Cons. Stato, Ad. Plen., 23 febbraio 2018, n. 1

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato esclude la cumulabilità del risarcimento del danno e dell’equo indennizzo ai fini della liquidazione del danno complessivamente patito per causa di servizio dal pubblico dipendente. Pertanto, in sede di liquidazione occorre detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario.

Infatti, un’unica condotta, fonte per un soggetto di due obbligazioni aventi titoli diversi, ma entrambe finalizzate a compensare il pregiudizio provocato allo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario. Conseguentemente, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, vige il divieto del cumulo il quale comporta la necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario.

La questione posta riguarda la valenza del principio della cd. compensatio lucri cum damno nella fase di determinazione del danno cagionato dal datore di lavoro pubblico ad un proprio dipendente. In particolare, si tratta di accertare se la somma spettante a titolo risarcitorio per lesione della salute conseguente alla esalazione di amianto nei luoghi di lavoro sia cumulabile con l’indennizzo percepito a seguito del riconoscimento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio ovvero se tale indennizzo debba essere decurtato dal risarcimento del danno.

L’Adunanza plenaria applica la regola della compensatio non più nella sua versione “tradizionale”, che presuppone che la medesima condotta determini un “danno” e un “vantaggio”. Bensì, la riconduce alle tecniche di determinazione del danno nel senso che la medesima condotta ha determinato solo “danni” e dunque effetti pregiudizievoli, con la conseguenza che occorre evitare il “cumulo di voci risarcitorie” e non “il cumulo di danno e di lucro”.

Questi i passaggi salienti della decisione.

Anzitutto vengono esaminate alcune questioni di carattere generale che definiscono il contesto sistematico comune e si dà conto dei due diversi orientamenti giurisprudenziali, entrambi presenti in sede civile e amministrativa[1].

La prima questione è relativa ai titoli delle obbligazioni (1173 cod. civ.) dai quali sorgono rapporti giuridici, che definiscono anche le cause giustificative degli spostamenti patrimoniali.

La seconda questione attiene alla struttura della responsabilità civile e contrattuale e alla cd. causalità giuridica, nonché alla funzione della responsabilità stessa.

Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione a proposito della causalità giuridica, di cui all’art. 1223 cod. civ., richiamato anche dall’art. 2056 cod. civ., è risarcibile anche il danno mediato o indiretto, purché sia prodotto da una sequela normale di eventi che traggono origine dal fatto originario e dei danni considerati risarcibili (Sez. III, n. 29 febbraio 2016, 3893; Id., Sez. II, 24 aprile 2012, n. 6474; Id., Sez. III, 4 luglio 2006, n. 15274; Id., Sez. III, 19 agosto 2003, n. 12124; Id., Sez. III, 17 settembre 2013, n. 21255); riguardo alla funzione del risarcimento del danno (Sez. riun., 5 luglio 2017, n. 16601) la finalità generale e prioritaria è compensativa, mentre quella specifica ulteriore sanzionatoria-punitiva è configurabile soltanto nei casi in cui vi sia una espressa previsione di legge.

Si individua, poi, nell’ambito delle diverse categorie sul piano dei titoli delle obbligazioni e dei soggetti responsabili e obbligati, quella interessante la fattispecie all’esame in cui è presente un’unica condotta responsabile, un solo soggetto obbligato e titoli differenti delle obbligazioni.

Il titolo dell’obbligazione risarcitoria è regolato dall’art. 2087 cod. civ., applicabile anche in ambito pubblicistico, il quale prevede che «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».

Circa la natura di tale obbligazione, in conformità all’orientamento prevalente della Corte di cassazione, l’Adunanza plenaria ritiene che abbia natura contrattuale e rinvenga la propria fonte nel contratto di lavoro che, ai sensi dell’art. 1374 cod. civ., è integrato dalla norma di legge, sopra riportata, che prevede doveri di prestazione finalizzati ad assicurare la tutela della salute del lavoratore.

L’accertamento di tale responsabilità dà diritto, sussistendone i presupposti, anche al risarcimento del danno non patrimoniale e, in particolare, del cd. danno biologico.

A tale proposito, l’art. 2059 cod. civ. dispone che tale voce di danno «deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge» la quale può essere sia quella “costituzionale”, con tutela dei diritti fondamentali della persona, sia quella “ordinaria” che può stabilire la risarcibilità anche di posizioni soggettive non riconducibili all’area dei diritti della persona (Cass., Sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972). Ai fini del danno conseguenza, viene in rilievo la cd. «sofferenza morale», che costituisce l’aspetto interiore del danno, e il cd. «danno esistenziale», che costituisce «l’impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana» e cioè l’incidenza dell’illecito nella sfera dinamico relazionale del soggetto, in quanto «i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell’individuo» sono «il dolore interiore, e/o la significativa alterazione della vita quotidiana» (Cass. civ., sez. III, 20 aprile 2016, n. 7766).

Pure in assenza di una espressa norma di collegamento, la Cassazione ritiene che l’art. 2059 cod. civ. sia applicabile anche in ambito contrattuale. In particolare, in assenza di una espressa previsione di legge che contempli tale danno, è necessario che il contenuto dell’obbligazione contrattuale, individuato anche alla luce della causa in concreto e dunque della ragione pratica dell’affare, sia costituito dal dovere di protezione di un diritto fondamentale della persona del creditore.

Il titolo della seconda obbligazione riguardante l’indennità per infermità riconosciute dipendenti da causa di servizio è regolato da norme specifiche (art. 68 d. P.R. 10 gennaio 1957, n. 3; d.P.R. 3 maggio 1957, n. 686; art. 32 d.P.R. 26 maggio 1976, n. 411; d.P.R. 20 aprile 1994, n. 349; d.P.R. 29 ottobre 2001, n. 461; norme in parte abrogate dal decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201).

