Cons. Stato, Sez., V, 11 settembre 2015, n. 4253

Il primo giudice ha accolto l’impugnazione proposta dall’odierna appellata affermando che xxx. s.p.a. non può essere affidataria diretta di appalti, in questo caso di servizi in quanto manca il requisito del cosiddetto “controllo analogo” da parte dell’Amministrazione di riferimento che legittima il ricorso a tale sistema di attribuzione degli appalti della Pubblica Amministrazione secondo i principi dell’“in house providing”.
Le parti appellanti obiettano, sulla base del parere della Seconda Sezione di questo Consiglio di Stato 30 gennaio 2015, n. 298, che il principio affermato dall’Adunanza Plenaria non è ulteriormente applicabile in quanto l’art. 12, par. 1, della direttiva 2014/24 ammette l’esistenza del controllo analogo anche in casi in cui il soggetto che opera in regime privatistico è partecipato da soggetti privati, purché tale partecipazione sia ristretta nei limiti ivi stabiliti.
Ad avviso della Seconda Sezione, fatto proprio dagli appellanti, il richiamato art. 12, par. 1, avendo contenuto sufficientemente preciso, è immediatamente applicabile nel nostro ordinamento.
L’orientamento espresso dalla Seconda Sezione non è condiviso dal Collegio che condivide, invece, quanto diversamente affermato dalla Sesta Sezione con la sentenza 26 maggio 2015, n. 2660.
Osserva, infatti, il Collegio che il legislatore comunitario ha individuato un termine per il recepimento della suddetta direttiva nei diversi ordinamenti nazionali, e che tale termine è ancora pendente.
Il legislatore comunitario ha quindi attribuito ai legislatori nazionali una sfera di discrezionalità nell’individuazione dei tempi per la trasposizione dei nuovi principi nei diversi ordinamenti, e per il necessario coordinamento con la normativa interna vigente.
Tali elementi impongono di escludere che i nuovi principi acquistino immediata efficacia nei singoli ordinamenti nazionali, fermo restando che gli stessi diventeranno immediatamente applicabili (ove suscettibili di utilizzazione immediata in ragione della loro sufficiente specificazione).
Tra l’altro, in forza dell’art. 12 della nuova direttiva appalti, le “forme di partecipazione di capitali privati” devono essere “prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati”. Nella specie, tale ulteriore condizione non sussiste.
 

LA SENTENZA IN PILLOLE

La sentenza in commento, confermando quella del giudice di prime cure, afferma il principio per cui la presenza di un socio privato nella compagine societaria è di per sé ostativa alla possibilità di ritenere legittimo l’affidamento diretto alla società stessa di pubblici servizi da parte del Comune, secondo il modulo dell’in house providing. La presenza di un socio privato, infatti, rende insussistente in radice il requisito del “controllo analogo”, necessario per l’integrazione dell’ipotesi dell’affidamento in house. Così argomentando, la pronuncia si pone nel solco della giurisprudenza “ classica” in tema di in house, che trova avallo negli arresti della Corte di Giustizia- sin dalla sentenza Teckal- e nell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato del 2008.

 La pronuncia in commento, tuttavia , è di particolare interesse perché emessa dopo l’adozione delle direttive comunitarie del 2014, che hanno innovato all’impostazione giurisprudenziale precedente, stabilendo che la presenza di un socio privato non esclude la configurabilità dell’affidamento in house. La questione interpretativa, quindi, si sposta sul piano dei rapporti tra il diritto interno ed il diritto comunitario, in quanto, ove le direttive in argomento fossero intese come self executing e, quindi, direttamente applicabili nell’ordinamento nazionale italiano, sarebbe possibile ritenere ormai escluso che la partecipazione totalitaria pubblica costituisca requisito imprescindibile ai fini della configurabilità di un affidamento in house. Invero, la questione in ordine al corretto ambito di applicazione delle direttive in argomento è  tutt’oggi aperta e ha generato un significativo contrasto giurisprudenziale. La pronuncia qui esaminata esclude tout court che le direttive possano produrre effetti diretti nel periodo di pendenza del termine per il recepimento e, in tal senso, va letta congiuntamente all’ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, effettuato in data 20-10-2015, dalla quinta sezione del Consiglio di Stato, che pare più ricca di argomentazioni sul tema. In contrasto con tale orientamento, il CDS, nel precedente parere n. 298/2015, reso in funzione consultiva, ha invece riconosciuto alle direttive il carattere self executing.

 Si tenterà, pertanto, di dar conto del panorama giurisprudenziale in materia di ammissibilità dell’in house providing, ponendo in termini problematici il tema dell’effetto verticale delle direttive, attraverso un raffronto tra gli arresti del Consiglio di Stato e quelli della Corte di Giustizia UE.

