Sommario - Parte seconda: l’attività contrattuale dell’amministrazione pubblica - 1. Attività privata dell’amministrazione e attività di diritto privato – 2. La disciplina – 3. Il regime dei rapporti contrattuali dell’amministrazione e il modello di diritto privato – 4. La formazione della volontà contrattuale dell’amministrazione – 5. Autonomia privata, autonomia negoziale e autonomia contrattuale dell’amministrazione pubblica – 6. Contratto di tesoreria integrato con clausola di sponsorizzazione – 7. I contratti misti – 8. Le estensioni del diritto privato problematiche.

 

 

PARTE SECONDA

L’ATTIVITA’ CONTRATTUALE DELL’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA

 

1. Attività privata dell’amministrazione e attività di diritto privato

L’attività amministrativa è l’attività con cui l’amministrazione provvede in concreto alla cura degli interessi a essa affidati mediante operazioni, comportamenti e decisioni posti in essere nell’esercizio di funzioni a essa conferite dalla legge (M. Clarich, Manuali di diritto amministrativo, II ed., 2005, 101).

Già nel 1889 la dottrina rifletteva che l’amministrazione dispone di un duplice strumentario concorrente per l’esercizio di un’attività pure assoggettata a un vincolo di scopo: quello del potere autoritativo e quello del diritto civile (A. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XV ed., Napoli, 1989, vol. II, 942).

Era dunque già chiaro allora quanto il legislatore nel 2005 ha ritenuto, probabilmente in modo pleonastico, di affermare espressamente prevedendo con l’inserimento dell’art. 1, comma 1 bis, l. 7 agosto 1990, n. 241 che “la Pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme del diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente”.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con le pronunce 22 aprile 1999, n. 1 e 30 marzo 2000, n. 4 ha affermato che l’intera attività dell’amministrazione, in disparte la veste soggettiva dell’autore e della forma giuridica degli atti, è funzionalizzata in quanto volta al perseguimento dell’interesse pubblico così ricadendo sotto il governo dell’art. 97 Cost..

Parrebbe dunque superata la tesi che, nell’ambito delle attività privatistiche della pubblica amministrazione, discerneva tra le attività private di diritto privato di rilievo meramente privatistico e le attività amministrative di diritto privato nelle quali l’amministrazione perseguirebbe scopi di interesse pubblico con strumenti di diritto privato (G.A. Chiesi, L’attività contrattuale della p.a., in I contratti dello Stato e degli enti pubblici, luglio-settembre, 2002 ).

Nella prima ipotesi non assumerebbe rilevanza alcuna la natura pubblica del soggetto attivo, atteso che l’amministrazione perseguirebbe scopi di tipo meramente patrimoniali ovvero organizzativi; nella seconda invece l’attività della pubblica amministrazione sarebbe inquadrabile nell’alveo dell’attività amministrativa in senso stretto in quanto tesa alla cura di interessi pubblici.

Tale distinzione sembrerebbe invero difficilmente compatibile con un’esegesi aggiornata del precetto di cui all’art. 97 Cost., finendo per escludere dal diritto amministrativo l’attività contrattuale dell’amministrazione di acquisizione di beni e servizi solo perché realizzata con la stipula di contratti di diritto privato (G.B. Mattarella, in Diritto Amministrativo Generale, L’attività, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di Cassese, tomo I, II ed., Milano, 2003, 734 ss.).

L’attività amministrativa oggi è un’attività funzionalizzata in quanto posta in essere in funzione di scopi e per la tutela di interessi che esorbitano dalla sfera del soggetto agente. Sebbene dotata di potere discrezionale, la P.A. infatti non è libera nella scelta dei fini da perseguire ma è sempre vincolata al soddisfacimento dell’interesse pubblico.

Nell’esercizio della stessa l’amministrazione può agire mediante atti di diritto pubblico ovvero - nel senso di alternativamente - atti di diritto privato. Nel primo caso, la P.A. adotta provvedimenti unilaterali che in quanto espressione di una posizione di supremazia dell’amministrazione sono destinati a modificare la sfera giuridica del destinatario anche in assenza o contro la sua volontà. E’ proprio l’attitudine del provvedimento a modificare unilateralmente, in ragione del proprio carattere autoritativo, la sfera giuridica dei terzi, in deroga al principio di intangibilità della sfera patrimoniale altrui, a distinguerlo dal negozio che invece presuppone una posizione di sostanziale parità delle parti. All’amministrazione è riconosciuta altresì una capacità di diritto privato, potendo ricorrere allo strumento negoziale che la pone in una posizione di parità con gli altri soggetti dell’ordinamento tendenzialmente alla stregua delle regole ordinarie proprie del diritto civile. Gli atti di diritto privato dell’amministrazione sono adottati nell’esercizio di un’attività volta al perseguimento di un interesse pubblico, partecipando così di una doppia natura, non solo privata ma anche funzionalmente pubblicistica: si tratta dunque pur sempre di attività amministrativa in senso lato.

 

 

2. La disciplina

 

La disciplina di riferimento per tutti i contratti di diritto privato dell’amministrazione è rappresentata dalle norme contenute nel codice civile, dalla legge sulla contabilità generale dello Stato contenuta nel r.d. 18 novembre 1923 n. 2440, recante “Nuove disposizioni sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”, e dal relativo regolamento di esecuzione previsto dal r.d. 23 maggio 1924 n. 827, (recante “Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato”), nonché dalla normativa in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi dettata dalla legge 7 agosto 1990 n. 241.

 

 

3. Il regime dei rapporti contrattuali dell’amministrazione e il modello di diritto privato

 

L’attività di diritto privato dell’amministrazione pubblica non può dirsi del tutto equiparabile a quella dei soggetti privati in disparte la soggezione generale alle regole del diritto comune.

A tale equiparazione ostano taluni “elementi di esorbitanza” che il regime dei rapporti contrattuali dell’amministrazione presenta rispetto al modello privatistico.

L’amministrazione, invero, anche ove agisca nell’esercizio della capacità di diritto privato è in ogni caso tenuta a realizzare l’interesse pubblico rimesso ex lege alla cura della stessa. Ne consegue che il fine dell’azione amministrativa resta pur sempre pubblico, quale che sia il modus agendi prescelto, e a mutare è solo il mezzo, autoritativo ovvero consensuale, attraverso cui perseguire lo scopo.

Quel che connota l’attività posta in essere dall’amministrazione nell’esercizio della riconosciuta capacità generale di diritto privato è la disciplina che impone alla stessa l’osservanza delle procedure di evidenza pubblica nella fase che precede la stipula del contratto, così assicurando l’osservanza del principio di imparzialità nella scelta del contraente.

In disparte il dovere di rispetto di tali procedure, nel regime cui sono assoggettati i rapporti contrattuali che vedono come parte contraente un’amministrazione è dato rinvenire elementi di specialità ulteriori.

L’art. 16 del r.d. 24 settembre 1923, n. 2240 prescrive la necessità in ogni caso della forma scritta ad substantiam dei contratti anche iure privatorum dell’amministrazione, salve le eccezioni tassativamente contemplate dall’articolo seguente.

Vengono in considerazione altresì i limiti della pignorabilità dei beni dell’amministrazione e il regime di esclusione per il pubblico impiego privatizzato della previsione del cumulo di interessi e rivalutazione monetaria riconosciuto ai lavoratori dipendenti privati dall’art. 429 c.p.c. in caso di ritardo nella corresponsione degli emolumenti (art. 22, comma 36, legge 23 dicembre 1994, n. 724) (Cons. St., ad. pl. 30 marzo 1999, n. 3; 13 ottobre 2011, n. 18 e 5 giugno 2012, n. 18).