In relazione alla natura di tale indennità l’Adunanza plenaria ha ritenuto che essa sia diversa dalle somme corrisposte a titolo di risarcimento del danno e deve essere considerata alla stessa stregua delle altre indennità corrisposte in costanza di rapporto di lavoro.

Diverse le ragioni che hanno deposto in tale senso. Sul piano strutturale, poiché nella disciplina dell’indennità il legislatore prescinde da ogni riferimento a criteri di responsabilità conseguenti al verificarsi dell’evento dannoso» (sentenze 16 aprile 1985, n. 14; 8 ottobre 2009, n. 5). Sul piano funzionale, poiché le norme di legge non proteggono il bene «integrità psico-fisica» che «è solo l’occasione dell’erogazione, ma la speciale condizione del dipendente divenuto infermo in ragione del suo rapporto con l’amministrazione e del servizio prestato» (sentenza 16 luglio 1993, n. 9).

Tuttavia, con la sentenza in esame tale orientamento viene rimeditato per vari motivi.

Anzitutto, l’indennità in questione si ritiene che abbia natura sostanzialmente analoga a quella risarcitoria da illecito contrattuale. Infatti, sul piano strutturale, la nozione di “indennità” è normalmente collegata ad una condotta che integra gli estremi di un atto lecito dannoso, in quanto tale autorizzato dal sistema. Ma la nozione di “indennità” è compatibile anche con una condotta che integri gli estremi di un atto illecito, in quanto tale vietato dal sistema.

Sul piano funzionale, la finalità perseguita, in ogni caso, è quella di compensare la sfera giuridica del lavoratore leso sia pure attraverso un meccanismo strutturalmente differente da quello risarcitorio.

Il «bene protetto» è anche in questo caso l’integrità psico-fisica del dipendente ed essa costituisce non l’occasione ma la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale.

Conseguentemente, le somme corrisposte a titolo d’indennità e a titolo di risarcimento non possono essere cumulate.

Sul piano della struttura degli illeciti, la presenza di una condotta unica responsabile che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito, aventi entrambe finalità compensativa del medesimo bene giuridico, in capo allo stesso soggetto determina la nascita di rapporti obbligatori sostanzialmente unitari che giustifica l’attribuzione di una, altrettanto unitaria, prestazione patrimoniale finalizzata a reintegrare la sfera personale della parte lesa.

 

Importante, infine, l’ultimo principio affermato nella sentenza in esame.

La nuova regola della compensatio non può ritenersi applicabile soltanto a rapporti futuri e non anche a quelli in corso.

Infatti, gli enunciati giurisprudenziali hanno natura formalmente dichiarativa. La diversa opinione «finisce per attribuire alla esegesi valore ed efficacia normativa in contrasto con la logica intrinseca della interpretazione e con il principio costituzionale della separazione dei poteri venendosi a porre in sostanza come una fonte di produzione» (Ad. Plen., 2 novembre 2015, n. 9).

Affinché un orientamento del giudice della nomofilachia possa avere efficacia solo per il futuro devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: «a) che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; b) che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; c) che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte» (Cass. civ., Sez. lav., 11 marzo 2013, n. 5962).

Qualora non ricorra nessuna delle ipotesi sopra indicate, la controversia deve essere risolta secondo le regole individuate.

 

 

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8 di A.P. del 2017, proposto dal Ministero della Giustizia, in persona del Ministero pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Sabrina Mannarino e Vincenzo Davide Greco, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Gaetano Rampini, 16;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, Sezione I, 20 aprile 2016, n. 849.

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visto l'atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-;

viste le memorie difensive;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 dicembre 2017 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Giannuzzi e l’avvocato Mannarino.

 

FATTO

1.– Il dr. OMISSIS- ha esposto, in un ricorso proposto innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sede di Catanzaro, di avere svolto, sin dal mese di ottobre del 1989, funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso la Procura della Repubblica di Paola ed, in tale qualità, «per oltre un decennio, a causa dei numerosi impegni di lavoro, resi ulteriormente gravosi dal rilevante carico di procedimenti penali assegnatogli, nonché dallo svolgimento delle funzioni di Procuratore della Repubblica nel lungo periodo di vacanza del posto, (…) è stato costretto a trattenersi quotidianamente presso gli uffici della Procura, spesso fino a tarda ora».

In particolare, da una relazione svolta dalla unità sanitaria locale, a seguito del sopralluogo effettuato presso l’edificio che ospita la Procura in data 30 ottobre 1995, sarebbe emerso «che i muri esterni erano costituiti da lastre piane in cemento-amianto, sostenute da profilati in alluminio» e che «le perforazioni presenti nelle lastre in cemento avevano determinato, con l’emissione di polvere, il rilascio di fibre di amianto».

Nonostante le autorità sanitarie avessero conseguentemente manifestato «la necessità che le lastre in cemento amianto venissero rimosse, sostituite, ovvero bonificate nel modo più idoneo, in quanto rappresentavano una grave fonte di inquinamento ambientale», i relativi lavori non sarebbero stati eseguiti se non tardivamente ed in maniera incompleta.

In data 4 dicembre 2001 il dr. -OMISSIS- ha presentato istanza di riconoscimento di dipendenza di infermità da causa di servizio, allegando le risultanze di un esame radiologico effettuato in data 19 luglio 2001, dal quale era emersa la «presenza di immagine di pus da riferire ad ulcera in fase florida» ed aggiungendo di essere stato sottoposto, in data 31 agosto 2001, ad un intervento chirurgico per l’asportazione di una formazione neoplastica, poi risultata essere un «carcinoma renale a cellule chiare ben differenziato (GI) con focali aspetti papillari con micro focolaio di infiltrazioni della capsula reale».

