il punto della situazione

Iniziamo con l’esplorazione del quadro normativo.

L’art. 56, comma 1 del codice del processo amministrativo dispone che,  “in caso di estrema gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”, il ricorrente possa, mediante la domanda cautelare, ovvero con distinto ricorso notificato alle controparti, chiedere al presidente del T.A.R. o anche della sezione cui il ricorso è assegnato, di disporre misure cautelari provvisorie. Il comma successivo precisa poi,  a chiare lettere,  come il Presidente provveda con “decreto motivato non impugnabile”; tale decreto, ai sensi dell’art. 56, comma 4 c.p.a., in caso di accoglimento, vede perdurare la propria efficacia sino alla predetta camera di consiglio, nell’ambito della quale l’istanza cautelare formulata è trattata nelle forme ordinarie. Alla luce del medesimo comma, il decreto perde efficacia se il collegio non provvede sulla domanda cautelare nella menzionata camera di consiglio; inoltre, fintantoché efficace, il provvedimento cautelare è sempre revocabile o modificabile su istanza di parte.

E’ evidente, alla luce del dettato normativo vigente, il carattere precario,  oltre che provvisorio,  della tutela cautelare monocratica di cui trattasi, misura in quanto tale legata in senso strumentale alla tutela cautelare collegiale.
Trattando della misura cautelare in esame, peraltro, si riscontra un’analogia con le misure cautelari “ante causam” di cui all’art. 61 c.p.a., adottabili  in casi di “eccezionale gravità e urgenza” e del pari delineate sul piano normativo quali provvedimenti non impugnabili (cfr. art. 61, commi 4-5 c.p.a.).
Sempre sull’appellabilità delle misure cautelari si pronuncia poi il successivo art. 62 c.p.a. laddove, volendo attenersi strettamente al dettato normativo, si rende esplicito che l’appello al Consiglio di Stato è unicamente ammesso nei confronti delle ordinanze cautelari.
Lo stesso dettato legislativo di cui all’art. 56, comma 2 c.p.a. sembra quindi inequivocabile, nell’affermazione circa l’impossibilità di impugnare il provvedimento cautelare motivato con cui si esprime il presidente; appellabilità peraltro esclusa anche, implicitamente, dal successivo art. 62, comma 1 c.p.a., laddove, trattando degli atti impugnabili innanzi al Consiglio di Stato mediante ricorso in appello, non si fa menzione dei decreti.

La legge però non è mai chiara, specialmente quando sembra tale.
Eccoci allora al dibattito sul tema che ci appassiona.

I sostenitori dell'interpretazione letterale propendono per la “non impugnabilità” dei decreti e per la conseguente inammissibilità degli appelli relativi.
Ancora più radicale  la tesi sposata  dal CGA che, con decreto n. 455/2020, ha adottato un criterio ermeneutico ulteriormente limitativo, ritenendo l'appello avverso il decreto cautelare monocratico di rigetto come mezzo di impugnazione inesistente, da cui consegue la declaratoria di “non luogo a provvedere” anziché quella di inammissibilità. Per la misura cautelare monocratica presidenziale ex art. 56, infatti, la legge non prevede, né per il sistema processuale appare configurabile, la via di un distinto e autonomo appello, sicché ogni questione di revisione al riguardo va trattata nel medesimo grado della misura stessa, o con lo stesso mezzo o in occasione delle conseguente collegiale camera di consiglio definita con ordinanza appellabile (art. 62).
Lo stesso Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, si è più di recente espresso sulla specifica questione della impugnazione delle misure cautelari monocratiche,  rilevando, nel caso di specie, come nessuna previsione del Codice del processo amministrativo preveda ovvero consenta la richiesta in via autonoma di misure cautelari monocratiche in corso di causa, in assenza cioè della contestuale domanda principale di misure cautelari collegiali (cfr. C.g.a., 20 marzo 2021, n. 199).

Occorre,  tuttavia, registrare posizioni che, da qualche a tempo a questa parte-specie  in corrispondenza dell’esplosione della pandemia da Covid-19-, si sono espresse nel senso dell’ammissibilità (almeno parziale, se non eccezionale) dell’appello nei confronti del decreto cautelare.