L’azione amministrativa, dunque, anche quando è si avvale dei moduli privatistici non può essere equiparata all’azione giuridica dei soggetti privati essendo comunque “al servizio degli interessi della collettività” e, dunque, non libera né autonoma ma finalizzata al perseguimento di obiettivi e risultati prestabiliti dall’ordinamento e suscettibili di controllo.

 

 

4. La formazione della volontà contrattuale dell’amministrazione

 

La pubblica amministrazione in quanto soggetto comune gode di capacità giuridica ed è destinataria delle norme di diritto comune. E tra queste viene in considerazione l’art. 1175 c.c. in ossequio al quale fonte di obbligazioni, tra le altre, è il contratto.

I contratti di diritto privato stipulati dall’amministrazione sono riconducibili alla nozione di contratto fornita dall’art. 1321 c.c. secondo cui “Il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”.

L’amministrazione è una parte equiparata giuridicamente a un qualsiasi soggetto privato contraente. Tuttavia, essa non può prescindere dalle peculiarità intrinseche, quali la personalità giuridica e l’interesse pubblico perseguito con l’attività contrattuale. Particolarità che si ripercuotono con palmare evidenza sul procedimento di formazione della volontà contrattuale dell’amministrazione.

Ai sensi dell’art. 1325 c.c. il primo requisito del contratto è l’accordo delle parti ovverossia l’incontro delle reciproche manifestazioni di volontà di contrarre obbligazioni.

Nel caso in cui un contraente sia la pubblica amministrazione, l’accordo delle parti e la stipulazione del negozio sono caratterizzati da un processo di formazione della volontà più articolato rispetto a quello tipico dei, rapporti tra privati.

La dottrina qualifica l’attività contrattuale dell’amministrazione come “fattispecie complessa, ma unitaria, composta da una serie di atti giuridici distinti” (M.S. Giannini, Diritto amministrativo, vol. II, cit.; G. Greco, I contratti dell’aministrazione tra pubblico e privato. I contratti ad evidenza pubblica, Milano, 1986; A. Bardusco, La struttura dei contratti delle pubbliche amministrazioni, Milano, 1974).

La formazione della volontà contrattuale dell’amministrazione si compone di una prima fase, nella quale l’ente pubblico “decide” di stipulare il contratto attraverso una deliberazione apposita dell’organo competente, e di una seconda fase, nella quale la volontà viene esternata. Tali fasi sono indicate dalla dottrina e dalla giurisprudenza come “fase procedimentale” e “fase negoziale” (E. Mele, Autonomia negoziale della pubblica amministrazione e Costituzione, Tar, 1985, II, 249).

La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato che il procedimento di formazione della volontà contrattuale dell’amministrazione non si svolge esclusivamente sul piano del diritto privato, ma si articola in una duplice serie di atti: la prima, c.d. “serie negoziale”, consta di atti privatistici e la seconda, c.d. “serie procedimentale”, consta di atti amministrativi quali la delibera a contrarre, l’approvazione o il diniego o la revoca dell’approvazione, la registrazione e il visto ovvero il diniego degli stessi, che avendo natura provvedimentale sono sindacabili da parte del giudice amministrativo (Cons. St., sez. VI, 17 dicembre 2007, n. 6471; sez. IV, 27 ottobre 2005 n. 6031; sez. IV, 26 giugno 1998 n. 990; sez. IV, 28 aprile 1998 n. 990).

Il primo procedimento, avente natura pubblicistica, denota l’assoggettamento della pubblica amministrazione al principio di legalità (S. Buscema e A. Buscema, I contratti della Pubblica Amministrazione, cit.), il secondo attiene ai rapporti tra parte privata e pubblica amministrazione. Le due fasi si ritengono indipendenti tra loro sotto il profilo della validità, in disparte il collegamento oggettivo degli atti che ne fanno parte (M.S. Giannini, Diritto amministrativo, vol. II, cit.).

In giurisprudenza è consolidato l’orientamento, che distingue la fase deliberativa della volontà contrattuale dell’ente da quella negoziale avente a oggetto la successiva conclusione del contratto. La prima fase si concreta in una decisione equiparabile, per una persona di diritto privato, alla formazione dell’intera volontà; la seconda fase, di competenza dell’organo rappresentativo, integra il vincolo con l’altro contraente, salvi gli eventuali controlli o approvazioni (Cass. civ. 10 ottobre 2007, n. 21265; 12 aprile 2005, n. 7535).

La deliberazione a contrarre dell’ente non produce ex se effetti nei confronti dei terzi, essendo un atto preparatorio del futuro contratto, mentre la successiva stipulazione deve essere redatta per iscritto e sottoscritta da tutte le parti contraenti (Cass. civ. 2 novembre 1998 n. 10956. Nello stesso senso, tra le altre Cass. civ. 22 giugno 2004 n. 11601; 21 maggio 2002 n. 7422; 14 marzo 1998 n. 2772; 12 agosto 1995 n. 8866; 27 maggio 1987 n. 4742; 23 ottobre 1971 n. 2992; 10 ottobre 1962 n. 2919). La deliberazione a contrarre, dunque, è la prima fase dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione che si concreta in un provvedimento amministrativo: in origine era di competenza, per gli enti diversi dallo Stato, dell’organo più importante, salva la possibilità di delega a organi diversi.

Oggi la materia è disciplinata, con riguardo ai contratti statali, dal d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, che ha abrogato il precedente d.lgs. n. 29/1993, che attribuisce ai dirigenti la rappresentanza negoziale e la competenza in tema di deliberazione a contrarre. Negli enti locali la materia è stata prevista a dalla legge n. 142 del 1990 e successive modificazioni e oggi è disciplinata dagli artt. 107 ss. del d.lg. 18 agosto 2000 n. 267, c.d. Testo Unico sugli enti locali.

La deliberazione assolve due funzioni: quella di stabilire autoritativamente la norma agendi per chi deve porre in essere il contratto e legittimare l’esercizio dei poteri da parte dell’organo che opererà in nome e per conto dell’amministrazione (S. Buscema e A. Buscema, I contratti della Pubblica Amministrazione, cit.). Il perfezionamento dell’accordo contrattuale e, dunque, la conclusione del contratto avviene invece nel momento dell’incontro delle reciproche volontà delle parti nelle forme richieste dalla legge.

L’individuazione del soggetto legittimato alla manifestazione della volontà dell’ente pubblico con efficacia nei confronti dei terzi non è per nulla agevole. Spesso infatti la legale rappresentanza dell’ente non coincide con la competenza alla stipulazione dei contratti per conto di esso.

Tale questione ha dato così origine a un vivace dibattito in giurisprudenza.

La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione è pervenuta a estendere l’applicazione delle norme civilistiche concernenti il falsus procurator (art. 1398) anche alla rappresentanza negli enti pubblici (Cass. civ. 14 aprile 2006, n. 8876; 10 gennaio 2003 n. 195).

Nel caso di stipulazione di un contratto in nome e per conto dell’amministrazione da parte di soggetto sprovvisto dei poteri necessari è fatta salva la possibilità di ratifica da parte dell’amministrazione che sarebbe stata competente (Cass. civ 9 maggio 2007 n. 10631). Tale ratifica, essendo un negozio unilaterale recettizio, deve avere un contenuto connesso all’oggetto del contratto stipulato dal falsus procurator, esprimendo la chiara volontà del falso rappresentato di fare propri gli effetti anche passivi del negozio posto in essere dal falso rappresentante (Cass. civ. 5 marzo 1993 n. 2681; v. anche Cons. St. 15 febbraio 2002 n. 952).

