Consiglio di Stato, Sez. V, 27 aprile 2021, n. 3379

L’informazione antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa. Tale pericolo deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa.   

La sentenza in commento ripercorre i principali arresti interpretativi della giurisprudenza in materia di interdittive antimafia.

Le disposizioni contenute nel d.lgs. 159/2011 - ed in particolare l’istituto della informazione antimafia - sono volte, in chiave preventiva, a neutralizzare i fattori distorsivi derivanti da collegamenti qualificati con il crimine organizzato da parte di imprese/soggetti privati che intrattengono rapporti con la Pubblica amministrazione.

Il potere esercitato è espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata.

Si tratta di strumenti che si pongono a presidio di valori di rango costituzionale e funzionali alla salvaguardia dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, dello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra le stesse imprese nel mercato e del corretto utilizzo delle risorse pubbliche e che, a fronte della insidiosa pervasività e mutevolezza del fenomeno mafioso, sono opportunamente calibrati sull’utilizzo di tecniche di tutela anticipata, attivata ogni qualvolta siano riscontrate situazioni sintomatiche di pericoli di infiltrazione mafiosa.

La funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini (Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758).

Sul punto, l’Adunanza Plenaria, con sentenza n. 3/2018, ha chiarito che il provvedimento di cd. "interdittiva antimafia" ha natura cautelare e preventiva ed ha l’effetto di determinare una particolare forma di incapacità giuridica, consistente nella insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di quelle posizioni giuridiche soggettive che determinino rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione.

Sotto il profilo motivazionale, la misura interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo sull'esistenza della contiguità dell'impresa con organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa sussistere il tentativo di ingerenza nell'attività imprenditoriale della criminalità organizzata.

Il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere ad un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell'accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere "più probabile che non", appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa (v., per tutte, Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758; Cons. St., sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743).

Anche la Corte Costituzionale è intervenuta sul punto: con la pronuncia n. 57 del 2020, ha recentemente affermato la legittimità costituzionale del provvedimento di interdittiva anche quando incida su attività d'impresa di natura esclusivamente privata, trattandosi di misura giustificata dall'estrema pericolosità del fenomeno mafioso, in grado di compromettere la concorrenza, la dignità e la libertà umana.

In tale sede il giudice delle leggi ha riconosciuto il merito del giudice amministrativo di aver dato vita in questa specifica materia ad un sistema che la Corte definisce di «tassatività sostanziale», mediante la definizione di un nucleo consolidato di situazioni-tipo, sintomatiche ed indiziarie della ricorrenza del pericolo di infiltrazione mafiosa, e in grado di sviluppare e completare il dettato legislativo.

Tale lavoro interpretativo risulta particolarmente utile allo scopo cui è preposta la normativa in materia di prevenzione della corruzione, specie nelle ipotesi in cui le vicende “sospette” - anche quando definite da sentenza penale di proscioglimento o di assoluzione – facciano emergere valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa.

Lo stesso legislatore - art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 - ha riconosciuto quale elemento fondante l'informazione antimafia la sussistenza di "eventuali tentativi" di infiltrazione mafiosa " tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate". Tali locuzioni delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, che non deve necessariamente essere attuale, ma può essere anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori.

Ciò che si rivela dirimente è l’esistenza del fattore di rischio in sé, discrezionalmente valutato dall’autorità prefettizia, indipendentemente dalla possibilità di muovere uno specifico addebito al singolo imprenditore che, in teoria, potrebbe anche solo subire gli effetti di un condizionamento mafioso.

La citata legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di “tentativi” di infiltrazione mafiosa, ha fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa. E ciò in quanto il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca la portata della sua discrezionalità, da intendersi nel senso di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.

L’autorità amministrativa, in ossequio dei principî di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost. e in virtù del principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale).

Il condizionamento può discendere anche dalla sola connivenza con la mafia, o dall’aver subito intimidazioni o estorsioni tali da divenire permeabili alla sua forza intimidatoria.

