Cons. Stato, Sez. IV, 5 aprile 2018, n. 2122 Cons. Stato, Sez. V, 10 aprile 2018, n. 2161 Cons. G.A. Reg. Sic., 17 aprile 2018, n. 223 Cons. Stato, Sez. III, 24 aprile 2018, n. 2472.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale

(Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 5533 del 2013, proposto dalla signora Anna Nascimbene, rappresentata e difesa dagli avvocati Roberto Damonte e Ludovico Ferdinando Villani, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Silvia Villani in Roma, via Asiago, 8;

contro

Comune di Rapallo, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Luigi Cocchi e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4;
Città Metropolitana di Genova, in qualità di successore ex lege della Provincia di Genova, in persona del Sindaco metropolitano p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Gabriele Pafundi, Carlo Scaglia e Valentina Manzone, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4;

nei confronti

Regione Liguria, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Michela Sommariva e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare 14/4;
Società Mediterranea delle Acque Spa, in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Giulio Bertone, Gabriele Pafundi e Daniela Anselmi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare 14/4;

Società Idro Tigullio Spa, in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Daniela Anselmi, Giulio Bertone e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare 14/4; Società Ireti Spa (già Società Iren Acqua Gas spa), in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Gabriele Pafundi, Daniela Anselmi e Giulio Bertone, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4;

Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio della Liguria, Ministero per i beni e le attività culturali, Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di Genova, Ministero dell'interno, Agenzia del Demanio, Agenzia delle Dogane, Ufficio Circondariale Marittimo di S. Margherita Ligure, Capitaneria di Porto, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; Aato della Provincia di Genova, Comune di Zoagli, Asl 4 Chiavarese, Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente (A.r.p.a.l.), Società Acque Potabili Spa, Società Telecom Spa, Società Italgas, Enel Spa, Agenzia delle Dogane di Genova, Angelo Canepa, Silvia Soppa, Enzo Luppi, Luigi Abrescia e Anna Piccirillo, tutti non costituiti in giudizio;

Sul ricorso numero di registro generale 8589 del 2013, proposto dai signori Franca Ottonello, Pierluigi Ottonello, Angelo Gobbi, Elisa Maria Devoti, Alessia Bertuzzi, Bruno Giambarrasi, Marina Assereto, Armanda Bottazzi, Salvatore Pocorobba, Nicola Pocorobba, Gianna Carla Nerazio, Raffaella Brazzini, Giacomo Maggiolo, Maria Alessandrino, Vincenzo Buonanno, Francesco Guglielmo Buonanno, Fabrizia Gneis, Santina Cataudella, Salvatore Distaso, Rina Spagni, Maria Viacava, Angela Porta, Francesco Baldi, Renata Bice Marisa Ottonella, Maria Grazia Florio, Mauro Noberini, Beatrice Noberini, Edvige Masala, Giuliano Godani, Pietro Giovanni Torosani, Anna Corvi, Matteo Vanzini, Arlene Tanael, Rosalba Maria Merlino, Fenita Malatesta, Filippo Merlino, Piero Oneto, Nicoletta Arata, Roberto Travi, Roberto Venuti, Enrica Garibotto, Giancarlo Abeli, Agnese Noce, Dina Gottardi, Vanessa Di Malta, Sara Martina, Rosalia Pizzo, Angelo Pitarresi, Salvatore Pitarresi, Letizia Temini, Nice Panisi, Maria Angela Figari, Alfio Antonio Zanforlini, Giovanni Solari, Marco Di Mattei, Rosanna Benasso, Antonella Demattei, Luciana Macchiavello, Diego Pallavicini, Isola Assereto, Paola Malpeli, Salvatore Mantelli, Maria Mosca, Olga Macchiavello, Tiziana Rosso, Germana Dondero, Salvatore Soffietto, Bruna Rossato, Paolo Co', Gabriella Fattori, Patrizia Cioli, Angelo Brambilla, Mafalda Lertora, Daniela Colman, Maria Luisa Ardito, Alessandro Bonon, Massimo Giovanelli, Antonella Roncagliolo, Liliana Barlaro, Giobatta Tassara, Tamara Vigano', Susanna Beatrice Taverna, Kalam Abu, Marco Martini, Maria Elisabetta Arpinati, Franco Garibaldi, Ahlaya Chornohach, Cosmo Lucido, Salvatore Romeo, Maria Ratto, Caterina Valenti, Dalida Iannotta, William Cucco, Giorgio Appennini, Maria Camilla Bianchi, Debora Fraccaroli, Mauro Barra, Giovanni Lattanzio, Silvana Taietti, Sergio Vanzini, Paola Camerini, Daniele Romualdo Vigorelli, Maria Angela Fasani, Patrizia Vigorelli, Claudia Camboni, Rina Cortellazzi, Iris Manzo, Luisa Chichizola, Anna Maria Begagli, Giorgio Allegri, Everardo Amati, Placido Mariani, Luisa Roncagliolo, Virgilio Mariani, Giulia Fornaciari, Rosa Grande, Rita Palmas, Giancarlo Sacchetti, Alessandro Sacchetti, Vincenza Spatafora, Maria Baldi, Maria Era, Sergio Baldi, Antonella Mascardi, Erika Vanzini, Elisa Pelosin, Carlos Humberto Popoli, Pierluigi Biagioni, Klodian Zemblaku, Ugo Achille Sampietro, Viorica Bicazan,

Daniele Malmusi, Mirella De Franceschi, Maria Protti, Giuseppina Drisaldi, Donatella Deferrari, Andrea Introini, Piergiosue' Guerini, Alberto Biffi e Roberto Volvera, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati Daniele Granara e Federico Tedeschini, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Federico Tedeschini in Roma, largo Messico, 7;

contro

Comune di Rapallo, in persona del sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Luigi Cocchi e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4;
Città metropolitana di Genova, in qualità di successore ex lege della Provincia di Genova, in persona del Sindaco metropolitano, rappresentata e difesa dagli avvocati Carlo Scaglia, Gabriele Pafundi e Valentina Manzone, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4;

nei confronti

Regione Liguria, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Michela Sommariva e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4;
Società Mediterranea delle Acque Spa, in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Giulio Bertone, Gabriele Pafundi e Daniela Anselmi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare 14/4;

Società Idro Tigullio Spa, in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Daniela Anselmi, Giulio Bertone e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare 14/4; Società Ireti Spa (già Società Iren Acqua Gas spa), in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Gabriele Pafundi, Daniela Anselmi e Giulio Bertone, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4;

Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio della Liguria, Ministero per i beni e le attività culturali, Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di Genova, Ministero dell'interno, Agenzia del Demanio, Agenzia delle Dogane, Ufficio Circondariale Marittimo di S. Margherita Ligure, Capitaneria di Porto, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; Aato della Provincia di Genova, Comune di Zoagli, Asl 4 Chiavarese, Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente (A.r.p.a.l.), Società Acque Potabili Spa, Società Telecom Spa, Società Italgas, Enel Spa, Agenzia delle Dogane di Genova, Angelo Canepa, Silvia Soppa, Enzo Luppi, Luigi Abrescia e Anna Piccirillo, tutti non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza in forma semplificata del T.a.r. Liguria – Genova, Sezione I, n. 585 dell’8 aprile 2013, resa tra le parti, concernente localizzazione e realizzazione di impianto di depurazione per il trattamento primario e secondario delle acque reflue – risarcimento del danno.

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Rapallo, della Città metropolitana di Genova (già Provincia di Genova), della Regione Liguria, della società Mediterranea delle Acque s.p.a., della società Idro Tigullio s.p.a., della società Ireti s.p.a. (già società Iren Acqua Gas s.p.a.), della Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio della Liguria, del Ministero per i beni e le attività culturali, del Comando provinciale dei Vigili del Fuoco di Genova, del Ministero dell'interno, dell’Agenzia del Demanio, dell’Agenzia delle Dogane, dell’Ufficio circondariale marittimo di S. Margherita Ligure, della Capitaneria di Porto del Provveditorato interregionale per le opere pubbliche, Lombardia e Liguria;
Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 ottobre 2017 il consigliere Daniela Di Carlo e uditi per le parti gli avvocati Damonte, Pafundi e Granara e l'avvocato dello Stato Marchini;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO


1. La controversia riguarda l’impugnazione degli atti della serie procedimentale

preordinata alla localizzazione e alla realizzazione, nel comune di Rapallo, in località Ronco, di un impianto per la depurazione e il trattamento primario e secondario delle acque reflue. L’impianto è destinato a sostituire quello, risalente al 1938, e limitato al solo trattamento primario dei reflui, localizzato alla via Betti, in pieno centro cittadino, divenuto oramai vetusto e non conforme rispetto alla disciplina di settore di cui al D.lgs. n. 152/2006 (che ha recepito la Direttiva 91/271/CEE) e alla normativa tecnica di cui all’Allegato IV della delibera del Consiglio dei Ministri 4 febbraio 1997.

1.1. Sotto l’incombenza della procedura di infrazione europea, che aveva imposto il limite del 31 dicembre 2015 per pervenire all’adeguamento dell’impianto, l’amministrazione comunale di Rapallo aveva, dapprima, deciso di edificare l’impianto di trattamento secondario accanto a quello primario già esistente alla via Betti (deliberazione n. 48 dell’11 febbraio 2010), salvo, poi, mutare di intendimento e optare per la collocazione del sito nella diversa località Ronco, area posta sulla sponda destra del Torrente Boate, a margine dei campi da golf e in corrispondenza degli uffici e degli impianti della società Acque Potabili, siti sulla sponda opposta. 2. Tale decisione è stata avversata da parte di molti residenti del luogo e di due associazioni di tutela ambientale, attraverso tre separati giudizi, e segnatamente: 2.1. Col giudizio n. 684 del 2011, i signori Ottonello + altri hanno impugnato:

a) con ricorso principale: la delibera di consiglio comunale n. 256 del 6 aprile 2011, recante approvazione di un ordine del giorno per la localizzazione dell’impianto di depurazione delle acque fognarie del comune di Rapallo, nonché ogni altro atto connesso o presupposto;
b) con primo atto di motivi aggiunti del 26 ottobre 2011: la delibera di consiglio comunale n. 275 del 20 luglio 2011, avente ad oggetto Completamento del depuratore delle acque reflue - Adozione della variante urbanistica e il preventivo assenso all’indizione della conferenza di servizi di per l’approvazione; la delibera di consiglio regionale n. 18/2011, recante Piano Territoriale di Coordinamento Paesistico (PTCP): Variante di salvaguardia della fascia costiera, nella parte in cui ha modificato da PU a ISMA l’area marginale posta a destra del Torrente Boate, esterna al perimetro del golf; nonché atti connessi e presupposti, tra cui in particolare il verbale di conferenza di servizi in seduta referente del 27 luglio 2011; i verbali delle riunioni tenutesi nelle date del 24.1.2011, 16.2.2011, 7.3.2011 e 14.3.2011; la nota prot. IN/2011/6768 del 21 marzo 2011 del dirigente del Settore Amministrazione Generale della Regione Liguria; la nota della ASL 4 di Chiavari prot. n. 21519 del 18 maggio 2011; la nota del comune di Rapallo prot. n. 0026310 del 4 giugno 2011;

c) con secondo atto di motivi aggiunti del 13 marzo 2012: il decreto del dirigente del Dipartimento Ambiente – Regione Liguria, n. 3931 del 30 dicembre 2011, recante verifica screening ex art. 10 della Legge regionale n. 38/1998. Progetto preliminare del depuratore di Rapallo. No VIA con prescrizioni; le delibere di consiglio comunale nn. 320, 321 e 322 del 22 febbraio 2012, relative alla acquisizione dell’area, all’accettazione delle prescrizioni regionali dettate dallo screning e alle controdeduzioni alle osservazioni dei privati; ogni altro atto connesso o presupposto;

d) con terzo atto di motivi aggiunti dell’11 maggio 2012: le determinazioni assunte dalla conferenza di servizi in seduta deliberante del 29 febbraio 2012 concernente approvazione del progetto di completamento dell’impianto; la deliberazione di consiglio comunale n. 322 del 22 febbraio 2012, avente ad oggetto completamento del depuratore delle acque reflue – esame delle osservazioni;
e) con quarto atto di motivi aggiunti del 5 ottobre 2012: la determinazione dirigenziale comunale n. 600 del 25 giugno 2012 , concernente l’area in località Ronco; impianto di depurazione con sistemazioni esterne; conferenza di servizi ai sensi degli artt. 59 della legge regionale n. 26/1997 per l’approvazione della variante parziale al vigente p.r.g. e 14 della legge n. 241/1990 per l’approvazione dell’opera pubblica e conclusione del procedimento; la determinazione dirigenziale comunale n. 664 del 12 luglio 2012, concernente conclusione del procedimento in relazione al progetto di completamento dell’impianto di depurazione sito alla via Betti; nonché ogni altro atto connesso o preparatorio.
2.2. Col giudizio n. 1107 del 2011, le associazioni ambientaliste W.W.F. e V.A.S. hanno impugnato, anch’esse:
a) con ricorso principale: la delibera di consiglio comunale n. 275 del 20 luglio 2011, avente ad oggetto Completamento del depuratore delle acque reflue - Adozione della variante urbanistica e il preventivo assenso all’indizione della conferenza di servizi di per l’approvazione; la delibera di consiglio regionale n. 18/2011, recante Piano Territoriale di Coordinamento Paesistico (PTCP): Variante di salvaguardia della fascia costiera, nella parte in cui ha modificato da PU a ISMA l’area marginale posta a destra del Torrente Boate, esterna al perimetro del golf; nonché atti connessi e presupposti, tra cui in particolare il verbale di conferenza di servizi in seduta referente del 27 luglio 2011; i verbali delle riunioni tenutesi nelle date del 24.1.2011, 16.2.2011, 7.3.2011 e 14.3.2011; la nota prot. IN/2011/6768 del 21 marzo 2011 del dirigente del Settore Amministrazione Generale della Regione Liguria; la nota della ASL 4 di Chiavari prot. n. 21519 del 18 maggio 2011; la nota del comune di Rapallo prot. n. 0026310 del 4 giugno 2011;
b) con primo atto di motivi aggiunti del 13 marzo 2012: il decreto del dirigente del Dipartimento Ambiente – Regione Liguria, n. 3931 del 30 dicembre 2011, recante verifica screening ex art. 10 della Legge regionale n. 38/1998. Progetto preliminare del depuratore di Rapallo. No VIA con prescrizioni; le delibere di consiglio comunale nn. 320, 321 e 322 del 22 febbraio 2012, relative alla acquisizione dell’area, all’accettazione delle prescrizioni regionali dettate dallo screning e alle controdeduzioni alle osservazioni dei privati; ogni altro atto connesso o presupposto;

c) con secondo atto di motivi aggiunti dell’11 maggio 2012: le determinazioni assunte dalla conferenza di servizi in seduta deliberante del 29 febbraio 2012 concernente approvazione del progetto di completamento dell’impianto; la deliberazione di consiglio comunale n. 322 del 22 febbraio 2012, avente ad oggetto completamento del depuratore delle acque reflue – esame delle osservazioni.

2.3. Col giudizio n. 1052 del 2012, la signora Anna Nascimbene – anch’essa residente in loco – ha gravato: 1) la determinazione dirigenziale comunale n. 600 del 25 giugno 2012, concernente l’area in località Ronco; impianto di depurazione con sistemazioni esterne; conferenza di servizi ai sensi degli artt. 59 della legge regionale n. 26/1997 per l’approvazione della variante parziale al vigente p.r.g. e 14 della legge n. 241/1990 per l’approvazione dell’opera pubblica e conclusione del procedimento; 2) la determinazione dirigenziale comunale n. 664 del 12 luglio 2012, concernente conclusione del procedimento in relazione al progetto di completamento dell’impianto di depurazione sito alla via Betti; 3) ogni altro atto connesso, presupposto o conseguente.

3. Il T.a.r. per la Liguria, Genova, Sezione I, con la sentenza resa in forma semplificata, n. 585 dell’8 aprile 2013, ha:
a) riunito i giudizi per ragioni di connessione soggettiva (parziale) e oggettiva;
b) dichiarato l’inammissibilità dei gravami per difetto di interesse, in ragione della natura endo-procedimentale e, dunque, non autonomamente impugnabile, di una parte degli atti impugnati e, per la restante parte di essi, per l’assenza dei necessari requisiti di attualità e concretezza dell’interesse azionato, trattandosi di approvazione di progetto preliminare di opera pubblica;

c) dichiarato, sempre in via preliminare, l’inammissibilità dell’intervento svolto

dalla signora Anna Nascimbene, nell’ambito del giudizio n. 684/2011, per avere, la stessa, successivamente impugnato i medesimi atti facendo valere la (distinta) legittimazione al ricorso (nel giudizio n. 1052/2012);
d) compensato, integralmente tra le parti, le spese di lite.

4. La pronuncia è stata oggetto di due separate impugnazioni.
5. Col ricorso n. 5533/2013, la signora Anna Nascimbene, per quanto di interesse rispetto all’originario ricorso n. 1052/2012 dalla stessa instaurato, ha censurato la declaratoria di inammissibilità, affidandosi ad un unico, complesso, motivo di gravame: “Erroneità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 74 del c.p.a. e dell'art. 93, comma 2, del D.lgs. n. 163/06, come modificato dal d.l. n. 1/2012 - Difetto di motivazione ed istruttoria - Difetto di presupposto. Travisamento di atti e fatti decisivi”.
5.1. Espone l’appellante di avere fornito la prova, fin dal primo grado del giudizio, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, della immediata lesività alle proprie situazioni giuridiche, derivante direttamente dall’approvazione del progetto preliminare del nuovo depuratore e consistente nell’allocazione del nuovo impianto in un sito precisamente individuato e posto ad una distanza considerevolmente ravvicinata rispetto alla propria abitazione, comunque inferiore alla distanza legale prescritta.
L’impugnata determinazione dirigenziale n. 600 del 25 giugno 2012 reca, infatti, testuale ed espressa previsione del contenuto di progetto definitivo, agli effetti edilizi e paesaggistici, dell’opera approvata allo stadio di progettazione preliminare, sicché – conclude l’appellante - l’aspetto specifico della localizzazione del sito e, dunque, della sua conformità ed esatta consistenza rispetto alla disciplina edilizia, urbanistica e paesaggistica, non può più essere oggetto di modifica né con il progetto definitivo né con quello esecutivo, cristallizzandosi tali aspetti già al momento della progettazione preliminare.
5.2. La stessa ha, pertanto, espressamente riproposto ai sensi dell’art. 101, comma 2 c.p.a., le doglianze di merito non esaminate in prime cure; reiterato l’istanza istruttoria di acquisizione documentale già dedotta nel primo grado; riproposto la domanda di condanna al risarcimento del danno o, in via subordinata, di condanna generica con riserva di quantificazione in separato giudizio.
5.3. Si sono costituiti in giudizio, con separate memorie di mero stile, insistendo per la declaratoria di irricevibilità, inammissibilità o infondatezza, nel merito, dell’avverso appello, i seguenti soggetti:

1) la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Liguria; il Ministero per i beni e le attività culturali; il Comando provinciale dei Vigili del Fuoco di Genova; il Ministero dell’Interno; l’Agenzia del Demanio; l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli; l’Agenzia delle Dogane – Ufficio circondariale marittimo di S. Margherita Ligure e la Capitaneria di Porto di Genova;

2) il Comune di Rapallo;
3) la Provincia di Genova;
4) la Regione Liguria;
5) la società Idrotigullio s.p.a.;
6) la società Iren Acqua GAS s.p.a.;
7) la società Mediterranea Acque s.p.a.;
5.3.1. La Città metropolitana di Genova, in qualità di successore ex lege della Provincia di Genova, ha depositato ulteriore memoria in data 27.6.2017, per confermare le conclusioni già rassegnate nel precedente atto di costituzione in giudizio.
5.4. Le parti hanno ulteriormente insistito nelle rispettive tesi difensive mediante il deposito di memorie integrative e di replica.
6. Col ricorso n. 8589/2013, i signori Ottonello e altri, hanno censurato la declaratoria di inammissibilità per carenza di interesse articolando ben sette motivi di gravame, e segnatamente:
6.1. “Violazione dell’art. 35 del c.p.a. – Erroneità della sentenza per errata declaratoria di inammissibilità dei gravami aventi ad oggetto gli atti riguardanti la fase di progettazione preliminare”.
6.1.1. Analogamente a quanto già prospettato dall’appellante Nascimbene nell’altro giudizio, anch’essi sottolineano il contenuto definitivo, agli effetti edilizi e paesaggistici, della delibera dirigenziale n. 600/2012.
6.2. “Violazione dell’art. 35 del c.p.a. – Erroneità della sentenza per errata declaratoria di inammissibilità dei gravami aventi ad oggetto gli atti riguardanti l’approvazione delle varianti al p.r.g. del comune di Rapallo e al P.T.C.P.”.
6.2.1. Rilevano che il primo giudice, senza nemmeno precisare a quale variante di piano abbia voluto riferirsi (p.r.g. ovvero p.t.c.p.), ha del tutto omesso di esaminare censure proprie e autonome (e, dunque, immediatamente scrutinabili), avverso le predette determinazioni:
a) sotto il profilo della (il)legittimità dell’iter procedurale seguito;
b) sotto il profilo dell’assoluta (in)compatibilità urbanistica dell’area Ronco a ospitare la localizzazione di un impianto di depurazione, a prescindere dal progetto in concreto approvato;
c) sotto il profilo dell’obbligo di immediata impugnabilità delle varianti ai piani, secondo i principi generali in tema di impugnazioni, nell’ordinario termine decadenziale decorrente dal giorno del perfezionamento della pubblicazione, e cioè dall’ultimo giorno di deposito nella casa comunale.
6.3. “Violazione dell’art. 132 c.p.c. – Nullità e/o erroneità della sentenza per (assoluto) difetto di motivazione in ordine alla declaratoria di inammissibilità dei gravami aventi ad oggetti singoli atti”.
6.3.1. Assumono la nullità della sentenza gravata, resa in forma semplificata ai sensi dell’art. 74 c.p.a., perché assolutamente mancante di ogni riferimento, in punto di fatto o di diritto, idoneo a risolvere la controversia e a palesare le ragioni della ritenuta “manifesta” inammissibilità dei gravami. Al di là di limitati esempi - precisano – il primo giudice non ha distinto, nel vasto numero dei singoli atti impugnati, quelli endoprocedimentali da quelli non definitivi, sebbene le ragioni della decisione riposassero proprio sulla suddetta distinzione, e ha mancato di spiegare le ragioni per le quali le restanti censure sarebbero da ritenersi “generiche”.
6.4. “Erroneità della sentenza per errata declaratoria di inammissibilità dei gravami aventi ad oggetto singoli atti”.

6.4.1. Viene ribadita l’ammissibilità del gravame avverso i singoli atti – connessi, presupposti o conseguenti - sul rilievo della diretta e immediata impugnabilità dell’approvazione del progetto preliminare e delle varianti al p.r.g. e al p.t.c.p..
6.5. “Erroneità della sentenza per errata declaratoria di inammissibilità dei gravami aventi ad oggetto la contestata compatibilità ambientale e paesistica – Primo profilo”.

6.5.1. Si assume l’immediata impugnabilità del decreto dirigenziale n. 3931/2011, nella parte in cui ha escluso la sottoposizione a v.i.a. del progetto (e ciò indipendentemente dalla natura preliminare o definitiva dello stesso), giacché tale decisione, per un verso, è immediatamente lesiva degli interessi paesistico- ambientali, e, per un altro verso, rappresenta il presupposto indefettibile per il rilascio delle successive autorizzazioni edilizie.

6.6. “Erroneità della sentenza per errata declaratoria di inammissibilità dei gravami aventi ad oggetto la contestata compatibilità ambientale – Secondo profilo”.
6.6.1. Gli appellanti deducono una ulteriore ragione a sostegno dell’immediata impugnabilità del diniego di sottoporre a v.i.a. il progetto preliminare, consistente nell’impossibilità di dedurre, in seguito, tale vizio. Se è vero, infatti, che un progetto preliminare già sottoposto a v.i.a., non deve esservi ulteriormente sottoposto, a meno che in sede di approvazione del progetto definitivo non intervengano modifiche sostanziali, nell’ipotesi inversa – qui all’esame – di un progetto preliminare del tutto mancante di v.i.a., nessun vizio proprio potrebbe imputarsi avverso l’approvazione del progetto definitivo, per intrasferibilità - a quest’ultimo - di un motivo di censura riferibile solo al primo (cd. inoppugnabilità).

6.7. “Erroneità della sentenza per errata declaratoria di inammissibilità dei gravami aventi ad oggetto la contestata compatibilità ambientale e paesistica – Terzo profilo”.
6.7.1. Si sostiene l’assoluta erroneità della decisione per avere escluso l’immediata impugnabilità di un atto – il provvedimento provinciale recante autorizzazione paesistico-ambientale – ritenuto da sempre in dottrina e in giurisprudenza atto funzionalmente autonomo.

6.8. All’esito, gli appellanti hanno reiterato l’eccezione di difetto di legittimazione ad intervenire in capo all’associazione Legambiente - Sezione Liguria Onlus, in ragione della natura regionale dell’articolazione; riproposto, infine, nel merito, tutti i motivi di gravame non esaminati in prime cure.

6.9. Si sono costituiti in giudizio, con separate memorie di mero stile, insistendo per la declaratoria di irricevibilità, inammissibilità o infondatezza, nel merito, dell’avverso appello, le seguenti parti:
1) la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Liguria; l’Agenzia del Demanio; l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli; il Provveditorato interregionale opere pubbliche Lombardia-Liguria, Genova;

2) il Comune di Rapallo;
3) la Provincia di Genova;
4) la Regione Liguria;
5) la società Idrotigullio s.p.a.;
6) la società Iren Acqua GAS s.p.a.;
7) la società Mediterranea Acque s.p.a.;
6.9.1. La città metropolitana di Genova, in qualità di successore ex lege della già provincia di Genova, ha depositato ulteriore memoria (27.6.2017) per confermare le conclusioni già rassegnate nel precedente atto di costituzione in giudizio.
6.10. Le parti hanno insistito nelle rispettive tesi difensive mediante il deposito di memorie integrative e di replica.
7. All’udienza pubblica del 12 ottobre 2017 le cause sono state discusse e trattenute dal Collegio in decisione.
8. Va preliminarmente disposta la riunione, ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.a., del ricorso n. 8589/2013 a quello, previamente iscritto, n. 5533/2013, trattandosi di separate impugnazioni avverso la medesima sentenza.
9. In ordine logico-giuridico, va esaminata con priorità l’eccezione, sollevata dalle parti resistenti, di improcedibilità del giudizio di appello per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione perché – si sostiene – medio tempore è stato approvato il progetto definitivo del depuratore con la determinazione comunale n. 680 del 10 luglio 2014, anch’essa impugnata dinanzi al T.a.r. ligure, con riproposizione, da parte degli odierni appellanti, nei confronti dei nuovi atti di approvazione progettuale, delle medesime censure spese avverso quelli oggetto dell’odierno gravame, nonché, con reiterazione dell’impugnazione, anche avverso questi ultimi, in quanto atti presupposti.
9.1. L’eccezione è destituita di fondamento.
9.1.1. Va premesso, in termini generali, che l’attività di progettazione relativa alla fattispecie controversa è regolata, ratione temporis, dalle previsioni contenute nell’art. 93, comma 4, del D.lgs. n. 163/2006. L’art. 256 di questo stesso decreto ha, infatti, disposto l’espressa abrogazione, con decorrenza 1 luglio 2006, ai sensi di quanto previsto dal successivo art. 257, della norma per l’innanzi vigente, contenuta all’art. 16, della legge n. 109/1994. Oggi, invece, la fattispecie trova la sua disciplina nell’art. 23 del D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, avendo quest’ultimo, all’art. 217, comma 1, lettera e), previsto l’espressa abrogazione dell’art. 93 cit.. 9.1.2. In disparte il profilo dell’individuazione della norma temporalmente applicabile, è da osservare che la disciplina dell’attività di progettazione è rimasta, nella sostanza, pressoché immutata, giacché la stessa si articolava e, tuttora, si articola, sul piano della sequenza procedimentale, in tre successivi livelli di progressivo approfondimento tecnico: il progetto preliminare, il progetto definitivo e il progetto esecutivo.

