Consiglio di Stato, Sez. VI, 29 gennaio 2021, n. 874

La necessità del rigoroso rispetto delle norme sulla concorrenza, mentre non incide sul potere dei consigli notarili di sanzionare sul piano disciplinare eventuali abusi o mancanze che dovessero essere accertati, esclude, invece, che i detti organi possano porre in essere interventi il cui oggetto o il cui effetto sia quello di alterare, nella sostanza, la libera competizione tra i professionisti e ciò anche laddove gli stessi siano motivati con riferimento alla dichiarata esigenza di disciplinare, nel preminente interesse pubblico, fenomeni, come quello della dismissione del patrimonio immobiliare pubblico, caratterizzati dalla presenza di un’imponente mole di atti da stipulare in tempi ristretti

Nell’ambito del fenomeno della dismissione degli edifici pubblici, il Consiglio notarile distrettuale non può designare i notai competenti a stipulare i singoli atti dei processi di dismissione in quanto tale designazione persegue un fine anticompetitivo vietato dall’art. 2 legge 10 ottobre 1990, n. 287[1].

La normativa primaria in materia di dismissioni immobiliari (D.lgs. n. 104/1996 e D.L. n. 351/2001) non assegna ai Consigli notarili alcun ruolo nelle relative procedure e, in particolare, non attribuisce agli stessi il potere di individuare il notaio rogante.

Ricorda la sentenza in esame che, secondo la giurisprudenza anche eurounitaria[2], la nozione europea di impresa include anche l’esercente di una professione intellettuale, con la conseguenza che il relativo Ordine professionale può essere qualificato alla stregua di un’associazione di imprese ai sensi dell’art. 101 TFUE. Né lo status di diritto pubblico di un’organizzazione professionale osta all’applicazione dell'art. 85 del Trattato il quale si applica ad accordi fra imprese e a decisioni di associazioni di imprese[3].

Invero, l’attività del notaio s’inquadra a pieno titolo nel genus del lavoro autonomo e, precisamente, nell’esercizio delle professioni intellettuali per cui, sotto tale aspetto, ogni meccanismo diretto alla limitazione della concorrenza riguardo ai profili della distribuzione della clientela per dismissioni immobiliari di massa e della determinazione delle tariffe dei servizi notarili risulta contrario a norme e principi antitrust.

Pertanto, quand’anche le disposizioni nazionali consentissero la designazione, le stesse risulterebbero in contrasto con i principi di cui all’art. 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) e quindi sarebbero da disapplicare.

La decisione richiama giurisprudenza, nazionale e della Corte di giustizia, ma induce a talune considerazioni.

In particolare, si pone il dubbio su come possa conciliarsi la libera competizione tra notai quali professionisti con il loro ruolo di pubblici ufficiali, garanti della legalità e della certezza del diritto degli atti negoziali.

All’interpretazione funzionale della nozione di impresa che, secondo il giudice eurounitario, comprende il notaio, in quanto esercita un’attività economica per l’offerta di servizi sul mercato, si oppone il ruolo di pubblico ufficiale.

D’altronde, la dismissione del patrimonio immobiliare pubblico ha una importante incidenza sul piano economico-finanziario nazionale e l’affidamento del servizio di stipula dei relativi atti alle regole della libera competizione può indurre a situazioni di monopolio sfuggevoli ad ogni controllo. In sostanza, le regole della libera competizione possono paradossalmente sortire il temuto effetto anticompetitivo, come sembrerebbe emergere dalla controversia di cui la sentenza in esame si occupa.

In verità, il fenomeno dismissivo di cui trattasi coinvolge più settori e interessi anche contrapposti, da una parte il patrimonio pubblico in vendita e i singoli acquirenti-consumatori, da un’altra il mercato bancario, finanziario, immobiliare e professionale. In tale contesto il legislatore ha il dovere d’intervenire per evitare fenomeni speculativi e, al tempo stesso, di tutelare l’interesse pubblico, l’acquirente contraente debole, nonché la certezza delle transazioni civili.

Dovere tanto più cogente nell’attuale momento storico in cui la giustizia è in forte sofferenza e i notai possono avere un ruolo decisivo.


[1] Art. 2 legge 10 ottobre 1990, n. 287: 1. Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari.

2. Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel:

a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali;

b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi, o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico;

c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;

d) applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza;

e) subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l'oggetto dei contratti stessi.

3. Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto.

 

[2] Corte giust. UE, Sez. IV, 18 luglio 2013, C-136/12; Id., 12 settembre 2000, cause riunite C-180/98 - C-184/98; Cons. Stato, Sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238; Id., 22 marzo 2016, n. 1164.

[3] Sulla natura di organismo pubblico degli ordini professionali: Cons. Stato, Sez. VI, 27 luglio 2011, n.4496; Id. Sez. III, 11 giugno 2010, n. 139; Cass., Sez. un., ord. 12 marzo 2008, n. 6534; Id., Sez. III, 30 novembre 2006, n. 25504.

LEGGI LA SENTENZA

Pubblicato il 29/01/2021

N. 00874/2021REG.PROV.COLL.

N. 07920/2018 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7920 del 2018, proposto da
-OMISSIS-, in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Patrizio Leozappa, Antonio Catricalà e Philipp Fabbio, con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio del secondo, in Roma, via Vittoria Colonna, n. 40;

contro

Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata ex lege;

nei confronti

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Marco Di Lullo, con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso il suo studio, in Roma, via Michele Mercati, n. 51;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio -Roma (Sezione Prima) n. -OMISSIS-/2018, resa tra le parti, concernente un provvedimento sanzionatorio.


 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e di -OMISSIS-;

Visti tutti gli atti della causa

Relatore nella pubblica udienza telematica del giorno 14 gennaio 2021 il Cons. Alessandro Maggio e uditi per le parti gli avvocati Patrizio Leozappa, Phillip Fabbio, e Marco Di Lullo nonché l’avvocato dello Stato Paolo Gentili, in collegamento da remoto, ai sensi dell'art. 4, comma 1, del Decreto Legge n. 28 del 30 aprile 2020 e dell'art. 25, comma 2, del Decreto Legge n. 137 del 28 ottobre 2020;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


 

FATTO e DIRITTO

Su segnalazione del notaio -OMISSIS-, operante nel distretto notarile di -OMISSIS-, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM o Autorità), ha avviato un’istruttoria volta ad appurare se, nell’ambito del fenomeno della dismissione degli edifici pubblici, il Consiglio -OMISSIS- (di seguito CND) e l’Associazione -OMISSIS- (d’ora in avanti solo Associazione o ASNODIM) avessero posto in essere condotte idonee a limitare la concorrenza tra i notai.

All’esito dell’indagine l’Autorità ha adottato il provvedimento, 30/5/2017, n. 26625 con cui, ritenuto che CND e Associazione fossero responsabili di un’intesa restrittiva della concorrenza, ai sensi dell'art. 2 della L. 10/10/1990, n. 287, ha irrogato loro una sanzione amministrativa, pari, rispettivamente, a € 71.106,89 e a € 145.408,80, imponendo agli stessi, inoltre, l'obbligo di assumere misure atte a porre termine all'illecito riscontrato e di astenersi, in futuro, dal porre in essere comportamenti analoghi a quello sanzionato.

A giudizio dell’AGCM, CND e Associazione, avrebbero posto in essere un’intesa unica, complessa, articolata e continuata nel tempo, avente per oggetto e per effetto di eliminare ogni possibile spazio di confronto competitivo tra i notai del distretto nel settore delle dismissioni del patrimonio immobiliare degli enti pubblici e previdenziali e di fissare, nel medesimo settore, i prezzi dei servizi notarili.

La detta finalità illecita sarebbe stata conseguita attraverso una pluralità di condotte tra cui, in particolare: a) l’adozione, da parte del CND della delibera 29/5/2006, n. 2287 (la quale attribuiva al medesimo CND il potere di designare, in maniera vincolante, i notai che avrebbero dovuto stipulare i singoli atti dei processi di dismissione); b) la stipula di protocolli d’intesa con gli enti proprietari (ai quali erano allegate tabelle degli onorari in forma fissa); c) un’attività di monitoraggio sui singoli notai; d) l’esercizio strumentale del potere disciplinare.

Al raggiungimento del fine anticompetitivo avrebbe cooperato l’Associazione, coadiuvando il CND nell’opera di designazione dei notai, nell’attività di monitoraggio e nella ripartizione dei corrispettivi tra gli associati.

La condotta illecita avrebbe avuto inizio con l’adozione della delibera n. 2287/2006 e sarebbe risultata ancora in corso, quanto meno con riguardo ai profili concernenti i tariffari allegati ai protocolli d’intesa, al momento di emanazione del provvedimento sanzionatorio.

Ritenendo quest’ultimo illegittimo, CND e Associazione lo hanno impugnato con ricorso al T.A.R. Lazio – Roma, il quale, con sentenza 1/6/2018, n. 6105, pur ritenendo fondati alcuni profili di censura, lo ha respinto, ritenendo che il provvedimento in sostanza resistesse rispetto ai motivi di ricorso.

Avverso la sentenza hanno proposto appello il CND e l’Associazione.