Ai fini della legittima adozione della misura interdittiva, infatti, la posizione di soggetti compiacenti, cooperanti, collaboranti può essere sia attiva – e cioè mossa da interesse economico, politico o amministrativo - che passiva – e cioè derivante da omertà o dal timore della sopravvivenza propria e della propria impresa (cfr. Consiglio di Stato sez. III, 14/02/2018, n.965).

In base agli elementi raccolti e a prescindere dalla loro rilevanza penale, l’autorità prefettizia è chiamata ad operare una ricostruzione di insieme del quadro indiziario e valutare nel complesso le vicende sottoposte al suo esame, al fine di stabilire se sia configurabile l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata. (Consiglio di Stato, sez. III, 13/04/2018, n. 2231, Consiglio di Stato, sez. III, 18/04/2018, n. 2343; 30 marzo 2018, n. 2031; 7 febbraio 2018, n. 820; 20 dicembre 2017, n. 5978; 12 settembre 2017, n. 4295; dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 6 aprile 2018, n. 3).

Il giudice amministrativo è, a sua volta, chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia; il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della misura in esame.

LEGGI LA SENTENZA

N. 03379/2021REG.PROV.COLL.

N. 08567/2018 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8567 del 2018, proposto dalla -OMISSIS-in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Angelo Clarizia e Clemente Manzo ed elettivamente domiciliata presso lo studio del primo in Roma, Via Principessa Clotilde, n. 2,

contro

il Ministero dell’interno e l’Ufficio territoriale del governo di Caserta - Prefettura di Caserta, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato e con questa elettivamente domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, n. 12,

per la riforma

della sentenza del Tar Campania, sede di Napoli, sez. I, -OMISSIS-, che ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento del -OMISSIS-, con il quale il Prefetto di Caserta ha ravvisato la sussistenza delle situazioni di cui all’art. 84, comma 4, e all’art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011.

 

Visti il ricorso in appello e i rispettivi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno e della Prefettura di Caserta;

Viste le memorie depositate da -OMISSIS- in date 4 febbraio 2019, 14 febbraio 2019, 14 ottobre 2019, 24 ottobre 2019 e 8 febbraio 2021;

Vista la memoria depositata dal Ministero dell’Interno e dalla Prefettura di Caserta in data 4 febbraio 2019;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore della camera di consiglio del giorno 11 marzo 2021, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. 28 ottobre 2020 n. 137, il Consigliere Giulia Ferrari e uditi altresì i difensori presenti delle parti in causa, come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue

FATTO

1. La società -OMISSIS- di -OMISSIS- era stata attinta, in data 29 gennaio 2016, da un’informativa prefettizia ostativa che si fondava, tra l’altro, sulle risultanze di un’ordinanza di custodia cautelare a carico dell’amministratore unico -OMISSIS-, emessa nell’ambito di un procedimento penale concernente il reato di turbativa d’asta con l’aggravante di metodo mafioso. Tale provvedimento era stato annullato in autotutela il successivo 3 marzo 2016.

Anche altra società -OMISSIS- che aveva come amministratore unico il signor -OMISSIS- era stata attinta nel 2015, per gli stessi fatti, da informativa antimafia, impugnata dinanzi al Tar Napoli, che aveva accolto il ricorso con sentenza n. -OMISSIS-(sulla base della circostanza che l’ordinanza cautelare di arresto posta a fondamento dell’impugnata interdittiva fosse stata già annullata alla data di adozione del provvedimento), poi riformata dal giudice di appello (con sentenza n. -OMISSIS-), che ha escluso la sussistenza di una corrispondenza biunivoca tra atti dell’indagine penale ed elementi indiziari apprezzati dal Prefetto a fini interdittivi.

Nel 2017 la Prefettura di Caserta ha emesso interdittiva nei confronti della -OMISSIS- ed ha esaminato l’istanza di aggiornamento, presentata dalla -OMISSIS- per intervenuta archiviazione del procedimento penale a carico del -OMISSIS-, respingendola con provvedimento del -OMISSIS-.