9.1.3. Il sistema è congegnato dal legislatore in modo che le scelte operate nella fase precedente condizionino quelle della fase successiva, sotto i profili sia della legittimità che del merito. Il nesso procedimentale che avvince le progettazioni è, infatti, di natura funzionale, mirando a realizzare un approfondimento di tipo tecnico che assicuri:

a) la qualità dell'opera e la rispondenza alle finalità relative;
b) la conformità alle norme ambientali e urbanistiche;
c) il soddisfacimento dei requisiti essenziali, definiti dal quadro normativo nazionale e comunitario.
9.1.4. L’esistenza del nesso di presupposizione tra i livelli progettuali trova conferma anche nell’ultimo periodo del comma 2 del medesimo art. 93 cit., giacché è positivamente stabilito che “E' consentita altresì l'omissione di uno dei primi due livelli di progettazione purché il livello successivo contenga tutti gli elementi previsti per il livello omesso e siano garantiti i requisiti di cui al comma 1, lettere a), b) e c)”.
9.1.5. Ciò posto, è evidente allora che, qualora si dovessero rivelare fondati i gravami esperiti avverso l’approvazione del progetto preliminare, in virtù del descritto nesso procedimentale, si produrrebbero effetti caducanti a valle, sull’approvazione del progetto definitivo, venendo a mancare – sul piano logico giuridico – il livello progettuale presupposto che, solo, può consentire il perfezionamento della fattispecie.
9.1.6. Per giurisprudenza consolidata, nell’operare il distinguo fra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante, occorre valutare “l'intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento dell'effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi” (Consiglio di Stato, sez. VI, 27 novembre 2012, n. 5986).
9.1.7. La fattispecie ricorre esemplarmente nel caso di specie, ove il livello di progettazione approvato, oggetto di impugnazione, contiene – in parte – gli effetti tipici del livello successivo progettuale, sicché ove, in ipotesi, venisse a cadere l’atto presupposto (l’approvazione del preliminare), cadrebbe necessariamente quello definitivo, privato di quei contenuti (gli effetti edilizi e paesaggistici) cristallizzati al livello progettuale precedente e non rinnovati, se non in senso meramente confermativo, nel successivo livello.

9.1.7.1. La circostanza è, peraltro, avvalorata dalla (ri)proposizione delle censure nel nuovo giudizio dinanzi al Tar, avverso gli atti della progettazione definitiva, le quali non fanno altro che reiterare quelle già spese avverso gli atti della progettazione preliminare, mentre – di converso – la riproposizione dell’impugnazione avverso questi ultimi, in quanto atti presupposti, appare esperita in modo meramente tuzioristico, per evitare di incorrere in decadenze di sorta. 9.1.8. Né la mancanza del livello progettuale potrebbe essere supplita nella sede giurisdizionale, essendo il sindacato di questo giudice limitato al vaglio di legittimità degli atti impugnati e circoscritto alle censure prospettate dai ricorrenti. La valutazione della sufficienza e dell’idoneità, a norma dell’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 93 cit., del secondo livello progettuale (quello definitivo), ad assorbire quello (preliminare), non svolto o annullato in sede giurisdizionale, spetta – infatti - alla sola pubblica amministrazione.

Ad una pronuncia giurisdizionale in tal senso osterebbe, in ogni caso, il disposto di cui all’art. 34, comma 2, c.p.a., essendo inibito al giudice di pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati.
9.1.9. Pertanto, contrariamente all’avviso manifestato dalle parti resistenti, sussiste il pieno interesse delle parti appellanti a vedere scrutinati gli appelli, anche in ragione delle importanti ricadute, sul piano processuale, avverso gli atti da ultimo impugnati in primo grado, per quanto appena esposto.

10. La seconda questione da affrontare concerne, invece, la correttezza dell’impugnata declaratoria di inammissibilità, per carenza di interesse, dei ricorsi introduttivi e dei motivi aggiunti.
10.1. La questione, comune ad entrambe le parti appellanti, coincide appieno per la parte in cui è contestata la natura immediatamente impugnabile della deliberazione comunale n. 600 del 25 giugno 2012, sicché possono scrutinarsi congiuntamente l’unico motivo di gravame proposto dall’appellante Nascimbene e il primo mezzo esperito dai signori Ottonello e altri.
10.1.1. Entrambe le parti assumono l’erroneità del ragionamento logico-giuridico seguito dal primo giudice, sul rilievo che esse, fin dal primo grado del giudizio, avrebbero puntualmente dato conto e integralmente soddisfatto l’onere della prova circa l’immediata lesività, rispetto alle proprie situazioni giuridiche, della scelta di allocare il nuovo impianto nei pressi delle proprie abitazioni, in palese violazione del limite legale (100 metri) prescritto nelle distanze tra le costruzioni. Tale allocazione - si rimarca - non sarebbe più suscettibile di alcuna modificazione nel successivo livello di approfondimento progettuale (quello definitivo), giacché la delibera di approvazione del progetto preliminare ha chiaramente e testualmente disposto che il progetto deve intendersi come definitivo agli effetti edilizi e paesaggistici.
11. Il motivo merita assoluto apprezzamento.
11.1. Costituisce ius receptum, nella giurisprudenza amministrativa, il principio secondo cui, nell'ambito della serie procedimentale degli atti di approvazione di un progetto per la realizzazione di un'opera pubblica, devono considerarsi impugnabili solo quegli atti che siano effettivamente dotati di lesività nei confronti dei cittadini incisi dall'attività della pubblica amministrazione.
11.2. Ciò rappresenta diretta e immediata applicazione della logica generale, che sorregge l’azione davanti al giudice amministrativo, la quale - similmente al processo civile – riposa su tre condizioni fondamentali:
a) il cd. titolo (o possibilità giuridica dell’azione);
b) la legitimatio ad causam (discendente dall’affermazione di colui che agisce/resiste in giudizio di essere titolare del rapporto controverso dal lato attivo o passivo).
c) l’interesse ad agire (che deve sussistere al momento della proposizione della domanda e perdurare, a pena di improcedibilità, per tutto il corso del giudizio e sino alla pronuncia della sentenza).
c) 11.3. Con riguardo alla progettazione dell’opera di pubblica utilità, la giurisprudenza amministrativa ha enucleato, in relazione ai casi di volta in volta sottoposti all’esame, dei principi generali volti ad esemplificare le ipotesi in cui detto interesse al ricorso certamente sussiste.
11.4. Si tratta, tipicamente, di tutte quelle ipotesi in cui è certa e immediatamente individuabile la lesione che il singolo lamenta nella propria sfera giuridica, e che possono, con un certo grado di approssimazione, così riassumersi:
a) approvazione del progetto definitivo dei lavori da realizzare;
b) adozione del decreto di occupazione temporanea e d’urgenza;
c) adozione del decreto di espropriazione.
11.5. Di seguito, in sintesi, le argomentazioni a sostegno (ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 2 settembre 2014, n. 5035).
11.5.1. In relazione alla fattispecie sub lettera a), perlomeno nelle ipotesi in cui la realizzazione dell’opera pubblica implica espropriazione di beni privati, il progetto definitivo contiene la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza, sicché si imprime al bene privato quella particolare qualità (o utilità pubblica) che lo rende assoggettabile alla procedura espropriativa.
11.5.2. In relazione, invece, alla fattispecie sub lettera b), è la situazione di immediato spossessamento del bene in capo al privato che ne rende attuale e concreta la reazione.
11.5.3. Infine, in relazione alla fattispecie di cui alla letterasub c), l’interesse ad agire origina dal mutamento, dal lato soggettivo, del titolo del diritto di proprietà, oggetto di trasferimento in favore della pubblica amministrazione ovvero del soggetto espropriante.

11.6. Lasciando in disparte il profilo concernente l’espropriazione per pubblica utilità, il quale pacificamente non rileva nel caso di specie, la validità dell’anzidetto principio di diritto – quantomeno con riguardo al contenuto della progettazione definitiva rispetto a quella preliminare – è assolutamente da condividersi e da ritenersi applicabile al caso all’esame.

11.7. È stato correttamente osservato (Consiglio di Stato, sez. II, 14 aprile 2011, n. 2367), che “Soltanto nella progettazione definitiva l'opera pubblica assume il carattere dell’immodificabilità, sicché le eventuali carenze di ordine istruttorio in cui fosse eventualmente incorsa l'amministrazione possono essere sanate fino all'approvazione del progetto definitivo, anche alla luce delle osservazioni presentate dai proprietari dei terreni interessati e ciò è confermato anche dal disposto dell'art. 16, comma 4, l. n. 109/1994, secondo il quale il progetto definitivo, e non anche quello preliminare, "contiene tutti gli elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni ed approvazioni”.

11.8. L’avvenuta abrogazione della disposizione testé richiamata, come precisato al punto 9.1.1, non toglie validità alcuna al principio di diritto ricavabile dalla norma ivi contenuta, poi trasposta con sostanziale, analogo, contenuto, nell’art. 93, comma 4 del D.lgs. n. 163/2006, ratione temporis applicabile alla fattispecie all’esame. 11.9. Sulla stessa scia interpretativa si pone anche Consiglio di Stato, sez. IV, 22 giugno 2006, n. 3949, a cui ci si richiama, anche ai sensi del disposto di cui agli artt. 74, comma 1 e 88, comma 2, lett. d) del c.p.a., per i precedenti ivi citati (in particolare, sez. VI, 6 marzo 2002, n. 1371; sez. IV, 6 giugno 2001, n. 3033; sez. IV, 22 giugno 2000, n. 3557).

11.9.1. Quest’ultimo precedente, peraltro, è particolarmente significativo, perché oltre a ribadire il principio generale della (sola) impugnabilità del progetto definitivo (“Il progetto preliminare di un'opera pubblica non è di per sé un atto autonomamente impugnabile in quanto atto endoprocedimentale; con la conseguenza che solo il progetto definitivo e quello esecutivo sono impugnabili poiché in grado di ledere la posizione giuridica soggettiva del singolo privato”), enuclea, secondo un ragionamento condotto a contrario, le ipotesi in cui possono – invece - ravvisarsi eccezioni al medesimo.
11.9.2. Le uniche eccezioni – è precisato - si verificano allorquando:
a) l'atto endoprocedimentale determini l'arresto del procedimento;

b) l'atto conclusivo non abbia reale efficacia costituiva perché non esprime una ulteriore valutazione di interesse rispetto a quella cristallizzata nell'atto precedente. 11.10. Di ciò, peraltro, si era avveduto tempo addietro anche Consiglio di Stato, sez. IV, 6 giugno 2001, n. 3033, che, nel riconfermare l’orientamento classico della non immediata impugnabilità dell’approvazione del progetto preliminare, aveva fatto salva l’ipotesi in cui si fosse prodotta un’eventuale alterazione dell'iter procedimentale, tale da incidere immediatamente e direttamente nella sfera del privato (si tratta, sostanzialmente, dell’ipotesi sopra riportata alla lettera b).

11.11. Al lume delle considerazioni che precedono, deve ritenersi verificata, nel caso di specie, l’eccezionale anomalia procedimentale: il progetto preliminare ha assunto, contenutisticamente, delle connotazioni tali da essere – anche testualmente – qualificato come definitivo agli effetti edilizi e paesaggistici, con immediata lesione delle situazioni giuridiche dei singoli quanto alla consistenza e alla collocazione edilizia e paesaggistica dell’impianto.

11.12. Pertanto, in un caso del genere, ben avrebbe dovuto (e potuto), il primo giudice, ritenere il gravame ammissibile sotto il profilo della (astratta) sussistenza dell’interesse a ricorrere e procedere allo scrutinio, nel merito, delle censure dedotte, onde verificare (in concreto) l’effettiva ricorrenza dei lamentati vizi di (il)legittimità sul piano edilizio e paesaggistico.

12. L’impugnazione n. 8589/2013 contiene, come già anticipato, oltre all’anzidetto motivo, numerose altre censure.
12.1. Col secondo motivo, in particolare, si espongono delle argomentazioni che puntano a dimostrare l’erroneità del percorso logico-giuridico, seguito dal primo giudice, con riferimento, altresì, all’impugnazione delle varianti al p.r.g. e al p.t.c.p..
12.1.1. Anche tale motivo è fondato.
12.1.2. Il primo giudice non si è avveduto che i ricorrenti hanno speso, nei confronti delle varianti urbanistiche (al piano regolatore comunale e al piano territoriale di coordinamento) censure proprie e autonome (e non già derivate), sotto plurimi profili:
a) illegittimità dell’iter procedurale seguito;
b) assoluta incompatibilità urbanistica dell’area Ronco ad ospitare la localizzazione di un impianto di depurazione, a prescindere dalla natura preliminare o definitiva del progetto approvato;
c) immediata impugnabilità delle varianti ai piani, secondo i principi generali, nell’ordinario termine decadenziale decorrente dal giorno del perfezionamento della pubblicazione.
12.1.3. Si tratta, all’evidenza, di censure che avrebbero dovuto – secondo i principi generali - essere immediatamente esaminate e che, anzi, laddove spese successivamente, avverso la progettazione definitiva, sarebbero potute facilmente, quanto ragionevolmente, incorrere in una declaratoria di inammissibilità per tardività: la natura diretta della lesione nella sfera giuridica soggettiva dei privati deriva, infatti, dall’approvazione delle varianti ai piani e risulta ulteriormente aggravata dalla circostanza che il progetto preliminare è da intendersi, definitivo, agli effetti edilizi e paesaggistici.
12.2. Meritano, pure, accoglimento, il terzo e il quarto motivo, con cui gli appellanti censurano la correttezza della pronuncia di primo grado nella parte in cui ha del tutto omesso, non dandone conto nella motivazione, delle ragioni a sostegno della declaratoria di inammissibilità per difetto di interesse nei confronti degli atti qualificati endoprocedimentali.
12.2.1. Dalla piana lettura della sentenza impugnata, infatti, non è dato evincere a quali atti si sia voluto fare riferimento, giacché – se si eccettua qualche esemplificazione – tra gli innumerevoli singoli atti impugnati, nonostante la petizione di principio, non è operato alcun puntuale distinguo tra quelli autonomamente impugnabili, ma carenti di interesse concreto e attuale all’impugnazione, e quelli, in effetti, carenti di interesse perché di natura soltanto endoprocedimentale, e dunque non autonomamente impugnabili.

12.3. Pure fondati sono i rilievi dedotti col quinto, sesto e settimo motivo di appello, con i quali si censura la declaratoria di inammissibilità per difetto di interesse finanche avverso la decisione dell’amministrazione di non sottoporre a v.i.a. il progetto, nonostante la sua definitività agli effetti edilizi e paesaggistici. 12.3.1. È consolidato, nella giurisprudenza amministrativa, il principio secondo cui la valutazione di impatto ambientale costituisce atto immediatamente impugnabile, sia nell'ipotesi in cui essa si concluda con esito negativo, sia che la medesima abbia un epilogo positivo (Consiglio di Stato, sez. IV, 13 settembre 2017, n. 4327). Analoga conclusione deve affermarsi nell’ipotesi, ricorrente nel caso all’esame, in cui l’amministrazione abbia, invece, ritenuto di non sottoporre a v.i.a. un progetto preliminare che, tuttavia, è definitivo quanto agli effetti edilizi e paesaggistici. In questo caso, l’interesse all’impugnazione da parte dei soggetti interessati (residenti in loco e associazioni ambientaliste) è immediato e diretto, potendo (e dovendo), il vizio, a pena di inoppugnabilità, essere necessariamente speso nei confronti di tale atto (la determina di approvazione del progetto preliminare) e non già nei confronti del successivo livello di progettazione definitiva (Consiglio di Stato sez. IV, 9 gennaio 2014 n. 36).

13. Per le considerazioni che precedono va, pertanto, disposta la riforma della sentenza gravata nella parte in cui ha dichiarato l’inammissibilità, per difetto di interesse, dei ricorsi introduttivi del giudizio e dei motivi aggiunti.
14. A questo punto si tratta di valutare quali debbano essere le conseguenze di siffatta pronuncia.

15. Le ragioni della rimessione alla Plenaria.
L’oggetto della rimessione all’Adunanza plenaria riguarda le conseguenze sul piano processuale, e in relazione al disposto dell’articolo 105 c.p.a., dell’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso da parte del primo giudice.
Tale questione – come si vedrà - concerne un profilo di carattere generale, ma presenta aspetti di carattere particolare, specificamente rilevanti nella controversia in esame, in relazione ai casi in cui un’erronea pronuncia in rito da parte del primo giudice, idonea a definire il giudizio senza pervenire al merito, possa dar luogo a un vizio tale da imporre la rimessione della causa al tribunale amministrativo precludendo la (mera) riforma della sentenza da parte del giudice d’appello.

Va, infatti, al riguardo preliminarmente osservato – e fatti salvi gli ulteriori approfondimenti che seguono - che, a differenza del codice di procedura civile, in cui le ipotesi di rimessione al primo giudice sono non solo tassative ma anche ben definite (art. 354 c.p.c.), l’articolo 105 c.p.a., nell’enucleare le cause di rimessione al primo giudice, della cui tassatività non pare possa dubitarsi (significativo al riguardo l’uso dell’avverbio “soltanto”), utilizza una tecnica di individuazione dei casi di rinvio fondata (in parte) su clausole “aperte” che inevitabilmente il giudice è chiamato a definire sul piano dei contenuti concreti. E tale identificazione, d’altra parte, deve poter rivestire i caratteri di sufficiente chiarezza, idonei a evitare, sul piano giurisprudenziale, una incertezza e una imprevedibilità degli esiti che non paiono accettabili soprattutto in materia processuale.

16. I profili problematici sottesi sono riferibili a tre ordini di riflessioni, che sottintendono altrettante questioni:
a) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la possibile lesione dei diritti della difesa, sub specie di privazione delle parti del doppio grado di giudizio, nel merito;

b) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la possibile violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato;
c) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la possibile violazione dell’obbligo di motivazione della sentenza.

16.1. La prima delle anzidette questioni (il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la possibile lesione dei diritti della difesa, sub specie di privazione delle parti del doppio grado di giudizio, nel merito) prescinde, in qualche misura, dal contenuto sostanziale della sentenza impugnata e si colloca su un piano generale e astratto, per così dire, di politica processuale, che peraltro impone, per le imprescindibili esigenze di prevedibilità cui si è fatto cenno, soluzioni omogenee e chiare.

Il dubbio che si pone al Collegio è se, nel trapasso dal previgente art. 35 della legge Tar all’attuale art. 105 c.p.a., gli approdi interpretativi segnati da questo Supremo Consesso, in tema di individuazione (e distinzione) delle ipotesi che danno luogo a mera riforma della sentenza impugnata e quelle che implicano annullamento della sentenza con rinvio al primo giudice, possano, diversamente rispetto al passato, essere riveduti (e ampliati) al fine di annoverare, in questo secondo ordine di effetti, pure le ipotesi di erronea declaratoria di inammissibilità, irricevibilità o decadenza del ricorso pronunciate in primo grado.

La riflessione va condotta con estrema cautela, tenendo conto sia del dato normativo sia della ratio iuris che lo stesso esprime, ossia il raggiungimento di un difficile punto di sintesi tra esigenze e principi differenti: per un verso, il principio, peraltro non assoluto e nemmeno costituzionalizzato, del doppio grado di giurisdizione di merito; per altro verso, il principio della ragionevole durata del giudizio e dell’economicità dei mezzi di impugnazione.

Si reputa utile, al riguardo, un confronto, sul piano del dato normativo, col sistema processuale civile vigente e col sistema di giustizia amministrativa previgente. Secondo la previsione dell’art. 354 c.p.c., il giudice di appello civile può rimettere la causa al primo giudice solo se:

a) dichiari nulla la notificazione della citazione introduttiva;
b) riconosca che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte;
c) dichiari la nullità della sentenza di primo grado a norma dell’art. 161, 2° comma, c.p.c. e, cioè, per mancanza della sottoscrizione del giudice.
Ai sensi dell’art. 35, della l. n. 1034 del 1971, invece, il rinvio al Tar era consentito solo se il Consiglio di Stato avesse accolto il ricorso:
a) per difetto di procedura o per vizio di forma della decisione di primo grado;
b) contro la sentenza con la quale il tribunale amministrativo regionale avesse dichiarato la propria incompetenza.
In ogni altro caso – era precisato testualmente - il Consiglio di Stato decideva sulla controversia.
La previsione era stata estesa, in via pretoria, al caso di accoglimento del ricorso avverso la sentenza che avesse declinato la giurisdizione (Consiglio di Stato, Ad. plen., 8 novembre1996, n. 23).
È interessante osservare che, già sotto il previgente sistema di giustizia amministrativa, il diritto pretorio, culminato nella storica pronuncia dell’Adunanza plenaria (sentenza 27 ottobre 1987, n. 24), nel definire il rapporto tra le norme speciali del processo amministrativo e l’applicazione analogica di quelle specifiche e tassative previste per il processo civile, aveva messo in risalto la diversità della tecnica legislativa, collegata alla diversità strutturale dei due processi, e aveva affermato la natura aperta e di clausola generale della formula prevista per il giudizio amministrativo.
Il paragone con l’art. 354 c.p.c., dunque, era reputato legittimo nel quadro di un’interpretazione armonica e coordinata dell’ordinamento giuridico, ma non poteva essere rigido e meccanico.
In primo luogo, aveva osservato la Plenaria - anticipando, nella sostanza, il contenuto dell’attuale art. 39 c.p.a. – l’applicazione analogica delle norme della procedura civile, nei limiti in cui lo si voglia ritenere ammissibile, non opera quando nel sistema di giustizia amministrativa si rinviene una norma espressa. In secondo luogo, proprio la tecnica legislativa utilizzata, basata sull’utilizzo di una clausola generale e aperta, idonea a essere riempita di contenuto ad opera dell’interprete (il giudice di secondo grado), legittimava la possibilità di riconoscere, in via pretoria, ulteriori ipotesi (non nominate all’art. 354 cp.c.) di annullamento con rinvio, classificandole sub specie di difetto di procedura o di vizio di forma della decisione di primo grado.
Tradizionalmente, tali ipotesi hanno riguardato la mancata integrazione del contraddittorio (Consiglio di Stato, ad. plen. 17 ottobre1994, n. 13; Id., Sezione VI, 20 aprile 2000, n. 2459; Id., Sezione VI, 30 dicembre 2005, n. 7586; Id., Sezione VI, 25 febbraio 2003, n. 1035), la violazione del diritto di difesa di una delle parti, la mancata concessione di termine a difesa (Consiglio di Stato, ad. plen., 27 ottobre 1987, n. 24; Id., Sezione IV, 14 febbraio 2002, n. 893), la mancata comunicazione della data di udienza (Consiglio di Stato, Sezione VI, 16 gennaio 2006, n. 76;Id., Sezione IV, 12 gennaio 1999, n. 15), la violazione di termini a difesa (Consiglio di Stato, Sezione VI, 8 aprile 2002, n. 1907), l’illegittima fissazione dell’udienza nel periodo feriale (Consiglio di Stato, Sezione V, 3 giugno 1996, n. 625),la mancata concessione dell’errore scusabile (Consiglio di Stato, Sezione V, 25 novembre 1998, n. 1713; Id., Sezione V, 24 maggio 2004, n. 3358; Id., Sezione V, 1 marzo 2000, n. 1069), l’illegittima costituzione del collegio giudicante (Consiglio di Stato, ad. plen., 19 luglio 1982, n. 13), i vizi della sottoscrizione (Consiglio di Stato, Sezione IV, 6 marzo 1995, n. 157; C.G.R.S., 11 giugno 2008, n. 519;Consiglio di Stato, Sezione IV, 27 ottobre 1988, n. 832; Id., Sezione IV, 2 ottobre 2006, n. 5742).

Peraltro, tra queste ipotesi - è indiscusso - mai si è creduto di includere l’erronea declaratoria di inammissibilità, irricevibilità o decadenza del ricorso. Si riteneva, infatti, che siffatta pronuncia, benché idonea ad arrestare in punto di rito il processo, consumasse irreversibilmente quel grado di giudizio e comportasse, allo stesso tempo, la ritenzione della causa da parte del giudice di secondo grado per la definizione del merito, scrutinandosi solo in quel momento, e per la prima volta, le censure proposte.

La materia è, oggi, parzialmente trasfusa nell’art. 105 c.p.a., che al primo comma dispone: “Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l'ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l'estinzione o la perenzione del giudizio”.

L’art. 105 c.p.a., rispetto alla norma previgente, specifica meglio i casi di annullamento con rinvio (mancanza del contraddittorio, lesione del diritto di difesa e nullità della sentenza) e codifica casi prima dubbi (l’erronea dichiarazione di estinzione o perenzione del giudizio) o nati dall’interpretazione pretoria (l’erronea declinatoria della giurisdizione).

La nuova casistica legislativa si avvicina alla tipizzazione propria del rito civile, segnando un sensibile avvicinamento del sistema processuale amministrativo a quello civile.
Tuttavia, nella sostanza, essa continua a discostarsene profondamente, attesa la maggiore ampiezza contenutistica delle ipotesi di annullamento con rinvio e le perduranti genericità e astrattezza – nonostante la formale tipicità - delle clausole utilizzate, le quali favoriscono un grado di elasticità interpretativa non comparabile con la tassatività dell’elenco contenuto nell’art. 354 c.p.c., così consentendo una maggiore estensione delle ipotesi di rinvio al primo giudice. Esemplare, in tal senso, è la categoria della nullità della sentenza, introdotta senza ulteriore specificazione, laddove l’art. 354, comma 1, c.p.c. specifica, invece, che deve trattarsi di nullità ai sensi dell’art. 161, comma 2, c.p.c..

Sicché – occorre concludere - pure il vigente art. 105 c.p.a. non supera la vecchia lettura giurisprudenziale dell’art. 35 della legge Tar, in senso specialistico e autonomistico rispetto all’art. 354 c.p.c..
Resta da verificare, quindi, quanto dell’art. 35 della legge Tar sia sopravvissuto (o trasfuso) nel nuovo art. 105 c.p.a. e se, allo stato, siano predicabili nuove ipotesi di annullamento con rinvio al primo giudice.