Il Comitato di Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, con provvedimento del 2 marzo 2005, ha dichiarato la dipendenza da causa di servizio delle infermità «malattia peptica ulcerosa duodenale» ed «esiti di nefrectomia parziale sinistra con resezione parziale della X^ costa per carcinoma sx a cellule chiare, ben differenziato (G1)» e ha riconosciuto al dr. -OMISSIS- «la misura massima prevista dalle vigenti disposizioni di legge ai fini della concessione dell’equo indennizzo», ascritto alla quarta categoria della tabella A e liquidato in misura pari ad € 49.567,07, somma poi materialmente corrisposta al ricorrente in virtù dei decreti di autorizzazione al pagamento emessi dal resistente Ministero in data 21 aprile 2005 e 16 maggio 2005.

1.1.– Per le ragioni sin qui riportate dr. -OMISSIS- ha chiesto al Tribunale amministrativo regionale la condanna del Ministero della giustizia al risarcimento del danno non patrimoniale alla salute subito a seguito dell’esposizione all’amianto e quantificato nella somma di euro 150.000,00.

Da tale somma, nella prospettiva del ricorrente, non avrebbe dovuto essere detratto l’importo già percepito a titolo di equo indennizzo, che costituirebbe uno «strumento a contenuto patrimoniale di natura previdenziale», mentre il risarcimento sarebbe «finalizzato a ripristinare integralmente il danno subito, in tutte le sue qualificazioni».

2.– Il Tribunale amministrativo, con sentenza 20 aprile 2016, n. 849 ha accolto il ricorso, riconoscendo a favore del dr. -OMISSIS-, a titolo di risarcimento del danno, la somma complessiva di euro 85.180,00. In particolare, il primo giudice ha ritenuto che «come da costante orientamento della giurisprudenza, le prestazioni indennitarie riconosciute dalla legge in favore dei pubblici dipendenti affetti da patologie contratte per causa di servizio ovvero per le vittime del dovere concorrono con il diritto al risarcimento del danno da responsabilità contrattuale o extracontrattuale dell’amministrazione in ordine al medesimo pregiudizio all’integrità psicofisica patita dal dipendente». L’importo di quelle prestazioni «non può cioè venire detratto da quanto spettante per il diverso titolo risarcitorio, dovendosi escludere che ricorra un’ipotesi di compensatio lucri cum damno». Si è affermato, infatti, che l’illecito mentre «costituisce fatto genetico e costitutivo della pretesa al risarcimento, rappresenta una mera occasione rispetto alla spettanza dell’indennità che sorge per il solo fatto che la lesione sia avvenuta nell’espletamento di un servizio di istituto del soggetto, indipendentemente dalla responsabilità civile dell’amministrazione datrice di lavoro e in misura autonoma dall’effettiva entità del pregiudizio subito dall’interessato, ciò che rileva è l’assenza della finalità compensativo-sostitutiva propria del risarcimento».

3.– Il Ministero della giustizia ha proposto appello, fondato sull’unico motivo della ritenuta «violazione e falsa applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, desumibile dall’art. 1223 c.c.». Secondo il Ministero «la necessità dello scomputo dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno di quanto corrisposto all’appellato proprio in ragione della riconosciuta dipendenza dal servizio della patologia contratta per effetto dell’esposizione all’amianto è imposta dall’esigenza di evitare l’ingiustificato arricchimento determinato dal porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero della giustizia) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo».

3.1.– Si è costituito in giudizio il ricorrente in primo grado, chiedendo il rigetto dell’appello.

4.– La Quarta Sezione, con ordinanza 6 giugno 2017, n. 2719, ha ritenuto che, in materia, sia riscontrabile un contrasto interpretativo nell’ambito della giurisprudenza della Corte di cassazione.

Un primo orientamento tradizionale, cui si è uniformato il Tribunale amministrativo, ritiene che in questi casi possa operare il cumulo tra indennizzo e risarcimento, venendo in rilievo fonti diverse delle obbligazioni dovute e la condotta illecita è mera “occasione” e non “causa” dell’attribuzione dell’indennità.

Un secondo orientamento minoritario sostiene, invece, che in questi casi debba operare la compensatio lucri cum damno, in quanto ciò che rileva è che la condotta sia unica e, nella specie, il fatto illecito deve considerarsi “causa” dell’attribuzione dell’indennità.

La Sezione – «in considerazione del pregio delle argomentazioni poste a sostegno del più recente indirizzo, dell’esposto contrasto giurisprudenziale fra Sezioni della Corte di cassazione e della possibilità che tale contrasto possa svilupparsi anche in seno alla giurisprudenza del Consiglio di Stato» – ha ritenuto «opportuno deferire il presente ricorso all’esame dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, commi 1 e 4, c.p.a., per la decisione del seguente punto di diritto (e conseguentemente per la eventuale definizione dell’intera controversia): “se sia possibile o meno sottrarre dal complessivo importo dovuto al danneggiato a titolo di risarcimento del danno gli emolumenti di carattere indennitario versati da assicuratori privati o sociali ovvero da enti pubblici, specie previdenziali”».

5.– Le parti hanno depositato memorie difensive nel presente giudizio.