A sostegno della pur eccezionale appellabilità di tali misure, si sottolinea l’esigenza di accedere a un’interpretazione  costituzionalmente e convenzionalmente orientata, sensibile al diritto alla difesa, alle sirene dell’effettività della tutela e alle indicazioni della Corte di Giustizia in tema di appalti.  Il dettato dell’art. 56 cit. p.a. va, pertanto, interpretato secondo ragionevolezza, in guisa da privilegiare la funzione cautelare quando l’esigenza provvisoria rappresentata sia, per la natura degli interessi coinvolti o per la specificità della statuizione della P.A., di natura tale da dover esser protetta senza neppure attenderne la trattazione collegiale in camera di consiglio, anche in sede d’appello. In questo quadro, il principio di tassatività delle impugnazioni esibisce margini di elasticità che lo rendono cedevole rispetto al disposto dell’art. 1 cpa, a tenore del quale “La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”. Ne consegue che la tutela giurisdizionale, anche nella sua essenziale fase parentetica, non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.
Depongono in tal senso  l'insegnamento della Plenaria (sentenze 1/1978 e 17/1982)  e del Giudice delle Leggi (8/1982), che, nel prevedere la necessaria appellabilità’ di ogni provvedimento decisorio anche cautelare, ha messo l’accento sulla previsione costituzionale  di organi di giustizia amministrativa di primo grado da cui si ricava la regola del controllo giurisdizionale del Consiglio di Stato su tutti i provvedimenti decisori dei medesimi, comunque incidenti sulla sfera giuridica dei soggetti.
In questo quadro si iscrive il decreto n. 5971/2018 reso dal Presidente della IV sezione del Consiglio di Stato, nell’ambito del quale, predicata l’appellabilità del decreto cautelare di primo grado, si è ritenuta la tutela monocratica del Consiglio di Stato quale unico strumento impiegabile al fine di garantire una effettiva tutela alla situazione di urgenza posta dal ricorrente. Di conseguenza, nel caso in questione, si è ritenuto ammissibile l’appello avverso decreto monocratico del presidente del T.A.R. esclusivamente in presenza di eccezionali ragioni d’urgenza, tali da rendere irreversibile la situazione di fatto in conseguenza del tempo intercorrente tra la data di emanazione del decreto appellato e la data fissata per la camera di consiglio volta all’esame della domanda cautelare, ad opera del T.A.R. in sede collegiale; a tale statuizione si è aggiunta la precisazione per cui “il presidente della sezione del Consiglio di Stato, se ritiene di accogliere l'appello e di riformare il decreto impugnato, emette una misura che ha unicamente la finalità di evitare che una situazione di fatto diventi irreversibile e che comunque perde effetti quando il Tar esamina la domanda cautelare nell'ordinaria sede collegiale: il Tar, ove ritenga di non condividere il decreto reso in sede d'appello (pur se «confermato» dall'ordinanza del Consiglio di Stato in sede collegiale nella relativa peculiare fase incidentale), decide la domanda cautelare posta al suo esame, con la pienezza dei propri poteri”.
A giudizio del presidente, a ogni modo, “il decreto cautelare monocratico del presidente della sezione del Consiglio di Stato va comunque sottoposto all'esame del collegio e, nel caso di accoglimento dell'appello rivolto contro il decreto del Tar, egli deve fissare senza indugio la camera di consiglio collegiale del Consiglio di Stato, affinché il collegio valuti (qualora il Tar non si sia già pronunciato in sede collegiale) se ribadire o meno le statuizioni del presidente, fermo restando in ogni caso il potere del Tar di decidere anche successivamente la fase cautelare, con le conseguenze sopra indicate”.

Questo indirizzo del giudice amministrativo nel senso dell’ammissibilità dell’impugnazione del decreto presidenziale cautelare (in particolare Cons. St., sez. III, decr. n. 5650/2014 e sez. IV n. 5971/2018) e’ stato ripreso nel periodo emergenziale in cui in misura crescente, come detto, s’è avvertita l’esigenza di assicurare l’effettività della tutela giurisprudenziale a fronte della possibile compromissione in via irreversibile, nei tempi tecnici del procedimento cautelare previsti sul piano normativo, del bene della vita avente una rilevanza costituzionale.
In particolare, nel marzo dello scorso anno, all’esordio dell’emergenza epidemiologica, il presidente della sezione III del Consiglio di Stato si è pronunciato con decreto sul tema rilevando in ordine all’ammissibilità dell’appello come il medesimo giudice avesse in precedenza ritenuto l’ammissibilità del gravame in questione “nei soli, limitatissimi, casi in cui l’effetto del decreto presidenziale del T.A.R. produrrebbe la definitiva e irreversibile perdita del preteso bene della vita, e che tale “bene della vita” corrisponda ad un diritto costituzionalmente tutelato dell’interessato”.

Tra le argomentazioni impiegate nell’ambito dell’orientamento in esame, certamente, rientra anche quella per cui l’appellabilità dovrebbe essere consentita laddove le censure proposte siano direttamente fondate sull’asserita violazione di principi di rango costituzionale. Il profilo cruciale dell’indirizzo  in questione è rappresentato, oltre che  dal riconoscimento di un'ipotesi eccezionale e limitata rispetto a una regola generale di inammissibilità dell'appello, dall’ affermazione di una eccezione, seppur circoscritta nella sua portata, in contrasto con il chiaro disposto della legge: la legge cioè detta una regola, quella della non impugnabilità del decreto cautelare, in termini generali e incondizionati, senza contemplare alcuna eccezione.

Va sottolineato poi il rilievo, mutuato dalla citata Plenaria del 1978,  per cui il regime di impugnabilità degli atti giurisdizionale pareva deve  essere ricavato non dal modello formale e, dunque, dalla natura dell’atto, bensì dal suo effettivo contenuto: di qui l’appellabilità dei decreti cautelari che, a dispetto del “nomen”, siano solo apparentemente tali in quanto definiscono in modo irreversibile la vicenda cautelare, esponendosi all’appello in base all’interpretazione logico-sistematica degli art. 125, 2° comma, 3, 1° comma, 100, 1° comma, e 103, 1° comma, Cost.
In questo senso, Cons. St., sez. III, 3 marzo 2021, n. 1031; Cons. St., sez. III, 11 gennaio 2021, n. 18, oltre che Cons. St., sez. III, 15 febbraio 2021, n. 749, che, rammentata la categoria dei “decreti meramente apparenti”, ha provveduto ad accogliere l’istanza cautelare proposta dalla Regione Umbria concernente il ripristino dell’efficacia dell’ordinanza di chiusura temporanea degli istituti per infanzia e nidi della Regione. Così, ancora, Cons. St., sez. III, 26 gennaio 2021, n. 304, laddove si è accolta l’istanza cautelare, sospendendo nei confronti degli appellanti l’esecutività del d.p.c.m. impugnato per la parte relativa all’obbligo per un minore infradodicenne di indossare la mascherina, quale d.p.i., a scuola durante l’orario scolastico.

Insomma un duello all’arma bianca, dal sapore rusticano, capitolo ulteriore,  e certo non ultimo, del conflitto infinito tra interpretazione letterale e interpretazione adeguatrice.
Dove la legge?
Dove la giustizia?
Quale il ruolo dell’interprete?