La dottrina ha delineato lo schema tipico della contrattazione a evidenza pubblica dell’amministrazione prevedendo: la deliberazione di contrarre, con cui il competente organo dell’amministrazione o dell'ente decide di porre in essere il contratto; il procedimento di formazione del contratto e della conclusione del contratto fra la amministrazione e il contraente prescelto; l’approvazione del contratto da parte degli organi sovraordinati, salvo che il rappresentante della amministrazione (o dell'ente) non abbia anche il potere di approvazione ed il controllo esterno di legittimità; l’esecuzione del contratto da parte del privato contraente.

Peraltro, non è mancato chi ha criticamente osservato che tale tentativo di schematizzazione denoterebbe la difficoltà di fornire una costruzione unitaria degli atti che compongono la serie procedimentale e quella negoziale (S. Buscema e A. Buscema, I contratti della Pubblica Amministrazione, cit., 65).

Il momento in cui ha inizio il procedimento contrattuale dell’amministrazione è generalmente individuato nell’esternazione della volontà amministrativa a porre in essere il contratto, con la dichiarazione puntuale delle ragioni che l’hanno determinato e dei fini pubblicistici perseguiti: in questo modo viene realizzato il primo atto della procedura contrattuale che sfocia in un atto amministrativo. A tale deliberazione, che costituisce il presupposto negoziale affinchè l’amministrazione possa stipulare un negozio di diritto privato, fa seguito l’attività amministrativa volta a determinare la scelta dell’altro contraente.

Fa seguito alla deliberazione a contrarre il c.d. “progetto di contratto”, con il quale l’amministrazione descrive l'oggetto della prestazione, che il privato contraente dovrà eseguire, e stabilisce le condizioni per la stipulazione del contratto. Il secondo passo del procedimento contrattuale è invece lo “schema di contratto”, che viene redatto dopo lo svolgimento della gara e firmato dal privato contraente.

 

 

5. Autonomia privata, autonomia negoziale e autonomia contrattuale dell’amministrazione pubblica

 

L’autonomia privata, in generale, è il potere dei privati di regolare liberamente i propri interessi e di decidere della propria sfera giuridica, nel rispetto dei limiti e degli obblighi stabiliti dall’ordinamento.

Tradizionalmente, viene definita, in considerazione del rapporto tra soggetto privato e ordinamento giuridico, come potere riconosciuto ai privati ovvero come libertà originaria, fenomeno anzitutto sociale e preesistente a qualunque tipo di riconoscimento giuridico.

La Costituzione non la menziona espressamente, ma la tutela indirettamente nell’art. 3, quale strumento necessario al pieno sviluppo della persona umana, e nell’art. 41, quale iniziativa economica privata.

Secondo la teoria generale, nell’ambito della categoria generale di autonomia privata vi rientra l’autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.), che si riferisce in modo specifico al potere di determinare liberamente il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge, sia in caso di contratti il cui schema astratto è previsto dal legislatore (contratti tipici), sia in caso di contratti che non appartengano a nessuno schema astratto previsto dal legislatore (contratti atipici), purché, in questo secondo caso, siano “diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

Categoria più generale dell’autonomia contrattuale, perché riferita a tutti i negozi giuridici, è l’autonomia negoziale, L’autonomia privata non si può esplicare per tutti i negozi con la stessa ampiezza.

I privati godono di libertà o autonomia contrattuale ai sensi dell’art. 1322 c.c. e, dunque, “possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge” e concludere contratti anche non tipici “purchè diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

La legge riconosce ai privati la c.d. signoria della volontà cioè un ampio potere di provvedere con proprio atto di volontà alla costituzione, alla regolazione e all’estinzione dei rapporti patrimoniali.

E’ una libertà che si manifesta sotto un duplice aspetto, negativo il primo, positivo il secondo.

Libertà o autonomia contrattuale significa, in senso negativo, che nessuno può essere spogliato di propri beni o essere costretto a eseguire prestazioni a favore di altri contro o comunque indipendentemente dalla propria volontà.

La libertà o autonomia in senso positivo significa che i privati possono con un proprio atto di volontà costituire, regolare o estinguere rapporti patrimoniali.

L’autonomia contrattuale in senso positivo si manifesta in tre forme: è anzitutto libertà di scelta fra i diversi tipi di contratto previsti dalle legge; in secondo luogo è libertà di determinare, entro i limiti posti dalla legge, il contenuto del contratto apponendovi clausole o patti; infine è libertà di concludere contratti atipici o innominati cioè non corrispondenti ai tipi contrattuali previsti dal codice civile ovvero da altre leggi, ma ideate e praticati dal mondo degli affari e validi purchè diretti “a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico” (art. 1322 comma 2 c.c.) (F. Galgano, Diritto privato, Cedam, Milano, 2006, 221 ss.).

La posizione di autonomia è propria di tutti i soggetti dell’ordinamento in quanto tali.

Il potere di concludere i contratti è dunque manifestazione dell’autonomia privata e spetta a ogni soggetto dell’ordinamento.

Con riguardo all’amministrazione pubblica, ci si chiede se anch’essa sia titolare di autonomia privata e, in particolare, di autonomia negoziale al pari degli altri soggetti.

Tale dubbio sorge attesa la soggezione dell’attività amministrativa provvedimentale al principio di legalità.

Il tema involge dunque il rapporto tra l’autonomia privata e il principio di legalità.

L’azione provvedimentale soggiace a numerosi principi generali tra cui, anzitutto, il principio di legalità.

Secondo l’accezione forte o sostanziale, prevalentemente accolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza anche costituzionale (Corte cost. n. 150 del 1982; n. 307 del 2003; n. 32 del 2009; n. 115 del 2011), tale principio rinviene il proprio fondamento costituzionale negli artt. 23, 24, 97 e 113 Cost. e sottende una ratio di garanzia. Garanzia consistente nell’esigenza di assicurare una costante copertura legislativa dell’azione amministrativa, nonchè di attribuire ai destinatari della stessa un parametro normativo rispetto al quale poter effettuare la verifica di legittimità dell’iniziativa che incide sulla propria sfera giuridica o di azione e cui ricorrere al fine di sollecitare il vaglio giurisdizionale sulla stessa.

A tal fine, il principio impone che l’azione amministrativa trovi fondamento in una norma, di rango primario, al contempo attributiva e regolativa del potere. Perché l’amministrazione eserciti legittimamente il potere pubblicistico, è necessario che tale potere sia attribuito da una legge che indichi altresì lo scopo per il perseguimento del quale esso può essere esercitato e ne regolamenti almeno i contenuti essenziali e le modalità di esercizio fondamentali.

Il principio di legalità si traduce nei corollari della tipicità e nominatività dei provvedimenti.

In ossequio al principio di tipicità, i provvedimenti devono essere previsti dalla legge, che ne deve individuare funzione e contenuto: ogni provvedimento risponde infatti a una causa tipica prevista dalla norma - la stessa che giustifica l’attribuzione del potere amministrativo in capo a un soggetto pubblico - che ne definisce il contenuto.

Il principio di nominatività impone, invece, che a ogni interesse pubblico corrisponda un certo tipo di atto definito e disciplinato dalla legge.

In sostanza, la tipicità comporta che la legge definisca finalità ed effetti del provvedimento; la nominatività invece impone che la stessa legge individui gli schemi provvedimentali da utilizzare per il perseguimento delle singole finalità d'interesse pubblico e per la produzione delle singole tipologie di effetti giuridici.