In particolare, la parte appellata ha messo in rilievo come, in questo caso, non possa opera la regola della compensatio in quanto: i) sussiste una diversità di titoli delle obbligazioni, che hanno natura e presupposti diversi, che giustificherebbe il cumulo tra le somme pretese; ii) la disciplina degli indennizzi da corrispondere in presenza di infermità derivanti da cause di servizio ha puntualmente indicato i fattori che devono ridurre l’indennità da corrispondere e tra questi non è menzionata la somma corrisposta a titolo di risarcimento del danno (art. 50 del d.p.r. 3 maggio 1957, n. 686); iii) nella specie viene in rilievo il risarcimento del danno non patrimoniale, in relazione al quale, da un lato, non sarebbe neanche astrattamente ipotizzabile «un rischio di arricchimento del danneggiato», non potendo il danno alla persona «essere riparato in base a criteri convenzionali» e pertanto il danneggiato non potrebbe «neanche ritrovarsi in una situazione più favorevole rispetto a quella generata dall’illecito»; dall’altro, «viene in rilievo un danno biologico (…) che assume una rilevanza particolare all’interno del danno non patrimoniale risarcibile»; dall’altro ancora, l’art. 1223 cod. civ. «fa riferimento alla “perdita” e al “mancato guadagno” subiti dal creditore», che identificherebbero concetti che «attengono al patrimonio del danneggiato (…) ma sono invece estranei al risarcimento del danno non patrimoniale, riguardo al quale non è concepibile una tale distinzione»; iv) nella fattispecie in esame, la responsabilità dovrebbe avere una funziona sanzionatoria per la presenza di una condotta dell’amministrazione che avrebbe posto in evidenza «gravi mancanze nella tutela dell’integrità del dipendente», con la conseguenza che la «relativa condanna ha un effetto di stimolo per il corretto adempimento dei doveri facenti capo all’amministrazione».

Infine, si è chiesto, anche qualora venisse vietato il cumulo, di affermare il principio di diritto ai soli giudizi proposti dopo la decisione della Plenaria «in conformità al principio di irretroattività dei mutamenti giurisprudenziali incidenti sul diritto vivente».

6.– La causa è stata decisa all’esito della camera di consiglio del 13 dicembre 2017.

DIRITTO

1.– La questione posta all’esame dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato attiene alla valenza del principio della cd. compensatio lucri cum damno (di seguito anche solo compensatio) nella fase di determinazione del danno cagionato dal datore di lavoro pubblico ad un proprio dipendente.

In particolare, si tratta di accertare se la somma spettante a titolo risarcitorio per lesione della salute conseguente alla esalazione di amianto nei luoghi di lavoro sia cumulabile con l’indennizzo percepito a seguito del riconoscimento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio ovvero se tale indennizzo debba essere decurtato dal risarcimento del danno.

2.– La soluzione di tale questione non può essere unitaria ma è strettamente correlata alla specificità delle fattispecie concrete.

Prima di esaminarle è opportuno trattare alcune questioni di carattere generale che definiscono il contesto sistematico comune in cui esse si inseriscono.

La prima questione attiene ai titoli delle obbligazioni (1173 cod. civ.) dai quali sorgono rapporti giuridici, che definiscono anche le cause giustificative degli spostamenti patrimoniali. Tali rapporti, anche in ragione, tra l’altro, dei soggetti coinvolti, possono avere natura semplice o complessa. In particolare, vi possono essere rapporti obbligatori con un solo soggetto responsabile e obbligato, eventualmente in forma complessa, ovvero più rapporti obbligatori collegati che possono, in ragioni di variabili dipendenti dal caso concreto, giustificare l’attribuzione di una o di più prestazioni patrimoniali.

La seconda questione attiene alla struttura della responsabilità civile e contrattuale e, in particolare, per quanto rileva in questa sede, alla cd. causalità giuridica nonché alla funzione della responsabilità stessa.

In relazione alla causalità giuridica, l’art. 1223 cod. civ., richiamato anche dall’art. 2056 cod. civ., dispone che «il risarcimento del danno per l’inadempimento per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta».

L’orientamento prevalente della Corte di Cassazione ritiene che le suddette disposizioni non pongano una vera e propria regola causale bensì prevedano criteri di determinazione del danno risarcibile in applicazione della teoria della causalità adeguata, che impone di considerare danni conseguenza risarcibili solo quelli riconducibili al fatto illecito secondo principi di regolarità causale che fanno applicazione del criterio dell’id quod plerunque accidit. In questa ottica, la giurisprudenza ritiene risarcibile anche il danno mediato o indiretto, purché sia prodotto da una sequela normale di eventi che traggono origine dal fatto originario (Cass. civ., sez. III, n. 29 febbraio 2016, 3893; Id., sez. II, 24 aprile 2012, n. 6474; Id., sez. III, 4 luglio 2006, n. 15274; Id., sez. III, 19 agosto 2003, n. 12124; Cass. civ., sez. III, 17 settembre 2013, n. 21255, ritiene, invece, che anche la causalità giuridica deve essere considerata una causalità in senso tecnico, da accertare secondo la regola probatoria del “più probabile che non”).

In relazione alla funzione del risarcimento del danno, le Sezioni unite della Corte di Cassazione, con sentenza 5 luglio 2017, n. 16601, hanno affermato, con riferimento alla responsabilità civile, che essa può perseguire plurime finalità che si pongono su piani differenti (Cass. civ., sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601).

La finalità generale e prioritaria è compensativa: lo scopo è di reintegrare la sfera giuridica del danneggiato ponendolo, in attuazione del cd. principio di indifferenza, nella situazione in cui si sarebbe trovato senza il fatto illecito.

La finalità generale e secondaria è «preventiva (o deterrente o dissuasiva)»: lo scopo è anche quello di evitare la reiterazione del fatto illecito.

La finalità specifica ulteriore è «sanzionatoria-punitiva»: lo scopo è di “punire” il danneggiante mediante la condanna, nei soli casi in cui la legge lo consenta in coerenza con i limiti che la Costituzione pone nella conformazione delle regole di responsabilità (cfr. art. 25), a corrispondere una somma superiore a quella necessaria per eliminare i pregiudizi conseguenti al fatto illecito.

Gli aspetti esaminati propri della responsabilità civile valgono, con i necessari adattamenti, anche con riferimento alla responsabilità contrattuale.