Per resistere al ricorso si sono costituiti in giudizio l’AGCM e il notaio -OMISSIS-.

Con successive memorie le parti hanno meglio illustrato le rispettive tesi difensive.

All’udienza telematica del 14/1/2021 la causa è passata in decisione.

Col primo motivo si lamenta che il Tribunale avrebbe posto a base della decisione un’incompleta ricognizione della normativa applicabile alla fattispecie.

Nello specifico non sarebbe stato dato il giusto rilievo al ruolo svolto dall’Osservatorio, previsto dall’art. 10 del D. Lgs. 16/02/1996, n. 104 e operativo sino al 2003, ex art. 47 della L. 23/12/2000, n. 388.

Tale organo, nell’esercizio dei compiti di promozione, coordinamento e vigilanza assegnatigli dalla legge nell’ambito delle procedure di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico, ha redatto, in data 26/4/2001, un vademecum il quale, con valore che parte appellante ritiene cogente (come da circolare del Ministero del Lavoro in data 26/7/2001), avrebbe stabilito che: “Il notaio incaricato della stipula degli atti necessari viene nominato dai consigli notarili distrettuali oppure dalle Associazioni del Notariato” (punto 3.5.1).

Il ruolo dei notai e del CND sarebbe stato, poi, ribadito nei decreti del Ministero dell’Economia e delle Finanze 18/12/2001 e 21/11/2002.

Sulla base del primo, in particolare, è stata stipulata la “Convenzione per la Regolamentazione dei rapporti tra la SCIP società Cartolarizzazione Immobili Pubblici Srl e l’Agenzia del Territorio” del 12/3/2002, la quale, con riferimento alle dismissioni di cui al D.L. 25/9/2001, n. 351, conv. in L. 23/11/2001 n. 410, nel disciplinare le operazioni di vendita degli immobili da dismettere, avrebbe espressamente previsto la nomina di un notaio da parte del CND (artt. 4 e 5 e allegato 1).

La condotta tenuta da CND e Associazione troverebbe, quindi, giustificazione nei richiamati atti.

La doglianza è infondata.

Come correttamente rilevato dall’AGCM prima e dal Tribunale poi, la normativa primaria applicabile alla fattispecie (D.Lgs. n. 104/1996 e D.L. n. 351/2001 più sopra citati) non assegna ai Consigli notarili alcun ruolo nelle procedure di dismissione e, in particolare, non attribuisce agli stessi il potere di individuare il notaio rogante.

Né tale funzione è riconosciuta all’Osservatorio, al quale gli artt. 10 e 12 del citato D.Lgs. n. 104/1996, si limitano ad affidare, con riguardo alle procedure di dismissione del patrimonio immobiliare, compiti di promozione, coordinamento e vigilanza.

Nemmeno gli ulteriori atti invocati nel motivo in esame sorreggono la tesi di parte appellante.

Quanto al c.d. vademecum, è sufficiente osservare che il punto 3.5.1, dopo aver previsto che il notaio rogante sia “nominato dai consigli notarili distrettuali, oppure dalle Associazioni del Notariato”, contempla espressamente la possibilità che singoli acquirenti o “i componenti del soggetto collettivo vogliano esercitare il diritto di nominare un notaio di propria fiducia”.

Ne consegue che quand’anche tale atto fosse vincolante per gli acquirenti - ma non lo è perché la circolare ministeriale all’uopo invocata da parte appellante si limita ad affermare che quest’ultimo avrà “valore impegnativo (soltanto) per gli enti” proprietari degli immobili da cedere – non potrebbe in alcun caso essere addotto a giustificazione della condotta censurata.

Irrilevanti ai fini di causa risultano anche le convenzioni stipulate sulla base dei DD.MM. 18/12/2001 e 21/11/2002.

Queste ultime, infatti, mirano unicamente a disciplinare il rapporto tra la Società Cartolarizzazione Immobili e l’Agenzia del Territorio (unici soggetti contraenti) relativo alle attività demandate alla seconda nell’ambito delle procedure di dismissione degli immobili pubblici ivi considerati (determinazione del valore di mercato dei beni, regolarizzazione tecnico-ipotecaria-catastale degli stessi) e menzionano la nomina del notaio da parte dei consigli notarili senza alcun valore precettivo e senza qualificarla come di esclusiva competenza di questi ultimi.

Si tratta, comunque, di atti intervenuti tra soggetti terzi, di per sé inidonei a introdurre deroghe alla facoltà degli acquirenti di scegliere liberamente il notaio di propria fiducia.

La condotta contestata non può trovare giustificazione nemmeno nell’art. 35 del codice deontologico adottato dal Consiglio Nazionale del Notariato con delibere n. 1/1625 del 25/3/2004 e n. 4/1628 del 15/4/2004.

Tale norma, nel prevedere che “Nelle ipotesi di rilevanti fenomeni di vasta contrattazione riguardanti il patrimonio di enti pubblici o degli enti ad esse assimilati (c.d. privatizzazioni o dismissioni), i Consigli notarili distrettuali – in considerazione del superiore interesse pubblico che li caratterizza e in accordo con detti enti – possono organizzare l’assunzione e la distribuzione degli incarichi fra i notai del Distretto che si dichiarino disponibili”, fa, comunque, “salva la facoltà del singolo acquirente di designare tempestivamente un notaio diverso”.

Peraltro, l’addebito anticoncorrenziale sussisterebbe quand’anche la condotta di parte appellante potesse trovare giustificazione nelle disposizioni contenute nella menzionata normativa primaria o negli altri atti più sopra indicati.

E invero, in tal caso le dette disposizioni risulterebbero in contrasto con i principi di cui all’art. 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) e quindi da disapplicare.

Tale norma stabilisce, al comma 1, che “sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno…” (in senso analogo dispone l’art. 2 della L. n. 287/1990).

Orbene, “la giurisprudenza, europea e nazionale, ha affermato che la nozione europea di impresa include anche l’esercente di una professione intellettuale, con la conseguenza che il relativo Ordine professionale può essere qualificato alla stregua di un’associazione di imprese ai sensi dell’art. 101 TFUE. In particolare, si è rilevato che un’organizzazione professionale, quando adotta un atto come il codice deontologico, «non esercita né una funzione sociale fondata sul principio di solidarietà né prerogative tipiche dei pubblici poteri». Essa «appare come l’organo di regolamentazione di una professione il cui esercizio costituisce, peraltro, un’attività economica» (Corte di giustizia, sentenza 18 luglio 2013, C-136/12; Cons. Stato, sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238…)” (così Cons. Stato, Sez. VI, 22/3/2016, n. 1164, in tal senso anche Corte Giust. UE 12/9/2000, in cause riunite da C-180/98 a C-184/98 la quale ha affermato che “lo status di diritto pubblico di un'organizzazione professionale non osta all'applicazione dell'art. 85 del Trattato. Questo articolo, stando alla sua lettera, si applica ad accordi fra imprese e a decisioni di associazioni di imprese. Pertanto, l'ambito giuridico entro il quale è adottata una decisione di associazione nonché la definizione giuridica di tale ambito data dai vari ordinamenti giuridici nazionali sono irrilevanti ai fini dell'applicazione delle regole comunitarie di concorrenza e in particolare dell'art. 85 del Trattato”).

Invero, l'attività del notaio si inquadra a pieno titolo nel genus del lavoro autonomo e, precisamente, nell'esercizio delle professioni intellettuali (Cass. Civ., Sez. II, 10/11/1998, n. 11284; 11/5/2012, n. 7404; Sez. III, 28/9/2012, n. 16549), per cui, sotto tale aspetto, ogni meccanismo diretto alla limitazione della concorrenza riguardo ai profili sopra elencati (distribuzione della clientela per dismissioni immobiliari di massa e determinazione dei prezzi), risulta contrario a norme e principi antitrust.

Come ha chiarito la Corte di giustizia, i notai, “nei limiti delle loro rispettive competenze territoriali”, esercitano la loro professione “in condizioni di concorrenza” e la circostanza che le attività notarili perseguano obiettivi di interesse generale, miranti in particolare a garantire la legalità e la certezza del diritto degli atti conclusi tra privati, non è sufficiente a far considerare quelle attività (soltanto) come una forma di “partecipazione diretta e specifica all'esercizio dei pubblici poteri” (Corte Giust. UE, Grande Sezione, 24/5/2011, in C-50/08; in termini anche Cass. Civ., Sez. II, 14/2/2013, n. 3715).

Il giudice eurounitario afferma, infatti, che occorre adottare un’interpretazione funzionale della nozione di impresa, riconoscendola in ogni soggetto, tra cui il notaio, che eserciti un’attività economica offrendo beni e servizi sul mercato, mentre al riguardo deve prescindersi da ogni riferimento allo status giuridico e alle modalità di organizzazione e finanziamento del soggetto (Corte Giust. UE, 10 settembre 2015, in C-151/14).

Solo l’esercizio del potere disciplinare da parte dei Consigli notarili si sottrae a norme e principi sulla concorrenza, come puntualizzato dalla Corte regolatrice, secondo cui le norme sulla concorrenza “devono ritenersi inapplicabili agli organi del Consiglio notarile, quando esercitano la funzione disciplinare, posto che in tal caso non regolano l’attività economica svolta dai notai nell’offrire servizi sul mercato, ma, con prerogative tipiche dei pubblici poteri, adempiono, in sostanza, a una funzione sociale fondata sul principio di solidarietà” (Cass. Civ., Sez. II, 5/5/2016, n. 9041).