La dottrina e la giurisprudenza si sono a lungo interrogate se il principio di legalità debba guidare l’amministrazione anche ove essa compia attività di diritto comune e si avvalga degli strumenti privatistici. E, dunque, se l’amministrazione goda del “potere libero di regolamentare i propri interessi” alla stregua di tutti gli altri soggetti dell’ordinamento, possa compiere “atti liberi” scegliendo i propri fini, il contenuto e le modalità del proprio agire e possa concludere contratti non compresi tra quelli tipici previsti dalla legge, in specie innominati e misti.

Tali interrogativi hanno reso necessaria una rilettura del principio di legalità così come interpretato con riferimento all’attività amministrativa provvedimentale, al fine di renderlo compatibile con l’utilizzo del negozio giuridico quale strumento di azione amministrativa.

Il dibattito ha visto emergere due posizioni contrapposte.

Secondo una prima tesi, per le amministrazioni sarebbe vigente nell’ordinamento un divieto di porre in essere contratti innominati e misti.

Soltanto per i privati, invero, varrebbe la regola dell’autonomia contrattuale, mentre per i soggetti pubblici opererebbe il principio opposto di stretta legalità, che consente di porre in essere solo contratti tipici e nominati.

Un secondo orientamento, ritiene invece che pur dovendo l’amministrazione operare nei limiti consentiti dalla legge “alcuna disposizione vieta alla stessa di agire concludendo altresì contratti atipici. L’utilizzo sempre maggiore di strumenti privatistici al fine di realizzare i bisogni generali di rilievo pubblicistico rappresenterebbe una conferma dell’assenza in astratto di una limitazione di carattere generale dell’autonomia contrattuale dell’amministrazione anche con riferimento ai contratti atipici (Cons. St., sez. VI, 4 dicembre 2001, n. 6073).

A tale conclusione gli studiosi pervengono muovendo da un’attualizzazione del principio di legalità.

E’ bene rammentare ai presenti fini che la dottrina amministrativistica dell’ultimo ventennio del secolo scorso nell’esaminare il tema dei contratti non tipizzati da parte dell’amministrazione era solita sovrapporre il principio di tipicità amministrativa con il concetto di tipicià contrattuale.

La dottrina dell’epoca ha così cercato di operare una distinzione fra tipicità amministrativa e contrattuale, soffermandosi sul concetto di funzionalizzazione che costituiva il corollario del principio di legittimità sul versante contrattuale. Quest’ultima era infatti insita nell’attività provvedimentale autoritativa, mentre per rinvenirla nell’attività contrattuale è stato necessario declinare in maniera differente il principio di legalità. In questo modo l’attività contrattuale dell’amministrazione è stata considerata conforme al principio di legalità che governa l’agire amministrativo soltanto quando fosse funzionalizzata cioè si svolgesse secondo le modalità e nei limiti indicati dalla disciplina pubblicistica di riferimento. Il che si poteva verificare solo ove ci si avvalesse di modelli contrattuali tipici, la cui meritevolezza degli interessi perseguiti fosse valutata a priori dal legislatore e per i quali esistesse una disciplina di diritto comune applicabile.

Al riguardo si è sottolineato che la funzionalizzazione al perseguimento dell’interesse pubblico, come concretizzato nello scopo istituzionale dell’ente, non necessitasse del contratto tipizzato la cui meritevolezza fosse definita ex ante dal legislatore, potendo ritenersi soddisfatta anche attraverso l’utilizzo del contratto atipico in quanto “L’essere il contratto tipico od atipico (...), non incide sulla necessità, comunque riconosciuta, della finalizzazione dello stesso al perseguimento dell’interesse pubblico proprio dell’ente che lo pone in essere. In tal senso, i contorni del principio di legalità non paiono in alcun modo minacciati dall’atipicità contrattuale” I contorni del principio di legalità non paiono dunque in alcun modo minacciati dall’atipicità contrattuale (M. Dugato, Atipicità e funzionalizzazione nell’attività amministrativa per contratti, cit., 86; R. Dipace, Partenariato pubblico e privato e contratti atipici, 2006, 147).

In questo senso è stata sostenuta una lettura attualizzata del principio di legalità.

Si sono richiamate le funzioni tradizionali assolte dal principio suddetto, legalità-indirizzo e legalità-garanzia, e si è ritenuto che la prima sia assicurata dalla funzionalizzazione e la seconda dal rispetto dei canoni di tipicità e di nominatività.

Così facendo è stato possibile distinguere il piano della funzionalizzazione, il cui soddisfacimento può avvenire anche mediante contratti atipici, e il piano della tipicità, che rimane garanzia per il privato nell’ambito dell’attività autoritativa dell’amministrazione, in quanto non si può riconoscere allo stesso finalità di indirizzo dell’attività contrattuale pubblica.

Si giunge così alla conclusione secondo cui il principio di tipicità opera per l’azione amministrativa provvedimentale, viceversa non ha alcun valore rispetto all’attività contrattuale. La tipicità dell’azione amministrativa autoritativa invero assolve una funzione di garanzia per il privato nei confronti di un’attività che può incidere nella propria sfera giuridica anche a prescindere del proprio consenso, eventualità che non si può verificare nell’attività convenzionale. E dunque il principio di tipicità non ha ragion d’essere nell’amministrazione c.d. per contratti (M. Dugato, Atipicità e funzionalizzazione nell’attività amministrativa per contratti, Milano, 1996, 86).

Inoltre, si è sottolineato che la tipicità amministrativa sia ben differente rispetto a quella civilistica, per genesi e funzione. In particolare, la funzione assolta dalla tipicità nel diritto civile, investendo la causa del contratto, si discosta dal concetto di tipicità del provvedimento amministrativo, in cui non pare opportuno parlare di causa, che nel caso, consisterebbe nel perseguimento dell’interesse pubblico cui l’atto tende e dunque fonderebbe il potere e non il provvedimento (R. Dipace, Partenariato pubblico e privato e contratti atipici, 2006, 225).

Con la conseguenza che la tipicità riferita al provvedimento non può in alcun modo confusa e sovrapposta a quella dei contratti. Quest’ultima ha per oggetto la tipizzazione di uno strumento contrattuale di cui la norma civilistica stabilisce la disciplina da prendere come riferimento una volta prescelto il tipo, mentre nel caso del provvedimento amministrativo la tipicità svolge una funzione di garanzia che nulla ha a che vedere con la causa.

Muovendo da tali considerazioni la dottrina è giunta ad affermare che il principio di tipicità che conforma l’attività autoritativa dell’amministrazione non possa dirsi applicabile all’attività contrattuale della stessa. Quest’ultima rinviene la propria legittimazione nella funzionalizzazione.

La funzionalizzazione, intesa quale declinazione del principio di legalità-indirizzo, rappresenta il fondamento del ricorso allo strumento contrattuale anche privo di regolamentazione civilistica purchè la propria causa, da individuarsi in concreto, sia meritevole e conforme al fine istituzionale dell’ente.

A tal fine s’impone il giudizio di meritevolezza di cui all’art. 1322 comma 2 c.c., mediante il quale l’ente pubblico, cui è riconosciuta la piena capacità e autonomia negoziale, può valutare di porre in essere un contratto non tipizzato ove le caratteristiche di questo siano compatibili con il proprio scopo istituzionale, a prescindere da una normativa pubblicistica che legittimi tale scelta.

La libertà che connota il modo di agire dei privati si concreta nella possibilità di porre in  essere contratti atipici cioè privi di un nomen juris definito dal legislatore, nella facoltà di combinare più tipi contrattuali, di perseguire mediante contratti tipizzati fini diversi da quelli determinati dal legislatore, nonchè di realizzare con modalità contrattuali atipiche le finalità che si perseguono con contratti tipici.