La finalità generale e prioritaria è, infatti, anche in questo caso, compensativa.

La finalità specifica ulteriore sanzionatoria-punitiva è configurabile soltanto nei casi in cui vi sia una espressa previsione di legge: si pensi, a titolo esemplificativo, alla conversione del contratto di mutuo da oneroso a gratuito nel caso in cui le parti abbiamo previsto l’obbligo di corrispondere interessi usurari (art. 1815 cod. civ.). Il principio di parità delle parti del contratto, quale proiezione del principio costituzionale di eguaglianza, esclude anche che esse possano prevedere, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, rimedi risarcitori di natura punitiva. La stessa norma che contempla la clausola penale (art. 1382 cod. civ.) deve essere interpretata nel senso di attribuire ai contraenti un potere che ha una finalità esclusivamente risarcitoria come dimostra la previsione, attuativa del principio di buona fede oggettiva, del potere di riduzione d’ufficio da parte del giudice nel caso in cui l’ammontare della penale sia manifestamente eccessivo (art. 1384 cod. civ.).

3.– Le diverse fattispecie concrete, inserite nel descritto contesto generale, presentando, accanto a specifiche peculiarietà, taluni elementi comuni, possono essere collocate, per fini ordinatori, in tre diverse categorie, che si differenziano sul piano dei titoli delle obbligazioni e dei soggetti responsabili e obbligati, con implicazioni diverse in punto di causa giustificativa delle attribuzioni, nonché di causalità giuridica e funzione della responsabilità.

4.– La prima categoria è quella che ricomprende fattispecie che si caratterizzano per la presenza di un solo soggetto autore della condotta responsabile e obbligato ad effettuare una prestazione derivante da un unico titolo.

Si tratta di casi in cui la stessa condotta, ricorrendo i presupposti previsti per le diverse forme di responsabilità, può cagionare un danno e contestualmente un vantaggio nella sfera giuridica del danneggiato.

Tali fattispecie contemplano “rapporti obbligatori bilaterali” in cui compaiono, eventualmente in forma complessa, una sola parte responsabile ed obbligata ed una sola parte danneggiata.

La giurisprudenza e la dottrina non hanno mai dubitato della necessità di valutare l’entità dei vantaggi conseguiti dal danneggiato ai fini della determinazione effettiva del danno.

Sul piano strutturale, tale risultato si raggiunge accertando che la causa giustificativa del vantaggio sia rappresentata dalla commissione dell’illecito, con conseguente applicazione della regola della causalità giuridica che, come esposto, costituisce, secondo la prevalente ricostruzione, una modalità di determinazione del danno subito. Ne consegue che nella fase di valutazione delle conseguenze economiche negative, dirette ed immediate, dell’illecito occorre considerare anche il lucro eventualmente acquisito al patrimonio della parte lesa che, in quanto tale, riduce l’area dei danni effettivamente cagionati dalla condotta del responsabile.

Sul piano funzionale, l’istituto in esame impedisce che il danneggiante sia costretto a corrispondere una somma superiore a quella necessaria per reintegrare il patrimonio leso.

In questa prospettiva, la compensatio lucri cum damno non ha una sua autonomia dommatica ma rappresenta una mera espressione descrittiva di una delle possibili modalità di impiego del meccanismo causale nella fase di determinazione dei pregiudizi.

5.– La seconda categoria è quella che ricomprende fattispecie che si caratterizzano per la presenza di un solo soggetto autore della condotta responsabile e di due soggetti obbligati sulla base di titoli differenti.

Si tratta di fattispecie in cui il sistema prevede, in forme diversificate, accanto all’obbligo di risarcire il danno derivante da titolo illecito (2043 o 1218 cod. civ.) anche l’obbligo di corrispondere una indennità o somma a vario titolo.

In primo luogo, possono venire in rilievo forme di assicurazione privata contro i danni derivanti da fonte contrattuale che obbligano l’assicuratore, verso pagamento di un premio, a rivalere l’assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro in attuazione del cd. principio indennitario (artt. 1882 cod. civ. e ss.).

In secondo luogo, possono venire in rilievo forme di assicurazione sociale disciplinate da leggi speciali (art. 1886 cod. civ.), che sono, a loro volta, riconducibili ad istituti differenti, quali, da un lato, quelli che apprestano ai lavoratori, nell’ambito di particolari sistemi contributivi, una tutela contro gli infortuni e le malattie professionali ovvero una tutela previdenziale in caso di invalidità (e altri eventi), dall’altro, quelli che assicurano ad ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere una tutela assistenziale, mediante, ad esempio, la corresponsione di un’indennità di accompagnamento (cfr. art. 38 Cost.).

Infine, possono venire in rilievo singole previsioni di legge che contemplano l’indennità da corrispondere per finalità solidaristiche a favore, ad esempio, di familiari di vittime cadute in servizio ovvero di vittime del terrorismo.

Le descritte fattispecie si caratterizzano per la presenza di “rapporti giuridici trilaterali” ovvero, più precisamente, di duplici rapporti bilaterali: i) la relazione tra parte responsabile obbligata a titolo di illecito e parte danneggiata; ii) la relazione tra quest’ultima e altra parte obbligata a titolo diverso a seconda della vicenda che viene in rilievo.

Tali situazioni rendono più complessa la ricostruzione dei modi di operatività della compensatio.

Non è questa la sede per proporre una possibile soluzione, in quanto si tratta di questioni che, con le ordinanze sopra indicate, sono state rimesse all’esame delle Sezioni unite della Cassazione. E’, pertanto, sufficiente riportare, in sintesi, come già fatto nell’ordinanza di rimessione alla Plenaria, i due orientamenti che si sono formati nell’ambito della giurisprudenza della Cassazione, ai soli fini di porre in rilievo la differenza rispetto alla vicenda in esame.