Principiando dal dato giurisprudenziale, l’art. 105 c.p.a. è stato applicato nei seguenti casi:
a) mancata evocazione, nel giudizio di primo grado, di tutte le parti necessarie (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 7 dicembre 2015, n. 5570; Id., 1 settembre 2015, n. 4092; Consiglio di Stato, sez. IV, 22 dicembre 2014, n. 6270; Consiglio di Stato, sez. IV 2 luglio 2014, n. 3304; Cons. giust. amm. sic. 14 ottobre 2014, n. 566; Cons. Stato, sez. VI, 18 aprile 2013, n. 2139; sez. IV 10 dicembre 2010, n. 8724; nel senso, invece, della non necessità di integrare il contraddittorio quando il ricorso risulti, ai sensi dell’art. 49, comma 2, c.p.a., “manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato”, v. Consiglio di Stato sez. IV, 1 giugno 2016, n. 2316; Cons. giust. amm. sic. 17 giugno 2016, n. 172; Cons. Stato, sez. IV, 22 gennaio 2013, n. 370; Cons. Stato, sez. III, 27 maggio 2013, n. 2893);
b) decisione della controversia sulla base di una questione rilevata d’ufficio, senza averla sottoposta prima alle parti ai sensi dell’art. 73 cod. proc. amm. (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 19 giugno 2017, n. 2974; Consiglio di Stato, sez. VI, 14 giugno 2017, n. 2921; Consiglio di Stato, sez. IV, 8 febbraio 2016 n. 478; Consiglio di Stato, sez. IV, 26 agosto 2015, n. 3992; Cons. Stato, sez. III, 19 marzo2015, n. 1438; Id., sez. V, 27 agosto 2014, n. 4383; Id., 2 maggio 2013, n. 2402; Id., sez. IV, 18 aprile 2013, n. 2175; Id., sez. V, 26 luglio 2012, n. 4251; Cons. giust. amm. sic. 30 gennaio 2012, n. 85; Cons. Stato, sez. V, 8 marzo 2011, n. 1462; Cons. Stato, sez. III, 25 febbraio 2013, n. 1127;
c) omissione della comunicazione dell’avviso d’udienza ai difensori (Consiglio di Stato sez. V, 10 settembre 2014 n. 4616; Consiglio di Stato sez. V, 28 luglio 2014 n. 4019; Consiglio di Stato sez. IV 12 maggio 2014 n. 2416; Cons. Stato, sez. V, 27 marzo 2013, n. 1831; Id., sez. III 4 marzo 2013, n. 1264);
d) decisione del ricorso con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a. senza che le parti fossero state previamente informate della possibilità che il collegio provvedesse in tal senso (Cons. Stato, sez. VI, 9 novembre 2010, n. 7982); e) decisione del ricorso con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm. intervenuta nonostante che la parte avesse rinunciato all’istanza cautelare (Cons. Stato, sez. IV, 5 giugno 2012, n. 3317);
f) decisione del ricorso con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm., senza che fossero trascorsi venti giorni dalla notifica del ricorso, computato il periodo della sospensione feriale (Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 2013, n. 5601);

g) sentenza pronunciata senza che fosse dichiarata l’interruzione nonostante la morte del difensore (Cons. giust. amm. sic. 10 giugno 2011, n. 409);
h) sentenza che ha deciso un ricorso diverso da quello riportato, per errore di trascrizione, nel testo della pronuncia (Cons. Stato, sez. III, 2 settembre 2014, n. 4457);

i) sentenza non sottoscritta dal presidente del collegio (Cons. Stato, sez. IV, 24 ottobre 2012, n. 5441);
l) sentenza pronunciata dopo una cancellazione da ruolo e in assenza di un atto d’impulso della parte (Cons. Stato, sez. V, 7 maggio 2014, n. 2344);

m) sentenza pronunciata in seguito ad un errore nella identificazione del rito applicabile che abbia inciso sulle possibilità di difesa delle parti (Cons. giust. amm. sic. 14 marzo 2014, n. 135).
Alcune pronunce si sono contraddistinte per maggior larghezza nella identificazione delle ipotesi di rinvio:

a) omessa considerazione di una memoria difensiva (Cons. Stato, sez. VI, 20 febbraio 2014, n. 841);
b) carenza di motivazione (Cons. Stato, sez. VI, 4 ottobre 2013, n. 4914; nel senso della distinzione rispetto all’errore materiale, Consiglio di Stato, Sez. IV, 12 maggio 2014 n. 2416; Consiglio di Stato, sez. V, 28 luglio 2014, n. 401; Consiglio di Stato, sez. V, 9 settembre 2011, n. 5069);

c) totale omessa pronuncia (ante codice del processo, Consiglio di Stato, n. 1781/2008; n. 7235/2009; in seguito, Consiglio di Stato sez. IV 25 novembre 2013 n. 5595; Consiglio di Stato sez. IV, 31 luglio 2017 n. 3809); d) insanabile contraddittorietà tra motivazione e dispositivo (Cons. Stato, Sez. IV, 12 maggio 2014 n. 2416; Consiglio di Stato sez. VI, 9 aprile 2009 n. 2190).
È stato, invece, sempre escluso, che il Consiglio di Stato dovesse procedere all’annullamento con rinvio:

a) nel caso di omesso esame di singole censure: Cons. Stato, sez. VI, 11 luglio 2016, n. 3047; sez. IV, 9 febbraio 2016, n. 846; sez. V, 27 gennaio 2016, n. 279; sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 376; sez. IV, 3 luglio 2014, n. 3346);
b) nel caso di erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o decadenza del ricorso: Cons. Stato, sez. IV, 20 aprile 2016, n. 1558; sez. III, 7 dicembre 2011, n. 6453; sez. VI, 23 febbraio 2011, n. 1127;

c) nel caso di omessa statuizione del giudice sulla domanda di condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese processuali: Cons. Stato, sez. IV, 16 dicembre 2011, n. 6626.
Tutto ciò premesso e considerato, ci si domanda se l’anzidetta ipotesi sub b), alla luce del nuovo art. 105 c.p.a., possa legittimare una diversa considerazione, nel senso di sussumere anche detta fattispecie nella categoria della lesione del diritto di difesa.

Sul piano sostanziale, infatti, è innegabile che l’erronea pronuncia di primo grado, dichiarativa dell’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, ha impedito l’esame nel merito della domanda, ledendo il diritto delle parti, in primo luogo delle parti ricorrenti, ad una decisione, appunto, nel merito.

Sotto la vigenza dell’art. 35 legge Tar, la ratio iuris della disposizione riposava sulla distinzione, testuale, tra l’errore di giudizio (che concerneva il contenuto della decisione) e l’errore di procedura o di forma (che concerneva, invece, il rispetto di regole procedurali o formali cd. sostanziali).

Solo nel primo caso veniva consentito al giudice di appello di entrare nel merito, e per la prima volta, della controversia, ritenendosi prevalenti le esigenze di sollecita definizione della lite rispetto alla regressione della stessa al primo grado. In fondo – si sosteneva – il primo giudice non è incorso in violazioni procedurali o formali tali da giustificare una rinnovazione integrale del procedimento e una restituzione delle parti nella medesima condizione processuale di partenza, bensì ha errato, in punto di diritto, su una parte della decisione a lui demandata (il controllo di una condizione dell’azione), sulla quale ha avuto modo di esplicarsi appieno il contraddittorio tra le parti e il giudice.

Pertanto, l’errore di giudizio si espandeva tutte le volte che l’effetto devolutivo dell’appello consentiva di porre rimedio al vizio dell’attività giurisdizionale svolta in primo grado.
Di converso, nel secondo caso, la regressione del giudizio al primo grado si configurava come sanzione necessaria e proporzionata per colpire la violazione di regole formali o procedurali essenziali per il corretto dispiegarsi del procedimento, non emendabile neppure in ragione della superiorità del grado o della capacità rinnovatoria e sostitutiva del gravame. Mutuando la nomenclatura propria della dottrina civilistica, si potrebbe parlare di forma-contenuto, per rappresentare in modo emblematico e sintetico tutte quelle situazioni in cui il rispetto delle forme e delle regole procedurali non fosse fine a se stesso, ma rappresentasse, al contrario, condizione imprescindibile di garanzia sostanziale di parità delle parti nei rapporti tra di esse e tra di esse e il giudice, al fine di attuare il giusto processo.

Sicché, anche da un punto di vista semantico, si era indotti a negare efficacia rimettente, “all’indietro”, all’erronea declaratoria di irricevibilità/inammissibilità del ricorso: per un verso, infatti, anche concettualmente era difficile catalogare lo stesso fatto, allo stesso tempo, sia come errore di giudizio (il che, sostanzialmente è), che come violazione procedurale (che, invece, sostanzialmente non è); per altro verso, invece, pur volendo compiere uno sforzo esegetico, finanche l’interpretazione analogica doveva cedere il passo di fronte alla non estensibilità di una disciplina (l’annullamento con rinvio) oltre la soglia della somiglianza coi casi ivi contemplati (regole procedurali inderogabili).

E certamente – è pacifico - il principio del doppio grado di giudizio non rappresenta una regola procedurale inderogabile, ben potendo lo stesso essere compresso in favore del principio di ragionevole durata del processo.
Nell’attuale sistema, invece, scomparso ogni riferimento espresso al vizio di procedura o di forma, si menziona – accanto alla violazione del contraddittorio e alla nullità della sentenza - la violazione del diritto di difesa.

Detta categoria è – anche concettualmente – più ampia rispetto a quella del vizio formale o procedurale, e astrattamente idonea a ricomprendere nel suo campo semantico anche quegli errori di giudizio che hanno sostanzialmente privato le parti (e in particolare il ricorrente) di un grado di giudizio utile all’esercizio del diritto di difesa, così impedendo il pieno esplicarsi del principio del cd. doppio grado di merito. Siffatto principio – va doverosamente osservato – è privo di copertura di rango costituzionale, ma è comunque espressamente previsto dalla norma di legge ordinaria e, in tal modo, tende ad implementare, contenutisticamente, il diritto di difesa), .

Pertanto, ben potrebbe opinarsi che, data l’estrema ampiezza della vigente nomenclatura (diritti della difesa), mentre tutti i casi un tempo qualificabili in termini di vizio procedurale potrebbero, oggi, pacificamente essere sussunti sotto la nuova categoria, viceversa, i casi oggi contemplabili (in senso, questa volta sì, più estensivo) sotto la nozione di “diritti della difesa”, non avrebbero potuto esserlo, all’opposto, sotto la previgente disciplina, ostandovi il dato letterale.

In via interpretativa, potrebbe militare a supporto dell’opzione interpretativa favorevole all’ampliamento delle ipotesi di annullamento con rinvio, pure la circostanza dell’espressa riconduzione, nell’ambito di tali fattispecie, di casi che in passato erano controversi, come l’erronea declaratoria dell’estinzione o della perenzione del giudizio.

Le ipotesi che danno luogo all’estinzione o alla perenzione del giudizio sono identificate dall’art. 35 c.p.a., il quale distingue, nell’ambito delle pronunce di rito, le decisioni che dichiarano irricevibile, inammissibile o improcedibile il ricorso (comma 1), da quelle che dichiarano l’estinzione del giudizio per omessa prosecuzione o riassunzione nel termine perentorio fissato dalla legge o dal giudice, per perenzione e per rinuncia (comma 2).
Limitare, sulla base del combinato disposto di cui agli artt. 35, 85 e 105 c.p.a., l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado alle sole decisioni di rito che conducono all’estinzione del giudizio per le ragioni indicate nel comma 2 del citato art. 35, con esclusione delle decisioni di rito di cui al comma 1 del medesimo art. 35 (irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità), è operazione anche logicamente di difficile comprensione, trattandosi in entrambe le ipotesi di pronunce di rito.

Sicché, il principio della consumazione (e della ritenzione) della controversia presso il grado superiore, lo si dovrebbe ritenere o sempre operante o sempre escluso.
Laddove, invece, al contrario, dal riferimento al diritto di difesa delle parti, dovesse ritenersi di continuare ad espungere ogni considerazione concernente il principio del doppio grado, si tornerebbe a fare applicazione del consolidato principio a mente del quale il Consiglio di Stato, in sede di gravame, nei limiti dell’effetto devolutivo, decide di tutta la controversia (cd. ritenzione della causa), altro non essendo – l’erronea declaratoria di irricevibilità, inammissibilità o decadenza – che un mero errore di giudizio concernente l’esame di una questione preliminare.

Si osserva, infine, per esigenza di completezza, che nelle more della stesura della presente decisione è intervenuta in argomento la sentenza del Consiglio di Giustizia per la Regione Siciliana, n. 33 del 24 gennaio 2018.
L’arresto rappresenta un elemento di novità rispetto alla tesi tradizionale sopra riportata, giacché per la prima volta si qualifica espressamente l’erronea declaratoria di irricevibilità per tardività del ricorso come violazione dei diritti della difesa del ricorrente, esitandosi, processualmente, nell’annullamento con rinvio della sentenza al Tar, in diversa composizione.

Pertanto, anche alla luce di tale precedente specifico, appare quanto mai opportuna una pronuncia chiarificatrice dell’Adunanza plenaria.
16.2. Sotto altro e diverso profilo, meritano riflessione la seconda e la terza delle questioni sopra prospettate, concernenti – rispettivamente - il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e quello tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la violazione dell’obbligo di motivazione.
Entrambe le questioni, diversamente rispetto al caso prima esaminato, sono legate, concettualmente, al contenuto sostanziale della pronuncia resa, nonostante il formale dispositivo adottato.
Il ragionamento logico-giuridico si snoda attraverso i seguenti punti:
a) l’affermazione che il giudice di appello possa, al di là del dispositivo formale, volgersi al contenuto sostanziale della pronuncia;
b) la predicabilità della riqualificazione, in senso sostanziale, del contenuto effettivo del decisum, dimodoché lo stesso sia sussumibile (se talmente erroneo da violare il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato) sotto la categoria della violazione del diritto di difesa, ovvero (se talmente carente dell’elemento essenziale della motivazione) in quella della nullità della sentenza. Fattispecie, entrambe, normate dall’art. 105 c.p.a.
La Sezione non può fare a meno di rilevare che, sia pure timidamente, più Sezioni di questo Consiglio di Stato hanno proceduto, sia sotto la vigenza dell’art. 35 della legge Tar, sia all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 105 c.p.a., ad un’interpretazione sostanziale dei vizi inficianti la sentenza, concludendone, in taluni casi, nel senso che questi andassero molto ben al di là dell’apparente (ed emendabile sul piano della riforma) errore di diritto o di giudizio.
Primo caso, salvo errore, storicamente documentato, è il precedente reso da questa stessa Sezione con la sentenza 21 aprile 2008, n. 1781 (dunque, sotto la vigenza dell’art. 35 legge Tar), la quale, attraverso la valorizzazione dell’art. 112 c.p.c., ritenuto applicabile anche al processo amministrativo, ha pronunciato l’annullamento della sentenza con rinvio al primo giudice, ai sensi dell'art. 37 comma 1, l. Tar. Si precisava, al riguardo: “il difetto di procedura non deve intendersi limitato alla sola violazione delle regole poste a presidio del contraddittorio fra le parti in causa, ma al contrario esteso a tutte le ipotesi di inosservanza dei precetti che presiedono al valido governo del processo, ivi compresa quella di totale omessa pronuncia sull'effettivo oggetto del contendere”. Sopravanzava l’idea, dunque, che il giudice d’appello dovesse prendersi carico della necessità di distinguere, da un punto di vista sostanziale, e non più solo formale, le ipotesi in cui, effettivamente, ricorresse l’omessa pronuncia su una o più censure proposte col ricorso giurisdizionale (cd. omissione mera, ipotesi rispetto alla quale la giurisprudenza di questo Consiglio è sempre stata solida nel ritenere la piena operatività del tipico effetto devolutivo dell’appello, con conseguente riesame e integrazione della motivazione carente: ex multis, solo per citare le più recenti: Consiglio di Stato sez. IV, 23 ottobre 2017 n. 4860; Id., sez. IV, 20 marzo 2017 n. 1230; Id., sez. IV, 5 gennaio 2017 n. 11; Id., sez. IV, 29 novembre 2016 n. 5016 ̧ sez. VI, 11 luglio 2016 n. 3047), da quelle, assolutamente diverse, in cui la statuizione di merito fosse, invece, solo apparente o surrettiziamente giustapposta, perché non concernente l’oggetto del rapporto processuale dedotto in giudizio dalle parti.

Nel richiamato arresto, pertanto, la riscontrata totale omessa pronuncia esitava in una pronuncia di annullamento con rinvio, per violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, ai sensi dell’art. 112 c.p.c..
Nella stessa direzione, dell’ampliamento delle ipotesi di rimessione al primo giudice, muovono anche: Consiglio di Stato, Sezione V, 19 novembre 2009, n. 7235, anch’esso concernente un’ipotesi di totale omessa pronuncia; Consiglio di stato, Sezione IV, 25 novembre 2013 n. 5595, riguardante un caso in cui il Tar, una volta dichiarato inammissibile il ricorso avverso il silenzio della p.a., ha esteso tale declaratoria anche alla domanda di risarcimento del danno, senza rimettere la causa ad udienza pubblica per l'esame, nel merito, della suddetta distinta domanda; Consiglio di Stato, sez. VI, n. 4914 del 2013, che fa assumere rilievo alla totale assenza di motivazione. In quest’ultimo arresto, in particolare, la nullità della sentenza è stata ritenuta perché completamente priva delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno, rispetto a quanto dedotto dalle parti nelle proprie difese: riconosciuta l’esigenza di assicurare l’«autosufficienza» della motivazione, ai sensi dell’art. 88 cod. proc. amm., si è ravvisata la violazione del diritto di difesa della parte per essere stata, la stessa, impedita nell’articolare adeguate ragioni sostanziali di critica avverso la sentenza impugnata, non essendo possibile ricostruire dalla sentenza la vicenda amministrativa e le ragioni della decisione.

Ancora in siffatto ordine di idee, l’arresto più recente è, di nuovo, di questa Sezione: Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31 luglio 2017, n. 3809.
La decisione da ultimo richiamata si distingue, tra tutte quelle che la hanno preceduta, per la particolare accuratezza sia nel dettare il criterio discretivo che deve guidare il giudice d’appello nell’esattamente interpretare il contenuto sostanziale della decisione resa dal primo giudice rispetto all’oggetto del giudizio, sia nel prevedere le conseguenze processuali che ne derivano.

Sotto il primo profilo – si rimarca – è imprescindibile comprendere se, nonostante il formale dispositivo adottato dalla sentenza gravata (inammissibilità, irricevibilità, improcedibilità, decadenza), venga in questione un vizio tipico di errore di giudizio nello scrutinio della sussistenza dell’interesse o della tempestività del ricorso (caso rispetto al quale, come già detto, non si pone in dubbio la piena operatività dell’effetto devolutivo dell’appello), ovvero una (dissimulata) violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, obliterandosi del tutto, sotto l’apparente motivazione, le ragioni addotte dal ricorrente a sostegno della propria domanda, ivi comprese, dunque, quelle riguardanti la sussistenza delle condizioni dell’azione o la sua tempestività.

La tesi – si precisa sempre ivi – “appare coerente con la peculiarità del processo amministrativo, specie per quello impugnatorio di legittimità, legato al controllo sull’esercizio della funzione pubblica, cui si collega il doppio grado di giudizio imposto dall’art. 125 Cost. (sia pure in senso solo ascendente) e declinato dagli art. 4-6 cod. proc. amm. come principio generale del processo amministrativo, oltre che con la tutela del diritto di difesa della parte coniugato con il principio dispositivo sostanziale della domanda, ai sensi dell’art. 24 Cost. (su questi temi, cfr. ad. plen. n. 5 del 2015, id., 2015, III, 265, in particolare § 7, 7.3 e 9.1, che, in quest’ottica, ha allargato lo spettro delle ipotesi di lesione del diritto di difesa capaci di determinare la regressione del giudizio innanzi al giudice di primo grado)”.

Il caso all’esame riguardava l’impugnazione di un atto con cui un comune si era rifiutato di procedere all’annullamento di un permesso di costruire: il Tar, senza qualificare l’atto impugnato come “meramente confermativo” del permesso di costruire, aveva dichiarato irricevibile il ricorso per tardività, come se le censure fossero state proposte nei confronti del permesso di costruire, non avvedendosi che solo dalla riscontrata qualificazione in tal senso avrebbe potuto trarre tale conclusione, mentre - di converso – laddove, all’esito dell’operazione di qualificazione, detto atto fosse risultato “propriamente confermativo”, il giudizio avrebbe dovuto impingere necessariamente nel merito delle censure.

Nel senso, invece, della comminatoria della sanzione della nullità della sentenza, per violazione dell’obbligo di motivazione, ai sensi dell’art. 88 c.p.a., si pone Consiglio di Stato, Sezione VI, 4 ottobre 2013, n. 4914. Il caso ha riguardato una decisione assunta in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a., ma il principio di diritto deve ritenersi applicabile anche alle sentenze rese in forma semplificata ai sensi dell’art. 74 c.p.a..

La Sezione ha osservato, in quell’occasione, che la sentenza si era limitata ad affermare, senza alcuna descrizione della fattispecie, una certa circostanza di fatto (tardività del parere della Soprintendenza), senza dare conto delle ragioni della decisione, mediante l’analisi degli atti del processo, con violazione del diritto di difesa della parte, la quale era stata impedita finanche di articolare adeguate ragioni sostanziali di critica avverso la sentenza impugnata.
L’obbligo di motivazione – è rimarcato - pur nel rispetto del principio generale della sinteticità, risponde all'esigenza di assicurare l'"autosufficienza" della motivazione: da ciò, la declaratoria di nullità della sentenza impugnata con rinvio al primo giudice per l’esame compiuto dei fatti di causa.
Ciò che diviene dirimente e decisivo, dunque, ai fini dell’annullamento con rinvio, non è ex se l’accertamento dell’erronea declaratoria di inammissibilità del giudizio (caso che, da sempre, si è escluso potesse dare luogo a tale esito processuale), ma quello della sostanziale omessa pronuncia (o, comunque, omessa motivazione) del giudice sulla sussistenza delle condizioni dell’azione, originanti direttamente dal merito della causa.
Pur con riferimento a una questione preliminare di merito, infatti, la motivazione – secondo i principi generali – deve contenere la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione, anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi (art. 88, comma 2, lett. d, c.p.a.) oppure può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme (art. 74, comma 1 c.p.a.). In quest’ultimo caso, infatti, l’elemento di semplificazione non consiste nell’obliterazione della motivazione, che è elemento essenziale della sentenza, ma nella possibilità di dare conto “brevemente” delle ragioni della decisione, perché esiste un punto di fatto o di diritto in base al quale è possibile dirimere immediatamente la controversia (non a caso, il legislatore parla di “manifesta” fondatezza ovvero irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità, infondatezza), oppure perché su identica o analoga vicenda si è già deciso e il principio di diritto elaborato, ancora condiviso, è del tutto sovrapponibile anche alla fattispecie all’esame.
Ma allora, fermo restando il tradizionale e indiscusso indirizzo sull’emendabilità e sull’integrabilità della motivazione in appello, giacché gravame rinnovatorio, è, tuttavia, doveroso, interrogarsi, sulla sorte processuale di quelle sentenze solo apparentemente fornite di motivazione, ma in realtà del tutto apoditticamente pronunciate, senza alcuna congruenza tra i fatti dedotti in giudizio e la decisione adottata, o senza che vi sia corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Considerando, pertanto, l’obbligo di motivazione e l’obbligo di pronunciarsi su sola e su tutta la domanda, quali elementi essenziali della sentenza (premessa maggiore), e la loro assenza (o falsa apparenza), causa di nullità della stessa (premessa minore), se ne dovrebbe inferire, di necessità, un tipico caso di annullamento con rinvio (conclusione).

16.3. Da tutto quanto precede, pertanto, il Collegio esprime seri dubbi che una siffatta motivazione possa integrare gli estremi di quell’elemento essenziale che gli artt. 74 e 88 c.p.a. esigono ancorato, sia in fatto che in diritto, al casus all’esame, a garanzia del supremo principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.).

17. La consolidata giurisprudenza di questo Supremo Consesso sui poteri integrativi dell’appello, infatti, è sorta in relazione (e sembra meglio attagliarsi) a fattispecie diverse (o che diverse dovrebbero essere), in cui il primo giudice non si è, nella sostanza, sottratto alla decisione della controversia. Sicché, ove una o più censure non fossero, per avventura, esaminate o, invece, lo fossero in modo non adeguato e sufficiente, ovvero talune assorbite, perché ravvisata la fondatezza di altre ritenute dirimenti o decisive, nessuno mai dubiterebbe, anche per esigenze di ragionevole durata del processo e di economia del mezzi processuali, della bontà (e doverosità) della soluzione di prediligere una lettura totalmente rinnovatoria del secondo grado, nei limiti – ovviamente – dell’effetto devolutivo.

Quello che viene in questione nel caso di specie, invece, e su cui si concentrano le riflessioni di questo Collegio, anche alla luce dei pochi (ma davvero significativi) precedenti giurisprudenziali specifici sopra riportati, è se e in che limiti sia consentito al giudice di appello di sindacare l’effettiva esistenza e consistenza della motivazione della sentenza impugnata, e quali siano in concreto i criteri che, nel caso, devono guidare il giudice nell’effettuare tale operazione. Anche, soprattutto, per evitare il pericolo di soggettivismo, se non di occasionalismo, giudiziario e il rischio, possibile, di lesione del principio di uguaglianza nel trattamento, sul piano processuale, delle controversie, di modo che, in alcune, il giudice, ravvisata un’ipotesi di totale omessa pronuncia o di totale assenza di motivazione, le annulli con rinvio, mentre in altre, reputando sussistente il proprio potere di integrazione e menda, le decida immediatamente nel merito, riformando l’impugnata sentenza.

In entrambe le ipotesi, infatti, da un punto di vista logico-giuridico, la scelta giurisdizionale circa l’annullamento con rinvio al primo giudice ovvero, la ritenzione della causa, passa, necessariamente, attraverso un’attività (discrezionale) di accertamento e di qualificazione dei vizi che inficiano la sentenza. Soltanto che, in un caso, giudicati emendabili e integrabili (riforma e ritenzione della causa), nell’altro, diametralmente opposto (annullamento con rinvio), non superabili e tali da integrare ipotesi di violazione del diritto di difesa (obliterazione grave della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato) o di nullità della sentenza per carenza di un elemento essenziale (mancanza totale della motivazione).