2. La -OMISSIS- ha impugnato l’interdittiva del -OMISSIS- dinanzi al Tar Napoli che, con sentenza n. 4939 del 24 luglio 2018, ha respinto il ricorso.

3. La sentenza n. -OMISSIS-è stata impugnata con appello notificato il 26 ottobre 2018 e depositato il successivo 29 ottobre 2018.

La società appellante ha rilevato l’erroneità della sentenza impugnata deducendo, con un unico articolato motivo di gravame, la violazione e falsa applicazione degli artt. 84, 86 e 91, d.lgs. n. 159 del 2011, dell’art. 41 Cost. nonché l’eccesso di potere per difetto di istruttoria, errore nei presupposti, travisamento dei fatti, contraddittorietà e irragionevolezza.

La -OMISSIS- ha lamentato in primo luogo l’omessa pronuncia del Tar sulle principali censure formulate in primo grado, secondo le quali un’interdittiva antimafia non può fondarsi (sulla base di quanto disposto dall’art. 84 co. 4 D d.lgs. n. 159 del 2011), come invece sarebbe avvenuto nel caso di specie, su una sentenza del Consiglio di Stato (intervenuta in diverse circostanze di tempo e di fatto) e in carenza di elementi attuali e concreti circa la perduranza e/o la sussistenza del rischio di permeabilità̀ mafiosa.

Il provvedimento impugnato in primo grado difetterebbe inoltre del carattere di attualità del rischio infiltrativo, previsto dalla normativa di riferimento all’art. 91, comma 5, d.lgs. n. 159 del 2011 in quanto, rispetto alla precedente interdittiva del 2015, gli elementi sopravvenuti di novità sarebbero solo la sentenza n. -OMISSIS- del Consiglio di Stato, il successivo provvedimento di archiviazione n. 864 del 13 gennaio 2017 del GIP del Tribunale di Napoli che estromette definitivamente il signor -OMISSIS- dal procedimento penale e alcuni accertamenti della Questura di Caserta e della Guardia di Finanza, che escluderebbero rischi di infiltrazione mafiosa nei confronti della -OMISSIS-.

La società appellante ha censurato altresì l’utilizzo del criterio del “più probabile che non” da parte del Tar in quanto l’ipotesi formulata dalla Prefettura non raggiugerebbe in alcun modo la soglia della c.d. probabilità “cruciale” affermata dalla giurisprudenza, limitandosi a riprodurre il quadro già esaminato nei precedenti procedimenti, senza indicare elementi di novità ed evidenziare i comportamenti socialmente pericolosi della società. In tal modo si rischierebbe di trasformare l’istituto delle interdittive antimafia in una misura sanzionatoria e afflittiva, anziché di prevenzione.

Ha dedotto, infine, l’illogicità dell’interdittiva dal momento che era stata già attinta da tale provvedimento nel gennaio del 2016, annullato due mesi dopo in autotutela.

4. Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Caserta, che hanno sostenuto l’infondatezza, nel merito, dell’appello.

5. All’udienza dell’11 marzo 2021 tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n.137, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Come esposto in narrativa, oggetto della controversia è l’interdittiva antimafia, opposto, con provvedimento del -OMISSIS-, dalla Prefettura di Caserta per l’esistenza di elementi tale da far ritenere la società vicina alla criminalità consortile.

La società nel gennaio del 2016 era stata già attinta da provvedimento interdittivo antimafia della Prefettura di Caserta, che si basava, tra le altre cose, sulle risultanze dell’ordinanza cautelare, n. 331 del 7 luglio 2015, emessa dal Gip del Tribunale di Napoli, di arresto del legale rappresentante signor -OMISSIS-, in relazione ad una ipotesi di reato di turbativa d’asta con l’aggravante del metodo mafioso (formulata sulla base di intercettazioni di soggetti terzi e di deposizioni di collaboratori di giustizia), ordinanza annullata il 7 agosto 2015 dal Tribunale del riesame, che ha rilevato l’estraneità del-OMISSIS-dai fatti contestati.