Tale acquisizione giurisprudenziale trova ora espresso riscontro nell’art. 93-ter della L. 16/2/1913, n. 89 (recante disposizioni “Sull’ordinamento del notariato e degli archivi notarili”), il cui comma 1-bis, aggiunto dall'art. 1, comma 495, lett. c), della L. 27/12/2017, n. 205, stabilisce che “Agli atti funzionali al promovimento del procedimento disciplinare si applica l'articolo 8, comma 2, della legge 10 ottobre 1990, n. 287”, norma quest’ultima che, per l’appunto, prevede che “Le disposizioni di cui ai precedenti articoli non si applicano alle imprese che, per disposizioni di legge, esercitano la gestione di servizi di interesse economico generale ovvero operano in regime di monopolio sul mercato, per tutto quanto strettamente connesso all'adempimento degli specifici compiti loro affidati”.

Dal delineato quadro normativo e giurisprudenziale emerge, quindi, che eventuali norme o atti che autorizzassero i consigli notarili a porre in essere condotte idonee a incidere negativamente sulla concorrenza, rectius, su quella parte dell’attività del Notaio che, pur pubblico ufficiale a numero chiuso, all’esterno in poco si distingue dagli altri liberi professionisti, violerebbero le norme di cui ai citati artt. 101 TFUE e 2 della L. n. 287/1990.

La necessità del rigoroso rispetto delle norme sulla concorrenza, mentre non incide sul potere dei consigli notarili di sanzionare sul piano disciplinare eventuali abusi o mancanze che dovessero essere accertati, esclude, invece, che i detti organi possano porre in essere interventi il cui oggetto o il cui effetto sia quello di alterare, nella sostanza, la libera competizione tra i professionisti e ciò anche laddove, come nella fattispecie, gli stessi siano motivati con riferimento alla dichiarata esigenza di disciplinare, nel preminente interesse pubblico, fenomeni, come quello della dismissione del patrimonio immobiliare pubblico, caratterizzati dalla presenza di un’imponente mole di atti da stipulare in tempi ristretti.

Col secondo motivo si lamenta, innanzitutto, che il Tribunale, dopo aver ritenuto insussistente una delle componenti della condotta contestata, ovvero l’uso strumentale del potere disciplinare in funzione anticoncorrenziale, non ne avrebbe tratto le dovute conseguenze escludendo tout court la sussistenza dell’intesa.

Così facendo, però, il giudice di prime cure avrebbe ridisegnato l’illecito sostituendosi all’Autorità ed esorbitando, conseguentemente, dai propri poteri.

Si deducono, inoltre, i sottoelencati vizi della sentenza.

a) L’appellata decisione sarebbe in contrasto con i principi affermati dal medesimo Tribunale con sentenza 27/2/2017, n. 2903 che, pronunciando sulla stessa delibera n. 2287/2006 contestata dall’Autorità, ne avrebbe riconosciuto la legittimità.

Sarebbe, peraltro, illogico da una parte ritenere legittimo il meccanismo di rotazione degli incarichi e dall’altra sostenere che nella specie il medesimo sia stato usato “al fine di conculcare il diritto del consumatore di scegliere il professionista di fiducia”.

Il principio affermato dal Tribunale sarebbe recessivo di fronte all’eccezionalità delle dismissioni pubbliche atteso l’enorme numero degli atti da stipulare nell’arco di un ristretto periodo di tempo e la necessità del rigoroso rispetto, in ordine a ciascuna stipula, delle norme notarili che disciplinano l’esercizio della funzione (personalità della prestazione), la redazione dell’atto pubblico (obbligo di lettura) e la terzietà del notaio (divieto di intermediazione anche gratuita finalizzato a impedire fenomeni di accaparramento e corruttela).

b) Il Tribunale avrebbe errato ad avallare la tesi dell’AGCM secondo cui, nella distribuzione degli incarichi, il CND avrebbe disatteso i criteri fissati nella delibera n. 2287/2006.

Infatti, quanto agli immobili Enasarco sarebbero stati considerati notai che all’epoca in cui il processo di dismissione si è concluso non avevano manifestato la loro disponibilità, mentre gli incarichi concernenti il patrimonio di Roma Capitale sarebbero stati distribuiti fra un elevato numero di notati iscritti a ruolo da poco tempo e con repertori molto bassi.

c) Con riguardo alle tariffe non sarebbero condivisibili le affermazioni del Tribunale laddove ha sostenuto che “fin dal 2006, a mezzo del c.d. decreto Bersani, il legislatore nazionale ha introdotto importanti principi in materia di liberalizzazione delle professioni” e che “il provvedimento ha

documentatamente dimostrato, al par. 186, lo scollamento tra prezzi fissati e abbattimento delle tariffe alla quale i notai sarebbero stati tenuti per legge, nonché, al par. 189, il fatto che i prezzi fossero fissi e non massimi e, infine, al medesimo par. 189, la non riconducibilità ad una pattuizione tra le parti - dell’atto da rogare - dell’accordo raggiunto tra Consiglio ed enti proprietari”.

Infatti, le tariffe sono state abrogate solo con il D. L. 24/1/2012, n. 1, e le tabelle allegate alle convenzioni stipulate prima della sua entrata in vigore, sarebbero state conformi alla normativa all’epoca vigente che non avrebbe consentito alcuna contrattazione in materia di prezzo della prestazione notarile.

La sentenza, sarebbe errata anche laddove conferma i rilievi dell’Autorità concernenti la ravvisata violazione dall’art. 3, comma 19, del D.L. n. 351/2001 che prevedeva l’abbattimento dei prezzi degli atti notarili relativi alle dismissioni. Infatti, non avrebbe tenuto presente che la menzionata norma faceva espresso riferimento alla riduzione dei soli onorari, senza prevedere alcunché in ordine ai compensi, pure spettanti ai notai in base alla tariffa (artt. 19, 24, 25 e 27), importi questi ultimi dovuti, quindi, per intero.

Relativamente al periodo successivo all’entrata in vigore del D.L. n. 1/2012, il giudice di prime cure non avrebbe considerato che l’art. 9, comma 4, del citato D.L. n. 1/2012 consentiva la determinazione delle tariffe in via convenzionale, norma di cui si sarebbe avvalso il CND nel concordare, con i singoli enti proprietari di immobili da dismettere, le somme da corrispondere per l’opera professionale dei notai.

Il medesimo giudice avrebbe, inoltre, trascurato il fatto che le tariffe concordate avrebbero, in ogni caso, rappresentato solo valori massimi e non corrispettivi minimi o fissi e che la L. 4/12/2017 n. 172 avrebbe introdotto nell’ordinamento il parametro dell’“equo compenso” per i professionisti (tra cui i notai) che rendano la loro opera nei confronti dei c.d. “contraenti forti”, allo scopo di evitare la possibilità di negoziare prestazioni professionali a prezzi molto bassi e di disincentivare fenomeni di accaparramento della clientela a scapito della qualità del servizio. Finalità questa perseguita dal CND, con la contestata delibera del 2006 e le convenzioni stipulate con gli enti proprietari di beni da dismettere.

d) Con riferimento alla contestata attività di monitoraggio da parte del CND il Tribunale avrebbe omesso di valorizzare la circostanza che detta attività sarebbe stata volta unicamente ad acquisire dati imprescindibili per procedere all’applicazione dei criteri stabiliti nella delibera n. 2287/2006.

Il coinvolgimento dell’Associazione nell’attività di monitoraggio sarebbe stato tratto, poi, dalla presunzione che le tabelle da quest’ultima stilate (attestanti l’indicazione tipologica degli immobili venduti, degli atti rogitati, dell’indicazione del notaio rogante e dallo schema di ripartizione degli immobili), sarebbero state elaborate “probabilmente su richiesta del Consiglio”. Ciò tuttavia mostrerebbe la carenza degli accertamenti istruttori all’uopo compiuti.

Altrettanto non condivisibili sarebbero le conclusioni cui il Tribunale è giunto in ordine al sistema di ripartizione dei ricavi messo in atto dall’Associazione, il quale, secondo l’erroneo convincimento del giudicante, sarebbe stato funzionale a garantire una compensazione monetaria fra notai per eventuali disarmonie nella distribuzione degli incarichi, così da garantire il livellamento dei compensi e disincentivare la concorrenza.

Una tale ricostruzione sarebbe, però, priva di riscontri probatori e non terrebbe conto del lavoro compiuto dall’Associazione nell’individuazione dei dati catastali degli immobili pubblici da alienare.

In realtà i notai partecipanti alle operazioni di dismissioni avrebbero anticipato i rilevanti costi delle attività propedeutiche alla stipula e solo successivamente avrebbero concorso in modo generalizzato alla distribuzione dei compensi relativi agli atti rogati. Distribuzione che essendo avvenuta in parte in modo uniforme e in parte in proporzione all’attività svolta, escluderebbe il contestato “livellamento”.

e) Ugualmente erroneo risulterebbe il convincimento espresso in merito alla ravvisata equiparazione delle responsabilità di CND e Associazione.