La dottrina riteneva che, pur non essendovi nell’ordinamento una norma atta a legittimare l’amministrazione all’utilizzo dei contratti atipici per il soddisfacimento dei propri bisogni e il raggiungimento dei fini istituzionali, non vi fosse motivo alcuno per dubitare di tale facoltà. Il principio di tipicità non è riferibile all’attività contrattuale e dunque l’amministrazione è libera di ricorrere gli schemi contrattuali atipici in forza della propria autonomia contrattuale, in disparte una norma di stampo pubblicistico che ne rappresenti la legittimazione.

Il problema della verifica della meritevolezza degli interessi che s’intendono soddisfare con il contratto atipico di cui all’art. 1322 comma 2 del c.c. si pone in relazione, nel caso degli enti pubblici, con il fine istituzionale dell’ente stesso. In questo caso il rispetto della legalità è dato dalla funzionalizzazione e non dalla predeterminazione degli schemi di azione.

Secondo tale orientamento, quel che rileva e consente di parlare di funzionalizzazione, oltre alla coerenza con il fine istituzionale dell’ente, è la tipicità del procedimento di affidamento del contratto, che sarebbe l’unico ambito in cui si ravvisa attività puramente amministrativistica.

Infatti, soprattutto in seguito all’inserimento del comma 1 bis nell’art. 1 della l. n. 241 del 1990, si è posto il problema della necessità o meno dell’esperimento della procedura selettiva ad evidenza pubblica per l’affidamento dei contratti, nei casi in cui non sia espressamente richiesto da disposizioni positive , come ad esempio ove si parli di contratti atipici non disciplinati dalle norme sul partenariato (B. Cavallo, Tipicità e atipicità nei contratti pubblici fra diritto interno e normativa comunitaria: rilievi procedimentali e sostanziali, in F. Mastragostino, Tipicità e atipicità nei contratti pubblici, Bologna, 2007, 21)

Da tempo anche la giurisprudenza riconosce la capacità dell’amministrazione di ricorrere a strumenti non disciplinati dal codice civile in conseguenza della riconosciuta autonomia negoziale di cui all’art. 1322, comma 2 c.c..

A ben vedere più che un problema di astratta ammissibilità, si pone quello della compatibilità dei contratti atipici con l’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione stipulante e d’individuazione della disciplina applicabile.

Per quanto attiene al profilo dell’ammissibilità dei contratti atipici, occorre rilevare che, così come per tutta l’attività provvedimentale e negoziale, anche per l’azione che si manifesta con tali contratti sussiste un vincolo di scopo: essi devono essere strettamente funzionali alla realizzazione del fine pubblico perseguito dall’amministrazione.

Si può, dunque, sostenere che la tipizzazione conseguente al principio di legalità concerne l’interesse perseguito dall’ente pubblico, non anche lo strumento a tal fine utilizzato.

La legge stabilisce i fini cui deve tendere la pubblica amministrazione. Dunque, rimane ferma la soggezione dell’ente alla legge in ossequio al principio di legalità. Ma tale principio deve essere inteso nel senso che l’utilizzo degli strumenti privatistici deve sempre essere giustificato in considerazione dell’attinenza con le finalità affidate alla cura dell’ente.

Per quanto riguarda invece il problema della disciplina applicabile, a lungo dottrina e giurisprudenza si sono domandate se l’amministrazione, ove intenda stipulare contratti atipici, debba osservare la disciplina pubblicistica che impone l’osservanza delle procedure di evidenza pubblica ai fini della scelta del contraente. Dubbi e perplessità sono sorti soprattutto con riferimento a fattispecie non connotate, quantomeno in apparenza, dal carattere di onerosità che ai sensi dell’art. 50, d.lgs. n. 50 del 2016 rende tipico il contratto di appalto pubblico.

L’amministrazione è soggetto di diritto comune capace, in quanto tale, di stipulare qualsiasi forma di accordo negoziale tipico ovvero atipico consentito dall’ordinamento.

La natura pubblicistica del soggetto contraente rappresenta, come già osservato, il limite stesso cui soggiace nella definizione di rapporti contrattuali. Limite non già astratto e teorico, inteso quale preclusione aprioristica alla stipula al di fuori dei casi tassativamente ipotizzati, bensì funzionale nel senso di coerenza dello strumento negoziale atipico rispetto al fine generale connaturato all’amministrazione stessa. 

L’agire amministrativo, invero, anche ove utilizzi strumenti privatistici, resta comunque funzionalizzato al perseguimento di finalità generali, differenti da quelle che muovo la condotta dei soggetti privati (Cons. St., ad. pl., 3 giugno 2011, n. 10).

Tale limite ontologico assume peculiari ricadute, per quanto d’interesse, con riguardo alle condizioni di conclusione di fattispecie particolari di contratto.

Emblematiche sono due fattispecie che, di recente, hanno richiamato l’attenzione della dottrina e della giurisprudenza.

Il riferimento cade sulla possibilità che il soggetto pubblico possa procedere all’acquisto di un bene immobile da costruire – contratto misto in cui coesistono alienazione a appalto con prevalenza della prima rispetto al secondo tanto da ascrivere la fattispecie complessa al concetto civilistico di acquisto di cosa futura – ovvero alla possibilità di esercitare liberamente attività d’impresa attraverso la costituzione di istituzioni societarie finalisticamente orientate alla produzione di beni e servizi in forma d’impresa all’interno di mercato concorrenziale.

Venendo all’analisi del primo caso prospettato, occorre premettere che in considerazione della natura di soggetto di diritto comune della pubblica amministrazione, nulla appaia pregiudizialmente ostare alla stipula di acquisto di cosa futura, nella specie immobile da destinare a finalità pubblica in costruzione.

Siffatta scelta tuttavia ascrivibile a un alveo di astratta ammissibilità, incontra il limite ontologico della funzionalizzazione dell’interesse pubblico della conclusione dell’accordo atipico.

E, infatti, l’assetto d’interessi raggiungibile attraverso l’attuazione del principio del consenso e la susseguente stipula risulta del pari realizzabile attraverso l’utilizzo dei classici moduli autoritativi, esproprio del sito su cui realizzare l’immobile e individuazione dell’appaltatore attraverso idonea procedura di evidenza pubblica.

Di qui l’esigenza, al fine di rendere il modello consensuale compatibile con la funzionalizzazione del soggetto esercente potestà pubblica, di esprimere con puntualità le ragioni motivazionali alla stregua di dati e fattori emergenti nella fattispecie concreta che inducano alla preferenza dello strumento privatistico e consensuale rispetto a quello pubblicistico e autoritativo.

Onere del soggetto pubblico, affinchè sia fatta applicazione corretta del principio consensuale, è che vengano chiaramente espresse le ragioni di preferenza dell’accordo negoziale rispetto al provvedimento unilaterale.

Più precisamente, il ricorso ad acquisto di cosa futura può avvenire, purchè sussistano talune condizioni: l’espletamento di preventiva gara informale ove l’area non sia localizzabile in modo preciso; la puntuale descrizione dell’immobile da acquistare e le caratteristiche che lo rendono infungibile; la coerenza tra destinazione urbanistica dell’immobile da realizzare e previsione di PRG sull’area oggetto di trasferimento; l’indicazione di costi e benefici collegati all’operazione; il titolo di proprietà dell’area acquisito dal venditore in epoca non sospetta rispetto alla determinazione dell’amministrazione di munirsi del bene; l’esaustiva determinazione dell’oggetto del contratto sin dal momento della stipula; la rigorosa verifica del possesso da parte del venditore di sufficienti requisiti di capacità economica che valgano ad assicurare in via preventiva l’adempimento delle obbligazioni contrattuali, requisiti che devono preesistere alla stipulazione del contratto; l’espletamento di puntuale, completa e trasparente attività istruttoria che dia atto degli accertamenti e delle valutazioni in virtù delle quali si possa giustificare la scelta discrezionale di addivenire alla formalizzazione della tipologia contrattuale. Tutto ciò al fine di evitare che l’intesa a valle, l’acquisto di bene in costruzione, rappresenti una surretizia elusione dei modelli procedimentali predeterminati a tutela di finalità pubbliche, quali concorrenza, corretta gestione delle risorse pubbliche (cfr. ANAC parere precontenzioso 46 del 25 febbraio 2010).