Un primo e maggioritario orientamento ritiene che, per le fattispecie rientranti in questa categoria, non sia applicabile la regola della compensatio ma quella del cumulo.

In particolare, sul piano strutturale, si afferma come la diversità dei titoli delle obbligazioni e dei relativi rapporti giuridici sottostanti costituisca una idonea causa giustificativa delle differenti attribuzioni patrimoniali e, conseguentemente, la condotta illecita rappresenta non la “causa” dell’indennità a vario titolo corrisposta ma la mera “occasione” di essa. Non si può, pertanto, applicare la regola della causalità giuridica ai fini del computo delle indennità nella fase di determinazione effettiva del danno.

Sul piano funzionale, non vi sono rischi di sovracompensazioni economiche proprio perché la diversità delle ragioni giustificative delle attribuzioni patrimoniali impedisce di assegnare valenza punitiva al risarcimento del danno.

Un secondo orientamento, fatto proprio dalle ordinanze di rimessione alle Sezioni unite, ritiene, invece, che anche in questi casi debba applicarsi la regola della compensatio.

In particolare, sul piano strutturale, si afferma come la diversità dei titoli non giustifichi l’esito cui perviene l’opposto indirizzo interpretativo in quanto ciò che rileva è che la condotta (e non il titolo) sia unica e che essa costituisca la “causa” sia del danno sia dell’attribuzione di somme finalizzate a reintegrare il patrimonio leso. In particolare, sul piano della causalità giuridica, si sottolinea, non è «corretto interpretare l’art. 1223 cod. civ. in modo asimmetrico e ritenere che “il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato” quando si tratta di accertare il danno, ed esigere al contrario che lo sia, quando si tratta di accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito» (Cass. civ., sez. III, n. 15534 del 2017, cit.).

Sul piano funzionale, ammettendo il cumulo e non la compensatio, si assegna una funzione sovracompensativa al risarcimento del danno. Anche le indennità sopra indicate sono, infatti, riconducibili eziologicamente al fatto illecito e dunque hanno una finalità compensativa del pregiudizio subito dalla parte lesa.

Questi aspetti sono resi ancora più complessi dal meccanismo della surrogazione prevista dall’art. 1916 cod. civ. e dalla legislazione speciale. In particolare, tale articolo dispone che «l’assicuratore che ha pagato l’indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell’ammontare di essa, nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili».

Il danneggiante, infatti, si sottolinea nelle ordinanze di rimessione, potrebbe essere costretto a corrispondere la medesima somma sia al danneggiato sia, a seguito della successione nel rapporto obbligatorio, al soggetto o ente che ha corrisposto l’indennità alla parte lesa. Si verrebbe così ad attribuire – sul presupposto che i benefici collaterali corrisposti non abbiano valenza autonoma giustificativa delle relative attribuzioni patrimoniali – una funzione punitiva al risarcimento del danno in mancanza di una espressa previsione di legge che lo consenta. L’unica possibilità per evitare questo risultato sarebbe quello di ritenere che non operi la surrogazione. Ma tale esito, sottolinea la Cassazione, sarebbe contraddittorio in presenza di norme imperative che la contemplano e che non potrebbero essere derogate con atto di autonomia delle parti. Sotto altro aspetto, nelle ordinanze di rimessione si pone in evidenza, con implicazioni sulla funzione deterrente della responsabilità, che «l'istituto della surrogazione e la stima del danno da fatto illecito non sono legati da alcun nesso di implicazione bilaterale»: infatti, «se le conseguenze del fatto illecito sono state eliminate dall'intervento d'un assicuratore (privato o sociale che sia), ovvero da un qualsiasi ente pubblico o privato, il pagamento da tale soggetto compiuto, se ha avuto per effetto o per scopo quello di eliminare le conseguenze dannose, andrà sempre detratto dal credito risarcitorio, a nulla rilevando nè che l'ente pagatore non abbia diritto alla surrogazione, nè che, avendolo, vi abbia rinunciato».

In definitiva, si tratta di accertare se i due rapporti giuridici che vengono in rilievo, mantenendo una loro autonomia e dunque una valenza “bilaterale”, abbiano ciascuno una propria causa giustificativa delle attribuzioni patrimoniali che consente il cumulo tra di esse ovvero se tali rapporti, anche in ragione della operatività del meccanismo della surrogazione (di cui occorre valutare l’eventuale derogabilità convenzionale), siano strettamente collegati con sussistenza di una sostanziale “unitaria” causa di giustificazione delle attribuzioni patrimoniali che impone l’operatività della compensatio tra di esse mediante l’applicazione del meccanismo della regolarità causale.

6.– La terza fattispecie è quella in cui è presente un’unica condotta responsabile, un solo soggetto obbligato e titoli differenti delle obbligazioni.

La vicenda concreta all’esame di questa Adunanza plenaria si inserisce in questo ambito.

Nella specie, la parte appellata: i) ha già ottenuto dal Ministero della Giustizia una somma a titolo di indennità per infermità dipendente da causa di servizio conseguente all’esposizione a fibre di amianto presenti nel luogo di lavoro; ii) ha chiesto con il presente giudizio la condanna dello stesso Ministero al risarcimento anche del danno alla salute subito per la medesima ragione senza detrazione della somma già corrisposta a titolo di indennità.

La soluzione della questione all’esame della Plenaria presuppone la previa individuazione dei titoli delle obbligazioni che vengono in rilievo e della loro natura, nonché dei soggetti del rapporto obbligatorio.

6.1.– Il primo titolo dell’obbligazione risarcitoria è regolato dall’art. 2087 cod. civ., applicabile anche in ambito pubblicistico, il quale prevede che «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».