Alla luce di tale circostanza nel marzo del 2016 la stessa Prefettura ha annullato in autotutela l’interdittiva.

Giova anche rilevare che, con decreto del 20 gennaio 2017, il G.I.P. di Napoli, in accoglimento di richiesta della Procura della Repubblica, ha disposto l’archiviazione del procedimento penale nei confronti del signor -OMISSIS-.

Nonostante tale fatto nuovo la Prefettura di Caserta ha adottato una nuova interdittiva, ritenendo non determinante l’archiviazione del procedimento penale, con argomentazioni che hanno fondato anche il diniego di aggiornamento e la nuova interdittiva a carico della -OMISSIS-

Tale ricostruzione del quadro fattuale e l’intreccio tra le vicende che hanno travolto l’-OMISSIS- e la -OMISSIS- spiega perché non è per nulla illogica e illegittima, come dedotto dall’appellante, la successiva rivisitazione, dal parte della Prefettura, della posizione della -OMISSIS- e l’adozione della nuova interdittiva, pur fondandosi la stessa sui medesimi fatti che erano stati oggetto della misura del 2015, peraltro alleggeriti dall’intervenuta archiviazione del procedimento penale a carico del -OMISSIS-. L’intervenuta sentenza del Consiglio di Stato n. 319 del 26 gennaio 2017 - che aveva riformato la sentenza n. -OMISSIS-di annullamento dell’interdittiva del 23 ottobre 2015 emessa dalla Prefettura di Napoli a carico della -OMISSIS- ben può avere, con le sue argomentazioni, convinto la Prefettura di Caserta a tornare sui propri passi e ad adottare la nuova interdittiva. Questo spiega anche il ripetuto richiamo nella interdittiva impugnata alla pronuncia del giudice di appello.

Non è dunque assecondabile l’assunto dell’appellante (pag. 17) secondo cui il Consiglio di Stato si sarebbe pronunciato su una precedente interdittiva, fondata su diverse circostanze di fatto e di tempo e non sulla situazione oggetto del presente contenzioso, caratterizzata da circostanze sopravvenute, che modificano profondamente il quadro antecedente. E’ vero, infatti, che in entrambi i casi l’interdittiva si appunta sulla figura di -OMISSIS-, che nelle due società occupa il ruolo centrale di amministratore unico, con la conseguenza che appare corretto che anche nella interdittiva del 2017 che ha colpito la -OMISSIS- ci siano ripetuti richiami alle affermazioni contenute nella sentenza n. -OMISSIS-, che può ritenersi ancora attuale nonostante dopo la celebrazione dell’udienza dinanzi al Consiglio di Stato, tenutasi il 12 gennaio 2017, con decreto del 20 gennaio 2017 il G.I.P. di Napoli, in accoglimento di richiesta della Procura della Repubblica, ha disposto l’archiviazione del procedimento penale nei confronti del signor -OMISSIS-.

Ed invero, come sarà meglio chiarito sub 4, la circostanza che il procedimento penale che vedeva coinvolto -OMISSIS- sia stato archiviato porta a concludere per l’assenza di un quadro probatorio certo, presupposto necessario per fondare una richiesta di rinvio a giudizio ma non per escludere l’adozione del provvedimento cautelare – e non sanzionatorio – dell’interdittiva, che si basa su elementi probabilistici della contiguità con ambienti della malavita organizzata.