Analogo opinare viene proposto anche con riguardo al quesito relativo alla possibilità che il soggetto pubblico attraverso la costituzione di strumento societario idoneo eserciti attività in forma di impresa.

Appare evidente che, da un punto di vista meramente astratto, nulla osti a che un’amministrazione, in ossequi al principio consensuale, sottoscriva un contratto di società. La capacità negoziale dell’amministrazione, infatti, è trasversale. Limiti conseguono alla necessità della verifica in ordine alla compatibilità tra la funzionalizzazione dell’interesse pubblico cui il soggetto istitutivo ontologicamente soggiace e l’attività in forma imprenditoriale che la società istituita mira a realizzare.

Sulla questione si è soffermata l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la pronuncia n. 10 del 2011.

Il Supremo Consesso in ordine alla possibilità che, in specie, le università istituiscano soggetti esercenti attività di progettazione e ricerca ha statuito che tali enti pubblici, “aventi finalità di insegnamento e ricerca, possono dare vita a società, nell’ambito della propria autonomia organizzativa e finanziaria, solo per il perseguimento dei propri fini istituzionali, e non anche per erogare servizi contendibili sul mercato nonché agire, sia pure con determinati limiti, non di mera compatibilità, ma di stretta strumentalità, quale operatore economico nei confronti di committenza pubblica, oltre che privata. L’attività do ricerca e consulenza, anche se in favore di enti pubblici, non può essere indiscriminata, sol perché compatibile, ma deve essere strettamente strumentale alle finalità istituzionali dell’Ente, che sono la ricerca e l’insegnamento, enl senso che giova al progresso della ricerca e dell’insegnamento, o procaccia risorse economiche da destinare a ricerca ed insegnamento. Non può, dunque, trattarsi di un’attività lucrativa fine a sé stessa, perché l’Università è e rimane un ente senza fine di lucro. Entro i suddetti limiti deve, pertanto, ammettersi che l’Università possa agire quale operatore economico nei confronti di committenti pubblici (o ad essi equiparati), non solo in via diretta, ma anche mediante apposita società”.

Peraltro, la generale capacità della pubblica amministrazione di addivenire alla “trasversale” sottoscrizione di accordi privatistici comunque finalizzati al perseguimento dei naturali modelli contrattuali risulta comprovata dal proliferare di innovativi modelli contrattuali che il legislatore pone a disposizione dell’amministrazione.

Da ultimo è possibile citare il “contratto di disponibilità”. Trattasi di una particolare forma di partnership pubblico provata a mezzo del quale un privato realizza e mantiene la titolarità dominicale di un’opera il cui uso, a fronte del pagamento di un canone periodico e per un periodo di tempo determinato, conferisce al soggetto pubblico.

Le peculiari ipotesi contrattuale mira di conseguenza a soddisfare esigenze pubbliche prevalentemente transitorie attraverso la collaborazione con un soggetto privato che realizza l’opera con proprie risorse.

 

 

6. Contratto di tesoreria integrato con clausola di sponsorizzazione

 

Uno dei contratti atipici che negli ultimi anni ha attirato maggiormente l’attenzione della giurisprudenza amministrativa è il contratto di tesoreria integrato con la clausola della sponsorizzazione, dalla dottrina definito la “costola di Adamo” del contratto di sponsorizzazione (R. Dipace, Partenariato pubblico privato e contratti atipici, cit. 147),

Questa tipologia contrattuale nasce nell’ambito degli affidamenti del servizio di tesoreria degli enti locali territoriali. Peraltro, l’utilizzo della clausola suddetta è prassi in uso anche presso le Università degli Studi (G. Ferrari, I contratti di sponsorizzazione e la pubblica amministrazione, in Giur. Merito, 2011, 01, 6).

Il servizio di tesoreria consiste nel “complesso di operazioni legate alla gestione finanziaria dell’ente locale e finalizzate in particolare alla riscossione delle entrate, al pagamento delle spese, alla custodia di titoli e valori e agli adempimenti connessi previsti dalla legge, dallo statuto, dai regolamenti dell'ente o da norme patrizie (…)” in ossequio al disposto dell’art. 209 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, c.d. TUEL “testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali”.

Nella prassi in uso presso gli enti locali, il contratto di tesoreria si connota quale contratto a titolo gratuito non prevedendo onere alcuno a carico dell’amministrazione in favore degli istituti bancari. E’ dunque qualificabile in termini giuscontabilistici contratto “attivo”, come traspare altresì dalla circostanza che la modalità di affidamento del contratto di tesoreria talvolta prescelta ha la forma di concessione.

In ogni caso, per l’affidamento del contratto di tesoreria di regola sono poste in essere procedure competitive pubblicizzate sui siti istituzionali degli enti procedenti, cui gli istituti di credito chiedono di partecipare anche solo al fine di ampliare la propria clientela, in ragione degli indubbi benefici, soprattutto in termini pubblicitari e d’immagine, derivanti dallo svolgimento del servizio per conto dell’ente pubblico. In sostanza gli istituti bancari non traggono un diretto beneficio dalla gestione a titolo gratuito del servizio (R. Chieppa, Le sponsorizzazioni nell’attività della p.a., in www.neldiritto.it).

Il servizio di tesoreria, in considerazione della gratuità delle prestazioni derivante dalla mancata corresponsione di un compenso da parte dell’amministrazione in favore degli istituti di credito, è stato per lungo tempo ritenuto non assoggettabile alle procedure per l’affidamento dei contratti d’appalto di servizi, affermandosi come fattispecie contrattuale atipica.

Il riconoscimento in capo all’amministrazione della capacità di poter ricorrere al contratto atipico di tesoreria consegue a quello della propria autonomia contrattuale: dunque, in ossequio all’art. 1322, comma 2 c.c. è possibile porre in essere contratti che sebbene non tipizzati siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

La prassi in uso presso gli enti locali ha visto il diffondersi del supplemento della clausola di sponsorizzazione apposta allo schema contrattuale della tesoreria, in ragione della quale al servizio di tesoreria si aggiunge un corrispettivo riconosciuto dall’istituto bancario alla stazione appaltante, secondo alcuni a titolo di liberalità. Si tratta di contributi per il finanziamento d’iniziative di utilità sociale, manifestazioni culturali e simili.

La necessità di porre in essere una procedura pubblica selettiva per l’affidamento di tale contratto non è revocata in dubbio, benchè la giurisprudenza amministrativa si sia per molto tempo interrogata sulla legittimità di un simile schema contrattuale, soprattutto in considerazione del fatto che l’inserimento nel bando di gara, fra i criteri di valutazione delle offerte, di una clausola che prevedesse la disponibilità dei partecipanti a stipulare un contratto di sponsorizzazione con assunzione dei relativi oneri e correlativa attribuzione di un punteggio, appariva come il pagamento di un prezzo al fine di conseguire un contratto.

Nell’ambito della giurisprudenza amministrativa sono emersi due filoni interpretativi.