In relazione alla natura di tale obbligazione, è controversa la sua riconducibilità alla responsabilità contrattuale o extracontrattuale.

Il prevalente orientamento seguito dalla Corte di Cassazione, che questo Collegio condivide, ritiene che la responsabilità del datore di lavoro abbia natura contrattuale e rinvenga la propria fonte nel contratto di lavoro che, ai sensi dell’art. 1374 cod. civ., è integrato dalla norma di legge, sopra riportata, che prevede doveri di prestazione finalizzati ad assicurare la tutela della salute del lavoratore.

Sul piano strutturale, tale qualificazione dell’illecito implica, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., che: il lavoratore deve provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, l’inadempimento del datore di lavoro e i danni conseguenza; il datore di lavoro deve provare l’assenza di colpa e pertanto di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo (da ultimo, Cass. civ., sez. lav., 15 giugno 2017, n. 14865).

L’accertamento di tale responsabilità, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte appellata, dà diritto, sussistendone i presupposti, anche al risarcimento del danno non patrimoniale e, in particolare, del cd. danno biologico.

A tale proposito, l’art. 2059 cod. civ. dispone che tale voce di danno «deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge».

La Corte di Cassazione, con orientamento oramai costante, ha chiarito che, ai fini del danno ingiusto, la “legge” può essere sia quella “costituzionale”, con tutela dei diritti fondamentali della persona, sia quella “ordinaria” che può stabilire la risarcibilità anche di posizioni soggettive non riconducibili all’area dei diritti della persona (Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972). Ai fini del danno conseguenza, viene in rilievo la cd. «sofferenza morale», che costituisce l’aspetto interiore del danno, e il cd. «danno esistenziale», che costituisce «l’impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana» e cioè l’incidenza dell’illecito nella sfera dinamico relazionale del soggetto, in quanto «i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell’individuo» sono «il dolore interiore, e/o la significativa alterazione della vita quotidiana» (Cass. civ., sez. III, 20 aprile 2016, n. 7766).

Si tratta di un danno avente “natura unitaria”, il che sta «sta a significare che non v'è alcuna diversità nell’accertamento e nella liquidazione del danno causato dalla lesione di un diritto costituzionalmente protetto» (Cass. n. 7766 del 2016, cit). Ne consegue che il danno biologico, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte appellata, non potrebbe ricevere un trattamento differenziato.

La Cassazione, a partire dalla citata sentenza n. 26972 del 2008, ha ritenuto che l’art. 2059 cod. civ., nonostante manchi una espressa norma di collegamento, sia applicabile anche in ambito contrattuale. In particolare, in assenza di una espressa previsione di legge che contempli tale danno, è necessario che il contenuto dell’obbligazione contrattuale, individuato anche alla luce della causa in concreto e dunque della ragione pratica dell’affare, sia costituito dal dovere di protezione di un diritto fondamentale della persona del creditore. Invero, l’art. 1174 cod. civ., prevedendo che la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve corrispondere a un interesse, «anche non patrimoniale», del creditore, sembra assegnare all’autonomia negoziale delle parti il potere di selezionare gli interessi tutelabili con conseguente applicabilità del meccanismo risarcitorio in esame anche a prescindere dall’esistenza di un diritto costituzionalmente protetto ovvero di una espressa previsione legislativa.

Nella fattispecie in esame, è comunque indubbio che viene in rilievo un diritto della persona costituzionalmente tutelato, in quanto l’art. 2087 cod. civ. pone a carico del datore di lavoro il dovere di proteggere proprio la sfera personale del lavoratore e in particolare il diritto all’integrità psico-fisica. La violazione di tale norma autorizza la corresponsione anche del danno non patrimoniale.

Sul piano funzionale, la norma in esame, anche in presenza di un danno non patrimoniale, impone che il risarcimento del danno, in attuazione delle regole della causalità giuridica, venga corrisposto con finalità esclusivamente compensative. Il legislatore non ha autorizzato, infatti, la previsione di forme di danni punitivi.

6.1.1.– Il titolo della seconda obbligazione è regolato dall’art. 68 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), il quale prevede(va) che «per le infermità riconosciute dipendenti da causa di servizio è a carico dell’amministrazione la spesa per la corresponsione di un equo indennizzo per la perdita dell’integrità fisica eventualmente subita dall’impiegato». Il decreto del Presidente della Repubblica 3 maggio 1957, n. 686 (Norme di esecuzione del testo unico delle disposizioni sullo statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3) dispone(va) che l’indennità si determina secondo equità ed essa è «ridotta della metà se l’impiegato consegua anche la pensione privilegiata» e, inoltre, va dedotto «quanto eventualmente percepito dall’impiegato in virtù di assicurazione a carico dello Stato o di altra pubblica amministrazione». Per i dipendenti degli enti pubblici la relativa disciplina è contenuta nell’art. 32 del decreto del Presidente della Repubblica 26 maggio 1976, n. 411 (Disciplina del rapporto di lavoro del personale degli enti pubblici di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70).

Il procedimento per ottenere tale indennità è stato disciplinato, dapprima dal decreto del Presidente della Repubblica 20 aprile 1994, n. 349 e, successivamente, dal decreto del Presidente della Repubblica 29 ottobre 2001, n. 461.

Il decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), non applicabile ratione temporis, ha abrogato, tra l’altro, l’istituto «dell’accertamento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio», ferma «la tutela derivante dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali». La norma continua prevedendo che la disposizione di cui al primo periodo del presente comma non si applica: i) «nei confronti del personale appartenente al comparto sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico»; ii) «ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché ai procedimenti per i quali, alla predetta data, non sia ancora scaduto il termine di presentazione della domanda, nonché ai procedimenti instaurabili d'ufficio per eventi occorsi prima della predetta data».