E invero, il Tribunale avrebbe trascurato di rilevare che l’Autorità avrebbe omesso al riguardo qualunque spiegazione, affermando, peraltro, che l’Associazione avrebbe unicamente “coadiuvato il Consiglio nell’attuazione del suddetto meccanismo”.

In realtà l’Associazione sarebbe rimasta estranea: all’approvazione della delibera, alla predisposizione e sottoscrizione dei protocolli d’intesa stipulati dal CND, alla determinazione e al coordinamento delle tariffe massime applicabili.

Il motivo così riassunto non merita accoglimento sotto alcuno dei profili in cui si articola.

In primo luogo occorre rilevare che il Tribunale ha fatto buon governo delle norme che regolano l’ambito dei propri poteri di cognizione.

Infatti, la ravvisata insussistenza di una delle modalità comportamentali della condotta sanzionata (ovvero l’uso in funzione anticoncorrenziale del potere disciplinare) rilevate dall’Autorità, non è sufficiente a far cadere l’illecito accertato, atteso che quest’ultimo, alla luce della corretta interpretazione delle valutazioni espresse dalla medesima Autorità, risulta, comunque, configurabile anche in assenza della componente ritenuta mancante dal primo giudice (ovvero l’utilizzo strumentale della minaccia disciplinare), la quale si riferisce soltanto alla fase attuativa dell’intesa, restando salvi gli eventuali riflessi della riscontrata carenza in termini di gravità dell’illecito.

Peraltro, come correttamente rilevato dal Tribunale, la ravvisata insussistenza della suddetta componente della condotta non è idonea a determinare “alcun effetto pratico in ordine all’attività di quantificazione della sanzione, atteso che la mancata prova della ricorrenza di una delle modalità comportamentali sanzionata, rilevante solo in punto di gravità dell’illecito, è destinata a rimanere assorbita nell’attività di riduzione della sanzione a quella massima irrogabile in ragione del massimo edittale del 10% del fatturato posta in essere dall’Autorità al paragrafo 223 del Provvedimento”.

La censura sub a) è assorbita dall’effetto devolutivo dell’appello che consente al giudice di secondo grado di correggere eventuali difetti di motivazione o illogicità della sentenza impugnata.

A prescindere da ciò, giova rilevare che non vizia la decisione la circostanza che questa risulti eventualmente in contrasto con altra pronuncia del medesimo giudice, stante l’autonomia di ciascun giudizio, l’insussistenza nel nostro ordinamento giuridico del c.d. principio dello stare decisis in rapporto a precedenti giurisprudenziali del medesimo organo giurisdizionale (Cons. Stato, Sez. VI, 22/9/2008, n. 4568), e la vigenza del principio della domanda rispetto ai profilati motivi di censura avverso atti e provvedimenti amministrativi asseritamente illegittimi.

Né l’accertata condotta illecita potrebbe trovare giustificazione nella contemporanea necessità di stipulare una gran mole di atti in un ristretto lasso di tempo e di assicurare la rigorosa osservanza, in ordine a ciascuna stipula, delle norme notarili che disciplinano l’esercizio della funzione.

Come, infatti, osservato in sede di esame del primo motivo, siffatta esigenza non può essere soddisfatta a scapito delle norme sulla concorrenza.

In definitiva, la complessiva attività posta in essere dal CND, avente a oggetto, secondo quanto rilevato dall’Antitrust, la messa “in atto un meccanismo di ripartizione degli incarichi vincolante e obbligatorio con il quale è stata gravemente pregiudicata la libertà degli acquirenti di scegliere il notaio di fiducia” e l’attuazione di “azioni molto penetranti sull’attività professionale notarile, fino ad arrivare alla fissazione dei prezzi” (par. 201 del provvedimento sanzionatorio) risulta già in sé considerata, esuberante e non proporzionata agli obiettivi di carattere generale che il medesimo CND afferma di aver voluto perseguire.

Non merita condivisione la censura sub b).

Occorre in primo luogo rilevare che la riscontrata intesa anticompetitiva sarebbe configurabile anche laddove i criteri di distribuzione degli incarichi prestabiliti nella delibera n. 2287/2006, fossero stati pienamente rispettati, atteso che l’illecito sussiste per il solo fatto di aver disciplinato, in modo vincolante e obbligatorio (punto 4 della delibera n. 2287/2006), un meccanismo di spartizione dei servizi notarili nell’ambito delle anzidette procedure di dismissione, con fissazione dei relativi prezzi.

Peraltro, come si ricava dal paragrafo 65 del provvedimento sanzionatorio impugnato, i detti i criteri non sono stati, nella specie, nemmeno osservati.

Infatti, dall’analisi dei dati acquisiti dall’AGCM, non adeguatamente contestati, è emerso che “la distribuzione degli incarichi non ha premiato i notai che hanno dichiarato il repertorio più basso e che quasi il 90 % dei giovani notai, ovvero quelli iscritti nel quinquennio considerato, non ha ricevuto alcun incarico o ne ha ricevuto uno solo” (citato par. 65).

Dal suddetto paragrafo 65 si ricava, in particolare, che la stessa banca dati “Incarichi dismissioni immobiliari: 2011-2015” fornita dal CND, mostra come nessuno dei due criteri di scelta dei notai indicati nella delibera n. 2287/2006 sia stato rispettato.

Nello specifico, dalla banca dati in questione l’Autorità ha ricavato che: “se si prendono in esame i notai iscritti nel distretto nel quinquennio 2011-2015, i dati dimostrano che

- circa il 39% non ha ricevuto alcun incarico;

- circa il 49% ha ricevuto un solo incarico;

- un solo notaio ha avuto più di cinque incarichi;

- il numero medio di incarichi per notaio è dello 0,9, con in media 2,8 atti stipulati per notaio.

Dalla stessa analisi applicata ai notai che hanno dichiarato un repertorio superiore ai 100.000 euro risulta che:

- nessun notaio ha avuto zero incarichi;

- circa il 7% ha ricevuto un incarico;

- circa il 75% ha avuto più di cinque incarichi;

- il numero medio di incarichi per notaio è stato di 6, con in media 20,9 atti stipulati per notaio.

Se si considerano ora i notai che hanno dichiarato un repertorio inferiore ai 100.000 euro si ottiene quanto segue:

- nessun notaio ha avuto zero incarichi;

- circa il 21% ha ricevuto un incarico;

- circa il 58% ha avuto più di cinque incarichi;

- il numero medio di incarichi per notaio è stato di 7, con in media 21,1 atti stipulati per notaio”.

Peraltro, come pure rilevato dall’Autorità nel successivo paragrafo 66, “I criteri di ripartizione utilizzati dal Consiglio hanno dato luogo anche alla stipula di un numero di atti superiore a quello ritenuto necessario dall’ente proprietario degli immobili da dismettere”.

Al riguardo a titolo esemplificativo viene citata <<…una lettera del 25 gennaio 2012, con la quale il notaio [omissis] comunica al CND di Roma che la fondazione ENASARCO avrebbe richiesto di rimodulare la ripartizione degli atti relativi alla dismissione di un determinato immobile, in modo da poter stipulare cinque atti di compravendita anziché i dodici previsti secondo la ripartizione per scala. Nella lettera il notaio sottolinea che “come si evince da mie precedenti comunicazioni … la ripartizione è stata effettuata nel solco della prassi ad oggi consolidata (ovvero per scala) con assegnazione delle vendite a 12 notai (oltre al notaio [omissis] per la dismissione dei commerciali) e dei mutui ai restanti colleghi; ciò anche per assicurare a ciascuno la stipula di un numero congruo e quanto più possibile omologo di atti …Chiedo pertanto di avere urgenti e precise indicazioni in merito con preghiera di indicarmi, ove possibile, il criterio da seguire per la rimodulazione degli incarichi in caso di accoglimento della richiesta pervenutami”>>.

Alla richiesta il CND ha risposto “che non possono essere derogati i consolidati criteri di distribuzione degli atti” (citato par. 66).

Con memoria di replica depositata in data 2/1/2021 parte appellante contesta ulteriormente il rilievo concernente il mancato rispetto dei criteri di ripartizione degli incarichi tra i notai previsti dalla delibera n. 2287/2006.

Le nuove contestazioni risultano, però, inammissibili in quanto dedotte con atto non notificato alla controparte, oltre che infondate, per come si è detto in precedenza.

Priva di pregio è la lagnanza sub c).

Vero è che le “tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico” sono state abolite dall’art. 9, comma 1, del D.L. 24/1/2012, n. 1, ma già l’art. 2, comma 1, lett. a), del D.L. 4/7/2006, n. 223 aveva stabilito l’abrogazione delle “disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali:

a) l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti”.

Pertanto, sin dall’entrata in vigore del citato D.L. 223 del 2006, era vietata la previsione di tariffe predeterminate fisse o minime.

Parte appellante sostiene che quelle predisposte sarebbero state solo tariffe massime, ma l’affermazione è platealmente smentita da quanto emerge dai paragrafi 91 e 189 del provvedimento sanzionatorio.