Correttamente, quindi, il Tar Napoli ha richiamato tale sentenza che, in alcune sue statuizione, assume rilevanza anche nella presente causa (in primo e secondo grado), ma ancora prima nell’istruttoria compiuta dalla Prefettura di Caserta. Di qui la reiezione della censura, dedotta con l’unico motivo di appello, secondo cui “una sentenza del Consiglio di Stato non rappresenta uno degli elementi previsti dall’art. 84, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011 e quindi non può né fondare un giudizio interdittivo, né sostituire accertamenti o indagini di polizia, del tutto insussistenti nella specie” e “né ulteriori elementi possono essere riscontrati in sede processuale, proprio perché spetta alla Prefettura motivare il giudizio di permeabilità criminale e detta motivazione, se errata od insufficiente, non può certamente essere valorizzata sotto diversi profili in sede giudiziaria, occorrendo sempre il riesame amministrativo se la ricostruzione del provvedimento interdittivo risulta carente o fondata su elementi venuti meno nelle more. Quindi già per tale ragione l’interdittiva non poteva essere fondata sulla sentenza n. 319/2017 di Codesto Ecc.mo Consiglio di Stato.”.

2. Ciò premesso, l’appello non è suscettibile di positiva valutazione.

Prima di esaminare il merito della vicenda contenziosa, va ancora preliminarmente chiarito, con riferimento alle questioni sulle quali il giudice di primo grado avrebbe omesso di pronunciare, che – come l’Adunanza plenaria di questo Consiglio (ex plurimis, 30 luglio 2018, n. 10) ha stabilito – l’omesso esame della domanda non comporta la regressione del giudizio al primo grado, prevista in ipotesi tassative dall’art. 105, comma 1, c.p.a., ma impone al giudice dell’appello, per l’effetto devolutivo, di esaminarne il contenuto.

3. Passando al merito, giova ripercorrere i principi elaborati da una ormai consolidata giurisprudenza della Sezione, peraltro richiamata dal giudice di primo grado, che inquadra il provvedimento prefettizio interdittivo.

Come più volte affermato dalla Sezione (30 giugno 2020, n. 4168; 25 giugno 2020, n. 4091), la verifica della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (quale è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).

Ai fini dell’adozione dell’interdittiva occorre, da un lato, non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).

Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, “ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale” (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483).

Come ribadito dalla Sezione (27 dicembre 2019, n. 8883, riprendendo un ormai consolidato orientamento del giudice di appello), l’informazione antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa. Tale pericolo deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa.

Ha aggiunto la Sezione (n. 8883 del 2019) che lo stesso legislatore – art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 – ha riconosciuto quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di questi ad influenzare la gestione dell’impresa sono nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzato, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori.

Ha ancora chiarito la Sezione (5 settembre 2019, n. 6105) che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di “tentativi” di infiltrazione mafiosa, ha fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati” (quelli dell'art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f), d.lgs. n. 159 del 2011), ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.

L’annullamento di qualsivoglia discrezionalità nel senso appena precisato in questa materia, che postula la tesi in parola (sostenuta, invero, da autorevoli studiosi del diritto penale e amministrativo), prova troppo, del resto, perché l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa.

Quest’ultima invece, anzitutto in ossequio dei principî di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito (v., sul punto, Cass., Sez. Un., 4 gennaio 2018, n. 111).

Il giudice amministrativo è, a sua volta, chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della misura in esame.

Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto divenga, appunto, una “pena del sospetto” e che la portata della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio.

La funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi (Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758).

Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza De Tommaso c. Italia, consiste anzitutto nel «tenere il passo con il mutare delle circostanze» secondo una nozione di legittimità sostanziale.

In tale direzione la verifica della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).

Ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).

Lo stesso Giudice delle leggi ha confermato la legittimità delle disposizioni in materia di interdittiva antimafia.

Come chiarito di recente anche dalla Corte costituzionale n. 57 del 26 marzo 2020 – di fatto confermando la giurisprudenza della Sezione – a supportare il provvedimento interdittivo sono sufficienti anche situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale.

Tra queste: i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale; le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa; la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dal d.lgs. n. 159 del 2011; i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”; i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa e nella sua gestione, incluse le situazioni in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.