Invero, un primo orientamento tendeva a escludere la legittimità del ricorso allo strumento. E a tale conclusione perveniva muovendo dalla qualificazione in termini di appalto di servizi; la clausola di sponsorizzazione appariva come il prezzo per conseguirne l’aggiudicazione configurandosi dunque come illegittima, estranea alla causa del contratto e aberrante (Cons. St., sez. V, 20 agosto 1996, n. 937; sez. VI, 6 ottobre 1999, n, 1326).

Un secondo orientamento sosteneva, al contrario, che la previsione di punteggi, a seconda del quantum di erogazioni a titolo di sponsorizzazione, nel bando, avviso o lettera d’invito alla procedura di gara per l’affidamento del servizio di tesoreria fosse legittima, non comportando un effetto distorsivo sulla par condicio dei partecipanti alla gara né sulla trasparenza del contratto, proprio perché già previste nella lettera di invito, avviso o bando (Cons. St., sez. V, ord. 21 novembre 2000, n. 5896; sez. VI, 19 giugno 2001, n. 3245 e 4 dicembre 2001, n. 607). Più precisamente, tale orientamento riteneva che non si potesse prevedere un compenso in favore della stazione appaltante per la prestazione del servizio di tesoreria in quanto tale, che quindi restava gratuito, ma fosse del tutto legittimo richiedere il riconoscimento di somme a titolo di sponsorizzazione, utilizzando il quantum di contribuzione quale criterio di aggiudicazione del contratto.

La clausola del bando di gara per l’affidamento del servizio di tesoreria che prevedesse un punteggio per la sponsorizzazione di servizi ulteriori rispetto al servizio di tesoreria fu così ritenuta legittima, ferma restando, pur in considerazione dell’atipicità del contratto, la necessità del previo esperimento di una procedura selettiva.

Secondo il Consiglio di Stato, pur trattandosi di contratto atipico per l’affidamento del quale la normativa pubblicistica non onera l’amministrazione dell’esperimento di una procedura a evidenza pubblica, questa sarebbe in ogni caso necessaria, in quanto consentirebbe di individuare l’aggiudicatario sulla base di criteri di trasparenza e d’imparzialità e nel contempo di determinare il contenuto del contratto in ragione delle esigenze della stessa e sulla base di previsioni che siano per essa le più convenienti.

Il conflitto giurisprudenziale tra i due orientamenti è stato composto con la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 18 giugno 2002, n. 6, che ha dichiarato legittimo l’abbinamento della clausola di sponsorizzazione al contratto di affidamento del servizio di tesoreria purché: a) “il pagamento di un corrispettivo in danaro per la sponsorizzazione e i criteri di attribuzione dei punteggi siano previsti nella lettera d'invito, sicché in alcun modo possa ritenersi lesa la par condicio dei partecipanti alla gara una volta resi edotti della clausola e della sua potenziale, seppur parziale incidenza ai fini dell'aggiudicazione”; b) “l’attribuzione dei punteggi dovrà privilegiare, essenzialmente, gli aspetti relativi alla capacità tecnica, operativa e organizzativa del concorrente ed all’economia del servizio di tesoreria in sé considerato, dovendo l’Amministrazione individuare in proposito criteri in grado, almeno potenzialmente, di differenziare in modo significativo le offerte sotto i profili più strettamente funzionali ora detti; mentre il punteggio conferibile in relazione alle sponsorizzazioni dovrà essere modulato in termini più che altro residuali e tali da non costituire l’elemento discriminante principale e – per la sua oggettiva portata - tendenzialmente risolutivo dell’iter concorsuale”. “Ne consegue che il conferimento di punteggio per tale voce dovrà muoversi – anche ad evitare che si alterino i principi della concorrenza e della trasparenza dell’azione amministrativa e che, in definitiva, si venga a disincentivare surrettiziamente una seria partecipazione alla gara medesima – nell’ambito di una forcella esattamente definita dalla lex specialis della gara ed ivi resa nota ai concorrenti, tale da non comportare in alcun caso l’attribuzione di punteggi aggiuntivi direttamente e illimitatamente proporzionali al crescere dell’entità dell’offerta per la voce stessa”.

La sentenza dell’Adunanza Plenaria è intervenuta prima della disciplina del contratto di sponsorizzazione introdotta dal Codice dei Contratti del 2006.

La dottrina ha così successivamente ipotizzato l’applicazione della previsione dell’art. 26 del d.lgs. n. 163 del 2006 anche alle ipotesi di contratti atipici di tesoreria con clausola di sponsorizzazione (M. Renna, Le sponsorizzazioni, in F. Mastragostino, (a cura di), La collaborazione pubblico-privato e l’ordinamento amministrativo. Dinamiche e modelli di partenariato in base alle recenti riforme, Torino, 2011, 530). In particolare, la convinzione dell’applicazione della disciplina dell’affidamento del contratto di sponsorizzazione passiva rinveniva il proprio fondamento nella formulazione di ampio respiro utilizzata dal Codice De Lise che faceva riferimento ai “contratti di sponsorizzazione e ai contratti a questi assimilabili”.

L’esigenza di assoggettare l’affidamento del contratto di tesoreria con clausola di sponsorizzazione all’esperimento di una procedura selettiva che garantisca pubblicità, trasparenza e scelta oggettiva del contraente mediante procedure concorrenziali è stata espressa sia dalla giurisprudenza sia dalla dottrina.

Parrebbe che l’attuale addentellato normativo di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 50 del 2016 non consenta di ricondurvi anche la fattispecie de qua, difettando, rispetto all’art. 19 del Codice del 2006, di una formulazione così ampia.

Tuttavia, secondo la dottrina, sembrerebbe si debba ricercare ancora una volta il fondamento dell’opportunità dell’esperimento di una procedura selettiva nei principi generali sanciti dall’art. 3 del r.d. n. 2440 del 1923, che impone l’asta pubblica altresì per i contratti dai quali derivi un’entrata per lo Stato, dall’art. 97 Cost. come “codificato” nella legge sul procedimento amministrativo che reca con sé l’esigenza d’imparzialità e trasparenza dell’azione amministrativa, di efficienza ed economicità (R. Dipace, Partenariato pubblico privato e contratti atipici, cit.).

 

 

7. I contratti misti

 

Nel diritto privato il contratto misto connotato dalla deduzione nell’ambito di una fattispecie negoziale unitaria di una molteplicità di elementi, riconducibili astrattamente a tipi contrattuali differenti.

Secondo la dogmatica civilistica prevalente, il tratto peculiare del contratto misto che lo distingue, peraltro, dal fenomeno del collegamento negoziale, si ravvisa nella circostanza che solo nel primo le diverse prestazioni risultano interamente commiste e reciprocamente condizionate per il raggiungimento di uno stesso intento negoziale, così da risultare non suscettibili di una considerazione autonoma che le riconduca alle singole cause di cui è stata operata la sintesi.

Secondo la dottrina e la giurisprudenza sostanzialmente unanime, il collegamento negoziale sussiste invece ove due o più negozi, pur perseguendo la stessa finalità, conservino la propria autonomia strutturale.

Il problema che il contratto misto pone, in concreto, attiene all’individuazione della normativa applicabile, concorrendo nella stessa fattispecie, in considerazione di volta in volta dei singoli frammenti di schema negoziale rappresentati, una pluralità di discipline, peraltro non sempre compatibili tra di loro.

Lo stesso problema si è posto con riferimento ai contratti misti stipulati dall’amministrazione pubblica, in specie nel caso degli appalti misti con cui si commissionano nel contempo lavori e/o servizi e/o forniture.