Nel primo si legge: <<In merito a tale vicenda interveniva ASNODIM, con comunicazione del 30 maggio 2011 al CND di Roma, dove esprimeva a nome di tutti i circa 250 notai all’epoca associati “il più profondo disappunto per il mancato rispetto degli accordi di cui al protocollo d’intesa…” Infatti, “in spregio a tale accordo i colleghi designati … sono stati prevaricati da un solo collega, che si dice designato dalle associazioni degli inquilini, avendo offerto di applicare onorari più bassi di quelli contenuti nel suddetto Protocollo e tutto questo sembra addivenire con il benestare di ENASARCO”>>.

Nel secondo è scritto che la delibera del CND <<n. 2436 di giugno 2011 citata nella memoria attesta che i singoli notai coordinatori, per poter applicare una riduzione dei suddetti tariffari allegati ai Protocolli d’intesa, motivata dalle attività di supporto svolte dai sindacati degli inquilini, hanno dovuto richiedere un intervento del Consiglio che si è pronunciato formalmente sulla possibilità e sul quantum della riduzione. Del resto, dimostra che si tratta di tariffe fisse anche quanto prospettato dalle Parti, nell’audizione del 22 settembre 2016, secondo cui per poter “proseguire la propria collaborazione con gli enti che stanno dismettendo i propri immobili … potrebbe essere considerata la possibilità di considerare le tariffe indicate nei protocolli d’intesa come tariffe massime”, in tal modo, di fatto, ammettendo che nel periodo oggetto di istruttoria le tariffe non sono mai state considerate massime>>.

Tanto basta a ritenere confermata l’illiceità della condotta in tema di prezzi indipendentemente dal verificare se sia stata anche violata la norma di cui all’art. 3, comma 19, del D.L. n. 351/2001 che prevedeva un abbattimento degli onorari dovuti per gli atti notarili relativi alle dismissioni.

Infatti, la censurata condotta ha sostanzialmente prodotto l’effetto di ostacolare la possibilità che i notai concordassero con gli utenti, secondo le proprie strategie di prezzo, compensi inferiori a quelli prestabiliti dal CND, come sarebbe stato consentito dopo le modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, lett. a), del D.L. n. 223 del 2006.

Inconferente al fine di giustificare la previsione di tariffe fisse è poi il richiamo alla norma di cui all’art. 9, comma 4, del citato D.L. n. 1/2012,

La norma dispone che “Il compenso per le prestazioni professionali è pattuito, nelle forme previste dall'ordinamento, al momento del conferimento dell'incarico professionale”.

Sennonché, nel caso di specie, l’accordo sulle tariffe dei servizi notarili è intervenuto soltanto tra CND ed enti proprietari del patrimonio immobiliare da dismettere, mentre ad esso sono rimasti estranei i soggetti onerati del pagamento della prestazione notarile, ovvero gli acquirenti degli immobili oggetto di cessione.

Altrettanto irrilevante, al fine di escludere l’illiceità delle iniziative adottate sui prezzi del servizio, risulta il riferimento all’invocata norma di cui all’art. 19-quaterdecies del D.L. 16/10/2017, n. 148 introdotto dalla L. di conversione 4/12/2017 n. 172, sull’equo compenso dovuto ai professionisti considerati dalla norma nelle ipotesi ivi contemplate.

La disposizione, peraltro inapplicabile alla fattispecie ratione temporis, aggiunge col comma 1, l’art. 13-bis alla L. 31/12/2012, n. 247 (recante “Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense”).

Il menzionato art. 13-bis dispone, per quanto qui rileva:

1. Il compenso degli avvocati iscritti all'albo, nei rapporti professionali regolati da convenzioni aventi ad oggetto lo svolgimento, anche in forma associata o societaria, delle attività di cui all'articolo 2, commi 5 e 6, primo periodo, in favore di imprese bancarie e assicurative, nonché di imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, come definite nella raccomandazione 2003/361CE della Commissione, del 6 maggio 2003, è disciplinato dalle disposizioni del presente articolo, con riferimento ai casi in cui le convenzioni sono unilateralmente predisposte dalle predette imprese.

2. Ai fini del presente articolo, si considera equo il compenso determinato nelle convenzioni di cui al comma 1 quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, tenuto conto dei parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell'articolo 13, comma 6”.

La suddetta disciplina è, poi, estesa, dal comma 2 del citato art. 19-quaterdecies anche alle prestazioni rese dagli altri professionisti ivi indicati, tra cui i notai.

Orbene, come si ricava agevolmente dal tenore letterale della trascritta norma, quest’ultima opera in presenza di convenzioni unilateralmente predisposte da c.d. “contraenti forti”, ma nel caso di specie tale presupposto è insussistente, in quanto, com’è incontroverso, le tariffe risultano il frutto di accordi tra il CND e i vari enti pubblici proprietari degli immobili da dismettere, accordi a cui, peraltro, sono rimasti estranei gli acquirenti gravati dell’onere di pagare la parcella notarile.

Sono, altresì infondate le doglianze sub d) ed e) che si prestano ad una trattazione congiunta.

E invero, dal provvedimento sanzionatorio emerge come il CND effettuasse una periodica attività di monitoraggio “sulla distribuzione degli incarichi fra i notai del distretto chiedendo informazioni in merito al numero di atti dagli stessi stipulati nell’ambito dei procedimenti di dismissione del patrimonio pubblico” (par. 69)

Ciò risulta comprovato dalla comunicazione inviata dal CND ai notai del distretto per informarli che “il Consiglio ha iniziato a svolgere attività di

monitoraggio del comportamento di quei Colleghi che non ottemperano alla delibera in questione, anche al fine dell’apertura di eventuali procedimenti disciplinari” (par.70).

Il che è sufficiente a smentire le asserzioni di parte appellante secondo cui

detta attività sarebbe stata volta unicamente ad acquisire dati imprescindibili per procedere all’applicazione dei criteri stabiliti nella delibera n. 2287/2006.

Peraltro, ove anche così fosse l’acquisizione risulterebbe, comunque, illecita in quanto preordinata ad attuare una delibera anticoncorrenziale.

Contrariamente a quanto sostenuto da parte appellante risulta, inoltre, sufficientemente comprovato il coinvolgimento dell’Associazione nell’attività di monitoraggio.

Infatti, come si ricava dal paragrafo 74 del provvedimento impugnato in primo grado, in sede ispettiva, l’Autorità ha acquisito <<una serie di tabelle che riportano per il 2011, 2012 e 2013 gli elenchi degli immobili

di proprietà di ENASARCO, con l’indicazione per ogni immobile della tipologia, il nominativo del notaio coordinatore, del notaio che ha stipulato l’atto di vendita, del notaio che ha stipulato il mutuo e il numero di atti per ogni notaio, oltre una tabella che riporta “lo schema di ripartizione degli incarichi delle prime stipule ENASARCO”. Secondo quanto riferito in audizione, si tratta di tabelle elaborate da ASNODIM sulla base dei propri dati e inviate al CND di ROMA>>.

La circostanza che nel trascritto paragrafo si aggiunga che il detto invio sia avvenuto “probabilmente su richiesta dello Consiglio”, non è indice di carenza istruttoria, atteso che ciò che conta è che la trasmissione delle tabelle in questione sia avvenuta, essendo irrilevante che ciò sia stato fatto per soddisfare una richiesta del CND, o su spontanea iniziativa dell’Associazione.

Come correttamente rilevato dal giudice di prime cure risulta ugualmente comprovato il ruolo svolto dall’Associazione nella distribuzione degli incarichi fra i notai associati (i due quinti di quelli del distretto) e nella ripartizione fra gli stessi dei ricavi.

Tale ruolo è esaurientemente descritto nei paragrafi da 96 a 104 del provvedimento sanzionatorio impugnato, che vale la pena trascrivere integralmente, laddove, sulla base di documenti acquisiti in istruttoria presso la stessa Associazione, si rileva quanto segue:

A) ASNODIM provvede a <<organizzare le stipule dei diversi atti notarili nell’ambito delle dismissioni pubbliche, definire le parcelle notarili, riscuotere i relativi incassi e di suddividere poi i ricavi tra i notai associati, ecc.>> secondo <<le seguenti 6 fasi procedurali:

1. Procedure preliminari alla stipula

2. Procedure per il perfezionamento del mandato collettivo

3. Procedure per la definizione degli incarichi

4. Procedure per la definizione delle parcelle

5. Procedure di controllo in attesa della stipula

6. Procedure post stipula>> (par. 96);

B) <<Secondo quanto indicato nel documento “Iter operativo …”, ASNODIM ha la funzione di coordinare tutte le operazioni inerenti le vendita delle unità immobiliari, dalla ricezione della documentazione inviata dagli enti venditori, necessaria per redigere gli atti notarili e di mutuo, ai controlli su tale documentazione, all’integrazione della stessa documentazione con visure catastali ed ipotecarie aggiornate, all’invio e/o richiesta di eventuale integrazione documentazione, all’invio di tale documentazione ai notai incaricati e al notaio coordinatore, all’invio di comunicazioni sulla data di stipula atti ecc.>> (par 97);

C) <<In caso di mandato collettivo, ASNODIM ha il compito di reperire tutte le informazioni necessarie per redigere il mandato collettivo, procedere al controllo di tali informazioni e, con l’accordo del notaio coordinatore, di provvedere alla predisposizione di una bozza di mandato che dovrà, poi, inviare al notaio incaricato e al mandatario. Nell’ipotesi in cui il mandato collettivo (o i mandati collettivi) venga concluso dal notaio coordinatore, ASNODIM ha il compito di constatare “l’effettivo pagamento dell’onorario notarile per la stipula del mandato provvedendo a notificare al mandatario il completamento di tale attività”>> (par. 98);

D) <<Con particolare riferimento alla fase 3-Procedure per la definizione degli incarichi, nel documento “Iter operativo …” è specificato che ASNODIM riceve dal CND di Roma la lista dei notai incaricati di ogni stipula116, tra i quali viene individuato, dallo stesso Consiglio, il “notaio

coordinatore” del processo di dismissione delle unità immobiliari facenti parte del fabbricato oggetto di dismissione. ASNODIM riceve dal mandatario ogni informazioni riguardante gli acquirenti, i garanti e gli istituti di credito scelti per l’erogazione dei mutui.

