.

Con il processo di dispersione del potere pubblico (Cassa per il Mezzogiorno, ANAS, Ferrovie, Regioni, enti locali…) e l’ordinamento costituzionale ad impronta “federalista” del 2001, il Consiglio superiore dei lavori pubblici ha finito per perdere nel tempo gran parte della sua autorevolezza e centralità.

Il Codice non compie una scelta netta in favore del suo rilancio (ove pure opportuno), ma ne conferma il ruolo nell’ambito delle (ormai scarne) organizzazioni tecniche dello Stato. L’articolo 215 prevede che sia garantita la piena autonomia funzionale e organizzativa, nonché l’indipendenza di giudizio e di valutazione del Consiglio superiore dei lavori pubblici quale massimo organo tecnico consultivo dello Stato. Si demanda ad un decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, l’attribuzione al Consiglio superiore dei lavori pubblici, su materie identiche o affini a quelle già di competenza del Consiglio medesimo, di poteri consultivi, i quali, dalle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente codice, siano stati affidati ad altri organi istituiti presso altre amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo. Si stabilisce che il Consiglio superiore dei lavori pubblici esprima parere obbligatorio sui progetti definitivi di lavori pubblici di competenza statale, o comunque finanziati per almeno il 50 per cento dallo Stato, di importo superiore ai 25 milioni di euro, nonché parere sui progetti delle altre stazioni appaltanti che siano pubbliche amministrazioni, sempre superiori a tale importo, ove esse ne facciano richiesta. Per i lavori pubblici di importo inferiore a 25 milioni di euro, le competenze del Consiglio superiore sono esercitate dai comitati tecnici amministrativi presso i Provveditorati interregionali per le opere pubbliche.

Si può forse concludere che, a fronte di posizioni radicalmente opposte, favorevoli o alla soppressione del Consiglio Superiore o ad un suo pieno rilancio, il legislatore delegato abbia scelto la “terza via”, quella della “manutenzione” in un più articolato sistema di governance degli appalti e delle politiche infrastrutturali in Italia.


[1] In generale, sul tema, si veda R. Bin, P. Caretti, G. Pitruzzella, Profili costituzionali dell’Unione Europea. Processo costituente e governance economica, Bologna, 2015; R. Adam, A. Tizzano, Manuale di diritto dell’Unione europea, Torino, 2014; M. P. Chiti, G. Greco (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo, Milano, 2007.

 

[2] Per un approccio ad un tempo normativo e funzionalistico, nel senso che le linee guida sarebbero norme che vincolano gli operatori che partecipano alle attività disciplinate si veda V. Italia, Le linee guida e le leggi, Milano, 2016, in particolare pp. 16 e ss.. Secondo l’Autore «le Linee Guida sono atti normativi particolari, emanati da un’autorità amministrativa, hanno una forma specifica e stabiliscono un particolare vincolo giuridico. Esse sono “norme”, ed hanno – come punti nodali del loro ciclo di vita – la determinazione, modificazione, abrogazione e specialmente l’interpretazione e l’applicazione».

 

[3] Amplius si rinvia a V. Italia, op. cit., pp. 26 e 27.

 

[4] Per un’ampia e puntuale disamina, suffragata da copiosa letteratura internazionale, si rinvia a G. Montedoro, Il giudice e l’economia, Roma, 2015, pp. 117 e ss..

 

[5] Mi permetto rinviare a P. Mantini, Introduzione al nuovo codice dei contratti pubblici, in Il nuovo diritto amministrativo, 1/2, 2016.

 

[6] In sostanza, l’ANAC finisce per sommare funzioni di vigilanza, di regolazione, di gestione, di amministrazione, di sanzione nonché poteri semi-giurisdizionali: «… 2. L’ANAC, attraverso linee guida, bandi-tipo, capitolati-tipo, contratti-tipo ed altri strumenti di regolamentazione flessibile, comunque denominati, garantisce la promozione dell’efficienza, della qualità dell’attività delle stazioni appaltanti, cui fornisce supporto anche facilitando lo scambio di informazioni e la omogeneità dei procedimenti amministrativi e favorisce lo sviluppo delle migliori pratiche. Trasmette alle Camere, immediatamente dopo la loro adozione, gli atti di cui al precedente periodo ritenuti maggiormente rilevanti in termini di impatto della regolamentazione, per numero di operatori potenzialmente coinvolti, riconducibilità a fattispecie criminose, situazioni anomale o comunque sintomatiche di condotte illecite da parte delle stazioni appaltanti. Resta ferma l’impugnabilità delle decisioni e degli atti assunti dall’Autorità innanzi ai competenti organi di giustizia amministrativa. 3. Nell’ambito dei poteri ad essa attribuiti, l’Autorità: a) vigila sui contratti pubblici, anche di interesse regionale, di lavori, servizi e forniture nei settori ordinari e nei settori speciali e sui contratti secretati o che esigono particolari misure di sicurezza ai sensi dell’articolo I, comma 2, lettera f-bis), della legge 6 novembre 2012, n. 190, nonché sui contratti esclusi dall’ambito di applicazione del codice; b) vigila affinché sia garantita l’economicità dell’esecuzione dei contratti pubblici e accerta che dalla stessa non derivi pregiudizio per il pubblico erario; c) segnala al Governo e al Parlamento, con apposito atto, fenomeni particolarmente gravi di inosservanza o di applicazione distorta della normativa di settore; d) formula al Governo proposte in ordine a modifiche occorrenti in relazione alla normativa vigente di settore; e) predispone e invia al Governo e al Parlamento una relazione annuale sull’attività svolta evidenziando le disfunzioni riscontrate nell’esercizio delle proprie funzioni; f) vigila sul sistema di qualificazione degli esecutori dei contratti pubblici di lavori ed esercita i correlati poteri sanzionatori; g) vigila sul divieto di affidamento dei contratti attraverso procedure diverse rispetto a quelle ordinarie ed opera un controllo sulla corretta applicazione della specifica disciplina derogatoria prevista per i casi di somma urgenza e di protezione civile di cui all’articolo 164 del presente codice; h) per affidamenti di particolare interesse, svolge attività di vigilanza collaborativa attuata previa stipula di protocolli di intesa con le stazioni appaltanti richiedenti, finalizzata a supportare le medesime nella predisposizione degli atti e nell’attività di gestione dell’intera procedura di gara. 4. L’Autorità gestisce il sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti e delle centrali di committenza…».

 

[7] Cons. St., comm.spec., par. 1 aprile 2016 n. 855, pp. 39 ss..