La possibilità per l’amministrazione di porre in essere contratti misti non espressamente tipizzati dal legislatore consegue al riconoscimento in capo alla stessa dell’autonomia negoziale di cui all’art. 1322, comma 2 c.c. (Cons. St., sez. VI, 16 luglio 2015, n. 3571).

Tuttavia, sono emerse non poche difficoltà nella ricostruzione del regime applicabile.

Fra i contratti misti ha assunto un particolare rilievo il c.d. global service.

Difficoltà sono emerse anche con riguardo al contratto di compravendita di cosa futura di cui all’art. 1472 c.c. sia pure nominato, già esaminato.

 

 

8. Le estensioni del diritto privato problematiche

 

La generale soggezione dell’amministrazione alle regole del diritto comune e del codice civile rappresenta ormai, come si è ampiamente illustrato, un principio acquisito al nostro ordinamento

Invero, l’applicazione di taluni istituti è stata in passato terreno di scontri fra opinioni favorevoli a estendere la normativa civilistica all’amministrazione e opinioni conservatrici dei privilegi del contrante pubblico.

Criterio ispiratore della dottrina e della giurisprudenza in tale operazione ermeneutica è stato quello volto a eliminare ogni disparità di trattamento fra contraente privato e amministrazione, sia in nome del principio generale di uguaglianza, sia al fine di porre fine a una sorta di area nella quale si era venuto a determinare un diritto privato “speciale” per l’amministrazione, visto con sempre maggiore insofferenza quale privilegio anacronistico accordato a quest’ultima.

Si è così assistito a un progressivo superamento dell’orientamento tradizionale, che riconosceva uno statuto speciale dell’attività negoziale dell’amministrazione, connotato da un’applicazione limitata del diritto privato.

Per lungo tempo si è negata, ad esempio, l’applicabilità degli artt. 1341 e 1342 c.c. alle condizioni di contratto incluse nei capitolati delle amministrazioni pubbliche.

A tale conclusione si perveniva muovendo da alcune considerazioni relative alla necessità di approvazione per iscritto delle clausole vessatorie inserite negli schemi contrattuali predisposte dalle amministrazioni. Si osservava che la ratio sottesa all’art. 1341 c.c., rappresentata dalla tutela del contraente debole a fronte di possibili abusi perpetrati dalla controparte più forte, non potesse operare in caso di contratti stipulati dall’amministrazione, atteso che l’azione amministrativa è vincolata istituzionalmente a scopi d’interesse generale e, dunque, retta dai principi d’imparzialità e giustizia (Cass. civ., 30 settembre 1954, n. 3174).

In seguito, la giurisprudenza ha riconosciuto l’applicabilità degli artt. 1341 e 1342 c.c. alle clausole vessatorie imposte dall’amministrazione.

Tale conclusione è supportata da una duplice argomentazione. Anzitutto, si è osservato che l’amministrazione, ove agisca iure privatorum, sia pure con lo scopo di cura di fini pubblici, si comporta come qualsiasi contraente privato; dunque la propria attività non può risultare coperta da presunzione di legittimità alcuna. In secondo luogo, si è precisato che la ratio sottesa alla disciplina de qua, non risiede tanto nella tutela del contraente debole, quanto nell’intento di sollecitare l’attenzione del soggetto non predisponente sul contenuto della pattuizione, attraverso la previsione del meccanismo formale della specifica approvazione per iscritto (Cass. civ., sez. I, 29 settembre 1984, n. 4832).

La legge 6 febbraio 1996, n. 52, che ha recepito nel codice civile la direttiva comunitaria dedicata ai contratti del consumatore, ha assoggettato anche l’amministrazione all’osservanza degli artt. 1469 bis e ss..

La disciplina relativa è ora contenuta nel codice di consumo di cui al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206.

Il problema dell’applicabilità delle norme del codice civile all’attività negoziale dell’amministrazione pubblica si è posto altresì con riguardo all’esecuzione forzata in forma specifica dell’obbligo di contrarre di cui all’art. 2932 c.c..

Il quesito ha diviso per lungo tempo dottrina e giurisprudenza.

L’orientamento più risalente sosteneva l’inapplicabilità del rimedio e argomentava la tesi muovendo dall’impossibilità di imporre all’amministrazione inadempiente un facere incoercibile appartenente alla propria sfera di discrezionalità.

Tale orientamento è stato in seguito superato dalla dottrina e dalla giurisprudenza sul presupposto che il potere discrezionale dell’amministrazione opera solo nella fase che precede la stipula del preliminare, non in quella successiva. In quest’ultima, l’amministrazione pone in essere atti vincolati La discrezionalità riservata alla pubblica amministrazione si può considerare esaurita nella stipula del contratto preliminare, fonte di obblighi giuridici, in disparte la natura del soggetto contraente. L’eventuale rifiuto alla conclusione del contratto definitivo deve, dunque, essere valutato come inadempimento suscettibile di sanzione con l’emanazione della sentenza costitutiva di cui all’art. 2932 c.c. (Cass. civ., S.U., 7 ottobre 1983, n. 5838).

Le ultime prese di posizione della giurisprudenza amministrativa e ordinaria si assestano su tale linea esegetica, riconoscendo l’esperibilità del rimedio “al fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di portare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege” (Cass. civ., S. U., 9 marzo 2015, n. 4683; Cons. St., ad. pl., 20 luglio 2012, n. 28).

Una differenza rilevante segna, però, il confine tra accordi ai sensi dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990 e i contratti stipulati dall’amministrazione.

Per i primi, la legittimazione a esperire il rimedio di cui all’art. 2932 c.c. è stata riconosciuta solo all’amministrazione, sull’assunto che il privato sia titolare di un mero interesse legittimo; nell’ipotesi di attività negoziale si è invece ritenuto che anche il privato possa pretendere l’esecuzione dell’obbligo di contrarre e, dunque, il rifiuto eventuale alla conclusione del contratto definitivo deve essere valutato quale inadempimento sanzionabile con l’emanazione della sentenza costitutiva di cui all’art. 2932 c.c.. In quest’ultima ipotesi, invero, le parti contraenti sono in una posizione di parità sostanziale con integrale applicazione delle norme dettate dal codice civile, richiamate solo per principi nel caso di accordi integrativi e sostitutivi.

Nel tempo sono stati, poi, superati gli orientamenti che non ritenevano configurabile una culpa in contrahendo dell’amministrazione pubblica rispetto ai canoni di buona fede e di correttezza di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c., senza poter rivendicare delle prerogative pubblicistiche specifiche.

Ed è stato, altresì superata la tesi che sosteneva la non configurabilità della c.d. mora della pubblica amministrazione e, quindi, la risoluzione per inadempimento della stessa nei contratti a prestazioni corrispettive aventi a oggetto il pagamento da parte dell’amministrazione di una somma di denaro, dalla stessa non erogata alla scadenza contrattuale per effetto del mancato esaurimento del procedimento amministrativo che deve precedere ogni pagamento.

Secondo tale orientamento, più precisamente, all’amministrazione non era applicabile l’art. 1224 c.c. in materia di obbligazioni pecuniarie e, dunque, tutte le regole sulla debenza degli interessi moratori e sul danno da svalutazione monetaria. Si riteneva che, prima della conclusione del procedimento contabile previsto dalle norme sulla contabilità dello Stato, l’amministrazione non potesse essere qualificata né inadempiente né in mora.

Tale prospettiva pubblicistica è stata, tuttavia, superata in considerazione della differente ricostruzione secondo cui le questioni organizzative e le tempistiche concernenti il procedimento diretto all’emissione del mandato di pagamento dell’amministrazione rappresentano interna corporis non opponibili al creditore.