Entro trenta giorni dalla data di stipula, il CND di Roma “definisce, su suggerimento di AS.NO.D.IM. e con l’approvazione del Notaio Coordinatore, la ripartizione degli atti di compravendita e di mutuo tra i Notai incaricati. Gli atti di compravendita saranno ripartiti tra i

Notai incaricati per Scala (il Notaio Coordinatore …sarà incaricato della compravendita), gli atti di mutuo per Banca, compatibilmente con il numero di atti da stipulare per Notaio. Sarà compito dell’incaricato AS.NO.D.IM. trasmettere la ripartizione degli atti alla lista e-mail fabbricato”>> (par 99);

E) <<Inoltre, in corrispondenza della fase 4- Procedure per la definizione delle parcelle, è indicato che ASNODIM “si adopererà per ottenere dall’Ente …, entro 20 giorni dalla data prevista di vendita, la comunicazione definitiva dei prezzi di vendita finali” degli immobili e “provvederà ad inoltrare i prezzi netti di vendita alla lista e-mail fabbricato”; entro 10 giorni dalla data prevista per il rogito, ASNODIM, “previa verifica da parte dei Notai incaricati, fornirà al mandatario/i i conteggi relativi al calcolo delle parcelle notarili relative agli atti di compravendita>> (par 100);

F) <<Circa gli onorari notarili relativi agli atti inerenti l’accensione di mutui, nel documento è specificato che ASNODIM, almeno 7 giorni prima della stipula, “si adopererà per ottenere dalle Banche incaricate l’importo del mutuo ed il valore di ipoteca di ogni pratica deliberata …

trasmetterà i conteggi relativi al calcolo delle parcelle ai Notai interessati. Sarà compito dell’incaricato AS.NO.D.IM. distribuire al mandatario/i le parcelle complete relative agli atti di compravendita e di mutuo. Inoltre, gli assegni relativi alle parcelle notarili degli atti di acquisto e di mutuo “dovranno essere intestati ad ASNODIM (nel caso di Notai non

associati, gli assegni delle parcelle notarili saranno intestati direttamente ai Notai interessati)”>> (par 101);

G) <<Secondo quanto riportato nella fase 5 del documento “Iter operativo”, ASNODIM dovrà svolgere una serie di attività inerenti la preparazione e i controlli degli atti di rogito e inoltre, il giorno prima della stipula, dovrà essere “…disponibile ad incassare per ciascun notaio le parcelle relative agli atti di compravendita e di mutuo aiutando l’acquirente nella gestione di notai diversi incaricati di stipulare uno la compravendita e l’altro l’eventuale mutuo … sarà disponibile nei giorni immediatamente precedenti la stipula ad organizzare il ritiro di tutti gli assegni relativi alle parcelle notarili presso il fabbricato in dismissione … emette fattura agli acquirenti delle u.i. per le spese e le competenze notarili relative agli atti di acquisto e di concessione dei mutui … provvederà alla stampa delle fatture … provvederà alla stampa delle parcelle per ogni notaio, nonché alla stampa generale delle parcelle ….”>> (par. 102);

H) <<Nel documento è inoltre previsto, alla fase 6, che ASNODIM dopo la stipula degli atti provveda, tra l’altro, “a scansionare gli assegni di tutti gli acquirenti ed a versare ai Notai coinvolti nella stipula le spese notarili. I Notai incaricati emetteranno fattura per il corrispettivo importo. Le competenze notarili verranno corrisposte da AS.NO.D.IM:

- una parte come anticipazione sugli utili secondo una percentuale che dipende dal tipo di atto stipulato dal Notaio incaricato,

- la residua parte verrà distribuita a fine anno in proporzione a tutti i Notai associati”.

ASNODIM provvede anche a richiedere ai notai che hanno stipulato l’atto di compravendita i dati relativi alla trascrizione dell’atto nonché copia dell’atto definitivo, dati che poi comunicherà ai notai che hanno stipulato l’atto di mutuo>> (par. 103);

I) <<Secondo quanto riferito nell’audizione del 22 settembre 2016, la procedura indicata in tali documenti “è grosso modo quella applicata sia nel caso di vendite agli inquilini di immobili optati che nel caso di aste immobiliari effettuate per gli immobili inoptati”.

Con riguardo, poi, agli onorari notarili percepiti dagli associati nell’ambito delle dismissioni del patrimonio pubblico, questi vengono sempre versati ad ASNODIM. Più precisamente “gli associati versano ad ASNODIM i proventi incassati dagli incarichi ottenuti nell’ambito delle dismissioni; ciò anche ai fini fiscali, in quanto trattandosi di un’associazione professionale essa è il soggetto fiscale di riferimento. Per quanto riguarda la distribuzione dei proventi, ogni notaio riceve da ASNODIM il 50% dei ricavi dallo stesso versati. Questo ammontare quindi varia da notaio a notaio in funzione del numero di incarichi ricevuti, ovvero dei propri ricavi. Il rimanente 50% dei ricavi versati ad ASNODIM da ogni notaio, va a coprire i costi associativi e la parte rimanente viene distribuita in modo uniforme tra gli associati. In altri termini, tolte le spese associative, la parte restante del 50% dei ricavi versati ad ASNODIM, è distribuita fra tutti gli associati, al fine di compensarli per eventuali disparità negli incarichi ricevuti”. Come risulta da Tabelle prodotte dalla stessa ASNODIM, il meccanismo riparitorio dei ricavi che viene applicato all’interno di ASNODIM ha determinato nei vari anni una redistribuzione degli utili fra gli associati tale da compensare eventuali disparità risultanti dalla distribuzione degli incarichi>> (par. 104).

Orbene, dai trascritti passi del provvedimento sanzionatorio emerge chiaramente il pieno coinvolgimento dell’Associazione nell’intesa anticompetitiva.

E se è vero che quest’ultima è rimasta estranea all’approvazione della delibera n. 2287/2006 e alla predisposizione e sottoscrizione dei protocolli stipulati con gli enti proprietari degli immobili, è altrettanto vero che la stessa ha rivestito un ruolo decisivo nell’attuazione dell’illecito, come risulta “in maniera assolutamente puntuale e tale da non creare sovrapposizioni e/o confusioni” dai citati par. da 96 a 104 del provvedimento sanzionatorio, il che giustifica la sua piena equiparazione al CND sotto il profilo della responsabilità.

Col terzo mezzo di gravame si denuncia l’errore asseritamente compiuto dal Tribunale nel ritenere insussistente un affidamento legittimo tale da escludere la ricorrenza dell’elemento psicologico, requisito questo che sarebbe necessario per l’irrogazione delle sanzioni antitrust, stante l’asserita natura di sanzioni penali che queste ultime avrebbero.

Nella specie non sarebbe stata fornita piena prova della sussistenza dell’elemento soggettivo.

E invero, in presenza di una normativa primaria e secondaria che avrebbe legittimato la designazione dei notai, non si sarebbe potuto negare al CND di aver agito in buona fede, potendo la sua colpevolezza riscontrarsi, al più, nelle concrete modalità seguite per attuare il processo dismissivo.

L’Autorità avrebbe, inoltre, dovuto valutare se parte appellante abbia ritenuto che il ruolo affidatole nelle dismissioni immobiliari degli enti pubblici potesse avere portata sostanzialmente disciplinare e se tale convincimento abbia influito sulla determinazione di intraprendere le contestate iniziative poste in essere.

Alla luce del descritto quadro normativo il Tribunale avrebbe dovuto riconoscere quantomeno l’esimente dell’errore scusabile.

In subordine si sarebbe dovuta escludere la “gravità” della condotta, con i conseguenti riflessi sulla possibilità di irrogare la sanzione.

La doglianza è infondata.

E invero, come più sopra rilevato, la normativa applicabile alla fattispecie e gli atti invocati da parte appellante non consentivano affatto di violare le regole antitrust attraverso la designazione obbligatoria e vincolante dei notai roganti e la previsione di prezzi fissi per gli atti da stipulare.