Successivamente, si farà riferimento allo stato del procedimento legislativo avviato per il recepimento delle direttive comunitarie in materia, ponendo in chiave problematica il tema delle fonti dell’in house providing.

 

CENNI SULL'IN HOUSE SULL'IN HOUSE PROVIDING

Come noto, l’istituto dell’in house providing è strettamente correlato all’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea in materia di ammissibilità di deroghe alla procedura ad evidenza pubblica, necessaria per gli appalti. Invero, stante il rilievo comunitario della concorrenza, alla cui tutela l’evidenza pubblica è finalizzata nell’ottica comunitaria, le deroghe alla gara devono ritenersi eccezionali e di stretta interpretazione. Nel caso dell’in house providing, l’affidamento diretto è ritenuto possibile proprio perché manca l’alterità tra soggetto pubblico affidante e soggetto, formalmente privato,  affidatario, cosicché si resterebbe nel campo della delega interorganica e si escluderebbe, ab origine, l’esternalizzazione ovvero l’outsourcing. In altri termini, l’affidamento in house è solo apparentemente un caso di esternalizzazione perché, in sostanza, costituisce una gestione in economia. In sintesi, la società cui è possibile effettuare l’affidamento diretto rappresenta un’articolazione, in forma societaria, dello stesso ente affidante. Ne deriva che l’in house non incide sul mercato e quindi, non costituendo un’ipotesi di esternalizzazione, non pone il problema della possibile lesione della concorrenza nel mercato interno.

Tale schema della delega interorganica si configura, come spiegato dalla Corte europea sin dalla storica sentenza Teckal, allorché sussistano diversi e congiunti requisiti: la società deve svolgere attività prevalente nell’interesse della p.a. affidante e deve essere sottoposta al controllo analogo da parte della stessa.

Il requisito dell’attività prevalente, per come chiarito nella successiva sentenza Cabotermo della Corte europea, dev’essere accertato con riferimento al fatturato dell’impresa che, secondo le direttive 2014, deve essere, per almeno l’80%, legato ai rapporti con l’ente pubblico.

Il requisito del controllo analogo implica, per un verso, il riconoscimento, in forza dello statuto del soggetto in house, di poteri particolari dell’ente pubblico nella formazione ed adozione delle decisioni societarie, che trascendano quelli propri del socio civilistico (ad esempio il diritto di veto o di nomina dei membri dell’organo decisionale del soggetto in house); per altro verso, implica, nella giurisprudenza costante fino alla direttiva n. 24 del 2014, una partecipazione pubblica totalitaria al capitale sociale.

In particolare, è stata la sentenza Brixen Parking della Corte di Giustizia a chiarire che la presenza del socio privato nella compagine societaria avrebbe escluso in radice il controllo analogo per evidente inquinamento da parte finalità lucrativo-privatistiche, cui il socio privato tende, a danno delle finalità pubblicistiche, cui la società in house deve ispirare la propria attività. Del resto, tale orientamento della Corte europea era stato recepito nel testo dell’art. 113 Tuel, come modificato dall’art. 23 bis d. l. 112/2008, comma 11, il quale stabiliva che, in ipotesi di società mista, fosse necessario l’espletamento di una doppia  gara, successivamente normata come unica ma a doppio oggetto, avente ad oggetto sia la scelta del socio privato sia all’affidamento alla società mista dell’appalto. Dunque, le norme interne escludevano che fosse possibile l’affidamento diretto in house ad una società con capitale pubblico non totalitario.

Se chiaro era lo stato della giurisprudenza sul tema e l’approdo normativo sul medesimo, è tuttavia profondamente mutato, nelle successive vicende dell’istituto, il quadro legislativo  del diritto italiano.

Come chiarito nell’ordinanza di remissione alla Corte Europea da parte del Consiglio di Stato, nel mese di ottobre 2015, il diritto nazionale, ad oggi,  non contiene una norma che disciplini i requisiti del rapporto in house.

Infatti, il comma 5 dell’art. 113 del d.lgs. 267/2000, in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, stabiliva che «L’erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio: …c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano»; tale comma  è stato abrogato dall’art. 23-bis del decreto legge n. 112/2008, per il quale «in deroga alle modalità di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l'affidamento può avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico, partecipata dall'ente locale, che abbia i requisiti richiesti dall'ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta "in house" e, comunque, nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e di prevalenza dell'attività svolta dalla stessa con l'ente o gli enti pubblici che la controllano».

A propria volta, il sopra riportato art. 23 bis è stato abrogato con il decreto del Presidente della Repubblica che ha dato esecuzione all’esito del referendum popolare, rivolto contro di esso.