18. La controversia all’esame è emblematica del dubbio se la violazione dell’articolo 112 c.p.c. e la carenza totale della motivazione costituiscano o meno ipotesi di rinvio al primo giudice ai sensi dell’articolo 105 c.p.a..
18.1. Principiando, tra i numerosissimi atti impugnati, dalla deliberazione comunale n. 600 del 25 giugno 2012, concernente l’approvazione del progetto preliminare di opera pubblica, tutta la motivazione si è risolta, in sostanza, in una conclusione apodittica e totalmente sganciata sia dalla premessa in diritto che dai fatti di causa, allegati e provati in giudizio dalle parti ricorrenti. Segnatamente:

a) il primo giudice ha dato (correttamente) conto dell’indirizzo giurisprudenziale costante nel ritenere, nell'ambito della serie procedimentale degli atti di approvazione di un progetto per la realizzazione di un'opera pubblica, impugnabili solo quegli atti che siano effettivamente dotati di lesività nei confronti dei cittadini incisi dall'attività della pubblica amministrazione: generalmente, quello di approvazione del progetto definitivo, salvo che si realizzi un’anomalia procedimentale tale da anticipare la soglia della lesione allo stadio, anteriore, dell’approvazione del progetto preliminare di opera pubblica;

b) dopodiché, ha affermato che siffatta anomalia procedimentale non fosse riscontrabile nel caso all’esame e che le parti ricorrenti nulla avessero “dedotto in concreto né provato nella specie”.
A sostegno dell’affermazione non ha indicato alcun elemento, in punto di fatto o di diritto, utile a comprendere le ragioni della decisione e a ricostruire il percorso logico-giuridico seguito, e ciò in violazione dell’obbligo di motivazione posto, in via generale, dall’art. 88, comma 2, lett. d) del c.p.a., a mente del quale la sentenza deve contenere “la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione, anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi”.

È pur vero che nella specie è stata pronunciata sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 74 c.p.a., ma ciò non esime dall’obbligo della motivazione, la quale non può essere pretermessa ma solo – al limite – “alleggerita”, mediante “un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme”.

Nulla di tutto ciò è avvenuto nel caso di specie, ove non si fa alcun riferimento, nemmeno sintetico, a fatti o circostanze di causa ritenuti decisivi o risolutivi; si postilla la laconica affermazione secondo cui “nulla viene dedotto in concreto né provato nella specie”; si fa riferimento, invece, a ben cinque precedenti giurisprudenziali (Tar Calabria n. 1050/2010; Consiglio di Stato n. 3033/2001; Tar Liguria n. 327/2005; Tar Campania n. 9955/2008; Tar Liguria n. 516/2012). Nessuno dei suddetti precedenti, tuttavia, si attaglia al caso di specie, né è dato comprendere, in assenza di qualsivoglia spiegazione circa l’(eventuale) contrario, quale possa o debba essere il nesso di collegamento logico-giuridico tale da ritenerli precedenti conformi. La forza “conformativa” del precedente, infatti, è tale solo in ragione dell’identità o dell’analogia delle situazioni di fatto trattate, altro non sostanziandosi, il principio di uguaglianza, nel trattare in modo uguale situazioni uguali e in modo dissimile situazioni dissimili.
E infatti:
a) il primo precedente riguarda un caso di contestuale impugnazione, sia dell’approvazione del progetto definitivo, che di quello preliminare, quest’ultimo solo per vizio di incompetenza e non già per lesione immediata e diretta di situazioni giuridiche soggettive;

b) il secondo arresto, invece, riguarda un’ipotesi di riapprovazione, in via di autotutela, del progetto preliminare mancante di un atto presupposto, a cui non era seguita la riapprovazione (pure) del progetto definitivo, implicante dichiarazione di pubblica utilità dell’opera;

c) il terzo pronunciamento riguarda l’impugnazione del solo progetto esecutivo, in un caso, peculiare, di salto progettuale (dell’approvazione del definitivo), in cui i contenuti di quest’ultimo erano stati assolti – nelle intenzioni dell’amministrazione - direttamente con l’approvazione del progetto preliminare;

d) la quarta e la quinta pronuncia concernono, invece, dei casi, pacifici, di impugnazione della sola progettazione preliminare, in assenza di alterazioni dell'ordinario iter procedimentale, da completarsi, in tutto, con l’approvazione del definitivo.

Quindi, nessuno dei menzionati arresti può sortire gli effetti di precedente conforme rispetto al caso all’esame, in cui, invece, il contenuto del preliminare impugnato è qualificato come definitivo, agli effetti edilizi e paesaggistici, e rappresenta il vero punto controverso su cui si sono appuntate tutte le censure dei ricorrenti.

Risultano, inoltre, versati agli atti di causa, gli elementi concreti dedotti dalle parti a sostegno dell’immediata lesività dell’approvazione del progetto preliminare, ma avente – espressamente - contenuto definitivo quanto agli effetti edilizi e paesaggistici, e segnatamente:

a) consistenza e collocazione edilizia e paesaggistica dell’impianto; in particolare, il posizionamento a distanza inferiore rispetto a quella legale prescritta (cento metri) dalle costruzioni esistenti;
b) presenza di vincoli paesistici generici e puntuali;
c) classificazione dell’area a rischio idrogeologico;

d) presenza di pozzi di captazione ad uso idropotabile;
e) presenza di due corsi d’acqua;
f) incompatibilità del progetto con la disciplina urbanistica di piano regolatore e territoriale di coordinamento.
È pur vero che, nell’ultima parte dell’atto impugnato, si fa riferimento ad una subordinazione della suddetta scelta amministrativa all’effettivo accertamento, nei successivi livelli di progettazione, delle anzidette condizioni, ma neppure di tale elemento di fatto è stato dato conto in motivazione. Né, la circostanza, è stata altrimenti posta in relazione rispetto al contenuto dell’atto, anche testualmente definito “definitivo” agli effetti edilizi e paesaggistici. Solamente, al limite, ove si fosse motivato sulla suddetta circostanza, ritenendola, in ipotesi, prevalente rispetto al contenuto dispositivo dell’atto, si sarebbe potuto sostenere la natura effettivamente preliminare dell’atto di approvazione, in ogni sua parte. Siffatta natura – invece –, per quanto consta, è stata solo apoditticamente affermata.
18.2. Si è proseguito affermando che analoghe considerazioni non possono che riguardare, altresì, gli atti a questo connessi.
18.3. L’indagine si è spostata, poi, su un altro ordine di atti impugnati, la variante urbanistica.
Qui la totale omessa pronuncia è ancora più evidente:
a) per un verso, non è dato comprendere a quale variante ci si riferisca in motivazione, visto che due sono state le varianti impugnate, quella al piano regolatore comunale e quella al piano territoriale di coordinamento;
b) per un altro verso, è stato del tutto omesso l’esame di censure proprie e autonome avverso tali atti (e non già derivate dall’impugnazione del progetto preliminare): l’illegittimità dell’iter procedurale seguito; l’assoluta incompatibilità urbanistica dell’area Ronco ad ospitare la localizzazione di un impianto di depurazione, a prescindere dalla natura preliminare o definitiva del progetto approvato; l’immediata impugnabilità delle varianti ai piani, secondo i principi generali, nell’ordinario termine decadenziale decorrente dal giorno del perfezionamento della pubblicazione.

E ciò a maggior ragione ove si consideri che il progetto preliminare ha contenuto definitivo agli effetti edilizi e paesaggistici.
18.4. Non migliore approfondimento di motivazione ha riguardato tutti gli altri (innumerevoli) singoli atti impugnati. A parte alcuni esempi pratici (“approvazione ordine del giorno consiliare”, “adozione variante condizionata ad aventi futuri ed approvazione progetto preliminare”), non si è spiegato in cosa, effettivamente, sia consistita la carenza di interesse di impugnazione, nonostante che in via di principio – secondo quanto dallo stesso primo giudice sostenuto – tale carenza fosse da addebitarsi, in parte, alla natura endoprocedimentale (e, dunque, non autonomamente impugnabile) dei singoli atti, e, in altra parte, all’assenza di attualità e concretezza dell’interesse azionato in relazione alla restante parte di essi. 18.5. Palese pretermissione ha riguardato, pure, l’impugnazione del diniego di sottoporre a valutazione di impatto ambientale il progetto preliminare. Le censure, infatti, sono state reinterpretate come contestazioni riguardanti “la contestata compatibilità ambientale, urbanistica e paesaggistica di un progetto il quale allo stato è ancora alla fase preliminare”, ignorandosi del tutto, invece, che oggetto dell’impugnazione (il chiesto) fosse proprio il diniego di sottoporre a v.i.a. il progetto, qualunque esso fosse, a prescindere dalla natura preliminare o meno dell’approvazione; e che la censura si legava alla natura di contenuto definitivo, agli effetti edilizi e paesaggistici, del progetto.

18.6 Inoltre, le censure dedotte dalle parti (senza specificare quali), sono state definite, in parte, pure “generiche”, senza però addurre elementi di fatto o di diritto risolutivi o chiarificativi in tal senso, perlomeno non nel senso voluto e preteso dall’art. 74 c.p.a., che ricollega la risolutività della motivazione all’esigenza della natura “manifesta” del decisum.
19. Di ciò si sono, evidentemente, avvedute le parti appellanti, le quali, per difendersi dalla critica di non avere nulla allegato e provato, ovvero dedotto in modo generico, non hanno potuto fare altro che ribadire quanto già chiaro fin dal primo grado, denunciando il travisamento e il grave difetto di motivazione per non essersi, il giudice, pronunciato – se non in modo assiomatico, apparente e deficitario – su quanto era stato chiesto.

20. Per tutte le considerazioni che precedono, si rimettono, pertanto, all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., anche al fine di prevenire contrasti di giurisprudenza, nonché di precisare la portata di alcuni arresti giurisprudenziali (in particolare di quelli sopra richiamati), le seguenti questioni:

a) se alle ipotesi di annullamento con rinvio di cui all’art. 105 c.p.a. debba attribuirsi portata tassativa ovvero natura di clausola generale suscettibile di essere riempita, nel contenuto, attraverso l’elaborazione giurisprudenziale;
a.1) nel primo caso, quali siano le ipotesi di annullamento con rinvio da intendersi come tassative;

a.2) nel secondo caso, quali siano i criteri che devono guidare il giudice nell’attività di interpretazione dei fatti processuali, onde qualificarli come cause di annullamento con rinvio;
b) se, alla luce della nuova nomenclatura contenuta nel vigente art. 105 c.p.a., l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse debba (o possa) essere ricompresa nella categoria della lesione dei diritti della difesa, come perdita del (normativamente previsto) doppio grado di giudizio nel merito, con conseguente annullamento della sentenza con rinvio al primo giudice;

c) anche a prescindere da tale ultima soluzione, se ed entro quali limiti e secondo quali criteri possa riconoscersi al giudice di secondo grado il potere di sindacare il contenuto della motivazione dell’impugnata sentenza, al fine di riqualificare il (formale) dispositivo di declaratoria di inammissibilità per carenza di interesse in un (sostanziale) accertamento della violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) o dell’obbligo di motivazione (artt. 74 e 88 c.p.a.), intesa - questa - come elemento essenziale della sentenza, rispetto all’oggetto del processo;

b.3) se dette ultime ipotesi costituiscano (o a quali condizioni possano costituire), rispettivamente, lesione dei diritti della difesa o ipotesi di nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a.
21. In conclusione, ed alla luce di tutte le considerazioni sin qui esposte, gli appelli devono essere accolti, in relazione ai motivi con i quali si impugna la sentenza relativamente alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi per difetto di interesse. Al contempo, il Collegio riserva, all’esito della decisione dell’Adunanza Plenaria sulle questioni ad essa rimesse (e come innanzi precisate sub n. 20), ogni ulteriore decisione sugli altri motivi riproposti nel presente grado di giudizio, ovvero la rimessione della causa al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 105 c.p.a..

Allo stesso modo, è riservata, all’esito della decisione dell’Adunanza Plenaria, ogni decisione in ordine alle spese ed onorari del presente giudizio.

P.Q.M.


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sui ricorsi in epigrafe:
accoglie gli appelli, nei sensi e limiti di cui in motivazione;
deferisce all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato le questioni indicate in motivazione;
manda alla segreteria della sezione per gli adempimenti di competenza e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al segretario incaricato di assistere all'Adunanza Plenaria;
riserva, all’esito del giudizio innanzi all’Adunanza Plenaria, ogni ulteriore decisione, ivi compresa quella in ordine alle spese ed onorari del presente giudizio.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale

 (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA NON DEFINITIVA

sul ricorso numero di registro generale 8483 del 2017, proposto da
Consorzio Stabile ReseArch s.c.a.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Carlo Contaldi La Grotteria, Rosamaria Berloco, Pietro Falcicchio e Paolo Pittori, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo, in Roma lungotevere dei Mellini 24;

contro

Multiservizi s.p.a., in persona del presidente e legale rappresentantepro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Roberta Penna, domiciliata ex art. 25 cod. proc. amm. presso la segreteria del Consiglio di Stato, in Roma, piazza Capo di Ferro 13; nei confronti

Consorzio Stabile Progettisti Costruttori, in persona dell’amministratore unico in carica, rappresentato e difeso dall’avvocato Pietro De Luca, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Francesco Ferrante, in Roma, via Acherusio 18; Impresoa s.p.a., Siciv s.r.l., non costituiti in giudizio;

 

per la riforma

della sentenza T.A.R. MARCHE, sezione I, n. 748/2017, resa tra le parti, concernente il provvedimento con cui la Multiservizi s.p.a. ha confermato l’efficacia del contratto d’appalto con il Consorzio stabile Progettisti Costruttori per la realizzazione del nuovo depuratore a servizio dei Comuni della Valle del Misa e del Nevola e respinto l’istanza di annullamento in autotutela dell’aggiudicazione della gara

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Multiservizi s.p.a. e del Consorzio Stabile Progettisti Costruttori;
Viste le memorie e tutti gli atti della causa;
Visti gli artt. 99, comma 1, e 36, comma 2, cod. proc. amm.;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 22 marzo 2018 il consigliere Fabio Franconiero e uditi per le parti gli avvocati Carlo Contaldi La Grotteria, Roberta Penna e Pietro De Luca;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO


1. Il Consorzio stabile ReseArch s.c.a.r.l. ha proposto appello contro la sentenza del

Tribunale amministrativo regionale delle Marche in epigrafe, con cui è stato dichiarato irricevibile il suo ricorso per l’annullamento degli atti con cui la Multiservizi s.p.a. - affidataria in house dall’Autorità d’Ambito Territoriale n. 2 (Marche - Centro Ancona) della gestione del servizio idrico integrato per i Comuni soci - ha confermato l’efficacia del rapporto contrattuale d’appalto dei lavori di realizzazione del nuovo depuratore a servizio dei Comuni della Valle del Misa e del Nevola (di cui al bando pubblicato il 12 dicembre 2015) con l’aggiudicatario Consorzio stabile Progettisti Costruttori.

2. Il Consorzio ReseArch, classificatosi al secondo posto della graduatoria finale di gara, aveva sollecitato la Multiservizi ad annullare in autotutela l’aggiudicazione a favore del Consorzio stabile Progettisti Costruttori (disposta con nota n. 15817 del 2 agosto 2016). Ciò dopo avere appreso della possibile perdita dell’attestazione di qualificazione richiesta per partecipare alla gara (categoria OS22, classifica VI), nel periodo dal 18 ottobre 2016 al 25 marzo 2017, a causa della sospensione della validità della certificazione di qualità aziendale della consorziata Water Tecnology s.r.l. (certificato n. SC 08-1619 del 26 giugno 2008) da parte dell’organismo di certificazione Siciv s.r.l.; in particolare questa circostanza era comunicata dalla medesima consorziata alla Multiservizi, con nota in data 31 maggio 2017, inviata per conoscenza anche alla ricorrente.

3. Quindi, avuto riscontro negativo dalla stazione appaltante (con nota n. 13233 del 27 giugno 2017), il Consorzio ReseArch proponeva ricorso al Tribunale amministrativo regionale delle Marche per l’annullamento del diniego di autotutela dell’aggiudicazione e conferma dell’efficacia del contratto d’appalto oppostegli dalla Multiservizi.

4. Il ricorso veniva tuttavia dichiarato irricevibile, sul triplice presupposto che:
a) il Consorzio ricorrente era a conoscenza del contratto d’appalto, «atto immediatamente lesivo» dei suoi interessi, sin dalla relativa stipula in data 9 febbraio 2017, in virtù della coeva nota della Multiservizi inviatagli via p.e.c.;
b) in questo periodo «operava ancora la sospensione (...) del certificato di qualità posseduto da Water Tecnology Srl»;
c) la sospensione era conoscibile per il ricorrente, perché «resa nota al pubblico attraverso il sito www.siciv.it, messo a disposizione di ACCREDIA e delle parti interessate per le azioni del caso».
Pertanto, secondo il giudice di primo grado, a fronte di tale conoscenza, il ricorso, notificato il 30 giugno 2017, era da considerarsi tardivo, per cui in senso contrario non poteva avere rilievo il fatto che il Consorzio ReseArch avesse acquisito la conoscenza effettiva della sospensione del certificato di qualità «con la ricezione della nota del 31.5.2017 trasmessa da Water Tecnology Srl.».
Del pari il Tribunale escludeva che il diniego di annullamento in autotutela impugnato (di cui alla nota della Multiservizi del 27 giugno 2017, n. 13233, sopra citata) potesse avere determinato la riapertura dei termini per l’impugnazione, poiché «nella sostanza risulta meramente confermativa del principio secondo cui ciò che assumeva rilevanza, per la Stazione Appaltante, era la certificazione posseduta dal Consorzio aggiudicatario (...) e non le vicende riguardanti le singole consorziate cui la Stazione Appaltante resta estranea».

5. Nel proprio appello il Consorzio ReseArch contesta la dichiarazione di irricevibilità del proprio ricorso e ripropone le censure in esso contenute.
6. Si sono costituiti in resistenza la Multiservizi e il controinteressato Consorzio stabile Progettisti Costruttori.

DIRITTO

I. - Questioni pregiudiziali di rito relative all’appello: infondatezza.
I.1. La Multiservizi ha eccepito in limine l’irricevibilità dell’appello, perché proposto oltre il termine di 30 giorni dalla comunicazione della sentenza di primo grado, previsto dall’ultimo periodo dell’art. 120, comma 6-bis, del codice del processo amministrativo.
I.2. L’eccezione va respinta, in ragione del fatto che il presente giudizio non concerne le ipotesi tassative di cui al comma 2-bis della medesima disposizione del codice del processo - «esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all’esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali» - ma il diverso caso della mancata esclusione dell’aggiudicataria per perdita dei requisiti tecnico-professionali verificatasi dopo l’atto conclusivo della procedura di affidamento (sui limiti di applicabilità del rito c.d. super-speciale sulle ammissioni ed esclusioni cfr., da ultimo: Cons. Stato, V, 28 febbraio 2018, n. 1216, cui si fa integrale rinvio).
I.3. Peraltro, sotto un distinto e concorrente profilo va considerato che la medesima procedura di affidamento è stata indetta prima dell’entrata in vigore dei citati comma 2-bis e 6-bis dell’art. 120 (introdotti dal nuovo codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50), per cui il rito “super-speciale” di cui alle citate disposizioni è inapplicabile ratione temporis oltre che, come rilevato in precedenza, ratione materiae (in questo senso: Cons. Stato, III, 27 ottobre 2016, n. 4528, 25 novembre 2016, nn. 4994 e 4995; V, 5 marzo 2018, n. 1347).

I.4. Va del pari respinta l’eccezione di improcedibilità del ricorso e dell’appello sollevata (in memoria conclusionale) dal Consorzio Progettisti e Costruttori, per mancata notifica di questi due atti alla propria consorziata Water Technology e alla Soa Consult s.p.a., impresa di attestazione di quest’ultima.

I.5. Come controdedotto in replica dall’appellante, nel presente giudizio di impugnazione è contestato il mancato annullamento in autotutela dell’aggiudicazione al Consorzio stabile Costruttori e Progettisti della procedura di affidamento dei lavori di realizzazione del nuovo depuratore a servizio dei Comuni della Valle del Misa e del Nevola, e la mancata dichiarazione di inefficacia del contratto conseguentemente stipulato. Per contro, le contestazioni in ordine alla certificazione di qualità della consorziata Water Technology sono dichiaratamente svolte in via incidentale rispetto all’oggetto principale del giudizio costituito dall’atto conclusivo della gara e dal successivo contratto d’appalto.

I.6. In conseguenza di quanto ora rilevato sono parti necessarie del presente giudizio ai sensi dell’art. 41, comma 2, cod. proc. amm. oltre al ricorrente Consorzio Research, l’amministrazione aggiudicatrice Multiservizi s.p.a. e il solo controinteressato ed aggiudicatario Consorzio stabile Costruttori e Progettisti. L’estensione del contraddittorio agli altri soggetti costituiva per contro una mera facoltà per il medesimo Consorzio ricorrente. Questa facoltà non è tuttavia mai assurta ad obbligo perché mai ordinata dal giudice ai sensi dell’art. 49 cod.proc. amm. – in questo caso sì a pena di improcedibilità del ricorso – sia in primo grado che nel presente giudizio d’appello.

II – Merito dell’appello. La questione di ricevibilità del ricorso di primo grado. Fondatezza dell’appello.
II.1. L’appello del Consorzio ReseArch può dunque essere esaminato nel merito.

Le censure che l’originaria ricorrente formula nei confronti della statuizione di irricevibilità emessa dal giudice di primo grado sono fondate.
II.2. Deve premettersi al riguardo che il Tribunale amministrativo ha individuato la decorrenza del termine per proporre il ricorso nel giorno 9 febbraio 2017, in cui è stato stipulato il contratto d’appalto tra la Multiservizi e il controinteressato Consorzio Progettisti Costruttori, con contestuale comunicazione al Consorzio Reseasrch odierno appellante, sull’assunto che a questa data «operava ancora la sospensione» della certificazione di qualità posseduta dalla consorziata Water Tecnology e che di tale sospensione il Consorzio ricorrente poteva acquisire la conoscenza, poiché resa pubblica sul sito internet dell’ente certificatore Siciv.

II.3. Come tuttavia deduce in contrario il Consorzio Research questa tesi suppone innanzitutto il valore legale della pubblicità sui siti internet istituzionali degli organismi di certificazione, non previsto in realtà da alcuna disposizione di legge. Va allora ricordato sul punto che ai sensi del sopra citato art. 41, comma2, cod. proc. amm. al di fuori delle ipotesi di comunicazione individuale o di conoscenza comunque acquisita la pubblicazione può essere considerata come decorrenza del termine per proporre ricorso se «prevista dalla legge o in base alla legge».

II.4. In secondo luogo la tesi del Tribunale amministrativo introduce un onere indeterminato di acquisizione della conoscenza in capo alla parte circa possibili illegittimità di atti amministrativo, parimenti. Anche questo simile onere non è tuttavia imposto da alcuna norma, né tanto meno lo stesso appare conforme ai principi generali sulla diligenza nel tutelare i propri diritti gravante sul soggetto che intenda agire in giudizio e della pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale ai sensi degli artt. 1 cod. proc. amm. e 24 e 113 della Costituzione.

II.5. In ragione di quanto sinora evidenziato la conoscenza della possibile perdita dell’attestazione SOA in capo all’aggiudicatario Consorzio stabile Progettisti e Costruttori, rilevante nel caso di specie non solo ai sensi del più volte richiamato art. 41, comma 2, cod. proc. amm. ma, per lo specifico settore dei contratti pubblici, anche del conforme art. 120, comma 5, non può che essere fatta risalire al 31 maggio 2017, allorché il ricorrente ed odierno appellante Consorzio Resarch ha ricevuto la nota con cui la consorziata Water Tecnology le ha comunicato la sospensione della propria certificazione di qualità. Rispetto a questa data il ricorso è indubbiamente tempestivo, poiché spedito per la notifica il 30 giugno 2017, con osservanza quindi del termine di 30 giorni applicabile al caso di specie, in base al comma 2 del citato art. 120 del codice del processo amministrativo.

II.6. Quanto finora evidenziato rende inoltre irrilevante la questione – che il Tribunale amministrativo ha parimenti valorizzato ai fini della dichiarazione di irricevibilità del ricorso - circa il carattere di mera conferma della nota del 27 giugno 2017 (prot. n. 13233) con la quale la Multiservizi ha confermato che il rapporto contrattuale intercorrente con il Consorzio Progettisti Costruttori doveva ritenersi tuttora efficace

III – Conseguenze derivanti dall’accertamento dell’errata dichiarazione di irricevibilità del ricorso di primo grado: deferimento all’Adunanza plenaria
III.1. Accertata quindi l’erroneità della dichiarazione di irricevibilità del ricorso di primo grado, occorre a questo punto domandarsi delle relative conseguenze sulla pronuncia da adottare nel presente appello.