Tale violazione vale, di per sé, anche in linea di principio, pur prescindendo dalle effettive distorsioni poi avvenute in concreto e pure rilevate dagli accertamenti istruttori posti a base del provvedimento.

Ciò esclude che la condotta addebitata possa ritenersi qualificata dalla buona fede.

Né era richiesta, ai fini dell’applicazione delle sanzioni pecuniarie irrogate, la prova dell’elemento soggettivo.

Si affermato in giurisprudenza che “le disposizioni che vietano gli illeciti anticoncorrenziali, individuando delle fattispecie tipizzate incentrate sulla mera condotta secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, ancorano il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, con la conseguenza che, una volta integrata e provata dall'Autorità la fattispecie tipica dell'illecito, graverà sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa che permea il sistema della responsabilità da illecito amministrativo (arg. ex art. 3 l. 24 novembre 1981, n. 689), l'onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Tale regola di distribuzione dell'onere probatorio resta avvalorata, sul piano sistematico, sia dall'applicazione dei principi in tema di ricostruzione/analisi degli elementi (costitutivi, impeditivi, modificativi e/o estintivi) della fattispecie di diritto sostanziale dedotta in giudizio (integrando, invero, la scusante escludente la colpevolezza un fatto impeditivo della pretesa sanzionatoria dell'Autorità), sia dall'applicazione del criterio della vicinanza della prova alla parte che ne è onerata (rientrando, di norma, gli elementi di fatto fondanti l'esimente in esame, unitamente alle relative fonti di prova, nella sfera di conoscenza/disponibilità dello stesso trasgressore)” (Cons. Stato, Sez. VI, 15/10/2018, n. 5912; 4/9/2014, n. 4506; 6/6/2011, n. 3353; 9/5/2011, n. 2742; Corte Giust. UE, Sez. II, 14/10/2010, in C-280/08).

Nella specie il suddetto onere probatorio non risulta soddisfatto, come si ricava dalle considerazioni sopra svolte, dalle quali emerge anche l’insussistenza delle condizioni per riconoscere l’errore scusabile e per escludere la “gravità” della condotta.

Col quarto motivo, si censura l’insufficiente riduzione del coefficiente di gravità della condotta (dal 15% al 12%,) disposta dal Tribunale, peraltro senza specifica motivazione, a seguito dell’accoglimento di alcuni profili delle doglianze prospettate.

Secondo parte appellante tenuto conto della riscontrata insussistenza di una delle componenti della condotta addebitate (l’uso anticoncorrenziale del potere disciplinare), il coefficiente di gravità avrebbe dovuto essere ridotto di almeno 5 punti percentuali portandolo dal 15% al 10%.

Ulteriori tre punti percentuali avrebbero dovuto essere, inoltre, sottratti in considerazione dell’accoglimento della censura dedotta avverso l’individuazione del mercato geografico rilevante.

Col quinto motivo si denuncia l’errore commesso dal giudice di prime cure nel non aver tradotto l’accordata diminuzione del coefficiente di gravità della condotta in una corrispondente riduzione della sanzione pecuniaria irrogata, sul presupposto che, anche riducendo il detto coefficiente, l’importo finale della sanzione, calcolato secondo le linee guida, avrebbe ecceduto la soglia massima, pari al 10% del fatturato totale del soggetto sanzionato.

La tesi del Tribunale sarebbe, però, fallace.

Infatti, con riguardo alle ipotesi di imprese mono-prodotto, fra le quali rientrerebbero i notai, l’esigenza di adattare il trattamento sanzionatorio alla specificità del caso concreto, imporrebbe di applicare, laddove la sanzione teoricamente irrogabile superi il massimo di legge, ulteriori riduzioni sul massimo edittale ex art. 34 delle linee guida.

In via subordinata si denuncia l’errore commesso dal Tribunale nell’interpretare il limite di cui all’art. 15 della L. n. 287/1990 come una mera “soglia di contenimento” della sanzione e non come un massimo edittale in senso proprio (tale da non poter essere oltrepassato nei passaggi di calcolo intermedi volti alla quantificazione della sanzione).

Una tale interpretazione risulterebbe, infatti, contraria ai principi di legalità e di proporzionalità della pena di cui agli artt. 7 della CEDU e 49 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali e alla normativa di cui alla L. 24/11/1981, n. 689 e, inoltre, tradirebbe gli stessi obiettivi che l’AGCM si è prefissa dotandosi di apposite linee guide per la quantificazione della sanzione, atteso che in un gran numero di casi il massimo di legge verrebbe applicato in maniera pressoché automatica e ciò a causa della natura mono-prodotto dell’impresa.

Peraltro, identica questione si sarebbe posta in altri stati membri dell’Unione Europea che l’avrebbero risolta sulla base di un’interpretazione in linea con quella in questa sede propugnata.

Col sesto motivo si deduce che il giudice di prime cure non avrebbe considerato una serie di ulteriori circostanze che avrebbero dovuto rilevare se non come esimenti, quantomeno come fattori di mitigazione delle sanzioni imposte.

E invero, l’Autorità avrebbe valutato la condotta “molto grave” e applicato quindi un coefficiente di gravità pari al 15%, senza tener conto che l’illecito contestato non aveva le caratteristiche delle “intese orizzontali segrete di fissazione dei prezzi” ai sensi dell’art. 12 delle linee guida.

Inoltre l’adozione dei protocolli d’intesa, sollecitata anche dai sindacati degli inquilini, sarebbe avvenuta d’accordo con gli enti pubblici proprietari degli immobili da dismettere, e non vi sarebbe evidenza che i compensi ivi previsti e quelli effettivamente richiesti dai notai siano stati superiori alla media o comunque eccessivi.

In conseguenza di ciò il coefficiente di gravità avrebbe dovuto essere ridotto al 5%.

Sarebbero state, poi, negate le circostanze attenuanti richieste, nonostante la sussistenza, ex art. 23 delle linee guida, dei presupposti per la loro applicazione.

Infatti, la condotta si sarebbe svolta “nell’ambito di un più complesso meccanismo di assistenza alla dismissione del patrimonio immobiliare pubblico non solo lecito ma voluto dal legislatore”, mentre il sistema delle designazioni non avrebbe potuto considerarsi del tutto illecito ma, al più, lo sarebbe stato per la parte eccedente quanto necessario per attuare la normativa in materia di dismissioni.

Infine, si sarebbe dovuto tener conto del più limitato ruolo avuto dall’Associazione nella commissione dell’illecito, col corrispondente riconoscimento in suo favore di un’attenuante.

Le tre doglianze, che si prestano a una trattazione congiunta, non meritano accoglimento.

Occorre in primo luogo rilevare che non può essere condivisa la tesi secondo cui, nel determinare la sanzione, l'Autorità avrebbe dovuto tener conto del fatto che il limite massimo di quest’ultima è pari, ex art. 15 della L. 287/1990, al 10% del fatturato dell'ultimo anno precedente a quello in cui la stessa è stata irrogata, con la conseguenza che la determinazione dell'importo sarebbe dovuta avvenire con modalità di calcolo tali da poter graduare la sanzione, entro il predetto limite del 10% del fatturato, in base alla gravità dell’illecito.

Sul punto un consolidato orientamento giurisprudenziale che il Collegio condivide ha affermato che <<nel procedimento di quantificazione delle sanzioni irrogate dall'AGCM per le infrazioni alla concorrenza, in conformità con gli "orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell'art. 23, paragrafo 2, lettera a) del regolamento CE n. 1/2003", elaborati dalla Commissione nella Comunicazione 2006/C 210/02, il limite del 10% del fatturato non rappresenta propriamente il "massimo edittale" di una cornice sanzionatoria al cui interno deve essere concretamente calibrata la sanzione da irrogare in proporzione con la gravità del fatto, ma costituisce soltanto una "soglia legale massima", ovvero un "correttivo" che opera dall'esterno al solo fine di evitare, comunque, l'applicazione di sanzioni di importo ritenuto in astratto eccessivamente elevato quale che sia la gravità dell'infrazione.

L'unico limite edittale che l'Autorità incontra nella determinazione dell'importo base della sanzione è rappresentato dalla percentuale del 30% riferita al valore delle vendite.

Una volta fissata nell'ambito di questa cornice edittale, in funzione della gravità dell'infrazione (tenendo conto di un certo numero di elementi, quali la natura dell'infrazione, la quota di mercato aggregata di tutte le imprese interessate, l'estensione geografica della infrazione, se sia stata data o meno attuazione all'intesa), la percentuale da applicare al valore delle vendite (e una volta moltiplicato tale importo per il numero di anni di partecipazione all'infrazione di ciascuna impresa), si applicano su questo importo gli adeguamenti in aumento o in diminuzione dipendenti dal riconoscimento di eventuali circostanze aggravanti o attenuanti e si determina, quindi, l'importo finale della sanzione, che poi viene ridotta, in un'ottica di favor per il soggetto sanzionato, entro il limite esterno del 10% del fatturato.

La percentuale del 10% del fatturato rappresenta, dunque, un tetto esterno, una "soglia di contenimento", che non svolge alcuna funzione all'interno del procedimento che porta alla determinazione dell'importo base e non condiziona il potere dell'Autorità, che rimane, nell'ambito della sua discrezionalità, certamente libera di fissare una percentuale, rapportata alla ritenuta gravità della violazione, tale da determinare un importo base sensibilmente superiore rispetto al limite esterno.