Il vuoto normativo venutosi a creare è stato in parte colmato dall’art. 4, comma 13, del decreto legge n. 138/2011 (convertito dalla legge n. 148/2011), che consentiva l’affidamento in house a favore di società a capitale interamente pubblico, come scelta eccezionalmente praticabile nei soli casi in cui il valore economico del servizio oggetto dell’affidamento fosse pari o inferiore alla somma complessiva di 200.000 euro annui (somma così rideterminata dall’art. 25, del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1).

L’art. 4, comma 13, ora richiamato - che già non conteneva più alcun riferimento agli elementi necessari per poter affermare di essere in presenza di un ente in house - è stato dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 199/2012 della Corte Costituzionale.

Nell’attuale quadro normativo nazionale, non si rinviene, quindi, una disposizione che indichi gli elementi costituivi di un ente in house.

Lo stesso legislatore nazionale in molteplici discipline settoriali (es. art. 1, comma 423, 533, 609 l. 190/2014) ha richiamato la nozione di ente in house, rinviando all’ordinamento europeo per una sua corretta delimitazione.

Emblematico è il testo del secondo periodo del comma 1 dell'articolo 149-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, secondo il quale «L'affidamento diretto può avvenire a favore di società interamente pubbliche, in possesso dei requisiti prescritti dall'ordinamento europeo per la gestione in house, comunque partecipate dagli enti locali ricadenti nell'ambito territoriale ottimale».

Su tale complesso quadro disciplinatorio è intervenuta la direttiva europea n. 24/2014 che, nel ridefinire i contorni dell’in house, in particolare:1) stabilisce che per l’attività prevalente occorre verificare che il fatturato dell’ente sia per l’80% correlato all’attività svolta per l’ente pubblico socio ( ponendosi nel solco della sentenza Carbotermo); 2) che il controllo analogo possa sussistere anche se partecipa al capitale un socio privato purché non maggioritario.

Stanti le novità introdotte dalle direttive comunitarie sui requisiti dell’in house si pone, quindi, il problema di definire l’efficacia attuale di tali direttive nel diritto interno, alla luce del termine per il loro recepimento fissato nell’aprile 2016.

 

L'EFFICACIA DELLE DIRETTIVE COMUNITARIE DEL 2014 NEL DIRITTO INTERNO 

Come noto “ La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”  (art. 288, comma 3 TFUE).

Come sancito dalla Corte di giustizia UE, peraltro, onde garantire le esigenze di armonizzazione degli ordinamenti nazionali, non è il nomen iuris dell’atto comunitario a giustificare la sua idoneità a produrre effetti diretti in diritto interno, bensì il suo contenuto. Pertanto, non solo il regolamento, ma anche la direttiva può essere suscettibile di immediata applicazione se ha contenuto dettagliato.

Come chiarito da una delle prime sentenze della Corte di Giustizia europea in materia (Caso Van Gend en Loos, causa 26/62, sentenza 5 febbraio 1963), possono essere dotate di effetto diretto anche delle norme indirizzate agli Stati, purché siano chiare, precise e suscettibili di applicazione immediata e dunque non condizionata ad alcun provvedimento formale dell'autorità nazionale. Di tale caratteristica possono certamente essere dotati i regolamenti ma anche le direttive caratterizzate da un contenuto precettivo chiaro, preciso e incondizionato, cioè che non necessiti, per la sua sostanziale attuazione, di ulteriori atti (in questo senso si veda ad esempio il caso Van Duyn, causa 41/74, sentenza 4 dicembre 1974 e, per la giurisprudenza italiana, tra altre, si veda Cass Civ., 20 marzo 1966, n. 2369, in Foro Italiano, 1996, I, 1665).

Va peraltro chiarito che l'effetto diretto della direttiva non potrà essere fatto valere nei confronti di singoli ma solo ed esclusivamente nei confronti dello Stato o di enti territoriali (c.d. effetto diretto verticale) e, in genere, di qualsiasi organismo che, sulla base di un atto della pubblica autorità, presti un servizio di interesse pubblico e che disponga dei relativi poteri (Caso Foster, causa C-188/89, sentenza 12 luglio 1990). Per giurisprudenza maggioritaria, poi, la direttiva non potrà essere dotata del cosiddetto effetto diretto orizzontale: il singolo non potrà pertanto far valere un proprio diritto derivante da una direttiva nei confronti di altri singoli, in quanto la direttiva, per sua natura, vincola solo gli Stati cui è rivolta e non può essere fonte diretta di obblighi a carico di un singolo.