Infatti, secondo l’orientamento tradizionale (da ultimo riaffermato da: Cons. Stato, IV, 31 luglio 2017, n. 3809; V, 23 gennaio 2018, n. 421; VI, 18 dicembre 2017, n. 5955), l’errore in questione non comporta il rinvio della causa al giudice di primo grado, ma la ritenzione del giudizio da parte del giudice di appello, nei limiti di quanto ad esso devoluto. Tuttavia, un più recente orientamento della giurisprudenza amministrativa si è posto in consapevole linea di discontinuità con l’indirizzo precedente ed ha statuto che l’ipotesi in questione sarebbe invece riconducibile al caso della violazione del diritto di difesa, per il quale ai sensi dell’art. 105, comma 1, cod. proc. amm. si impone l’annullamento della sentenza di primo grado con rinvio al Tribunale amministrativo (Cons. giust. amm. Sicilia 24 gennaio 2018, n. 33; in termini analoghi, per il caso di omesso esame di una domanda: Cons. Stato, IV, 12 marzo 2018, n. 1535).
III.2. A fronte di una situazione così venutasi a creare diviene applicabile il disposto dell’art. 99, comma 1, cod. proc. amm., che obbliga a deferire il punto di diritto oggetto di contrasti all’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato. Il deferimento in sede nomofilattica si rende necessario anche perché questa Sezione è dell’avviso che vada invece mantenuto fermo l’indirizzo tradizionale.
III.3. Quest’ultimo muove dal carattere tassativo delle cause di regressione del processo a quelle tipizzate nella disposizione da ultimo richiamata, che sembrerebbe fatto palese dall’impiego nel citato art. 105, comma 1, cod. proc. amm dell’avverbio «soltanto». Per come formulata, la disposizione in esame dovrebbe dunque precludere interpretazioni estensive dei casi in essa previsti.
III.4. A tale riguardo occorre innanzitutto sottolineare che un’errata pronuncia in rito non può automaticamente essere ritenuta lesiva del diritto di difesa in giudizio, in particolare ogniqualvolta le facoltà difensive della parte soccombente sono state comunque esercitate con pienezza, ed essa abbia potuto fare valere ragioni contrarie all’accoglimento della questione in rito poi risultata risolutiva della controversia in primo grado (in questa ipotesi si colloca il presente giudizio).
A conclusioni diverse potrebbe (rectius: deve) pervenirsi quando la questione decisiva non sia mai stata sottoposta al contraddittorio delle parti (cfr. in questo senso, tra le varie: Cons. Stato, IV, 1 settembre 2017, n. 4167, 10 luglio 2017, n. 3372, 6 febbraio 2017, n. 491; V, 16 febbraio 2017, n. 710; VI, 19 giugno 2017, n. 2974).
Se per contro la questione è stata oggetto di dibattito processuale il fatto che la stessa sia poi accolta, e per effetto di ciò l’esame del merito sia precluso, ciò costituisce una conseguenza dell’applicazione delle regole sull’ordine delle questioni sancito dagli artt. 76, comma 4, cod. proc. amm. e 276, comma 2, cod. proc. civ., che attengono alla fase di decisione della controversia ed operano quindi quando la dialettica processuale si è ormai svolta. Pertanto, la dichiarazione di irricevibilità del ricorso non si traduce in una pronuncia “a sorpresa” (o della terza via) che possa reputarsi lesiva del diritto di difesa. L’ipotesi dovrebbe invece ricadere nell’errore di diritto censurabile attraverso il rimedio tipico dell’appello. III.5. Nella linea finora tracciata sembra porsi la giurisprudenza prevalente di questo Consiglio di Stato, che ha circoscritto i casi di annullamento della sentenza di primo grado con rinvio al Tribunale amministrativo (oltre al caso poc’anzi richiamato) ai seguenti:

- svolgimento del giudizio di primo grado a contraddittorio non integro, a causa della mancata notifica del ricorso a tutti i controinteressati (da ultimo: Cons. Stato, IV, giugno 2016, n. 2316; V, 23 marzo 2018, n. 1843, 7 febbraio 2018, n. 810; VI, 2 febbraio 2017, n. 451, 14 luglio 2016, n. 3142);

- sentenza resa all’esito di un’udienza di discussione la cui fissazione non èstata comunicata alla parte (di recente: Cons. Stato, V, 14 giugno 2017, n. 2897;VI, 28 luglio 2017, n. 3802, 10 aprile 2017, n. 1668);
- violazioni del diritto di difesa consumatasi con il deposito della consulenza tecnica d’ufficio, non preceduta dall’assegnazione alle parti di un termine per formulare osservazioni, il giorno stesso dell’udienza di discussione (Cons. Stato, VI, 17 gennaio 2017, n. 175);

- in generale ogni violazione del contraddittorio occorsa nell’ambito di tale incombente istruttorio; ad es. per mancata comunicazione dell’avvio delle operazioni peritali, per mancanza delle stesse operazioni, e per mancato invio dello schema di relazione ai consulenti di parte (cfr. tra le altre: Cons. Stato, III, 7 febbraio 2017, n. 534);

- definizione del giudizio di primo grado con sentenza semplificata ex art. 60 cod. proc. amm. malgrado la riserva della parte di proporre ricorso incidentale o motivi aggiunti (Cons. Stato, V, 15 gennaio 2018, n. 178; VI, 17 maggio 2017, n. 2345);
- applicazione al giudizio di primo grado del rito elettorale ex art. 129 cod. proc. amm. in difetto dei presupposti di relativa applicabilità (Cons. Stato, III, 5 marzo 2018, n. 1328);

III.6. La casistica richiamata attiene a fattispecie indiscutibilmente riconducibili ai casi previsti dall’art. 105, comma 1, cod. proc. amm. ed in particolare a quelli in cui è mancato il contraddittorio e vi è stata una compressione delle facoltà difensive della parte (si tralasciano le restanti ipotesi contemplate dalla disposizione in esame, relative alla nullità della sentenza, all’errata declinatoria di giurisdizione, pronuncia sulla competenza o dichiarazione estinzione o perenzione del giudizio, che qui non vengono in rilievo e che non pongono particolari problemi interpretativi).

Nelle ipotesi in questione non è pertanto la decisione ad essere affetta da errori, ma è il procedimento (giurisdizionale) all’esito del quale la stessa è stata emessa ad essere inficiato da vizi, i quali sono poi idonei a riverberarsi sull’atto con cui il medesimo procedimento è definito.

III.7. Si tratta in altri termini di ipotesi rientranti nel «difetto di procedura» o nel «vizio di forma», previsti nella disciplina previgente all’attuale codice del processo amministrativo: art. 35, comma 1, della legge istitutiva dei Tribunale amministrativi regionali, 6 dicembre 1971, n. 1034.

La maggiore ampiezza dei casi invece contemplati dal codice dei processo amministrativo – argomento anch’esso valorizzato dal giudice d’appello siciliano nella sentenza 24 gennaio 2018, n. 33, a sostegno del nuovo orientamento – appare invece spiegabile con l’esigenza di tipizzare meglio i casi di regressione del processo, anche attraverso il recepimento della giurisprudenza formatasi sul punto (come nel caso della declinatoria di giurisdizione: cfr. Consiglio di Stato, Ad. plen., 8 novembre1996, n. 23).

III.8. Va poi osservato che il processo amministrativo è informato al principio del doppio grado di giudizio, che tuttavia non implica che il merito debba essere sempre esaminato in esso, ma casomai che la parte possa chiedere la revisione della decisione di primo grado, conformemente alla natura devolutiva (limitatamente ai punti della sentenza di primo grado impugnati) del mezzo dell’appello.

Il principio in questione va poi coordinato con il canone fondamentale della ragionevole durata del processo sancito dall’art. 2, comma 2, cod. proc. amm., alla cui stregua sembra doversi attribuire carattere eccezionale ai casi di regressione del giudizio.
III.9. A conforto della tesi ora espressa potrebbe essere addotta proprio la specificazione dei casi di annullamento con rinvio operata dall’art. 105, comma 1, cod. proc. amm. rispetto al poc’anzi richiamato art. 35, comma 1, l. n. 1034 del 1971, in particolare relativamente alla errata dichiarazione di estinzione del processo o perenzione del ricorso da parte del giudice di primo grado. Le ipotesi in questione sono previste dal comma 2 dell’art. 35 cod. proc. amm. (unitamente al caso dell’inattività delle parti), laddove nel comma 1 della medesima disposizione sono contemplate le sentenze dichiarative dell’irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità del ricorso. Quindi, il fatto che queste ultime non sono richiamate dal comma 1 dell’art. 105, non potrebbe essere spiegato altrimenti che con l’intendimento del legislatore di escludere l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado nel caso in cui il Consiglio di Stato ne accerti l’erroneità.

III.10. Sotto un distinto profilo, tale omesso riferimento impedisce sul piano letterale (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit) di ricondurre le medesime ipotesi al caso della violazione del diritto di difesa, che la stessa disposizione del codice del processo amministrativo ha previsto in modo espresso come causa di annullamento con rinvio distinta ed autonoma.

L’ampliamento della casistica alle pronunce con cui il Tribunale amministrativo ha dichiarato l’estinzione del giudizio o la perenzione del ricorso appare spiegabile proprio alla luce dell’eterogeneità di tali fattispecie, come del resto quelle di irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità del ricorso, rispetto al caso in cui «è stato leso il diritto di difesa di una delle parti». Ciò porta ad escludere che le ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 35 cod. proc. amm. possano essere ricondotte a quest’ultima fattispecie e determinare pertanto l’annullamento con rinvio della sentenza di primo grado.

IV – Conseguenze del deferimento all’Adunanza plenaria.

IV.1. Allo stato il presente appello può quindi essere definito solo in senso parziale ai sensi dell’art. 36, comma 2, cod. proc. amm., con il rigetto delle eccezioni pregiudiziali sollevate dalle parti appellate e l’accoglimento del primo motivo. Il ricorso del Consorzio Research deve quindi essere dichiarato ricevibile.

Ogni ulteriore statuizione sulle censure di merito qui riproposte dal medesimo Consorzio rimane per contro subordinata all’esito della pronuncia dell’Adunanza plenaria sul punto di diritto oggetto di contrasto, relativo alle conseguenze derivanti dall’accertamento dell’errata dichiarazione di irricevibilità del ricorso di primo grado.

P.Q.M.


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), non definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, nei sensi

di cui in motivazione, e per l’effetto dichiara ricevibile il ricorso di primo grado. Deferisce all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato il punto di diritto, oggetto di contrasti di giurisprudenza, sulle conseguenze processuali derivanti dall’errato accoglimento in primo grado dell’eccezione pregiudiziale rispetto al merito relativa alla ricevibilità del ricorso.

Riserva all’esito l’esame degli altri motivi d’appello.
Manda alla segreteria della sezione per gli adempimenti di competenza, e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al segretario incaricato di assistere all’Adunanza plenaria.

 

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA

sul ricorso numero di registro generale 8424 del 2015, proposto da Giustiniano Chiarella, rappresentato e difeso dall'avvocato Giacomo Carbone, con domicilio eletto presso lo studio Arcangelo Guzzo in Roma, via Antonio Gramsci, n. 9;

contro

Comune di Borgia, non costituito in giudizio;
Ministero dell'Interno, Ufficio Territoriale del Governo (U.T.G.) - Prefettura di Catanzaro, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domiciliano in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria – sede di Catanzaro, Sezione I, 26 febbraio 2015 n. 00367/2015, resa tra le parti, nella parte in cui, pronunciando sul ricorso RG n.1016/2014, dopo aver accolto la domanda per l’annullamento della nota interdittiva antimafia, adottata il 30 maggio 2014 dalla Prefettura di Catanzaro nei confronti del ricorrente, e della conseguente ordinanza 12 giugno 2014 con cui il Sindaco di Borgia aveva revocato gli effetti della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), presentata dal ricorrente nel 2012 per l’apertura di un esercizio di vendita di frutta e verdura, poi, contestualmente, ha omesso di pronunciarsi sulla domanda di risarcimento dei danni, presentata dall’interessato, per il ristoro del pregiudizio derivante dai contestati provvedimenti.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno e dell’U.T.G. - Prefettura di Catanzaro;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 gennaio 2018 il Cons. Lydia Ada Orsola Spiezia e uditi per le parti l’Avvocato Arcangelo Guzzo, su delega di Giacomo Carbone, e l'Avvocato dello Stato Wally Ferrante;

1. Premessa.
L’appello viene deferito all’esame dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, comma 1, del codice del processo amministrativo (CPA), in quanto, per la sua definizione, è necessario risolvere il contrasto giurisprudenziale in atto tra le Sezioni, in ordine alla portata applicativa dell’art. 105, comma 1, del CPA, secondo il quale il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado “soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio”.
A parere della Sezione, è necessario definire l’esatto ambito di operatività della norma, con particolare riguardo alla presente vicenda, caratterizzata dalla totale ed immotivata omissione di pronuncia sulla domanda risarcitoria formulata dalla parte ricorrente, correlata all’esito vittorioso dell’azione di annullamento avverso i provvedimenti lesivi della sua posizione giuridica.
In questo senso, come meglio illustrato nei successivi paragrafi, il caso in esame differisce sensibilmente dalle altre ipotesi vagliate dalle decisioni di rinvio alla Plenaria, pronunciate dalla Quarta e dalla Quinta Sezione, e pone in rilievo la stretta connessione tra il vizio procedurale e la lesione del diritto difesa, rilevante ai fini dell’art. 105 del CPA.
1.1. Svolgimento del giudizio di primo grado.

Il consiglio comunale di Borgia è stato sciolto per infiltrazione della criminalità organizzata nel luglio 2010 e ne è seguito l’insediamento di un commissario prefettizio. Nel maggio 2012 l’attuale appellante ha presentato una segnalazione di inizio attività (SCIA), riguardante l’apertura di un esercizio di vendita al dettaglio di frutta e verdura. Trascorsi i termini previsti dall’art. 19 della legge n. 241/1990, l’interessato dava avvio alla propria attività commerciale.

La nuova amministrazione eletta, in applicazione dell’art. 100 del codice antimafia, chiedeva informativa antimafia alla Prefettura di Catanzaro, ritenendo che l’attività commerciale in oggetto rientrasse nella ambito delle autorizzazioni di cui all’art. 67 codice antimafia.

La Prefettura di Catanzaro, con nota del 30 maggio 2014 n. 48521, adottava interdittiva antimafia nei confronti dell’interessato, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del codice antimafia.
Quindi, con ordinanza sindacale 12 giugno 2014 n. 14, il Sindaco di Borgia (autorità di Pubblica Sicurezza competente ai sensi dell’art. 19 del DPR n. 616/1977 ed ai sensi del DPR n. 348/1979, art.13), tenuto conto della nota interdittiva del Prefetto di Catanzaro del 30 maggio 2014, ha ordinato quanto segue:

la revoca della SCIA per esercizio di vicinato prot. 3680 del 14 maggio 2012.......relativa alla attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande nei locali siti in Borgia, via Kennedy 12;
di disporre in ogni caso il divieto di prosecuzione dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande nei locali siti a via Kennedy 12”.

Avverso l’interdittiva antimafia prefettizia e la connessa ordinanza sindacale di revoca della SCIA l’interessato (attuale appellante) ha proposto ricorso al TAR Calabria (RG.n.1016/2014), chiedendone l’annullamento, previa sospensione, per violazione di legge ed eccesso di potere, sotto diversi profili, e domandando il risarcimento dei danni patiti a causa della chiusura dell’esercizio commerciale.

In particolare, il ricorrente censurava l’interdittiva antimafia e l’ordinanza comunale di revoca, deducendo l’errata applicazione dell’art. 100 TULPS (richiamato nella ordinanza sindacale), nonché dell’art. 67 Codice Antimafia, in quanto l’attività commerciale, svolta ai sensi dell’art. 67, lettera A, non rientrerebbe nell’ambito della nozione di “concessioni ed erogazioni”, per le quali, in generale, l’art. 67 impone la richiesta di informazione antimafia; mentre (a suo dire) la norma limiterebbe il divieto dell’attività commerciale (per la quale si richiede la licenza commerciale) ai soli soggetti colpiti da misure di prevenzione.

Inoltre, il ricorrente censurava l’interdittiva per difetto di motivazione e genericità delle indicazioni sulle frequentazioni di pregiudicati, che la Prefettura aveva addebitato a lui stesso ed al padre, che, comunque, non avrebbe cointeressenza nella gestione del negozio di frutta.

1.2. La sentenza del TAR.
Il TAR per la Calabria, con l’impugnata sentenza n. 367/2015, ha accolto il ricorso e, per l’effetto, ha annullato l’interdittiva e l’ordinanza comunale di revoca della SCIA per difetto motivazione della nota prefettizia e per errata applicazione dell’art. 67 Codice Antimafia, ma ha omesso completamente di pronunciarsi sulla domanda di risarcimento del danno patrimoniale, quantificato dal ricorrente in euro 25.407,00, per gli otto mesi di chiusura (mancato guadagno e perdita avviamento), o nella diversa somma liquidata dal giudice, anche in via equitativa, nonché del danno non patrimoniale, quantificato in complessivi euro 35.000,00, di cui euro 10.000,00 per danni da depressione ed euro 25.000,00 per danni alla reputazione. Sul punto va precisato che nella sentenza impugnata non si trova alcun riferimento, esplicito o implicito, alla domanda di risarcimento, che non è menzionata né nell’epigrafe, né nel riepilogo delle domande e delle censure avanzate dal ricorrente, né nell’esposizione in fatto o nell’indicazione delle ragioni della decisione.
2. Il giudizio di appello.
La sentenza del TAR, nella sola parte in cui ha annullato i provvedimenti censurati dall’interessato, è passata in giudicato, in difetto di impugnazione delle amministrazioni soccombenti.

Con l’appello in epigrafe (RG n. 8424/2015), l’interessato chiede la riforma, in parte qua, della sentenza, nella misura in cui nulla ha disposto sulla domanda di risarcimento danni. A tal fine l’appellante deduce la violazione dell’art. 112 del CPC e, comunque, ribadisce la fondatezza della domanda proposta in primo grado, ove la si ritenga implicitamente respinta senza motivazione, per la sussistenza sia dell’elemento oggettivo (pregiudizio economico e nesso eziologico con i provvedimenti illegittimi), sia di quello soggettivo della responsabilità delle amministrazioni intimate, asserendo che si tratterebbe di un’ipotesi di colpa presunta, a causa dell’intervenuto annullamento dei provvedimenti impugnati.

In particolare, poi, l’appellante ritiene responsabili entrambe le amministrazioni (comunale e statale), in quanto il Comune avrebbe malamente applicato la disposizione dell’art. 67, lettera A, del Codice Antimafia, mentre la Prefettura avrebbe adottato un provvedimento sfavorevole corredato da una motivazione generica ed insufficiente.

2.1. Le difese dell’amministrazione.
Si è costituita in giudizio l’Avvocatura Generale dello Stato, nell’interesse del Ministero dell’interno e della Prefettura di Catanzaro, chiedendo il rigetto del ricorso. Con memoria difensiva ha insistito nelle conclusioni, soffermandosi sulle specifiche caratteristiche della nozione di “colpa” applicabile alla tipologia della interdittiva antimafia, in speculare connessione con la natura e la funzione tipica di tale atto. A dire dell’amministrazione statale si tratterebbe di una misura destinata ad realizzare la massima tutela preventiva della sicurezza pubblica, avanzata fino al limite di considerare rilevante il mero rischio di infiltrazione mafiosa nella gestione dell’azienda. Per questo profilo, l’Avvocatura erariale richiama i precedenti di questa Sezione in tema di responsabilità per danni derivanti dall’annullamento dell’interdittiva illegittima, di cui alle decisioni Sezione III n. 565/2017, 4295/2017 e 5143 /2017.

Secondo tale indirizzo, anche in caso di accertata illegittimità della interdittiva antimafia, per difetto di istruttoria o di motivazione, deve reputarsi insussistente l’elemento soggettivo della colpa dell’amministrazione, tenendo conto della complessità della funzione esercitata in questo delicato settore.

3. Il deferimento all’Adunanza Plenaria.
In linea di fatto, il Collegio ritiene che sia evidente il difetto di pronuncia sulla domanda risarcitoria ritualmente presentata dalla parte interessata.
Non emergono motivi di ordine processuale o sostanziale che avrebbero potuto impedire al TAR di valutare la fondatezza, o meno, dell’azione proposta.
D’altro canto, come già rilevato, manca, nella decisione impugnata, qualsiasi considerazione della domanda proposta: pertanto non vi è alcuno spazio interpretativo per individuare le ragioni del “non accoglimento” della domanda (di rito, o di merito).
Nel caso di specie, quindi, il Collegio esclude che sia configurabile una ipotesi di pronuncia implicita di rigetto della domanda, non sussistendo nel testo della sentenza alcuna argomentazione relativa, neanche incidentalmente, all’esame ed alla valutazione della domanda di risarcimento danni da parte del giudice di primo grado, atteso che della richiesta in questione non si fa cenno neanche nella esposizione in fatto.
3.1. La violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Pertanto, ad avviso del Collegio, sotto il profilo processuale, la situazione concreta ricade nell’ambito della violazione dell’obbligo di pronuncia su ogni domanda o capo di domanda, ai sensi dell’art. 112 CPC, che esprime il principio generale dell’obbligo, gravante sul giudice, di “corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato”.
Di qui la necessità di stabilire pregiudizialmente se il vizio di mancata totale pronuncia sulla domanda rientri tra quelli che, ai sensi dell’art. 105 CPA, comportano la regressione del giudizio dalla fase di appello al primo grado, oppure se l’omesso esame della domanda da parte del TAR, non costituendofattispecie di rinvio tipizzata dal citato art. 105 CPA, comporti, per l’effetto devolutivo dell’appello, la conseguenza che il giudice di secondo grado debba trattenere la causa, decidendola nel merito.
In argomento va detto che, in parte innovando la portata del previgente art. 35 della legge n. 1034/1971, l’art. 105 CPA (in vigore dal 16 settembre 2010) ha certamente delineato con maggior grado di specificità i casi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado, sia pure attraverso l’utilizzazione di clausole generali quali la “lesione del diritto di difesa”, nonché la categoria della nullità della sentenza, introdotta senza ulteriori specificazioni, laddove, per il giudizio civile, l’art. 354, comma 1, CPC prescrive che deve trattarsi di nullità ”ai sensi dell’art. 161, comma 2”, CPC.
Inoltre, va segnalato che, nell’attuale contesto processuale amministrativo, scomparse le categorie del vizio di procedura e del difetto di forma, individuate dalla legge n. 1034/1971, il codice del 2010 impone al Consiglio di Stato il rinvio al giudice di primo grado “soltanto” in caso di vizio del contraddittorio, lesione del diritto di difesa e dichiarata nullità della sentenza impugnata.
3.2. La nozione di “lesione del diritto di difesa” e la portata del principio del doppio grado.
In particolare, quanto alla categoria della “lesione del diritto di difesa”, va osservato che l’ordinamento della giustizia amministrativa è certamente incentrato sul principio del doppio grado di giurisdizione, che, sancito dall’art. 125 della Costituzione, ha trovato puntuale attuazione mediante l’istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali nel 1971. Tuttavia è pacifico che la regola costituzionale non impone affatto che la legge processuale garantisca alle parti il diritto di ottenere un doppio esame di ogni questione di rito o di merito proposta nel corso del giudizio.
Al riguardo, è necessario e sufficiente, che ciascuna domanda od eccezione sia potenzialmente esaminabile in due diversi gradi di giudizio, tenendo conto del rapporto di pregiudizialità logica tra le diverse questioni.

In questo senso, anche al fine di contemperare la regola del doppio grado con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, il CPA ha consapevolmente delimitato l’ambito dei casi di rinvio al primo giudice, stabilendone l’eccezionalità rispetto alla regola dell’effetto devolutivo dell’appello. In questa condivisibile la prospettiva, a partire dal 2010, al fine di delineare la categoria della lesione del diritto di difesa comportante il rinvio al TAR ai sensi dell’art. 105 del CPA, la costante giurisprudenza aveva fatto riferimento ai profili strettamente processuali dello ius dicere innanzi al giudice adito, di recente è accaduto che, nonostante tale assetto codicistico, alcune pronunce del Consiglio di Stato (Sez. Quarta, 31/7/2017, n. 3809), nonché del Consiglio di Giustizia della Regione Siciliana - CGA (11 gennaio 2018, n. 33), hanno elaborato una più ampia categoria della lesione del diritto di difesa che giustifichi la deroga all’effetto naturale dell’appello cioè quello devolutivo in favore di una visione sostanzialistica del diritto di difesa che, innanzitutto, ne privilegi la massima garanzia attraverso l’ampliamento dei casi in cui il Consiglio di Stato, in veste di giudice di appello, possa rinviare all’esame del giudice di primo la controversia, laddove abbia rilevato che, per una errata valutazione preliminare in rito, il giudice di primo grado abbia omesso di pronunciarsi nel merito e, quindi, non abbia consentito al ricorrente di fruire di due gradi di giudizio sul merito della controversia.

La citata pronuncia del CGA, visto che il TAR aveva dichiarato tardivo il ricorso e quindi non aveva esaminato la domanda risarcitoria ivi formulata, riformava la sentenza di irricevibilità del TAR Sicilia, e disponeva la rimessione/regressione della causa al giudice di primo grado, in quanto nella omessa pronuncia nel merito della controversia rinveniva una ipotesi di lesione del diritto di difesa di cui all’art. 105, comma 1, CPA.
3.3. Gli indirizzi ampliativi dei casi di rinvio al TAR.
Peraltro, una veloce disamina della giurisprudenza più recente consente di rilevare che altre pronunce del Consiglio di Stato sono pervenute ad analoghe conclusioni a favore di una lettura della clausola dell’art. 105, CPA sulla “violazione del diritto di difesa”, orientata a garantire più ampia latitudine al doppio grado di tutela giurisdizionale.

In tal senso si pongono la pronuncia della Quarta Sezione del luglio 2017 (n. 3809/2017), nonché la successiva recentissima pronuncia della medesima Sezione 5 aprile 2018, n. 2122.
3.4. Con la sentenza n. 3809/2017 la Quarta Sezione afferma che, nella controversia all’esame, il TAR (nel dichiarare tardivo un ricorso) in realtà era incorso nel vizio di “mancanza totale” di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e, quindi, nella violazione dell’art. 112 CPC, e che la conseguenza processuale del vizio in questione andava individuata nella rimessione della causa al giudice di primo grado ai sensi dell’art. 105 CPA per lesione del diritto di difesa.

Infatti in tale quadro processuale, ad avviso della Quarta Sezione, non trova posto la consolidata lettura di natura procedurale della violazione del diritto di difesa, ma va privilegiata una lettura sostanzialista di tale categoria generale, con la conseguenza che anche la totale omissione di pronuncia, dando luogo ad un diniego di giustizia, rientra nell’alveo della violazione del diritto di difesa e, quindi, comporta la rimessione della causa al giudice di primo grado anche in omaggio ad una più effettiva tutela, certamente assicurata dal doppio grado di giurisdizione.

3.5. Nel solco della citata pronuncia si pone la recentissima sentenza parziale sempre della Quarta Sezione 5 aprile 2018, n. 2122, che, pronunciandosi su un contenzioso instaurato da alcuni residenti del Comune di Rapallo e da due associazione ambientaliste avverso i provvedimenti di localizzazione e realizzazione di un impianto di depurazione di acque reflue, ha riformato la sentenza TAR Liguria, che aveva dichiarato inammissibili i ricorsi per difetto di interesse sotto diversi profili, e quindi, decisi alcuni punti controversi, poi, dovendo decidere nel merito la controversia, ha deferito alla Adunanza Plenaria la questione se ricorreva taluna delle fattispecie di cui all’art. 105, comma 1, CPA che consentivano la rimessione della causa al giudice di primo grado.

In particolare la citata pronuncia, una volta riformata la statuizione di inammissibilità contenute nella sentenza TAR Liguria, poi (a partire dal punto 13) rimette alla Adunanza Plenaria la valutazione delle conseguenze sul piano processuale della erronea dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi da parte del giudice di primo grado, affinché la AP indichi se in questa ipotesi, per l’effetto devolutivo, la causa debba essere esaminata dal giudice di appello oppure se la causa vada rimessa al giudice di primo grado, al fine di garantire un più completo esame del merito della controversia in due gradi di giudizio, il rispetto del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e dell’obbligo di una effettiva motivazione, e ciò in applicazione ad una o più delle categorie generali contemplate dall’art. 105, comma 1, CPA ed in considerazione della lettura sostanzialistica che della citata norma hanno dato alcune recenti pronunce del giudice amministrativo di secondo grado.

Pertanto la Sezione Quarta, nell’ambito della sentenza parziale n. 2122/2018, par. 20-21, ha sospeso nelle more la decisione sugli altri motivi il cui esame attiene alla soluzione della controversia nel merito e, al fine di evitare contrasti giurisprudenziali, ha posto alla AP le questioni di seguito riportate sulla lettura dell’art. 105, comma 1, CPA:

“se alle ipotesi di annullamento con rinvio di cui all’art. 105 CPA debba attribuirsi portata tassativa ovvero natura di clausola generale suscettibile di essere riempita nel contenuto attraverso l’elaborazione giurisprudenziale;
a.1. nel primo caso quali siano le ipotesi di annullamento con rinvio da intendersi come tassative; a.2. nel secondo caso quali siano i criteri che devono guidare il giudice nell’attività di interpretazione dei fatti processuali onde qualificarli come cause di annullamento con rinvio
b.se, alla luce della nuova nomenclatura contenuta nel vigente art.105 CPA l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse debba o possa essere ricompresa nella categoria della lesione dei diritti di difesa ...come perdita del doppio grado...

c. anche a prescindere da tale ultima soluzione, se e secondo quali criteri possa riconoscersi al giudice di secondo grado il potere di sindacare il contenuto della motivazione dell’impugnata sentenza, al fine di qualificare il formale dispositivo di declaratoria di inammissibilità per carenza di interesse in un sostanziale accertamento della violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato o dell’obbligo di motivazione, intesa come elemento essenziale della sentenza, rispetto all’oggetto del processo;

b.3 se dette ultime ipotesi costituiscano o a quali condizioni possano costituire, rispettivamente lesione dei diritti della difesa o ipotesi di nullità della sentenza ai sensi dell’art. 105, comma”.
3.6. Il rinvio alla Plenaria della Quinta Sezione.