4. Alla luce di tali principi, il Collegio ritiene che il provvedimento della Prefettura di Caserta non si fondi su “un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio”, unica preclusione all’adozione dell’interdittiva antimafia perché non concorre a costituire il quadro indiziario. Sussistono, infatti, indizi che rendono “più probabile che non” la contiguità soggiacente della società alla camorra, attraverso la figura del suo amministratore unico.

Non possono, infatti, ritenersi fondati i profili dedotti dall’appellante avverso il provvedimento prefettizio.

Vale infatti richiamare quanto chiarito dal giudice di appello nella sentenza n. -OMISSIS-, secondo cui l’interdittiva del 23 ottobre 2015 “non si fonda soltanto sulle motivazioni dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di Napoli, poi annullata dal Tribunale del riesame dei Napoli, ma su ulteriori elementi – in particolare il contenuto delle intercettazioni telefoniche, autonomamente esaminato dall’autorità prefettizia, e le frequentazioni di -OMISSIS- – che sono stati esaminati e valorizzati dal Gruppo Ispettivo Antimafia nella seduta del 16 settembre 2015, all’esito della quale detto Gruppo ha proposto l’adozione dell’informativa antimafia”. Nella citata sentenza si afferma l’erroneità della sentenza di primo grado che, “senza avvedersi degli ulteriori elementi di inquinamento mafioso valorizzati dall’informativa e capaci di giustificarne l’emissione (il contenuto delle intercettazioni, dalle quali emerge una situazione di inquietante vicinanza di -OMISSIS- ad ambienti criminali, al di là della “tenuta” della ipotesi di turbata libertà degli incanti a lui contestata, e le altrettanto significative frequentazioni con uomini riconducibili al clan -OMISSIS-, indipendentemente dalla loro formale posizione di associati ai sensi dell’art. 416-bis c.p.), ha istituito un nesso di derivazione necessaria tra l’annullamento dell’ordinanza custodiale e l’annullamento dell’informativa antimafia”.

In altri termini, emerge evidente la vicinanza di -OMISSIS- al clan -OMISSIS-, che il giudice di appello evince anche dalla circostanza che “-OMISSIS- è stato controllato più volte in compagnia di -OMISSIS-, ritenuti uomini organici o comunque contigui al clan -OMISSIS- – elemento anche questo già bastevole, in sé, a giustificare l’emissione dell’informativa e ben valorizzato da questa – mostrando, così, una inquietante prossimità ad ambienti criminali di sicuro rilievo ai fini di prevenzione antimafia che qui interessano”. Come chiarito sub 1, questa affermazione è rilevante anche nella presente causa perché del tutto autonoma dalle vicende che, in sede penale, hanno determinato l’archiviazione del procedimento -OMISSIS-.

A questo dato si aggiunge che, come ben evidenziato sub 3, è granitica la giurisprudenza della Sezione nel senso che anche le sentenze di proscioglimento o di assoluzione nonché i decreti di archiviazione possono costituire la base di provvedimenti interdittivi perché fatti che non hanno rilevanza penale possono ben essere sintomatici della contaminazione della malavita organizzata, nelle multiformi espressioni con le quali la continua evoluzione dei metodi mafiosi si manifesta.

Come affermato anche nella citata sentenza n. -OMISSIS-, “il giudice amministrativo, nello scrutinare la ‘tenuta’ del quadro indiziario posto a base dell’informativa antimafia soprattutto se recepito, almeno in parte, da ordinanze cautelari penali, deve valutare integralmente le motivazioni di tutti i provvedimenti giurisdizionali (Cons. St., sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743), anche ad effetto ‘scagionante’, per appurare se effettivamente essi abbiano privato funditus di rilevanza gli elementi fattuali, se e nella misura in cui l’apprezzamento dell’autorità amministrativa, come nella vicenda in esame, si sia (correttamente) svincolata dalla pedissequa recezione delle risultanze penali”.