Strettamente correlato all'effetto diretto è l'obbligo del giudice nazionale di interpretare una norma di diritto nazionale in modo conforme ad una direttiva precedente o successiva alla stessa, indipendentemente dalla avvenuta attuazione della direttiva. Il parametro dell'interpretazione conforme è lo strumento maggiormente utilizzato per il caso di mancata attuazione di una direttiva priva di effetto diretto: il cittadino potrà invero pretendere l'applicazione immediata della direttiva, nonostante la mancanza di effetto diretto e nonostante la mancata attuazione nazionale della stessa.

La quinta sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza n.  04793/2015, rinvia pregiudizialmente alla Corte di Giustizia UE la definizione della questione relartiva ai contorni dell’in house providing a seguito delle direttive del 2014.

Per vero, il rinvio pregiudiziale in questione ha riguardo al solo requisito dell’attività prevalente riletto alla luce delle nuove direttive.

Tuttavia, la parte dell’ordinanza che viene in rilievo ai fini della presente trattazione, in ragione della sua correlazione alla sentenza in commento, è quella che concerne la questione in ordine all’applicabilità delle direttive 2014 prima del loro recepimento. Invero, mentre la sentenza in commento esclude de plano l’applicazione diretta della normativa europea e risolve il caso in esame applicando l’in house nella sua originaria disciplina, l’ordinanza di rinvio alla Corte di Giustizia si pone in termini maggiormente problematici. Essa, invero, pone un obbligo di interpretazione adeguatrice al precetto europeo, anche nelle more tra la pubblicazione della direttiva e la scadenza del termine per il recepimento, al fine di non vanificare l’effetto utile della normativa europea di armonizzazione. In parte qua, l’orientamento ricorda quello “ conservativo” dell’interpretazione costituzionalmente adeguatrice cui l’interprete è tenuto per “ salvare” la norma interna da profili di potenziale incostituzionalità.

Il paragone tra i due modelli di “ sforzo ermeneutico” dà, peraltro, conto di come la normativa europea tenda a porsi su un piano di sovra-ordinazione rispetto all’ordinamento interno nel senso che, nell’attesa di una normativa di recepimento, l’esclusione del carattere immediatamente applicativo della direttiva non giustifica una radicale indifferenza da parte dell’interprete. Emerge, in un certo senso, quell’orientamento monista espresso dalla Corte di giustizia a proposito dei rapporti tra il sistema comunitario e quello nazionale, assai contestato dalla Consulta nella nota querelle giurisprudenziale sorta tra i due Supremi Consessi sin dagli anni ‘70.

In questi termini si esprime l’ordinanza del Consiglio di Stato che ha effettuato il  rinvio pregiudiziale alla Corte Europea: 

“Le direttive n. 2014/23/UE (art. 17), n. 2014/24/UE (art.12), n. 2014/25/UE (art. 28) ne ( ndr, dell’istituto dell’in house providing) trattano gli elementi costitutivi, al fine di delimitare l’ambito di applicazione delle direttive sugli appalti e sulle concessioni.

Tali direttive, però, non sono applicabili ratione temporis alla fattispecie in esame, poiché - non essendo ancora scaduto il termine per il loro recepimento - non può essere esaminato il loro carattere self-executing.

Le previsioni in questione hanno comunque una rilevanza giuridica, pur minore rispetto al c.d. effetto diretto ovvero alla regola della «interpretazione giuridica conforme».

Infatti, in nome del principio di leale collaborazione, vi è un dovere di standstill, nel senso che il legislatore nazionale, nel periodo intercorrente tra la pubblicazione della direttiva nella GUUE e il termine assegnato per il suo recepimento, deve evitare qualsiasi misura che possa compromettere il conseguimento del risultato (C. giust. 18 dicembre 1997, C-129/96, Inter-EnvironnementVallonie), così come il giudice deve evitare qualsiasi forma di interpretazione o di applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare, dopo la scadenza del termine di attuazione, la messa in pericolo del risultato voluto dalla direttiva (C. giust. UE, 15 aprile 2008, C-268/08, Impact)”

Sembra interessante sottolineare come il Consiglio di Stato intenda il carattere self executing della direttiva come invocabile, quasi a sanzione del legislatore che violi il termine per il recepimento, solo dopo che il termine sia spirato. In altri termini, ad avviso del Consiglio di Stato, l’interprete non può porsi il quesito circa la natura dettagliata della norma comunitaria contenuta nella direttiva, traendone l’effetto verticale diretto, se non dopo che il legislatore abbia violato il termine per il recepimento. Sino allo spirare di quel termine, occorre salvaguardare la discrezionalità legislativa nel tinteggiare gli spazi normativi che la direttiva abbia lasciato al singolo Legislatore dello Stato membro. Tale orientamento, peraltro, sembra aggiungere il requisito della mancata trasposizione in diritto interno allo spirare del termine per il recepimento da parte del legislatore che, a ben vedere, non è immediatamente evincibile dalla sopra citata Corte UE ( Van Gend and Loose), che sembrava avere riguardo al solo contenuto della direttiva ai fini dell’effetto diretto.