Anche la Quinta Sezione, con sentenza parziale 10 aprile 2018, n. 2161, riformata una sentenza di primo grado che ha erroneamente dichiarato irricevibile il ricorso, ha rimesso alla AP la questione se, alla luce di alcune recenti pronunce del giudice amministrativo di secondo grado, la causa debba essere decisa nel merito in grado di appello oppure se, secondo una emergente lettura dell’art.105 CPA, debba essere rimessa al giudice di primo grado.

In particolare la Quinta Sezione rileva quanto (per comodità di lettura) si riporta di seguito:
a) secondo l’orientamento tradizionale l’errore in questione non comporta il rinvio della causa al giudice di primo grado, ma la ritenzione del giudizio da parte del giudice di appello, nei limiti di quanto ad esso devoluto; tuttavia un più recente orientamento della giurisprudenza amministrativa si è posto in consapevole linea di discontinuità con l’indirizzo precedente ed ha statuito che l’ipotesi in questione sarebbe invece riconducibile al caso della violazione del diritto di difesa, per il quale ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a. si impone l’annullamento della sentenza di primo grado con rinvio al Tribunale amministrativo; a fronte di una situazione così venutasi a creare diviene applicabile il disposto dell’art. 99, comma 1, c.p.a. che obbliga a deferire il punto di diritto oggetto di contrasti all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato;

b).il deferimento in sede nomofilattica si rende necessario anche perché la Sezione è dell’avviso che vada invece mantenuto fermo l’indirizzo tradizionale, che muove dal carattere tassativo delle cause di regressione del processo a quelle tipizzate nell’art. 105, comma 1, c.p.a., che sembrerebbe fatto palese dall’impiego nella citata disposizione dell’avverbio «soltanto»; per come formulata, la disposizione in esame dovrebbe dunque precludere interpretazioni estensive dei casi in essa previsti;

c) una errata pronuncia in rito non può automaticamente essere ritenuta lesiva del diritto di difesa in giudizio, in particolare ogniqualvolta le facoltà difensive della parte soccombente sono state comunque esercitate con pienezza, ed essa abbia potuto far valere ragioni contrarie all’accoglimento della questione in rito poi risultata risolutiva della controversia in primo grado;

d) conclusioni diverse potrebbe (rectius: deve) pervenirsi quando la questione decisiva non sia mai stata sottoposta al contraddittorio delle parti; se, per contro, la questione è stata oggetto di dibattito processuale, il fatto che la stessa sia poi accolta (e per effetto di ciò l’esame del merito sia precluso), costituisce una conseguenza dell’applicazione delle regole sull’ordine delle questioni sancito dagli artt. 76, comma 4, c.p.a. e 276, comma 2, c.p.c.., che attengono alla fase di decisione della controversia ed operano quindi quando la dialettica processuale si è ormai svolta; la dichiarazione di irricevibilità del ricorso non si traduce quindi in una pronuncia “a sorpresa” (o della terza via) che possa reputarsi lesiva del diritto di difesa;
e) la casistica mostra come l’art. 105, comma 1, c.p.a., con riferimento alla lesione del diritto di difesa, è stato applicato ai casi in cui è mancato il contraddittorio e vi è stata una compressione delle facoltà difensive della parte; ovvero, non quando la decisione sia ex se affetta da errori, ma quando è il procedimento (giurisdizionale) all’esito del quale la stessa è stata emessa ad essere inficiato da vizi, i quali sono poi idonei a riverberarsi sull’atto con cui il medesimo procedimento è definito;

f)le suddette ipotesi, quindi, rientrano nel «difetto di procedura» o nel «vizio di forma» di cui al previgente art. 35, comma 1, della legge istitutiva dei Tribunale amministrativi regionali, 6 dicembre 1971, n. 1034; la maggiore ampiezza dei casi invece contemplati dal codice del processo amministrativo – argomento anch’esso valorizzato dal giudice d’appello siciliano nella sentenza 24 gennaio 2018, n. 33, a sostegno del nuovo orientamento – appare invece spiegabile con l’esigenza di tipizzare meglio i casi di regressione del processo, anche attraverso il recepimento della giurisprudenza formatasi sul punto;

g) il processo amministrativo è informato al principio del doppio grado di giudizio, che tuttavia non implica che il merito debba essere sempre esaminato in esso, ma casomai che la parte possa chiedere la revisione della decisione di primo grado,

conformemente alla natura devolutiva (limitatamente ai punti della sentenza di primo grado impugnati) del mezzo dell’appello; tale principio va poi coordinato con il canone fondamentale della ragionevole durata del processo sancito dall’art. 2, comma 2, c.p.a., alla cui stregua sembra doversi attribuire carattere eccezionale ai casi di regressione del giudizio;

h) l’ampliamento delle ipotesi di rimessione al primo giudice alla errata dichiarazione di estinzione del processo o perenzione del ricorso da parte del giudice di primo grado, previste dal comma 2 dell’art. 35 c.p.a., e non anche alle sentenze dichiarative dell’irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità del ricorso, di cui all’art. 35, comma 1, c.p.a., non potrebbe essere spiegato altrimenti che con l’intendimento del legislatore di escludere l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado nel caso in cui il Consiglio di Stato ne accerti l’erroneità.”
4. La specifica e diversa questione che la Terza Sezione rimette alla valutazione dell’Adunanza Plenaria.

Come già evidenziato, la riforma in parte qua della sentenza impugnata per omessa pronuncia in toto sulla domanda di risarcimento dei danni, sotto il profilo processuale, realizza un’ipotesi tipica di violazione dell’obbligo di pronuncia su ogni domanda, imposto dall’art. 112 CPC.

Di qui la necessità per il Collegio di stabilire pregiudizialmente se il vizio processuale di mancata totale pronuncia sulla domanda rientri tra quelli che, ai sensi dell’art. 105 CPA, comportano la regressione della causa al giudice di primo grado, oppure se esso si collochi al di fuori delle fattispecie di rinvio tipizzate dall’art. 105 CPA, con l’ulteriore conseguenza che, per l’effetto devolutivo, il giudice di appello debba trattenere la causa, decidendola nel merito.

4.1. Sul punto, le recentissime rimessioni di questioni analoghe alla Plenaria avrebbero potuto suggerire di disporre la sospensione del presente giudizio, in attesa di conoscere l’indirizzo nomofilattico espresso dal massimo organo giurisdizionale.

Nondimeno, questa Sezione ritiene necessario sottoporre all’Adunanza Plenaria la specifica questione processuale riguardante il caso in cui, in sede di appello, sia accertato che il giudice di primo grado abbia omesso in toto di pronunciarsi su una domanda.

Infatti, la vicenda che si rimette alla valutazione della Adunanza Plenaria, ha specifici connotati, che la distinguono da quelle oggetto delle rimessioni delle Sezioni Quarta e Quinta, e, quindi, arricchisce il ventaglio dei diversi casi in cui può porsi il problema della esatta interpretazione dell’art. 105 CPA.

Per l’illustrazione dei diversi argomenti portati, rispettivamente, a sostegno dell’orientamento tradizionale ed a supporto della nuova tesi ampliatrice, il Collegio (per preminenti ragioni di sintesi) ritiene sufficiente richiamare le ampie e puntuali motivazioni delle citate decisioni della Quarta e della Quinta Sezione, alle quali, comunque, ritiene opportuno aggiungere, per completezza espositiva, anche le argomentazioni esposte nella sentenza parziale del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana (CGARS) 17 aprile 2018 n. 223, pur se trattasi di pronuncia pubblicata in data posteriore alla seconda camera di consiglio, che ha deciso la presene controversia.

La citata pronuncia del CGARS, infatti, prospetta l’interpretazione ampliatrice dell’art. 105 CPA (in una vicenda in cui il TAR aveva erroneamente dichiarato l’inammissibilità dei motivi aggiunti e la conseguente improcedibilità del ricorso originario) e, quindi, rilevati contrasti giurisprudenziali sul tema, ai sensi dell’art.99 CPA rimette alla valutazione della Adunanza Plenaria la seguente questione “ Se quindi, in definitiva, la sentenza d’appello che accerti la erroneità della declaratoria di inammissibilità e/o di irricevibilità del ricorso, comporti l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado, ex art.105 c.p.a.”.

Si tratta, all’evidenza, di ipotesi in cui il giudice di primo grado ha effettivamente valutato, nella sua interezza, i motivi di gravame proposti dall’interessato, definendoli con una pronuncia di carattere processuale.
Nella presente fattispecie, invece, è mancato qualsiasi tipo di esame della domanda risarcitoria formulata ritualmente dall’originario ricorrente.

4.2. La nozione di “rifiuto di giurisdizione” e le recenti decisioni delle Sezioni Unite e della Corte costituzionale.
Il Collegio sottolinea, peraltro, come, ai fini della decisione della Plenaria, sia opportuno valutare anche la portata dei più recenti indirizzi giurisprudenziali in materia di “rifiuto di giurisdizione”, espressi dalle non univoche decisioni delle Sezioni Unite (29 dicembre 2017 n. 41226) e dalla Corte costituzionale (18 gennaio 2018, n. 6).

La Cassazione, pur ampliando notevolmente l’ambito del proprio sindacato per  “motivi inerenti la giurisdizione”, afferma esplicitamente che l’omesso esame della domanda non dovrebbe configurarsi come questione di giurisdizione ai sensi dell’art. 105 del CPA.
La Corte costituzionale, dal canto suo, prospetta una lettura più lineare e circoscritta del concetto di “giurisdizione”, che dovrebbe condurre, coerentemente, ad una interpretazione restrittiva delle ipotesi di rinvio al primo giudice.

4.3. La conferma dell’indirizzo tradizionale e il caso peculiare dell’omissione di pronuncia.
Con riferimento ai diversi dubbi prospettati dalle due precedenti decisioni di rinvio (nonché dalla citata pronuncia del CGARS), pertanto, questo Collegio ritiene preferibile seguire, in generale, l’orientamento tradizionale, più fedele alla lettera dell’art. 105 CPA ed alla sua evidente finalità di accelerazione del giudizio, nel rispetto delle prerogative tipicamente processuali in cui si sostanzia il diritto di difesa.

In questo ambito, tuttavia, deve inquadrarsi la particolare vicenda per cui è causa. La totale omissione di pronuncia su un’intera azione (la domanda risarcitoria) ha determinato, con ogni evidenza, una diretta lesione del diritto di difesa (a differenza dell’erronea declaratoria di inammissibilità, irricevibilità o improcedibilità), perché ha provocato, nei confronti della parte ricorrente, effetti equivalenti a quelli della “pronuncia a sorpresa”, di cui all’art. 73 del CPA.

Quando il giudice pone a base della propria decisione una questione rilevata d’ufficio, senza prospettarla preventivamente alla dialettica tra le parti, arreca un sicuro pregiudizio al diritto di difesa dell’interessato, impedendogli di manifestare la propria posizione.

Pertanto sarebbe plausibile concludere che, quando il giudice disattende del tutto l’azione proposta dal ricorrente, senza spiegarne le ragioni, lede, in modo ancora più vistoso, il diritto di difesa della parte interessata, che si vede privata di ogni possibilità di difesa in ordine ad una pronuncia sfavorevole, adottata al di fuori del prescritto contraddittorio. 4.4. Il quesito di diritto proposto all’Adunanza Plenaria.
In conclusione, quindi, al fine di evitare contrasti di giurisprudenza, la Terza Sezione del Consiglio di Stato, con la presente ordinanza, rimette alla Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, CPA, la seguente questione di diritto:
“se, qualora il giudice di primo grado abbia omesso del tutto la pronuncia su una delle domande del ricorrente (nella specie l’azione di risarcimento del danno, conseguente all’annullamento dei provvedimenti impugnati), la controversia debba essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado, in coerenza con l’effetto devolutivo dell’appello e con la regola della tassatività delle ipotesi di rinvio al primo giudice, oppure, in alternativa, la causa debba essere rimessa al TAR, valorizzando la portata anche sostanziale della nozione di “violazione del diritto di difesa” e il principio costituzionale del doppio grado, anche alla luce della circostanza che la radicale e immotivata omissione di pronuncia avrebbe effetti equivalenti a quelli di una decisione adottata d’ufficio, in violazione del contraddittorio con le parti, stabilito dall’art. 73, comma 3, del CPA.”

P.Q.M.


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) dispone il deferimento dell’appello in epigrafe all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato affinché si

pronunci sul punto di diritto di cui in motivazione.
Manda alla segreteria della sezione per gli adempimenti di competenza, e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al segretario incaricato di assistere all'adunanza plenaria.

 

REPUBBLICA ITALIANA

 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA in sede giurisdizionale

ha pronunciato la presente

SENTENZA NON DEFINITIVA

sul ricorso numero di registro generale 621 del 2017, proposto dalla società Euro Tour Servizi di Russo Santo & C. s.a.s., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'Avv. Umberto Ilardo, con domicilio eletto presso lo studio dell’Avv. Nino Bullaro, in Palermo, via Galileo Galilei, n.9;

contro

Comune di Melilli, in persona del Sindaco e legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'Avv. Riccardo Giuffrida, con domicilio eletto presso il suo studio in Catania, corso delle Province 25;

nei confronti

Vecchio s.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'Avv. Fabio Burgio, con domicilio eletto presso lo studio dell’Avv. Nicola Giudice, in Palermo, via D'Azeglio 27C;
la Centrale Unica di Committenza (C.U.C.) Carlentini-Melilli, e la società Euro Tour Group s.r.l., nelle persone dei rispettivi rappresentanti legali, non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza n.1119 del 22.5.2017, resa dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Sez. Staccata di Catania,

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Melilli e della società Vecchio S.r.l.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Nominato Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 marzo 2018 il Cons. Avv. Carlo Modica de Mohac e uditi per le parti gli Avv. Umberto Ilardo, Riccardo Giuffrida e Giovanni Sallicano su delega dell’Avv. Fabio Burgio;
Visto l'art. 36, comma 2, cod. proc. amm.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO


I. Con bando del 25.11.2016 il Comune di Melilli indiceva una procedura di gara per l’affidamento del servizio di trasporto degli alunni della scuola materna e

dell’obbligo, da aggiudicare secondo il criterio del prezzo più basso.
Entro il termine di scadenza fissato, facevano pervenire l’offerta solamente due ditte; e precisamente la Euro Tour Servizi di Russo Santo & C. s.a.s. (d’ora in poi denominata, per brevità, “Euro Tour”) e la società Vecchio s.r.l.
Al fine di assicurare la continuità del servizio ed in attesa del completamento delle operazioni di verifica dell’ammissibilità delle domande e della validità delle offerte, il 7.1.2017 l’Amministrazione chiedeva alla ditta Vecchio s.r.l., in qualità di precedente gestrice, di continuare a svolgere la prestazione in regime di proroga contrattuale.
Svolte le operazioni di scrutinio in ordine alla documentazione ed alle offerte, l’aggiudicazione provvisoria veniva pronunziata in favore della Euro Tour, alla quale in data 11.1.2017 l’Amministrazione affidava provvisoriamente il servizio (in via d’urgenza, in attesa della pronunzia dell’aggiudicazione definitiva e della stipula del contratto), revocando il precedente affidamento provvisorio alla società Vecchio s.r.l.

II. Con ricorso innanzi al TAR di Catania (ritualmente notificato in data 1.2.2017), quest’ultima impugnava il provvedimento di aggiudicazione e gli atti presupposti (verbali di gara), lamentando che la Euro Tour era stata ammessa in gara non ostante non avesse una serie di requisiti (e non ostante non avesse rimosso alcune situazioni di conflitto d’interesse).

Ritualmente costituitosi, il Comune eccepiva l’infondatezza del gravame.
III. Con ricorso incidentale la ditta Euro Tour lamentava, a sua volta, la mancata esclusione della società Vecchio, deducendo che quest’ultima non era in possesso di mezzi (gli autobus) aventi le caratteristiche tecniche richieste dal bando.
IV. In pendenza del giudizio, la Stazione appaltante completava le verifiche relative al possesso dei requisiti dichiarati dalle due ditte concorrenti; e all’esito delle stesse, con note prot. n.2463 e 2465 del 2.2.2017, comunicava a ciascuna di esse di aver avviato il procedimento di revoca dell’ammissione alla procedura di affidamento, sia nei confronti della prima che della seconda classificata.
Il che avrebbe determinato, all’evidenza, l’annullamento dell’intera procedura di gara, posto che - come già cennato - le ditte partecipanti erano solamente due. Quindi, con determina n.389 del 7.3.2017, l’Amministrazione comunale:
- revocava l’aggiudicazione in favore della Euro Tour nonché il provvedimento con cui le aveva affidato provvisoriamente il servizio;
- e riaffidava il servizio di trasporto degli alunni, in via d’urgenza, temporanea e provvisoria (ed in regime di proroga contrattuale), alla società Vecchio s.r.l. (in qualità di precedente gestrice).
V. Avverso tale provvedimento di revoca dell’aggiudicazione - sopraggiunto, come già rilevato, in pendenza del giudizio introdotto dal ricorso precedentemente proposto avverso gli atti di gara - la controinteressata e ricorrente incidentale (ditta Euro Tour, già aggiudicataria) proponeva ricorso per motivi aggiunti.
VI. Con sentenza n.1119 del 22.5.2017 il TAR di Catania:
- dichiarava inammissibile il ricorso per motivi aggiunti, ritenendo che la società Euro Tour avrebbe dovuto proporre un nuovo ed autonomo ricorso, anziché innestare la domanda sopravvenuta (volta all’annullamento del menzionato sopraggiunto atto di ritiro) nel giudizio già pendente;
- dichiarava improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse sia il ricorso principale che il ricorso incidentale (volti a sindacare gli atti di verifica delle offerte e la conseguente aggiudicazione), motivando tale statuizione con il rilevo che le parti non avrebbero più potuto conseguire alcun utile risultato dall’annullamento degli atti impugnati, posto che era ormai venuta meno l’intera procedura di gara;
- e condannava il Comune sia al risarcimento dei danni (liquidati in €.15.650,41, a titolo di danno emergente) provocati alla società Vecchio s.r.l. peraverle repentinamente revocato (in data 11.1.2017) l’affidamento temporaneo del servizio dopo che la stessa aveva approntato i mezzi per svolgerlo (assumendo i relativi oneri finanziari); sia al pagamento delle spese processuali.
VI. A questo punto, la società Euro Tour ha impugnato la predetta sentenza domandandone la riforma per le ragioni indicate nella successiva parte della presente decisione, dedicata alle questioni di diritto.
Con l’appello in questione la predetta società:
- lamenta l’erroneità della statuizione con cui il Giudice di primo grado ha ritenuto inammissibile il ricorso per motivi aggiunti (avverso i sopravvenuti atti di ritiro della procedura di gara) e conseguentemente improcedibili sia il ricorso principale che quello incidentale (avverso gli atti della procedura concorsuale e l’aggiudicazione);
- e ripropone tutte le doglianze avanzate con i motivi spiegati in primo grado, sulla cui fondatezza il Tribunale Amministrativo Regionale non si era pronunziato, avendo dichiarato - come già visto - l’improcedibilità del ricorso.
Ritualmente costituitosi, il Comune di Melilli ha eccepito l’inammissibilità, l’improcedibilità e comunque l’infondatezza nel merito del gravame, chiedendo la conferma della sentenza appellata.
Anche la società Vecchio s.r.l. si è costituita in giudizio eccependo l’infondatezza del gravame e chiedendone il rigetto dell’appello con integrale conferma della sentenza.
Nel corso del giudizio le parti hanno insistito nelle rispettive domande ed eccezioni. Infine, all’udienza fissata per la discussione conclusiva sul merito dell’appello, la causa è stata posta in decisione.

DIRITTO


1. L’appello è solamente in parte fondato, nei sensi e nei limiti di seguito indicati; mentre per la rimanente parte, impregiudicata e riservata alla definitiva pronuncia di

merito ogni ulteriore decisione, si rende necessario rimettere gli atti processuali all’Adunanza Plenaria perché si pronunzi - in funzione nomofilattica e dirimente - in ordine ad alcune questioni di rilevanza generale, allo stato dibattute e controverse, che il Collegio ritiene pregiudiziali.

1.1. Con il primo mezzo di gravame l’appellante società Euro Tour lamenta l’ingiustizia dell’impugnata sentenza per violazione dell’art.111 della Costituzione, nonché per violazione e falsa applicazione degli artt.32, 43 e 120 del codice del processo amministrativo, deducendo che il Giudice di primo grado:

- ha errato nel ritenere che la nuova domanda giudiziale volta all’annullamento dell’atto di ritiro sopravvenuto (a quelli già impugnati), avrebbe dovuto essere proposta mediante un autonomo ricorso (introduttivo di un nuovo giudizio), anziché ‘innestata’, mediante un ricorso per motivi aggiunti, nel giudizio già pendente;

- ed ha parimenti errato nel non applicare il c.d. “principio di conservazione e conversione degli atti giuridici”; principio in forza del quale avrebbe dovuto disporre la separazione dei giudizi, anziché limitarsi a pronunziare l’inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti traendone frettolosamente la definitiva e tranciante conseguenza - preclusiva di ogni pronunzia di merito e di ogni tutela - che, a quel punto, il precedente ricorso avverso gli atti presupposti era divenuto improcedibile (per sopravvenuta carenza d’interesse, non potendosi più conseguire, mediante esso, alcuna concreta utilità).

La doglianza merita accoglimento.


1.1.1. L’art.120 del codice del processo amministrativo (nella sua ultima versione, applicabile alla fattispecie) prevede che “... i nuovi atti attinenti la medesima procedura di gara devono essere impugnati con ricorso per motivi aggiunti”, salvo che non si tratti di impugnazione di provvedimenti di esclusione o di ammissione alla gara.
E poiché nella fattispecie per cui è causa la ditta interessata (Euro Tour) ha impugnato la sopravvenuta revoca dell’aggiudicazione, atto nuovo che certamente inerisce e dunque “attiene” alla procedura di gara, non appare revocabile in dubbio che ricorressero le condizioni per l’applicazione della norma in questione; e che pertanto il ricorso allo strumento dei motivi aggiunti fosse e sia da ritenere processualmente corretto.
La tesi del Giudice di primo grado, secondo cui la domanda giudiziale ha finito con l’estendere inammissibilmente il (thema decidendum precedentemente incardinato nel) giudizio già pendente, “spostando” l’esame giudiziale dalla verifica della legittimità dell’aggiudicazione, alla verifica della legittimità degli atti relativi ad un procedimento - nella specie: il “procedimento di secondo grado” poi culminato nel provvedimento di revoca - del tutto “distinto” rispetto al procedimento di gara (e a quest’ultimo non connesso in alcun modo), non appare condivisibile né convincente.
E ciò per due ordini di ragioni.
Innanzitutto in quanto non può essere negato che fra il procedimento di controllo di un atto ed il procedimento culminato nell’adozione dell’atto controllato, vi sia una strettissima connessione, posto che il c.d. “procedimento di secondo grado” è volto eminentemente (e comunque almeno in parte) proprio al riesame di questioni affrontate in quello precedente.
Ed in secondo luogo in quanto l’art.120 non opera alcuna distinzione (per struttura, funzione o categoria) fra gli atti impugnabili, limitandosi a prescrivere che ove sia riscontrabile qualsiasi relazione di connessione (dunque un qualsiasi rapporto di inerenza) fra l’atto sopravvenuto e quelli in qualche modo ad esso presupposti (o anche solamente precedenti), quello sopraggiunto va impugnato mediante lo strumento processuale del “ricorso per motivi aggiunti”. E poiché secondo un ben noto criterio ermeneutico, mutuato da un antico brocardo, nel caso in cui la norma non operi distinzioni, neanche all’interprete è consentito farlo (“ubi lex non distinguit nec nos distinguere debemus”), non si vede la ragione per la quale il Giudice di primo grado abbia ritenuto che l’art.120 del codice del codice del processo amministrativo debba essere interpretato - non ostante la chiarezza del testo - in modo sì rigidamente riduttivo.

1.1.2. Del pari meritevole di condivisione si appalesa il secondo profilo di doglianza, non apparendo revocabile in dubbio che una volta “preferita” l’interpretazione restrittiva della norma in questione - ritenuto, dunque, inammissibile il ricorso ai motivi aggiunti per l’impugnazione dell’atto di ritiro sopravvenuto - il Giudice di primo grado avrebbe dovuto disporre la separazione dei giudizi, anziché precludere alla società ricorrente ogni forma di tutela.

Ed invero, secondo un principio giurisprudenziale costituente ormai jus receptum, se una determinata domanda giudiziale viene erroneamente veicolata mediante un ricorso volto ad introdurre un “rito processuale” inadeguato (o un’azione processuale tipica, destinata ad uno scopo diverso), ma contenente tutti i requisiti (e dunque valida) per l’avvio del rito appositamente previsto per il tipo di domanda che si intende introdurre, essa non va dichiarata inammissibile.

In tal caso:
- l’atto introduttivo va, per così dire, “conservato” (id est: preservato da qualsiasi pronunzia giudiziaria “tranciante”, che lo dichiari del tutto inefficace ed inutilizzabile);
- e la domanda da esso veicolata va “convertita” d’ufficio - ad opera del Giudice (mediante la riunione o la separazione dei giudizi, secondo i casi) - in domanda idoneamente ed adeguatamente diretta ad avviare la “giusta azione processuale”, ovvero il rito adeguato allo scopo (CS, IV^, 4.6.2013 n.3071; Id., 28.10.2013).

Dal che consegue che la pronunzia di inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti in esame va riformata, anzi annullata.
1.1.3. Dalla statuizione di annullamento del Capo della sentenza appellata che ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti (proposto avverso il provvedimento di revoca dell’aggiudicazione e di ritiro degli atti di gara), deriva che deve essere annullato anche il Capo che ha pronunciato la improcedibilità per sopravvenuta carenza d’interesse delle domande giudiziali proposte con il ricorso principale e con il ricorso incidentale (volti a sindacare gli atti - presupposti a quelli testè indicati - di verifica delle offerte e la conseguente aggiudicazione).

E’ infatti evidente che una volta annullata la pronunzia di inammissibilità (dettata, come visto, da motivi prettamente processuali) del ricorso per motivi aggiunti (proposto, lo si ribadisce per chiarezza espositiva, avverso la revoca dell’aggiudicazione e dell’intera procedura), riemerge e riassume consistenza non soltanto l’interesse ad ottenere una pronunzia di merito in ordine alla legittimità della revoca, ma anche l’interesse ad ottenere una pronunzia (ancora una volta) di merito in ordine alla legittimità dell’aggiudicazione e degli atti di gara ad essa prodromici (nell’ipotesi, ovviamente, di accoglimento del ricorso per motivi aggiunti e, quindi, di annullamento della revoca dell’aggiudicazione).