Giova rilevare che nel caso sottoposto all’esame del Collegio il decreto di archiviazione del 20 gennaio 2017 chiaramente afferma che le prove raccolte - unitamente alla circostanza che l’imputato -OMISSIS--(una delle principali fonti di accusa), in sede dibattimentale, si era avvalso della facoltà di non rispondere, non fornendo così alcun chiarimento in ordine alle dichiarazioni captate nel corso delle indagini nella sua auto – non erano tali da raggiungere quel grado di certezza necessario a corroborare una richiesta di rinvio a giudizio.

Tali stessi elementi, uniti agli altri avulsi dal procedimento penale sfociato nell’archiviazione, ben possono supportare il giudizio – che non richiede la certezza probatoria raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio ma si fonda sulle regola del “più probabile che non” – della contiguità della società agli elementi mafiosi. Regola che, anche alla luce della pronuncia della Corte costituzionale n. 57 del 26 marzo 2020 richiamata sub 3, contrariamente a quanto assume l’appellante, correttamente è stata invocata ed applicata dalla Prefettura di Caserta.

5. A confutare la censura secondo cui gli episodi richiamati nell’impugnata interdittiva e ripresi dal Tar sarebbero riconducibili al 2000 e, dunque, privi di attualità, è sufficiente richiamare il principio, affermato costantemente dalla Sezione, secondo cui i fatti sui quali si fonda tale misura di prevenzione possono anche essere risalenti nel tempo nel caso in cui vadano a comporre un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata. Come chiarito recentemente dalla Sezione (20 aprile 2021, n. 3182; 3 marzo 2021, n. 1825; 17 febbraio 2021, n. 1447; 2 gennaio 2020, n. 2; 21 gennaio 2019, n. 515), il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica, cioè, la perdita del requisito dell’attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza della ‘risalenza’ dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l'impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d'ombra della mafiosità.

6. Afferma ancora l’appellante l’insufficienza dell’istruttoria compiuta dalla Prefettura, che si sarebbe basata sulla sola pronuncia del Consiglio di Stato del 2017.

Così non è.

Il provvedimento della Prefettura di Caserta del 5 agosto 2017 richiama sì la sentenza n. -OMISSIS- ma anche le intercettazioni ambientali captate dalla autovettura di -OMISSIS--relativi a lavori che sarebbe stati svolti - e che sono stati poi effettivamente svolti - da -OMISSIS-, nonché le dichiarazioni rese da soggetti coinvolti nello stesso procedimento archiviato e da collaboratori di giustizia.

A differenza di quanto assume l’appellante, dunque, il provvedimento con congrua e puntuale motivazione esplicita le ragioni (alcune delle quali - come gli “incontri” o le “frequentazioni” con persone vicine al clan -OMISSIS- – già ritenute idonea a fondare l’interdittiva dalla sentenza n. -OMISSIS-, che ha definito “significative [le] frequentazioni con uomini riconducibili al clan -OMISSIS-, indipendentemente dalla loro formale posizione di associati ai sensi dell’art. 416-bis c.p.”) che rendono ancora necessaria l’interdittiva.

In conclusione, riprendendo quanto chiarito in ordine ad una visione complessiva degli elementi che la Prefettura ha posto a supporto del nuovo provvedimento interdittivo, la legittimità di quest’ultimo si fonda sul principio secondo cui i fatti valorizzati dal provvedimento prefettizio devono essere valutati non atomisticamente, ma in chiave unitaria, secondo il canone inferenziale – che è alla base della teoria della prova indiziaria - quae singula non prosunt, collecta iuvant, al fine di valutare l’esistenza o meno di un pericolo di una permeabilità della struttura imprenditoriale a possibili tentativi di infiltrazione da parte della criminalità organizzata, secondo la valutazione di tipo induttivo che la norma attributiva rimette al potere cautelare dell’amministrazione, il cui esercizio va scrutinato alla stregua della pacifica giurisprudenza di questa Sezione.

E’ proprio, dunque, la visione di insieme dei diversi fattori ed elementi istruttori che può consentire di coglierne l’esatta portata indiziaria, la quale viceversa rischierebbe di sfuggire ad una loro diagnosi ripartita e atomistica.