La Corte Europea prevede invece l’obbligo di interpretazione conforme solo quando è escluso l’effetto diretto, correlato solo al contenuto dettagliato della direttiva, e prevede, in tale caso, il ristoro risarcitorio per il singolo.

Le norme (contenute in direttive) prive di effetti diretti, in quanto carenti dei requisiti di chiarezza, precisione e carattere incondizionato, assumono tuttavia rilevanza nell'ordinamento in via indiretta grazie all'obbligo di interpretazione conforme, che è posto in capo ai giudici nazionali e all'effetto legato alla responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell'Unione europea. Tale ultimo effetto, affermatosi con la sentenza Francovich del 1991, impone che lo Stato sia tenuto a risarcire il danno causato al singolo dalla mancata attuazione di una direttiva priva di effetti diretti a tre condizioni:

1.      che sia volta a conferire dei diritti ai singoli;

2.      che vi sia una grave e manifesta violazione del diritto (la Corte la presume per il fatto stesso della mancata attuazione da parte dello stato);

3.      che vi sia la presenza di un danno.

In conclusione, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia emerge che al singolo sono attribuite due forme di tutela: l’efficacia diretta della direttiva dettagliata a lui favorevole e il rimedio risarcitorio, previa interpretazione conforme, solo se la direttiva, inattuata, non era dettagliata. Non sembra che l’effetto diretto sia possibile solo se risulti scaduto il termine per l’attuazione appare una conseguenza del contenuto dettagliato dell’atto.

Peraltro, lo stesso Consiglio di Stato si è espresso in termini diversi con il parere 298 del 30-01-2015 nel quale, intervenendo in funzione consultiva e superando il diverso avviso di ANAC ed AGCOM, ha sostenuto la portata self executing della direttiva 24 del 2014 e, per questo, ha ritenuto che la partecipazione di capitale privato nel caso in questione non fosse ostativa alla configurabilità dell’in house.

Il quadro normativo e l’iter legislativo di recepimento della direttiva 24/2014.Intreccio della materia con il piano di riduzione delle società partecipate. Considerazioni finali.

Nell’attesa che la Corte Europea si pronunci sul rinvio pregiudiziale effettuato a fine ottobre dalla quinta sezione del Consiglio di Stato, è necessario considerare che il legislatore nazionale ha dato inizio all’iter per il recepimento delle direttive ma non lo ha ancora concluso. Più precisamente, con atto 16787 del 2015, approvato dal senato in data 18 giugno, si è stabilito che il Governo proceda con decreti legislativi e si è approvato lo schema di delega, poi trasmesso alla Camera, che, con atto n. 3194 (Disegno di legge: S. 1678. - "Delega al Governo per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”) ha  approvato il testo in data 17 novembre 2015, con modificazioni e, nuovamente, lo ha trasmesso al Senato.

Si sottolinea come, dai principi e criteri direttivi dello schema ancora non definitivo di delega, non si coglie uno specifico riferimento normativo ai requisiti costitutivi dell’in house providing. Da ciò si deduce che il nodo cruciale di tale istituto resta quello della sua fonte normativa, che si radica nella giurisprudenza della Corte di Giustizia - e poi interna- e continua a resistere alla instabile disciplina legislativa, sottoposta, come già evidenziato, a numerose modifiche nel tempo ( ex art. 23 bis d.l. 112/2008 e poi ex art. 4 d.l. 138/2011, passate attraverso il referendum abrogativo e la scure della Consulta.

Invero, l’attenzione del legislatore nazionale degli ultimi anni si è concentrata più che sugli aspetti scientifici dell’in house, sulla vicenda delle società partecipate e, soprattutto, sugli oneri alla finanza pubblica che da esse derivano. In tale direzione  si è posto il piano Cottarelli con cui, nella legge di stabilità per il 2015 ( Legge 190 2014 , Art. 1 commi da 609 a 616), si prevedeva una drastica riduzione delle partecipate ed uno stringente piano di razionalizzazione e riduzione delle stesse da 8.000 a 1.000. La questione è aperta, stante la non avvenuta approvazione della nuova legge di stabilità ad oggi.

Certo è che il legislatore sembra aver rinunciato ad imbrigliare l’in house entro norme stabili, forse perché memore della  breve durata delle norme adottate in passato e ha lascia alla giurisprudenza il compito di delineare i confini dell’istituto preoccupandosi, piuttosto, delle ripercussioni in danno delle partecipate sul piano della finanza pubblica. Invero, la presenza di norme puntuali in materia sarebbe particolarmente sentita in ragione dell’interferenza dell’istituto dell’in house providing con fenomeni di violazione delle regole di trasparenza negli appalti, esigenze particolarmente sentite presso gli enti locali ove l’affidamento diretto può degenerare in fenomeni corruttivi di grave entità ed ampiamente inverati negli ultimi mesi.