Ed è proprio di tali “riaffioranti” domande giudiziali, sulle quali il Giudice di primo grado non si è pronunziato (essendo le correlate questioni rimaste “assorbite” dalle menzionate pronunzie di inammissibilità e di improcedibilità), che si passa a trattare.

1.2. Con i motivi successivi al primo, l’appellante società Euro Tour ripropone tutte le doglianze contenute nel ricorso per motivi aggiunti (avverso la revoca dell’aggiudicazione) e nel ricorso incidentale (avverso l’ammissione in gara della società Vecchio s.r.l.).
1.2.1. Ad avviso del Collegio, le controverse questioni dedotte con i motivi richiamati non possono essere immediatamente decise, dovendo preliminarmente essere investita l’Adunanza Plenaria in merito alla questione pregiudiziale, di carattere generale, se il Giudice di appello possa, anzi: debba, trattarle non ostante non siano state precedentemente conosciute dal TAR (essendo rimaste assorbite nella pronunce di rito); e/o se, per contro, il processo non debba essere rinviato al predetto Giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 105 del codice del processo amministrativo, perché si pronunzi in ragione della sua competenza funzionale.

Al riguardo si sono verificati, infatti, contrasti giurisprudenziali fra le varie Sezioni, che impongono la devoluzione all’Adunanza Plenaria della relativa questione.
Ed invero:
- mentre con le decisioni n.3809 del 31.7.2017 della IV^ Sezione, n.421 del 23.1.2018 della V^ Sezione e n.5955 del 18.12.2017 della VI^ Sezione è stata prediletta la tesi secondo cui in caso di annullamento delle sentenze di inammissibilità, irricevibilità e/o improcedibilità il Giudice d’appello non deve rinviare la causa al Giudice di primo grado (dovendo invece procedere alla immediata decisione delle questioni già proposte in primo grado anche se mai espressamente affrontate in tale fase di giudizio);

- con le decisioni n.1535 del 12.3.2018 della IV^ Sezione e n.33 del 24.1.2018 di questo Consiglio di Giustizia Amministrativa, si è opinato in senso diametralmente opposto.
Sicchè in merito alla dibattuta questione il Collegio ritiene di formulare le seguenti riflessioni.

L’art.105 del codice del processo amministrativo stabilisce che il Consiglio di Stato rimette la causa al Giudice di primo grado soltanto nei seguenti casi: - se è mancato il contraddittorio;
- se è stato leso il diritto di difesa di una delle parti;
- se venga dichiarata la nullità della sentenza;

- se venga riformata la sentenza che ha declinato la giurisdizione; o che ha pronunziato sulla competenza o che ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio.
Trattasi - all’evidenza - di ipotesi tassative, ma talvolta espressive di clausole aperte, di fattispecie non specificamente tipizzate e che perciò lasciano aperti varchi interpretativi volti alla individuazione dei casi in esse sussumibili (inquadrabili). Ora, al fine di stabilire se nella fattispecie per cui è causa ricorra una delle ipotesi di doverosa rimessione ai sensi dell’art.105 del codice del processo amministrativo, occorre - ad avviso del Collegio - che venga chiarito:

a) se la diretta ed immediata trattazione da parte del Giudice di appello di questioni di merito non affrontate dal Giudice di primo grado, perché veicolate da un ricorso da questi dichiarato inammissibile o improcedibile, possa essere ritenuta - o meno - un caso di “lesione del diritto di difesa” indotta dalla privazione di un grado di giudizio;

b) se la pronunzia con cui il Giudice di primo grado abbia dichiarato l’inammissibilità o l’improcedibilità di una domanda giudiziale (rinunciando, dunque, all’esercizio ulteriore del potere giurisdizionale per stabilirne la fondatezza nel merito), possa essere assimilata ad una ipotesi di “declinazione” - latu sensu intesa - della giurisdizione;

c) se la statuizione con cui il Giudice d’appello “riformi” la sentenza di inammissibilità o di improcedibilità emessa dal Giudice di primo grado debba essere ritenuta - al di là del nomen juris utilizzato nel dispositivo - una vera e propria “sentenza di annullamento”; e, in caso affermativo, se possa essere assimilata ad una sentenza “dichiarativa di nullità”.

1.2.1.1. Quanto alla questione sub a), occorre immediatamente sottolineare che già fin dagli anni settanta la più accreditata dottrina affermava la peculiare e distintiva rilevanza, nell’ambito della teoria generale del processo amministrativo, dell’art.125 della Costituzione; norma che con il disporre non puramente e semplicemente l’istituzione di tribunali amministrativi bensì di tribunali di primo grado, stabilisce per implicito un secondo grado di giudizio.

La tesi è stata accolta dalla Corte Costituzionale, che nelle storiche sentenze n.61 del 12.3.1975 e n.8 dell’1.2.1982, ha assunto una posizione molto chiara al riguardo, affermando che (seppur) nell’ambito della (sola) giurisdizione amministrativa, il c.d “principio del doppio grado generalizzato” effettivamente vige.

In particolare:
- con la prima delle due sentenze la Corte ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art.40 della legge n.1034 del 1971 nella parte in cui, non attribuendo al T.A.R. per la Sicilia una competenza generale come giudice di primo grado, non assicurava il doppio grado di giudizio;
- e con la seconda ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art.5, ultimo comma, della L. 1.1.1978 n.1, in quando escludendo la possibilità di appellare le ordinanze cautelari in materia di opere pubbliche, negava - anch’essa - il doppio grado di giudizio.
Per ben due volte, dunque, il Supremo Giudice delle leggi ha preso una netta posizione sull’argomento, affermando - e poi ribadendo - che l’effetto dell’art.125 della Costituzione è stato quello di introdurre il principio del doppio grado generalizzato di giudizio nell’ambito del sistema della giustizia amministrativa.
La tesi è stata pienamente recepita, poi, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che nella sentenza n.7409 del 15.12.1983 hanno affermato che “il principio del doppio grado di giurisdizione è privo di rilevanza costituzionale, tranne che per quanto concerne la giurisdizione amministrativa (art.125 Cost.)”. Non ignora il Collegio che con la sentenza n.395 del 31.3.1988 la Corte Costituzionale è poi ritornata sulla questione ridimensionando la portata dell’art.125 della Costituzione e l’operatività del principio già affermato.
Con la pronunzia in questione, la Corte Costituzionale ha chiarito che l’art.125 della Costituzione non nega la possibilità che il Legislatore possa istituire, in determinate materie, la giurisdizione in unico grado del Consiglio di Stato, ma impone che le sentenze dei Tribunali Amministrativi Regionali siano sempre appellabili (negando, dunque, che possa esistere una giurisdizione in unico grado degli Organi giurisdizionali in ultimo menzionati).

Il che - lungi dall’aver contraddetto in toto, o comunque smentito e neutralizzato le precedenti statuizioni - non può che significare:
- che i casi di giurisdizione in unico grado costituiscono pur sempre un’eccezione;
- che tale eccezione è da considerare costituzionalmente legittima esclusivamente ove il “giudice senza appello” sia il Consiglio di Stato;

- e che i casi di giurisdizione in unico grado, concretandosi in eccezioni al c.d. “principio del doppio grado generalizzato”, che costituisce comunque la regola, devono essere individuati espressamente (quindi inequivocabilmente e chiaramente) e tassativamente.

Dall’ultima pronunzia della Corte Costituzionale emerge - in definitiva - che nel sistema della giustizia amministrativa il c.d. “principio del doppio grado generalizzato” esiste ed è vigente (ed è quindi vincolante per il Legislatore), seppur con specifico riferimento alle controversie concernenti materie devolute in primo grado ai Tribunali Amministrativi Regionali, in ordine alle quali - dunque - deve sempre essere assicurato un secondo grado di giudizio.

Se così è, come indubitabilmente appare, ne consegue che in tutti i casi in cui i Tribunali Amministrativi Regionali siano ordinariamente competenti - ex lege - a decidere in primo grado, tale “giudizio di base” non può essere pretermesso (o “saltato”).

In definitiva, dal sistema tratteggiato dalla Corte Costituzionale emerge chiaramente: - che salve le ipotesi in cui il Legislatore introduca espressamente (s’intende: con legge) casi particolari di giurisdizione in unico grado del Consiglio di Stato (ciò che ben può fare), i gradi ordinariamente previsti nel giudizio amministrativo sono, e devono restare, due;

- e che pertanto le questioni per le quali i Tribunali Amministrativi Regionali sono “funzionalmente” competenti, non possono essere loro sottratte; devono essere inderogabilmente trattate in primo luogo dai predetti Tribunali in quanto giudici naturali precostituiti per legge, e non possono finire con l’essere decise in unico grado - quasi “per saltum” - direttamente dal giudice d’appello.

E’ infatti evidente che se ciò accadesse resterebbe vulnerato proprio il principio posto e salvaguardato dalla Corte Costituzionale (con la sentenza in ultimo esaminata).
Ora, nella fattispecie dedotta in giudizio si verte in tema di appalti pubblici e nessuna norma di legge devolve al Consiglio di Stato giurisdizione in unico grado in tale materia, sicchè non appare revocabile in dubbio che - per tutto quanto fin qui osservato - il principio del doppio grado di giudizio affermato dalla Corte Costituzionale debba trovare, proprio nei termini in cui detta Corte lo ha tratteggiato, piena e completa applicazione.

Ad avviso del Collegio, dunque, nel caso dedotto in giudizio l’annullamento delle statuizioni con cui il Giudice di primo grado aveva dichiarato l’inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti (avverso il provvedimento di ritiro dell’aggiudicazione e dell’intera gara) e l’improcedibilità sia del ricorso principale che di quello incidentale (avverso gli atti di gara presupposti) fa emergere:

- che la mancata trattazione del merito della causa in primo grado si è risolta in un ingiusto pregiudizio per la società ricorrente, la quale ha visto compresso il suo diritto di difesa (sub specie della violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunziato);

- e che la trattazione del merito della causa direttamente in appello si tramuterebbe in una seconda e non meno grave ingiustizia, in quanto la priverebbe di un grado di giudizio, in violazione del principio affermato dalla Corte Costituzionale, comprimendo ancora una volta - e inesorabilmente - il suo “diritto di difesa”.
I fautori della tesi secondo cui il rinvio al Giudice di primo grado è da escludere, sottolineano a supporto della loro teoria:

- che il Giudice di primo grado ha esercitato e consumato comunque il suo potere, anche con la semplice pronunzia di rito;
- e che l’interessato ha comunque avuto la possibilità di esperire entrambi i gradi di giudizio.

Ma tali argomenti non convincono del tutto e non appaiono decisivi.
Appare evidente, infatti, che essi si basano su una visione rigidamente formalistica della tutela giurisdizionale.
Ed invero, il fatto che il Giudice di primo grado abbia “deciso di non decidere” nel merito la causa, non significa affatto - sia consentito il gioco di parole - che abbia deciso in ordine alle questioni per le quali l’interessato agiva in giudizio; non significa affatto, cioè, che abbia deciso in conformità alla richiesta del soggetto invocante giustizia.
Se, poi, la “decisione di non decidere” nel merito la causa si rivela addirittura errata (tanto da essere annullata dal Giudice d’appello), non si vede come ad essa possa essere attribuita l’efficacia di pregiudicare proprio il soggetto nel cui interesse viene pronunciata.
Non si vede, cioè, come una pronunzia favorevole ad un soggetto possa finire con l’essere usata per comprimere una sua prerogativa, consistente nella facoltà (vero e proprio diritto potestativo) di beneficiare, per esporre le sue tesi, di due gradi di giudizio; e di ottenere una pronuncia da ciascuno degli Organi giurisdizionali adìti. Non si vede, infine, come ad una pronunzia errata e che perciostesso viene annullata, possa essere riconosciuta la forza di produrre effetti, posto che - di regola - ciò che è nullo non produce alcun effetto.
Né potrebbe rilevarsi che tale regola vale esclusivamente per gli atti nulli, ma non anche per quelli semplicemente annullabili.
E’ fin troppo noto, infatti, che per gli atti processuali la differenza fra nullità ed annullabilità non rileva, sicchè la regola secondo cui una sentenza annullata non può produrre effetti - e men che mai a carico del soggetto nel cui interesse (e sulla cui sollecitazione) sia pronunziato l’annullamento - appare adatta a disciplinare la fattispecie.
Sicchè, in definitiva, la diretta trattazione (e decisione) della causa da parte del Giudice d’appello che annulli la sentenza con cui il Giudice di primo abbia pronunziato (senza entrare nel merito delle doglianze) l’inammissibilità e/o l’improcedibilità del ricorso, appare lesiva del diritto di difesa, sotto più profili intimamente connessi:
- perché finisce paradossalmente con il privare l’interessato - ancorchè ‘vittorioso’ (siccome beneficiario di una sentenza di accoglimento in ordine alla sua domanda di annullamento della sentenza di mero rito) - di un grado di giudizio (e cioè di una sua “arma processuale”, di una sua facoltà), tramutando così inspiegabilmente la sua ‘vittoria’ (seppur riferita ad un punto della controversia), in una sostanziale ‘perdita’ di chance e/o comunque in una compressione di un suo diritto costituzionalmente garantito (quello, come si è già visto, di esercitare pienamente il contraddittorio innanzi a due giudici), e dunque, in ultima analisi, in una deminutio anziché in un vantaggio; ciò che contraddice incomprensibilmente e macroscopicamente la funzione giustiziale alla quale il processo è volto;
- e perché finisce con il sottrarre parte della causa al giudice naturale, funzionalmente competente, precostituito per legge, avallando una ‘ingiusta’ - ed ancora una volta paradossale (per le medesime ragioni sopra esposte) - violazione del principio devolutivo, in forza del quale il Giudice è chiamato a pronunziare sull’intero thema decidendum - nulla escluso - introdotto (e dunque “incardinato”) dalla domanda giudiziale proposta proprio dall’interessato.
1.2.1.2. Quanto sopra premesso, l’attenzione può dunque essere appuntata sulla questione sub b), consistente - come già anticipato - nel verificare se la pronunzia con cui il Giudice di primo grado abbia dichiarato l’inammissibilità o l’improcedibilità di una domanda giudiziale (rinunciando, dunque, all’esercizio ulteriore del potere giurisdizionale per stabilirne la fondatezza nel merito), possa essere assimilata ad una ipotesi di “declinazione” - latu sensu intesa - della giurisdizione.

Valgano, al riguardo, le seguenti riflessioni.
Secondo un orientamento di pensiero che ha una indubbia consistenza logica, anche le pronunzie di rito - quali sono quelle di inammissibilità e di improcedibilità - costituiscono espressione di concreto esercizio del potere giurisdizionale. Secondo tale orientamento, sembrerebbe, pertanto, non potersi negare che il Giudice che adotti sentenze di tal genere “consuma” comunque il suo potere; e che pertanto in tali casi non ricorra affatto l’ipotesi di c.d. “declinazione della giurisdizione” prevista dall’art.105 del codice del processo amministrativo (ipotesi a fronte della quale il Giudice d’appello che si trovasse a decidere su un eventuale gravame, avrebbe l’obbligo di rimettere la questione a quello di primo grado).
Ma ove si analizzi la questione con maggior attenzione, emerge - anche a prescindere da quanto già rilevato nel precedente Capo in ordine alla tesi concernente la pretesa “consumazione” del potere da parte del Giudice di prima istanza - che la soluzione del dubbio proposto non è così agevole e lineare.
Nella teoria generale del processo la più risalente (ed ormai troppo poco ricordata, ma sempre valida) dottrina distingueva, seppur nell’ambito della più vasta categoria delle sentenze di rito, fra le sentenze di irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità (sussumibili, tutte, in un unico “gruppo”), e le “decisioni di non luogo a procedere” (cc.dd. pronunzie di “fin de non recevoir”, secondo un’antica espressione, mutuata dal sistema francese, al quale, del resto, anche quello italiano si ispira).
Ed invero:
- mentre le prime (quelle inquadrabili nel primo gruppo) costituiscono il culmine (e l’epilogo) di un percorso logico nell’ambito del quale il Giudice ha comunque conosciuto (e dovuto conoscere) gli specifici termini giuridici della questione (ed è dunque “entrato nel merito” della vicenda giuridica, seppur sommariamente ed al solo fine di accertare la sussistenza, in concreto, dei presupposti processuali e delle cc.dd. “condizioni dell’azione”);

- nelle pronunzie di non luogo a procedere il decidente non effettua alcuna valutazione in ordine a tali elementi, limitandosi a prendere atto dell’esistenza di una “preclusione di fondo”, di carattere logico - declinabile, dunque, in astratto, alla stregua di una regola valida, per così dire, in assoluto - che impedisce già sul piano teorico (e cioè “in tesi”) di esaminare la questione.

Mentre con le decisioni di rito del primo tipo - che possono essere definite “decisioni di rito a contenuto certatorio” (in quanto, come già cennato, presuppongono comunque un’attività di accertamento) - il Giudice fornisce un suo apporto decisorio personale, derivante dalla percezione che Egli ha dei fatti esaminati, dedotti in giudizio; con le pronunzie di non luogo a procedere il Giudice rifiuta ab origine, in ragione di un impedimento di fondo che ritiene tranciante, di “prendere in carico” la causa; ovvero, per dirla in termini logico-filosofici, “sospende il giudizio”.

Ad avviso del Collegio, pronunzie di tal genere non differiscono troppo (rectius: in maniera rilevante) nel contenuto e nell’effetto (quantomeno immediato), dalle decisioni “declinatorie della giurisdizione”.
In altri termini, non sembra che si incorra in un errore logico-giuridico ove si affermi che nell’ambito della generale categoria delle sentenze declinatorie della giurisdizione rientrano:

- sia quelle nelle quali il Giudice rifiuta di decidere in quanto ritiene che il potere giurisdizionale spetti ad altra Autorità giudiziaria;
- sia quelle nelle quali il Giudice rifiuta di decidere la causa, in quanto ritiene che non sussistono i presupposti o le condizioni, o esiste qualche impedimento, per l’esercizio del potere giurisdizionale.
Ora, nella fattispecie dedotta in giudizio la situazione verificatasi è esattamente quella in ultimo descritta.
Il Giudice di primo grado non ha pronunziato l’inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti (avverso il provvedimento di revoca dell’aggiudicazione e di ritiro degli atti di gara), per un motivo attinente alle condizioni dell’azione (dunque riferentesi all’interesse ad agire, alla legittimazione processuale o all’astratta esistenza dell’interesse legittimo) promossa dalla ricorrente, né per fatti che rivelassero un difetto nei presupposti processuali (dunque riferentesi alla regolare composizione del Collegio, all’eventuale sussistenza di cause di incompatibilità, etc.), ma semplicemente perché ha ritenuto che il “tipo” di atto processuale utilizzato dal soggetto postulante (id est: la “formula schematica”) non fosse correttamente qualificabile in termini di “domanda giudiziale”; e che pertanto la stessa non fosse “ricevibile” e non fosse quindi idonea ad innescare il meccanismo processuale che attiva l’esercizio del potere giurisdizionale.
Sembra pertanto al Collegio che nel caso dedotto in giudizio, come in quelli ad esso assimilabili, ricorra l’ipotesi di una pronunzia sostanzialmente declinatoria della giurisdizione, annullata la quale occorre perciostesso, ai sensi dell’art.105 del codice del processo amministrativo, rinviare la causa al Giudice di primo grado perché eserciti il potere giurisdizionale che funzionalmente gli compete.
E ciò a maggior ragione ove si ritenga che la formula utilizzata dal Legislatore sia ambigua, essendo evidente che l’interpretazione che deve prevalere è quella che assicura maggior tutela possibile al cittadino e maggior giustizia.
1.2.1.3. Esaurita anche la seconda questione, non resta che trattare quella sub c), consistente nel verificare se la statuizione con cui il Giudice d’appello “riformi” la sentenza di inammissibilità o di improcedibilità emessa dal Giudice di primo grado, debba essere ritenuta - al di là del nomen juris utilizzato nel dispositivo - una vera e propria “sentenza di annullamento”; e, in caso affermativo, se possa essere assimilata ad una sentenza “dichiarativa di nullità”, ad una statuizione, cioè, a fronte della quale il Giudice d’appello deve rinviare, per il prosieguo del giudizio, gli atti al Giudice di primo grado ai sensi dell’art.105 del codice del processo amministrativo.
Tale norma prescrive testualmente, infatti, che nel caso in cui il Giudice d’appello dichiara la nullità della sentenza appellata, deve rimettere la questione al giudice di prima istanza.

1.2.1.3.1. Al fine di tentare di sopire ogni dubbio al riguardo, il Collegio propone le seguenti riflessioni.
Spesso il Giudice d’appello utilizza, nel dispositivi delle sue sentenze, la formula “riformatoria” anziché quella “cassatoria” (o di annullamento).

Ma al di là del nomen juris utilizzato, non v’è dubbio che se la sentenza del Giudice d’appello produce l’effetto di eliminare dal mondo giuridico la sentenza di inammissibilità o di improcedibilità emessa dal Giudice di primo grado, si è in presenza di un vero e proprio annullamento totale della sentenza scrutinata (non restandone ‘vigente’ ed efficace alcuna ulteriore parte).

Per il resto, è stato evidenziato in teoria generale che nell’ambito del sistema processuale amministrativo la differenza fra la sentenza con la quale il Giudice di appello “dichiara la nullità” e la sentenza con la quale, invece, pronunzi l’”annullamento” di una sentenza appellata, si appalesa poco incisiva: tanto l’una che l’altra hanno, infatti, il medesimo effetto ripristinatorio (e l’efficacia è sempre retroattiva).

Ove, poi, come nel caso di specie, la sentenza sulla quale cadono gli strali della pronunzia cassatoria del Giudice di secondo grado sia una sentenza di mero rito, la differenza (fra una pronunzia formalmente congegnata come “sentenza dichiarativa” ed una pronunzia congegnata come “sentenza costitutiva”) si attenua ulteriormente, non essendo ravvisabili - nelle rispettive diverse ipotesi - effetti diversi.

Non a caso, del resto, nella prassi giudiziaria le formule finiscono per equivalersi, posto che fra dichiarare nulla una sentenza di inammissibilità o di improcedibilità, ovvero procedere al suo annullamento, non vi è alcuna pratica differenza (e se qualcuna ve n’è, si rivela irrilevante).
Se tutto quanto sopra osservato è vero, vi sono plausibili ragioni per ritenere che allorquando il Legislatore ha prescritto (con l’art.105 del codice del processo amministrativo) che il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado ogniqualvolta “dichiara la nullità della sentenza” appellata, abbia inteso usare una formula ‘omnicomprensiva’; abbia inteso riferirsi, cioè - esclusi, com’è evidente, i casi di “riforma” di statuizioni di merito della pronunzia di primo grado (per i quali non si pone alcuna questione) - non soltanto ai casi in cui la sentenza del giudice di primo grado venga annullata per vizi propri, ma anche ai casi in cui la “riforma” della sentenza equivalga al suo annullamento o alla dichiarazione della sua nullità. In altri termini - ed a ben guardare - nulla impedisce di ritenere che nel prescrivere che il Giudice di appello deve rinviare la causa (per la decisione) a quello di primo grado ogniqualvolta “dichiara la nullità della sentenza”, il Legislatore si sia riferito anche ai casi di “cassazione” - questo sarebbe il giusto termine tecnico da utilizzare - delle sentenze di improcedibilità e di inammissibilità.

1.2.1.3.2. Né potrebbe opporsi, al riguardo, che se così fosse il Legislatore avrebbe dovuto sancirlo espressamente, posto che la norma espone una elencazione tassativa (e che dunque in essa avrebbe potuto trovare luogo il riferimento espresso anche ai casi di annullamento delle sentenze di inammissibilità e/o di improcedibilità fra quelli che impongono il rinvio della causa al Giudice di primo grado).

L’argomentazione non regge in quanto, a ben guardare, l’elencazione è completa proprio così come è stata formulata, mentre ulteriori specificazioni sarebbero state pleonastiche e ridondanti.
Ed infatti, una volta elencati i casi in cui, a fronte della “riforma” della sentenza appellata, il Giudice d’appello deve rinviare la causa al Giudice di primo grado, ed una volta prescritto espressamente che tale rinvio dev’essere effettuato anche nei casi di annullamento (rectius: di “dichiarazione di nullità”) della sentenza - fra i quali non possono che rientrare, per quanto già rappresentato e vista l’ampiezza della formula, anche le sentenze “cassatorie” di quelle di rito - non si vede la ragione per la quale la norma avrebbe dovuto indugiare ulteriormente sulle sentenze di inammissibilità e di improcedibilità spiegando - a questo punto pleonasticamente - ciò che appare chiaro ed evidente di per sé (essendo già compreso della statuizione e comunque deducibile dalla stessa); e cioè che anche nel caso di annullamento di sentenze di tal genere è necessario il rinvio devolutivo. Se a ciò si aggiunge che il Legislatore ha anche specificato - con una norma che ha il sapore di una vera e propria “clausola di chiusura” - che il rinvio devolutivo al Giudice di primo grado va comunque effettuato ogniqualvolta si ventili la possibilità che sia stato leso il diritto di difesa (il che avviene certamente, per tutto quanto precedentemente osservato, nel caso di annullamento della sentenza che abbia deciso, erroneamente, solamente “in rito”), e dunque, a maggior ragione, che possa perpetrarsi una ulteriore lesione in tal senso (per sottrazione di un grado di giudizio), non si vede veramente cosa il Legislatore avrebbe dovuto e potuto dire di più, essendo fin troppo evidente la sua intenzione di operare una elencazione omnicomprensiva.

E volta alla maggior tutela possibile dei principii - peraltro costituzionalmente garantiti - dell’effettività del contraddittorio e del diritto di difesa, non a caso (e non certo inutilmente) espressamente menzionati nella norma in esame.
1.2.2. Da tutto quanto fin qui osservato, va tratta la conclusione che sussistono almeno tre autonome ragioni per le quali a fronte di casi come quello dedotto in giudizio (annullamento da parte del Giudice d’appello di una sentenzadi inammissibilità e/o di improcedibilità), occorre che la causa sia rinviata, per la decisione in ordine al merito delle questioni rimaste non trattate in primo grado, al competente Tribunale Amministrativo Regionale.

La prima è che ove ciò non avvenisse, verrebbe vulnerato - in violazione dell’art.105, primo comma, del codice del processo amministrativo, e soprattutto dell’art.125, secondo comma, della Costituzione - il diritto di difesa del ricorrente; verificandosi, in tal caso, la ingiusta sottrazione, alla sua disponibilità, di un grado di giudizio.

La seconda riguarda esclusivamente i casi - come quello dedotto in giudizio - in cui la mancata pronunzia di merito da parte del Giudice di primo grado si atteggia come “pronunzia di non luogo a procedere” (nel senso dapprima lumeggiato); di una pronunzia, cioè, che ben può essere assimilata (per quanto rilevato) ad una vera e propria declinatoria della giurisdizione, caso (ulteriore) in cui - per l’appunto - l’art.105 del codice del processo amministrativo impone la rimessione al Giudice di primo grado.