Il fatto, pertanto, che, in conseguenza dell'operatività di questo tetto esterno, potrebbe verificarsi un livellamento tra sanzioni relative a fatti di diversa gravità (e possa essere in parte alterata la proporzionalità tra gravità dell'infrazione e sanzione irrogata) non pone problemi di legittimità costituzionale o comunitaria, atteso che si tratta, comunque, di una rimodulazione della sanzione che avviene in un'ottica di favor per il soggetto sanzionato, al fine di porre dall'esterno un limite alla discrezionalità dell'AGCM, che in mancanza di tale tetto sarebbe (data anche l'ampiezza del limite edittale interno) eccessivamente ampia.

25. Le conclusioni appena esposte sono in linea con la giurisprudenza comunitaria. Il Tribunale UE ha evidenziato come il massimale del 10% rappresenta una "semplice soglia di contenimento" che applicata dopo un'eventuale riduzione dell'ammenda in forza di circostanze attenuanti o del principio di proporzionalità. Tuttavia, ha sottolineato il giudice comunitario, "la moltiplicazione dell'importo determinato in funzione del valore delle vendite per il numero di anni di partecipazione all'infrazione può implicare che, nel quadro degli orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell'art. 23, paragrafo 2, lettera a) del regolamento CE 1/2003, l'applicazione del massimale del 10% previsto da detto art. 23, n. 3, sia ormai la regola piuttosto che l'eccezione per ogni impresa che operi principalmente su un unico mercato e che abbia partecipato ad una intesa per più di un anno. In tale ipotesi, ogni differenziazione in funzione della gravità o di circostanze attenuanti non sarà più di norma idonea a ripercuotersi su un'ammenda che è già stata contenuta per essere mantenuta entro il 10%" (sentenza 16 giugno 2011, Putters Internationale/Commissione, Causa T-211/08)>> (Cosi citato Cons. Stato, Sez. VI, n. 4506/2014, in termini anche Cons. Stato, Sez. VI, 10/7/2018, n. 4211; 14/8/2015, n. 3944).

La tesi di parte appellante non convince nemmeno se valutata con riferimento alle c.d. imprese mono-prodotto.

Rispetto a questa tipologia di imprese, fra le quali possono farsi rientrare i notai atteso che essi svolgono, in sostanza, una varietà di servizi del tutto omogenea, la giurisprudenza ha ritenuto che l’applicazione di una sanzione sempre alla soglia massima del 10 % del fatturato non possa <<ritenersi in contrasto con il principio di ragionevolezza e proporzionalità con discriminazioni non consentite rispetto alle imprese multiprodotto.

Questa Sezione ha affermato che «la diversità delle fattispecie giustifica una applicazione diversa alle due tipologie di imprese che può condurre ad una modulazione di effetti per le imprese multiprodotto ed una applicazione rigida per le imprese monoprodotto». Ciò in quanto «quando viene in rilievo quest’ultima articolazione di impresa l’illecito copre l’intera attività dell’impresa stessa e dunque assume una maggiore gravità in quanto è l’intero fatturato che ottiene vantaggi dalla stipulazione di tale accordo. In questa prospettiva si giustifica l’applicazione del minimo edittale del 15% che coincide con il massimo edittale del 10%». Non si può ritenere che «ciò impedisca la graduazione nell’applicazione delle sanzioni in quanto la particolarità della fattispecie consegua ad uno scenario che giustifica l’applicazione “sempre” del limite “massimo” del 10%, che comunque non viene superato». In altri termini, in questi casi «la graduazione nella fase applicativa in relazione al limite massimo del 10% non potrebbe avere una concreta incidenza proprio perché si tratta di fattispecie connotate, in ragione della oggettiva natura dell’impresa, da un livello alto di gravità; l’estensione all’intera attività dei vantaggi conseguiti con l’accordo di spartizione del mercato giustifica l’applicazione costante del limite massimo del 10%».

La stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea ha avuto modo di affermare che è legittimo applicare, per le restrizioni più gravi, come quelle in esame, «un tasso di almeno il 15% del valore delle vendite,

che costituisce il minimo del “valore più alto”, di cui al punto 23 degli orientamenti del 2006, per tale tipo d’infrazione» (Corte di Giustizia UE, sentenza del 27 aprile 2017, causa C-469/15)>> (così Cons. Stato, Sez. VI, 16/03/2020, n. 1844; in termini anche Cons. Stato Sez. VI, 2/9/2019, n. 6027 e 13/7/2017, n. 5997).

Con la menzionata memoria di replica parte appellante ha, infine, sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1, della L. 287/1990, laddove inteso come mera “soglia di contenimento” della sanzione.

Una tale interpretazione contrasterebbe, infatti, con i principi di legalità, determinatezza, proporzionalità e individualità della pena, parità di trattamento, ragionevolezza e buon andamento della pubblica amministrazione di cui agli artt. 3, 25, comma 2, e 97 Cost., 7 CEDU e 49 Carta Europea dei Diritti Fondamentali.

La questione è manifestamente infondata, atteso che, come già evidenziato dalla giurisprudenza più sopra richiamata (in tal senso, si veda per tutte citato Cons. Stato, Sez. VI, n. 4506/2014), il contestato art. 15, comma 1, nell’introdurre un meccanismo di rimodulazione verso il basso della sanzione, si ispira a una logica di favor per il soggetto sanzionato.

Le doglianze con cui si lamenta che non sarebbe stato sufficientemente ridotto il coefficiente di gravità della condotta e non sarebbero state riconosciute le attenuanti richieste sono, invece, inammissibili per difetto d’interesse, atteso che anche applicando il coefficiente di gravità e le attenuanti invocati in ricorso, la sanzione risulterebbe sempre superiore a quella in concreto irrogata in virtù dell’applicazione del beneficio di cui all’art. 15 della L. n. 287/1990.

E invero, applicando, ex art. 7 delle linee guida adottate dall’AGCM sulle modalità di quantificazione delle sanzioni, il coefficiente di gravità del 5% indicato da parte appellante al valore delle vendite (€ 646.661 per il CND e € 1.453.917 per l’Associazione) e moltiplicato il valore ottenuto per la durata dell’infrazione (11 anni), si ottiene un importo base della sanzione pari a € 355.663,55 per il CND e a € 799.654,35 per l’Associazione.

Anche ipotizzando sui detti importi l’incidenza massima prevista per le circostanze attenuanti dall’art. 20 delle suddette linee guida, pari al 50%, il risultato porterebbe a una sanzione di € 177.831,775 per il CND e di € 399.827,175 per l’Associazione, valori in entrambi i casi più elevati di quelli relativi alle sanzioni in concreto irrogate dall’Autorità in applicazione della norma di cui al citato art. 15, comma 1, della L. n. 287/1990 (€ 71.106,89 per il CND e € 145.408,80 per l’Associazione).

Col settimo motivo si censura l’impugnata sentenza nella parte in cui ha disposto la condanna di parte appellante al pagamento della sanzione di cui all’art. 26, comma 2 c.p.a. “in considerazione della violazione …del dovere di sinteticità degli atti”.

La decisione di compensare le spese di giudizio per la “peculiarità della vicenda” e la ravvisata fondatezza di alcune delle censure prospettate non consentirebbero, infatti, di addebitare a CND e Associazione di aver “agito … temerariamente in giudizio”.

La doglianza è fondata.

Ai fini della condanna al pagamento della sanzione di cui all’art. 26, comma 2, del c.p.a. è richiesto che la parte sanzionata abbia “agito e resistito temerariamente in giudizio”.

Nel caso di specie, tuttavia, non erano riscontabili i presupposti per l’applicazione della suddetta norma, atteso che l’intervenuto accoglimento di alcune delle censure prospettate, escludeva la configurabilità della lite temeraria. Né, peraltro, quest’ultima poteva ravvisarsi nella mera violazione del dovere di sinteticità degli atti, rilevando l’inosservanza del anzidetto dovere soltanto in sede di condanna alle spese di giudizio, ex art. 26, comma 1, c.p.a., e nell’escludere, ai sensi dell’art. 13 ter, comma 5, delle disposizioni di attuazione al c.p.a., l’obbligo del giudice di esaminare le questioni contenute nelle pagine eccedenti il limite massimo previsto per ciascun atto nel decreto di cui al comma 1 del citato art. 13 ter.

L’appello merita, dunque, accoglimento unicamente con riguardo alla censura da ultimo esaminata.

Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

Sussistono eccezionali ragioni per disporre l’integrale compensazione di spese e onorari di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, secondo quanto specificato in motivazione, e, per l’effetto, annulla l’impugnata sentenza limitatamente alla statuizione concernente la disposta condanna per lite temeraria, confermandola per tutto il resto.

Spese del presente grado di giudizio compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità degli appellanti e della parte privata appellata.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 gennaio 2021 con l'intervento dei magistrati:

Sergio De Felice, Presidente

Diego Sabatino, Consigliere

Vincenzo Lopilato, Consigliere

Alessandro Maggio, Consigliere, Estensore

Dario Simeoli, Consigliere