Le esigenze scientifiche sottese all’inquadramento dell’in house per via legislativa rischiano di rimanere inappagate: forse mancherà una norma ad hoc nel Tuel e la sedes materiae si sposterà sul piano contabile, rinvenendosi nella legge di stabilità, attraverso una riduzione delle società partecipate, confondendosi, così, la disciplina dei soggetti erogatori dei servizi pubblici con le modalità di gestione dei medesimi.

L’interprete, probabilmente, stando ai principi e criteri direttivi pure non definitivi, ricostruirà i contorni dell’istituto dell’in house providing senza avere chiare le norme interne di recepimento: per tale ragione, il problema dell’efficacia delle norme europee in materia di in house resterà centrale proprio perché il recepimento delle direttive in diritto interno potrebbe, col beneficio di un processo ad oggi in itinere, non soddisfare quelle esigenze di certezza delle regole e dei requisiti propri dell’istituto. Indi è possibile che le uniche norme certe sui requisiti dell’in house saranno quelle europee perché le norme interne di recepimento poco aggiungeranno sul tema. Pertanto la questione del loro effetto diretto si porrà certamente, stanti i diversi arresti giurisprudenziali sul tema del “ quando”, dopo la scadenza del termine di aprile 2016 per il recepimento.

 L’in house providing è destinato a continui mutamenti e a connotazioni dinamiche correlate alla fisiologica varietà della giurisprudenza che tende a mantenere un ruolo gius-poietico, sulla scorta di quella europea che ha rappresentato la culla dell’istituto. Se così è, le esigenze di certezza del diritto in una tanto delicata materia, che coinvolge le deroghe ai principi cardine sull’evidenza pubblica e la trasparenza nei pubblici appalti, restano, ad oggi, inappagate, stante il significativo contrasto giurisprudenziale sul tema e la lacuna normativa nei principi e criteri direttivi, ancora non definitivi, sul recepimento delle nuove direttive comunitarie.

Il quadro resta a tela bianca. Su tale tela dipingerà la Corte Europea, adita in sede di rinvio pregiudiziale o il legislatore nazionale a conclusione dell’iter per l’adozione dei decreti legislativi sul recepimento delle direttive comunitarie?

 L’istituto dell’in house providing resta sospeso tra fonte giurisprudenziale e fonte normativa, con buona pace delle esigenze di certezza del diritto in subiecta materia.

 

 

 

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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO
IN SEDE GIURISDIZIONALE
SEZIONE QUINTA
 
ha pronunciato la presente
 
SENTENZA
 
sul ricorso in appello numero di registro generale 2037 del 2015, proposto da:
xxx  s.p.a.  in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli avvocati xxx, con domicilio eletto presso l’avvocato xxx in Roma, viale (...);
 
contro
 
xxx. s.r.l., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall'avvocato xxx, con domicilio eletto presso l’avvocato xxx in Roma, via (...);
 
nei confronti di
 
Comune di xxx, in persona del Sindaco in carica, non costituito in questo grado del giudizio;
sul ricorso in appello numero di registro generale 2040 del 2015, proposto da:
Comune di xxx, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati xxx. e xxx., con domicilio eletto presso l’avvocato xxx. in Roma, viale (...);
 
contro
 
xxx. s.r.l., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall'avvocato xxx, con domicilio eletto presso l’avvocato xxx. in Roma, via (...);
nei confronti di
xxx. s.p.a., in persona del legale rappresentante, non costituito in questo grado del giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo del Friuli – Venezia Giulia n. 00629/2014, resa tra le parti, concernente affidamento del servizio di gestione dei rifiuti urbani ed assimilati.
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di xxx s.r.l.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visti gli artt. 74 e 120, co. 10, cod. proc. amm.;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 luglio 2015 il consigliere Manfredo Atzeni e uditi per le parti gli avvocati xxx ed altri;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
 