Tutti gli elementi richiamati nel provvedimento prefettizio dell’agosto 2017, ove pure non assurgano a elementi di prova indiretta, costituiscono certamente un serio quadro indiziario sufficiente – secondo la regola dell’id quod plerumque accidit – a supportare l’interdittiva che, come è stato chiarito sub 3, ha finalità di prevenire una condotta penalmente rilevante e non di sanzionarla.

7. E’, infine, condivisibile la conclusione alla quale è pervenuto il giudice di primo grado in ordine alla irrilevanza del richiamo al credito bancario al quale ha fatto ricorso la società appellante, circostanza definita “elemento essenzialmente neutro” dal Tar perché non idoneo di per se stesso ad escludere l’esistenza di legami con sodalizi criminali ovvero l’esistenza di profili di condizionamento in grado di incidere sulla gestione dell’impresa e di dirottarla su scelte strategiche gradite a locali clan camorristici.

E’ noto, infatti, che le consorterie mafiose e camorristiche si servono di diversi stratagemmi per far apparire “pulite” le società di cui si servono e non attirare sulle stesse i controlli della Prefettura e delle Forze dell’ordine. I soggetti fisici o le società di cui si servono per i propri traffici la mafia e la camorra devono confondersi tra gli operatori economici e appena diventano oggetto di sospetti e di controlli sono immediatamente sostituiti. Passare per vittima della mafia (tanto da avere i contributi antiraket) o per impresa in crisi economica (tanto da indebitarsi con le banche) sono solo alcune delle trovate dei clan, che organizzano in modo meticoloso i proprio affari senza lasciare nulla al caso.

8. In conclusione, correttamente il coacervo di elementi che resistono alle osservazioni, fattuali, dell’appellante, è stato ritenuto dal Prefetto di Caserta sufficiente ad evidenziare il pericolo di contiguità con la mafia, con un giudizio peraltro connotato da ampia discrezionalità di apprezzamento, con conseguente sindacabilità in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’autorità perviene solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (Cons. St. n. 4724 del 2001). Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (Cons. St. n. 7260 del 2010).

Nei limiti del sindacato rimesso a questo giudice, dunque, l’interdittiva - e, prima ancora, la sentenza del Tar Napoli - che ha puntualmente inquadrato la vicenda contenziosa soffermandosi sugli elementi indiziari che legittimano il provvedimento prefettizio nell’ambito dei principi delineati da questa Sezione, resiste ai profili dedotti in appello.

La già richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 57 del 2020 ha chiarito che a fronte della denuncia di un deficit di tassatività della fattispecie, specie nel caso di prognosi fondata su elementi non tipizzati ma “a condotta libera”, “lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa”, un ausilio è stato fornito dall’opera di tipizzazione giurisprudenziale che, a partire dalla sentenza di questo Consiglio di Stato 3 maggio 2016, n. 1743, ha individuato un “nucleo consolidato (…) di situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale”.

Fra tali situazioni la Corte costituzionale ricorda anche “i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia”, elementi, questi, sussistenti nel caso all’esame del Collegio.

Per tutte le ragioni sopra esposte l’appello deve essere respinto, operando un tentativo di ridimensionamento analitico di tali elementi, tralasciando però di considerare la visione d’insieme, che sorregge con una soglia certamente superiore al criterio del “più probabile che non” la valutazione di rischio di infiltrazione dell’attività d’impresa.

9. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c.. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.

10. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza),

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’appellante alla rifusione delle spese e degli onorari del giudizio, che liquida in complessivi € 10.000,00 (euro diecimila) a favore di parte appellata.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 2, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellante.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 marzo 2021, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, con l’intervento dei magistrati:

Marco Lipari, Presidente

Giulio Veltri, Consigliere

Stefania Santoleri, Consigliere

Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore

Solveig Cogliani, Consigliere