La terza ragione è che l’art.105 del codice del processo amministrativo impone il rinvio al Giudice di primo grado (perché decida nel merito nell’esercizio della sua competenza funzionale) in tutte le ipotesi in cui il Giudice d’appello - escluse quelle di riforma di statuizioni di merito (per le quali non si pone, all’evidenza, alcun problema di rinvio) - pervenga ad una pronunzia di nullità (o di annullamento) della sentenza appellata, il che certamente è quanto si verifica nel caso di pronunzia cassatoria della sentenza di inammissibilità o di improcedibilità. Prima di concludere, sia consentita un’ultima precisazione.

I fautori della tesi secondo cui il rinvio al Giudice di primo grado non sarebbe necessario, invocano - in limine ed in extremis - anche il principio di celerità dell’azione giurisdizionale (rectius: principio di ragionevole durata del processo). Ma neanche tale argomentazione appare dirimente.

L’art.111 della Costituzione stabilisce, fra l’altro (e per quanto qui interessa), che “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”; che “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale” e che “La legge ne assicura la ragionevole durata”.

Ne deriva - a ben leggere l’intera norma, senza scinderne il contenuto estrapolando solo l’ultimo lemma - che la esigenza di celerità non può essere considerata un valore idoneo a comprimere quello, declinato con pari forza dalla Costituzione, del rispetto delle regole del “giusto processo”, regole che comportano che il contraddittorio sia sempre assicurato e che il processo non si traduca in uno strumento di giustizia tanto veloce quanto sommario; né, comunque, in uno strumento atto a consentire la compressione di diritti di difesa, e men che mai - in funzione incomprensibilmente “punitiva” - in pregiudizio di chi abbia dimostrato l’erroneità (e dunque l’ingiustizia) della sentenza di primo grado proprio per la mancata trattazione, in quella fase processuale, delle doglianze di merito.

D’altro canto nel sistema della giustizia amministrativa, l’art. 125, secondo comma, della Costituzione ha introdotto - nei sensi e nei limiti già indicati - il c.d. “doppio grado generalizzato” di giudizio, che pertanto è stato elevato a valore costituzionale specifico; e perciostesso non suscettibile di deroga da parte di norme di rango costituzionale a carattere più generale, se non addirittura programmatico, quale è quella - massimamente commendevole nell’intento (ma che necessita di un’equilibrata attuazione) - sulla c.d. ragionevole durata del processo.

Non si vede, dunque, come sia possibile massimizzare il valore costituzionale della celerità del processo, a tal punto da far recedere al suo cospetto il valore del rispetto dei principii del giusto processo, essendo (per contro) evidente che - assiologicamente - il primo è funzionale al secondo (in quanto eziologicamente volto a realizzarlo compiutamente).

Né, al riguardo, è decisivo il richiamo all’art. l’art. 6, par. 1, Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in base al quale “Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un Tribunale indipendente e imparziale costituito per legge”.

Non appare revocabile in dubbio, infatti, che anche tale norma ha la funzione di assicurare al cittadino che chiede giustizia un processo veloce, ma “giusto”, obiettivo che certamente non si persegue ove gli si sottragga d’imperio un grado di giudizio.
Ed a maggior ragione - lo si ribadisce - se tale punitivo “trattamento” gli venga (contraddittoriamente) riservato non ostante si sia visto accogliere l’appello nel quale (e riconoscere fondata la doglianza con cui) lamentava di non aver ottenuto giustizia proprio per la mancata trattazione nel merito, nel precedente grado di giudizio, delle sue doglianze. Il che sembra assumere il carattere di una paradossale beffa.
E ciò pur volendo prescindere dalla elementare e conclusiva osservazione - basata sul senso comune, prim’ancora che su ogni altra considerazione d’ordine giuridico - che tra una sentenza errata pronunziata a seguito di una delibazione veloce e sommaria ed una sentenza giusta pronunziata tardivamente, è comunque meno pregiudizievole per il cittadino quella che maggiormente ha impegnato, nella puntuale e coscienziosa ricerca della verità, la professionalità del Giudice.
Il che significa che, allo stato dell’organizzazione giustiziale, tra il valore della velocità processuale ed il valore della giustizia processuale - che, beninteso, devono essere perseguiti entrambi - non può che prevalere il primo.
1.3. Il Collegio non ignora che analoghe questioni a quella qui esaminata sono state già rimesse all’Adunanza Plenaria, e da questa non ancora decise, dalle Sez. IV e V.
E poiché sembra che le questioni sopra illustrate poggino su profili di riflessione diversi rispetto a quelli sopra illustrati, il Collegio reputa opportuna una trattazione congiunta di tutti i quesiti formulati, in modo da evitare che taluni dubbi applicativi possano rimanere insoluti e che altri possano immediatamente riemergere.
2. Per tutte le considerazioni che precedono, il Collegio rimette all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art.99, primo comma, del codice del processo amministrativo, anche al fine di prevenire contrasti di giurisprudenza, le seguenti questioni:
a) se l’annullamento della sentenza di inammissibilità e/o di improcedibilità, disvelando che l’omessa trattazione del merito della causa in primo grado ha determinato una ingiusta compressione e dunque lesione del ‘diritto di difesa’ del ricorrente - lesione che verrebbe ulteriormente perpetrata, per la sottrazione alla sua disponibilità di un grado di giudizio, ove la causa fosse trattata (nel merito) direttamente dal Giudice d’appello - non determini la necessità di rinviare la causa, ai sensi dell’art.105 del c.p.a., al Giudice di primo grado;

b) se la pronunzia con cui il Giudice di primo grado abbia dichiarato l’inammissibilità o l’improcedibilità di una domanda giudiziale (rinunciando, dunque, all’esercizio ulteriore del potere giurisdizionale per stabilirne la fondatezza nel merito), possa essere assimilata - ai fini dell’applicazione dell’art.105, primo comma, del c.p.a. e per gli effetti devolutivi ivi previsti - ad una ipotesi di “declinazione” (pur se latu sensu intesa) della giurisdizione;

c) se la statuizione con cui il Giudice d’appello “riformi” la sentenza di inammissibilità o di improcedibilità emessa dal Giudice di primo grado debba essere ritenuta - al di là del nomen juris utilizzato nel dispositivo - una vera e propria “sentenza di annullamento”; e se una “sentenza di annullamento” (di una pronuncia di inammissibilità o di improcedibilità) possa essere assimilata ad una sentenza “dichiarativa di nullità” in esito alla quale occorre rinviare la causa al primo giudice, ai sensi dell’art.105 c.p.a., perché decida nel merito le questioni precedentemente non trattate.

Se quindi, in definitiva, la sentenza d’appello che accerti la erroneità della declaratoria di inammissibilità e/o di irricevibilità del ricorso, comporti l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado, ex art. 105 c.p.a
3. In conclusione, in considerazione delle superiori osservazioni, l’appello va accolto in parte; e, per l’effetto, la sentenza appellata va annullata nelle parti in cui dichiara la inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti e della improcedibilità dei ricorsi principale ed incidentale, mentre va riservata all’esito della decisione dell’Adunanza Plenaria, ogni ulteriore e definitiva decisione in ordine ai motivi riproposti nel presente grado di giudizio e/o alla questione del rinvio della causa al Giudice di primo grado ai sensi dell’art.105 c.p.a.

Allo stesso modo è riservata all’esito della decisione dell’Adunanza Plenaria ogni decisione in ordine alle spese ed onorari del presente giudizio.

P.Q.M.


Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede

giurisdizionale, non definitivamente pronunciando sull'appello:
- accoglie in parte l’appello, nei sensi e nei limiti indicati in motivazione, e deferisce all’Adunanza Plenaria le questioni ivi indicate;
- manda alla Segreteria della Sezione per gli adempimenti di competenza; e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo e della presente sentenza ai competenti Organi;
- riserva all’esito della decisione dell’Adunanza Plenaria ogni ulteriore decisione, ivi compresa quella in ordine alle spese ed onorari del presente giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Guida alla lettura

Con quattro distinti provvedimenti l’Adunanza plenaria è chiamata a pronunciarsi sull’art. 105 c.p.a. e, precisamente, se le ipotesi di annullamento in appello con rinvio al giudice di primo grado previste dalla norma in esame siano tassative oppure siano suscettibili di comprendere declaratorie di inammissibilità, di improcedibilità e di irricevibilità del ricorso, nonché totali omissioni di pronuncia su un’intera azione.

Questi i quesiti.

- Cons. Stato, Sez. IV, 5 aprile 2018, n. 2122:

a) se alle ipotesi di annullamento con rinvio di cui all’art. 105 c.p.a. debba attribuirsi portata tassativa ovvero natura di clausola generale suscettibile di essere riempita, nel contenuto, attraverso l’elaborazione giurisprudenziale;

a.1) nel primo caso, quali siano le ipotesi di annullamento con rinvio da intendersi come tassative;

a.2) nel secondo caso, quali siano i criteri che devono guidare il giudice nell’attività di interpretazione dei fatti processuali, onde qualificarli come cause di annullamento con rinvio;

b) se, alla luce della nuova nomenclatura contenuta nel vigente art. 105 c.p.a., l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse debba (o possa) essere ricompresa nella categoria della lesione dei diritti della difesa, come perdita del (normativamente previsto) doppio grado di giudizio nel merito, con conseguente annullamento della sentenza con rinvio al primo giudice;

c) anche a prescindere da tale ultima soluzione, se ed entro quali limiti e secondo quali criteri possa riconoscersi al giudice di secondo grado il potere di sindacare il contenuto della motivazione dell’impugnata sentenza, al fine di riqualificare il (formale) dispositivo di declaratoria di inammissibilità per carenza di interesse in un (sostanziale) accertamento della violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) o dell’obbligo di motivazione (artt. 74 e 88 c.p.a.), intesa - questa - come elemento essenziale della sentenza, rispetto all’oggetto del processo;

b.3) se dette ultime ipotesi costituiscano (o a quali condizioni possano costituire), rispettivamente, lesione dei diritti della difesa o ipotesi di nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a.

 

- Cons. Stato, Sez. V, 10 aprile 2018, n. 2161:

quali le conseguenze processuali derivanti dall’errato accoglimento in primo grado dell’eccezione pregiudiziale rispetto al merito relativa alla ricevibilità del ricorso. In particolare, se, accertata in appello l’erroneità della dichiarazione di irricevibilità del ricorso di primo grado, consegue la ritenzione del giudizio da parte del giudice di appello, nei limiti di quanto ad esso devoluto, oppure può ritenersi che l’ipotesi in questione sia riconducibile al caso della violazione del diritto di difesa per il quale, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a., si impone l’annullamento della sentenza di primo grado con rinvio al Tribunale amministrativo.

 

- Cons. G.A. Reg. Sic., 17 aprile 2018, n. 223:

a) se l’annullamento della sentenza di inammissibilità e/o di improcedibilità, disvelando che l’omessa trattazione del merito della causa in primo grado ha determinato una ingiusta compressione e dunque lesione del ‘diritto di difesa’ del ricorrente - lesione che verrebbe ulteriormente perpetrata, per la sottrazione alla sua disponibilità di un grado di giudizio, ove la causa fosse trattata (nel merito) direttamente dal Giudice d’appello - non determini la necessità di rinviare la causa, ai sensi dell’art. 105 del c.p.a., al Giudice di primo grado;

b) se la pronunzia con cui il Giudice di primo grado abbia dichiarato l’inammissibilità o l’improcedibilità di una domanda giudiziale (rinunciando, dunque, all’esercizio ulteriore del potere giurisdizionale per stabilirne la fondatezza nel merito), possa essere assimilata - ai fini dell’applicazione dell’art. 105, primo comma, del c.p.a. e per gli effetti devolutivi ivi previsti - ad una ipotesi di “declinazione” (pur se latu sensu intesa) della giurisdizione;

c) se la statuizione con cui il Giudice d’appello “riformi” la sentenza di inammissibilità o di improcedibilità emessa dal Giudice di primo grado debba essere ritenuta - al di là del nomen juris utilizzato nel dispositivo - una vera e propria “sentenza di annullamento”; e se una “sentenza di annullamento” (di una pronuncia di inammissibilità o di improcedibilità) possa essere assimilata ad una sentenza “dichiarativa di nullità” in esito alla quale occorre rinviare la causa al primo giudice, ai sensi dell’art.105 c.p.a., perché decida nel merito le questioni precedentemente non trattate.

Se quindi, in definitiva, la sentenza d’appello che accerti la erroneità della declaratoria di inammissibilità e/o di irricevibilità del ricorso, comporti l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado, ex art. 105 c.p.a.

 

-Cons. Stato, Sez. III, 24 aprile 2018, n. 2472:

se, qualora il giudice di primo grado abbia omesso del tutto la pronuncia su una delle domande del ricorrente (nella specie l’azione di risarcimento del danno, conseguente all’annullamento dei provvedimenti impugnati), la controversia debba essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado, in coerenza con l’effetto devolutivo dell’appello e con la regola della tassatività delle ipotesi di rinvio al primo giudice, oppure, in alternativa, la causa debba essere rimessa al Tar, valorizzando la portata anche sostanziale della nozione di “violazione del diritto di difesa” e il principio costituzionale del doppio grado, anche alla luce della circostanza che la radicale e immotivata omissione di pronuncia avrebbe effetti equivalenti a quelli di una decisione adottata d’ufficio, in violazione del contraddittorio con le parti, stabilito dall’art. 73, comma 3, del c.p.a.

***

Gli esaminati quesiti sull’art. 105 c.p.a. sono stati suscitati da un recente cambiamento giurisprudenziale. In particolare, con la sentenza n. 33 del 24 gennaio 2018, il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana in merito ad una domanda risarcitoria, dichiarata tardiva dal Tar con conseguente pronuncia d’irricevibilità del ricorso introduttivo, è andato di contrario avviso ritenendola invece tempestiva con annullamento della sentenza impugnata e rimessione al giudice di primo grado ai sensi dell’art. 105 c.p.a. In sostanza, il giudice siciliano ha ritenuto che l’erronea pronuncia in rito di primo grado si è risolta in una lesione del diritto delle parti ad una decisione del merito.

Tale ipotesi, sebbene non sia testualmente ricompresa nel catalogo dell’art. 105 c.p.a., sui casi di rimessione al primo giudice, vi rientrerebbe attraverso la categoria e lo spazio della lesione del diritto di difesa, di cui è invece fatta menzione.

Infatti, ad avviso del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, l’art. 105 c.p.a. costituisce il punto di sintesi, raggiunto dal legislatore del 2010, tra esigenze e visioni differenti: da un lato il principio, peraltro non assoluto, del doppio grado di giurisdizione, che conduce a prevedere l’annullamento con rinvio in una serie di casi in cui più forte è l’esigenza di garantire la riproduzione di un giudizio sul merito della controversia; dall’altro le ragioni di celerità della definizione del processo, che militano a favore della regola, prevalente ma non assoluta, della ritenzione della causa presso il giudice dell’appello, anche laddove la sentenza di primo grado sia riformata.

Se l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado costituisce una deroga a tale regola generale, è anche vero che il codice del 2010, ancor più della l. Tar del 1971, ha fatto riferimento a “categorie generali” – come per l’appunto la lesione del diritto di difesa – che possono prestarsi ad un’interpretazione più ampia, rispetto al passato.

Successivamente, anche la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, (12 marzo 2018, n. 1535) ha annullato con rinvio al giudice di primo grado una sentenza che aveva omesso totalmente di pronunciarsi in ordine alla domanda risarcitoria. Nel caso di specie l’adito Tribunale aveva dichiarato l’improcedibilità della domanda di annullamento presentata unitamente a quella risarcitoria, ma su quest’ultima non si era affatto pronunciata. Secondo la Quarta Sezione tale omissione impone la regressione della causa al giudice di primo grado in quanto l’obliterazione, non di una censura, bensì di una intera domanda (come quella risarcitoria), avente carattere distinto ed autonomo rispetto a quella impugnatoria, costituisce causa di annullamento con rinvio, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a. Inoltre, sempre ai sensi dell’art. 105 c.p.a., nel processo amministrativo, a differenza che nel processo civile, l’integrale violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato rientra a pieno titolo nei casi in cui il principio devolutivo cede il passo al principio del doppio grado di giudizio stabilito dall’art. 125 Cost. Invero, per un verso, si è di fatto declinato l'esercizio di giurisdizione su una delle domande proposte; per altro verso, si è inciso sul diritto di difesa della parte ricorrente.

Le pronunce testé esaminate rappresentano un significativo discostamento dal consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, pure ampliando il dettato normativo dell’art. 105 c.p.a., occorre distinguere tra vizi del procedimento di primo grado tali da comportare l'annullamento della decisione in quanto lesivi del contraddittorio e quindi del diritto di difesa, con contestuale rinvio della controversia al giudice di prima istanza, da vizi del procedimento che possono essere emendati dal giudice di appello con la decisione nel merito della causa.

A fronte del contrasto giurisprudenziale che si è aperto, più collegi hanno ritenuto di investire l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ai sensi del disposto dell’art. 99, comma 1, c.p.a. che obbliga a deferire il punto di diritto oggetto di contrasti.

I motivi che hanno indotto alla rimessione sono diversi, ma ciascun provvedimento è interessante per il percorso logico-giuridico seguito, per la copiosa giurisprudenza richiamata con riferimento al previdente art. 35 della l. n. 1034 del 1971 e al vigente art. 105 c.p.a., per la lettura che viene data di principi fondamentali messi a confronto quali, tra gli altri, il diritto di difesa e la ragionevole durata del processo.

Nel primo caso (sentenza non definitiva n. 2122 del 5 aprile 2018), la Quarta Sezione ha disposto la riforma della sentenza gravata nella parte in cui ha dichiarato l’inammissibilità, per difetto di interesse, dei ricorsi introduttivi del giudizio (si trattava di due distinti ricorsi riuniti) e dei motivi aggiunti.

A proposito delle conseguenze sul piano processuale, e in relazione al disposto dell’articolo 105 c.p.a., dell’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso da parte del primo giudice, la Sezione ha individuato tre aspetti problematici: a) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la possibile lesione dei diritti della difesa, sub specie di privazione delle parti del doppio grado di giudizio, nel merito; b) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la possibile violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato; c) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la possibile violazione dell’obbligo di motivazione della sentenza[1].

La seconda rimessione (Cons. Stato, Sez. V, 10 aprile 2018, n. 2161), scaturisce dall’accertamento dell’erroneità della dichiarazione di irricevibilità del ricorso di primo grado. Alla luce del contrasto giurisprudenziale insorto tra l’orientamento tradizionale[2] secondo cui l’errore in questione non comporta il rinvio della causa al giudice di primo grado, ma la ritenzione del giudizio da parte del giudice di appello, nei limiti di quanto ad esso devoluto, ed un orientamento più recente, secondo cui l’ipotesi in questione sarebbe invece riconducibile al caso della violazione del diritto di difesa, per il quale ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a. si impone l’annullamento della sentenza di primo grado con rinvio al Tribunale amministrativo[3], si chiede, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato di pronunciarsi in sede nomofilattica ai fini di redimere il contrasto rilevato. L’orientamento del collegio rimettente è nel senso che sia mantenuto fermo l’indirizzo tradizionale, atteso il carattere tassativo delle cause di regressione del processo a quelle tipizzate nel più volte citato art. 105, comma 1, c.p.a. D’altronde,  osserva il collegio, tale soluzione sarebbe confermata sia tenendo conto che un’errata pronuncia in rito non può automaticamente essere ritenuta lesiva del diritto di difesa in giudizio, in particolare ogniqualvolta le facoltà difensive della parte soccombente sono state comunque esercitate con pienezza, ed essa abbia potuto fare valere ragioni contrarie all’accoglimento della questione in rito poi risultata risolutiva della controversia in primo grado. A conclusioni diverse, si deve pervenire quando la questione decisiva non sia mai stata sottoposta al contraddittorio delle parti e, in generale, ogni qualvolta è mancato il contraddittorio e vi è stata una compressione delle facoltà difensive della parte[4].

La questione, pertanto, viene prospettata dalla Quinta Sezione sotto l’esaminato profilo della lesione del diritto di difesa per “difetto di procedura” o “vizio di forma”, mentre si tralasciano le restanti ipotesi contemplate dalla disposizione in esame relative alla nullità della sentenza, all’errata declinatoria di giurisdizione, alla pronuncia sulla competenza o alla dichiarazione estinzione o perenzione del giudizio, poiché non rilevanti nella specifica fattispecie.

Il terzo provvedimento di rimessione è stato disposto dal Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana a seguito dell’annullamento della pronunzia di primo grado di inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti e di improcedibilità per sopravvenuta carenza d’interesse delle domande giudiziali proposte con il ricorso principale e con il ricorso incidentale. Una volta annullata in appello la pronunzia di inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti (proposto, in una controversia relativa ad una procedura ad evidenza pubblica, avverso la revoca dell’aggiudicazione e dell’intera procedura), è riemersa ed ha assunto nuovamente consistenza non soltanto l’interesse ad ottenere una pronunzia di merito in ordine alla legittimità della revoca, ma anche l’interesse ad ottenere una pronunzia di merito in ordine alla legittimità dell’aggiudicazione e degli atti di gara ad essa prodromici, nell’ipotesi ovviamente di accoglimento del ricorso per motivi aggiunti e, quindi, di annullamento della revoca dell’aggiudicazione.

La questione della conseguenze processuali alla declaratoria di erronea pronuncia di inammissibilità e di improcedibilità è stata esaminata dal collegio rimettente sotto tre profili.

Posto che l’adito Tar aveva dichiarato l’inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti, proposto avverso il provvedimento di ritiro dell’aggiudicazione e dell’intera gara, e l’improcedibilità del ricorso principale e di quello incidentale, proposti avverso gli atti di gara presupposti, la mancata trattazione del merito della causa in primo grado si è risolta per la ricorrente nella ingiusta lesione del suo diritto di difesa sia sotto il profilo della violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunziato, sia sotto il profilo della privazione di un grado di giudizio per la trattazione del merito della causa direttamente in appello.

Sotto un secondo profilo, la pronunzia con cui il giudice di primo grado ha dichiarato l’inammissibilità o l’improcedibilità della domanda giudiziale con rinuncia all’esercizio ulteriore del potere giurisdizionale per stabilirne la fondatezza nel merito, può essere assimilata ad una ipotesi di “declinazione” - latu sensu - della giurisdizione, rientrante, ad avviso del Consiglio di giustizia amministrativa, nell’ambito della generale categoria delle sentenze declinatorie della giurisdizione comprensiva sia di quelle nelle quali il giudice rifiuta di decidere in quanto ritiene che il potere giurisdizionale spetti ad altra Autorità giudiziaria, sia di quelle nelle quali il giudice rifiuta di decidere la causa, in quanto ritiene che non sussistono i presupposti o le condizioni, o esiste qualche impedimento, per l’esercizio del potere giurisdizionale[5].

Sotto un terzo ed ultimo profilo, il collegio remittente prospetta la questione nel senso di verificare se la statuizione con cui il giudice d’appello riformi la sentenza di inammissibilità o di improcedibilità emessa in primo grado, debba essere ritenuta - al di là del nomen juris utilizzato nel dispositivo - una vera e propria “sentenza di annullamento”; e, in caso affermativo, se possa essere assimilata ad una sentenza “dichiarativa di nullità”. Infatti, anche sotto tale aspetto, il giudice d’appello è tenuto a rinviare, per il prosieguo del giudizio, gli atti al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 105 del codice del processo amministrativo, il quale prescrive testualmente che nel caso in cui in appello sia dichiarata la nullità della sentenza appellata, la controversia deve essere rimessa al giudice di prima istanza.

Infine, con l’ordinanza del 24 aprile 2018, n. 2472, la Terza Sezione del Consiglio di Stato ha affrontato un diverso caso rispetto a quelli già prospettati in sede di rimessione. Infatti, specifica controversia il giudice di primo grado aveva omesso del tutto la pronuncia su una delle domande del ricorrente (in particolare, l’azione di risarcimento del danno, conseguente all’annullamento dei provvedimenti impugnati). Analogamente alla Quinta Sezione del Consiglio di Stato, anche la Terza ritiene che sia preferibile l’orientamento tradizionale, più fedele alla lettera dell’art. 105 c.p.a. ed alla sua evidente finalità di accelerazione del giudizio, nel rispetto delle prerogative tipicamente processuali in cui si sostanzia il diritto di difesa.

Tuttavia, la specifica vicenda oggetto del giudizio concernente la totale omissione di pronuncia su un’intera azione (la domanda risarcitoria) ha determinato, con ogni evidenza, una diretta lesione del diritto di difesa (a differenza dell’erronea declaratoria di inammissibilità, irricevibilità o improcedibilità), perché ha provocato, nei confronti della parte ricorrente, effetti equivalenti a quelli della “pronuncia a sorpresa”, di cui all’art. 73 del c.p.a. In sostanza, si tratterebbe, ad avviso del collegio, dell’ipotesi in cui il giudice abbia posto a base della propria decisione una questione rilevata d’ufficio, senza prospettarla preventivamente alla dialettica tra le parti, arrecando un sicuro pregiudizio al diritto di difesa dell’interessato per avergli impedito di manifestare la propria posizione.

Pertanto, sarebbe plausibile concludere che, quando il giudice disattende del tutto l’azione proposta dal ricorrente, senza spiegarne le ragioni, lede, in modo ancora più vistoso, il diritto di difesa della parte interessata, che si vede privata di ogni possibilità di difesa in ordine ad una pronuncia sfavorevole, adottata al di fuori del prescritto contraddittorio.

 

 

[1] Per un commento sul presente provvedimento di rimessione all’Adunanza plenaria, v. A. Cerreto, Annullamento con rinvio nel processo amministrativo, Osservazioni alla sentenza C.G.A. n. 33 del 24 gennaio 2018, in www.giustizia-amministrativa.it, 2018.

[2] Da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 31 luglio 2017, n. 3809; Id., Sez. V, 23 gennaio 2018, n. 421; Id., Sez. VI, 18 dicembre 2017, n. 5955.

[3] V., oltre alle già citate sentenze Cons. giust. amm. Reg. Sic. n. 33/2018 e Cons. Stato, Sez. IV, n. 1535/2018, Cons. Stato, Sez. IV, 31 luglio 2017, n. 3809; Id., Sez. IV, 25 novembre 2013, n. 5595; Id., Sez. V, 19 novembre 2009, n. 7235.

[4] Cons. Stato, Sez. IV, 1° settembre 2017, n. 4167; Id., 10 luglio 2017, n. 3372; Id., 6 febbraio 2017, n. 491; Id., Sez. V, 16 febbraio 2017, n. 710; Id., Sez. VI, 19 giugno 2017, n. 2974.

[5] Sulla nozione di “rifiuto di giurisdizione”, peraltro, si segnalano le recenti decisioni della Corte di cassazione, Sez. un., 29 dicembre 2017, n. 41226, e della Corte cost. 18 gennaio 2018, n. 6, le quali - sia pure con percorsi diversi - escludono che l’omesso esame di una domanda possa configurarsi come questione di giurisdizione.