FATTO e DIRITTO
 
1. Con ricorso al Tribunale amministrativo del Friuli Venezia Giulia, x. s.r.l. impugnava la deliberazione n. 25 in data 26 maggio 2014 con la quale il Consiglio comunale di xxx aveva deciso l’adesione del Comune ad xxx. s.p.a. per affidarle il servizio di gestione dei rifiuti urbani ed assimilati a partire dal 1° luglio 2014; l’impugnazione era estesa alla delibera n. 96 in data 19 giugno 2014 con la quale la Giunta comunale di xxx aveva autorizzato il Segretario comunale a sottoscrivere gli atti necessari a dare attuazione alla predetta delibera ed alla delibera consiliare n. 33 in data 16 giugno 2014 concernente l’approvazione del piano finanziario per l’esercizio 2014 (costi di gestione dei rifiuti).
La ricorrente deduceva i seguenti motivi:
1) difetto di motivazione e falsa rappresentazione della realtà;
2) difetto di istruttoria in quanto la deliberazione consiliare principalmente impugnata è stata assunta sulla base di una relazione istruttoria inficiata da numerose carenze;
3) la diversità dei servizi offerti dalla ricorrente e da xxx s.p.a. non sono comparabili, anche in relazione alla diversità dei tempi di somministrazione delle prestazioni richieste; manca la convenienza economica ed al Consiglio comunale non è stata adeguatamente prospettata la scelta alternativa;
4) mancato rispetto dei principi comunitari in tema di “in house providing” per la genericità delle finalità di xxx spa. e per la partecipazione di privati al suo capitale sociale.
La ricorrente chiedeva quindi l’annullamento dei provvedimenti impugnati.
Con la sentenza in epigrafe, n. 629 in data 4 dicembre 2014, il Tribunale amministrativo del Friuli Venezia Giulia accoglieva il ricorso, per l’effetto annullando gli atti impugnati.
2. Avverso la predetta sentenza propongono appello xxx. s.p.a. (ricorso n. 2037/2015) ed il Comune di xxx (ricorso n. 2040/2015), contestando gli argomenti che ne costituiscono il presupposto e chiedendo la sua riforma ed il rigetto del ricorso di primo grado.
In entrambi i giudizi si è costituita xxx. s.r.l., chiedendo che gli appelli vengano dichiarati improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse ovvero respinti nel merito ovvero ancora, in caso di accoglimento dell’appello, venga dichiarata la nullità della delibera n. 25/2014 per difetto assoluto di attribuzione; in estremo subordine, chiede l’accoglimento delle censure assorbite dal primo giudice e riproposte nel presente grado.
Gli appellanti hanno depositato memoria.
I ricorsi sono stati congiuntamente discussi e assunti in decisione alla pubblica udienza del 9 luglio 2015.
3. Gli appelli in epigrafe devono essere riuniti onde definirli con unica sentenza in quanto sono rivolti avverso la stessa sentenza di primo grado.
3.a. Non può essere accolta l’eccezione di improcedibilità sollevata dalla parte appellata.
Il primo giudice ha accolto l’impugnazione proposta dall’odierna appellata affermando che xxx. s.p.a. non può essere affidataria diretta di appalti, in questo caso di servizi in quanto manca il requisito del cosiddetto “controllo analogo” da parte dell’Amministrazione di riferimento che legittima il ricorso a tale sistema di attribuzione degli appalti della Pubblica Amministrazione secondo i principi dell’“in house providing”.
Nella compagine della predetta Società è infatti ricompreso il Consorzio per la Zona Industriale xxx del quale – il dato è pacifico – all’epoca facevano parte soggetti privati.
L’appellata riferisce che dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado la s.p.a. appellante ha proceduto all’acquisto delle azioni di proprietà del suddetto Consorzio, con un notevole esborso, in tal modo dimostrando la volontà di modificare la propria compagine per adeguarla ai principi dettati dalla sentenza oggetto degli appelli ora in trattazione.
Tale ragionamento, come anticipato, non può essere condiviso.
In primo luogo, l’accoglimento dell’appello escluderebbe la proponibilità di azioni risarcitorie da parte dell’appellata, e tale profilo è di per sé sufficiente a fondare l’interesse alla proposizione del gravame.
In secondo luogo, la riforma della sentenza di primo grado consentirebbe agli appellanti di procedere ad una nuova attribuzione di quote al suddetto Consorzio e ad un nuovo affidamento diretto dell’appalto alla s.p.a. appellante secondo lo schema dell’“in house providing”.
Inoltre, la delibera 29 dicembre 2014, n. 78, con cui il Comune ha proceduto alla riapprovazione dell’affidamento e dei relativi atti, è stata impugnato dalla xxx. s.r.l. con ricorso al T.A.R., la cui udienza di discussione risulta fissata il 7 ottobre 2015.
Gli appelli devono pertanto essere esaminati nel merito.
3.b. Gli stessi sono peraltro infondati.
Gli appellanti sostengono in primo luogo che il ricorso di primo grado doveva essere dichiarato inammissibile in quanto l’atto effettivamente lesivo degli interessi dell’odierna appellata è costituito da quello con il quale è stata costituita la s.p.a. xxx., ovvero dalla deliberazione con la quale l’assemblea di coordinamento intercomunale ha stabilito la prosecuzione delle gestioni affidate alla predetta Società fino al 31 dicembre 2030.
La tesi non può essere condivisa.
La controversia ora sottoposta al Collegio riguarda esclusivamente la gestione dei rifiuti urbani del Comune di xxx, affidata alla s.p.a. appellante solo con la deliberazione di quel Consiglio Comunale n. 25 in data 26 maggio 2014, tempestivamente impugnata.
Deve quindi essere condiviso l’orientamento del primo giudice, il quale ha sottolineato come alla ricorrente non potesse essere accollato l’onere di impugnare atti non direttamente incidenti sull’affidamento del servizio alla cui gestione aspira e di cui ora si tratta.
3.c. Vanno poi condivise le argomentazioni del primo giudice, che rileva come la presenza di un socio privato nell’ambito della compagine sociale della s.p.a. appellante esclude che nei suoi confronti la stazione appaltante eserciti un controllo analogo a quello che esercita nei confronti dei propri uffici.
La tesi del primo giudice è, invero, conforme a giurisprudenza sostanzialmente pacifica.
C. di S., A.P., 3 marzo 2008, n. 1, che il Collegio condivide, ha infatti affermato che solo la partecipazione totalitaria delle amministrazioni pubbliche, e la totale assenza di soggetti privati nella compagine sociale, consentono di ravvisare nel soggetto affidatario la sottoposizione al cosiddetto “controllo analogo” (l’orientamento consacrato dall’Adunanza Plenaria è pacificamente seguito dalla giurisprudenza successiva: da ultimo, C. di S., III, 27 aprile 2015, n. 2154).
La stessa sentenza dell’Adunanza Plenaria ha inoltre affermato espressamente che esula dal sistema dell’“in house providing” il diverso fenomeno del cosiddetto “partenariato pubblico – privato” al quale sembra riconducibile l’assetto della s.p.a. appellante.
Il principio affermato dall’Adunanza Plenaria è applicabile al caso che ha originato la presente controversia, nel quale è pacifico che le amministrazioni che l’hanno costituita non esercitano, sulla s.p.a. appellante, un controllo totalitario, in quanto fra di esse se ne trova una partecipata, all’epoca, da soggetti privati.
Le parti appellanti obiettano, sulla base del parere della Seconda Sezione di questo Consiglio di Stato 30 gennaio 2015, n. 298, che il principio affermato dall’Adunanza Plenaria non è ulteriormente applicabile in quanto l’art. 12, par. 1, della direttiva 2014/24 ammette l’esistenza del controllo analogo anche in casi in cui il soggetto che opera in regime privatistico è partecipato da soggetti privati, purché tale partecipazione sia ristretta nei limiti ivi stabiliti.
Ad avviso della Seconda Sezione, fatto proprio dagli appellanti, il richiamato art. 12, par. 1, avendo contenuto sufficientemente preciso, è immediatamente applicabile nel nostro ordinamento.
L’orientamento espresso dalla Seconda Sezione non è condiviso dal Collegio che condivide, invece, quanto diversamente affermato dalla Sesta Sezione con la sentenza 26 maggio 2015, n. 2660.
Osserva, infatti, il Collegio che il legislatore comunitario ha individuato un termine per il recepimento della suddetta direttiva nei diversi ordinamenti nazionali, e che tale termine è ancora pendente.
Il legislatore comunitario ha quindi attribuito ai legislatori nazionali una sfera di discrezionalità nell’individuazione dei tempi per la trasposizione dei nuovi principi nei diversi ordinamenti, e per il necessario coordinamento con la normativa interna vigente.
Tali elementi impongono di escludere che i nuovi principi acquistino immediata efficacia nei singoli ordinamenti nazionali, fermo restando che gli stessi diventeranno immediatamente applicabili (ove suscettibili di utilizzazione immediata in ragione della loro sufficiente specificazione).
Tra l’altro, in forza dell’art. 12 della nuova direttiva appalti, le “forme di partecipazione di capitali privati” devono essere “prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati”. Nella specie, tale ulteriore condizione non sussiste.
Il ragionamento degli appellanti non può, in conclusione, essere condiviso.
4. Gli appelli devono, di conseguenza, essere respinti; deve essere assorbito l’esame degli ulteriori profili proposti nel presente grado dalla parte appellata.
Le spese di entrambi i gradi del giudizio devono essere integralmente compensate fra le parti, in ragione della complessità della controversia e degli elementi di dubbio introdotti dal richiamato parere della Seconda Sezione.
 
P.Q.M.
 
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) riunisce i ricorsi in appello n. 2037/2015 e 2040/2015 e, definitivamente pronunciando sui medesimi, li respinge.
Compensa integralmente spese ed onorari del giudizio fra le parti costituite.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 luglio 2015.