In relazione alla natura di tale indennità questa Adunanza plenaria ha ritenuto che essa sia diversa dalle somme corrisposte a titolo di risarcimento del danno e deve essere considerata alla stessa stregua delle altre indennità corrisposte in costanza di rapporto di lavoro, per le seguenti ragioni.

Sul piano strutturale, nella disciplina dell’indennità «il legislatore prescinde da ogni riferimento a criteri di responsabilità conseguenti al verificarsi dell’evento dannoso» e «la perdita dell’integrità fisica è valutata tenendo esclusivamente conto delle oggettive condizioni di tempo e di luogo nelle quali la prestazione lavorativa risulta effettuata ed in presenza delle quali si è verificata la lamentata menomazione» (sentenza 16 aprile 1985, n. 14; nello stesso senso 8 ottobre 2009, n. 5).

Sul piano funzionale, le norme di legge, sopra riportate non proteggono il bene «integrità psico-fisica» che «è solo l’occasione dell’erogazione, ma la speciale condizione del dipendente divenuto infermo in ragione del suo rapporto con l’amministrazione e del servizio prestato». Il fine, pertanto, «non è risarcitorio ma si inserisce nell’ambito di un sinallagma in cui si intrecciano prestazioni e controprestazioni di contenuto plurimo» e «appare avvicinabile ad una delle tante indennità che l’amministrazione conferisce ai propri dipendenti in relazione alle vicende del servizio» (sentenza 16 luglio 1993, n. 9). Lungo questa linea, più recentemente, si è affermato come il legislatore abbia «preso in considerazione l’interesse pubblico collegato allo svolgimento di determinate attività particolarmente pericolose per la salute o anche solo le condizioni disagevoli per l’espletamento delle mansioni dei dipendenti pubblici ed ha predisposto un regime di ristoro del lavoratore pubblico dipendente che in occasione dello svolgimento di dette attività subisca una rilevante lesione della sua integrità fisica». Ne consegue che «pur nell’adempimento ordinario e diligente delle obbligazioni di entrambe le parti del rapporto di lavoro, può accadere che si verifichino menomazioni della integrità fisica del lavoratore sia in ragione della pericolosità obiettiva delle lavorazioni (…) che in relazione allo svolgimento di ogni altra mansione del lavoratore» (sentenza n. 5 del 2009, cit.).

Tale orientamento deve essere rimeditato.

Deve ritenersi, infatti, che l’indennità in questione ha natura sostanzialmente analoga a quella risarcitoria da illecito contrattuale, per le seguenti ragioni.

Sul piano strutturale, la nozione di “indennità” è normalmente collegata ad una condotta che integra gli estremi di un atto lecito dannoso, in quanto tale autorizzato dal sistema.

La nozione di “indennità” è però compatibile anche con una condotta che integri gli estremi di un atto illecito, in quanto tale vietato dal sistema.

Si può trattare, in questi casi, di un illecito che non è conseguenza della violazione di un dovere di prestazione o protezione di matrice contrattuale ovvero della violazione di un dovere generale del neminem laedere di matrice extracontrattuale ma di un dovere contemplato da una specifica disposizione di legge. Il sistema delle fonti delle obbligazioni, cui si è fatto cenno in premessa, consente di costruire modelli di responsabilità che si fondano su requisiti oggettivi e soggettivi diversi (cfr. Cass civ., sez. II, 16 dicembre 2015, n. 25292)

Nella fattispecie in esame, questo Collegio ritiene che le riportate norme di disciplina della materia prevedano un’indennità che può essere conseguenza sia un di atto illecito sia di un atto lecito dannoso.

In particolare, la prima ipotesi, che rileva in questa sede, ricorre nel caso in cui la lesione dell’integrità fisica subita dal dipendente sia causata dalla condotta contra ius del datore di lavoro che non ha adottato le cautele necessarie ed idonee a proteggere la sfera giuridica del lavoratore. Si tratta di una responsabilità che può prescindere dal dolo o dalla colpa.

La seconda ipotesi ricorre nel caso in cui sussiste solo una connessione con l’attività lavorativa senza che sia individuabile un comportamento illecito del datore di lavoro. In tale caso, però, non si pone un problema di concorso di responsabilità con possibile cumulo dei rimedi, in quanto, non venendo in rilievo un illecito, non può trovare applicazione l’art. 2087 cod. civ.

Sul piano funzionale, la finalità perseguita, in ogni caso, è quella di compensare la sfera giuridica del lavoratore leso sia pure attraverso un meccanismo, come appena sottolineato, strutturalmente differente da quello risarcitorio.

Il «bene protetto» è anche in questo caso l’integrità psico-fisica del dipendente ed essa costituisce non l’occasione ma la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale. Non può, pertanto, ritenersi, anche alla luce dell’evoluzione del sistema giuslavoristico e delle forme di tutela della persona, che l’indennità in esame sia assimilabile alle “altre” indennità corrisposte in costanza di rapporto. Il risultato cui era pervenuta l’Adunanza plenaria, con le sentenze citate, considerava, infatti, il lavoratore esclusivamente come prestatore di attività “destinatario” in quanto tale di diverse indennità e non anche come “persona” protetta dal relativo contratto.

6.2.– I soggetti che vengono in rilievo si inseriscono in un “rapporto obbligatorio bilaterale” in cui compare una sola parte responsabile ed obbligata ed una sola parte danneggiata.

L’Amministrazione statale è, infatti, l’unico soggetto che deve corrispondere sia l’indennità prevista dalle leggi sopra indicate sia la somma risarcitoria in qualità di datore di lavoro pubblico. Ed è questa la principale diversità rispetto alla questione posta all’esame delle Sezioni unite.

6.3.– L’analisi congiunta dei profili sin qui esaminati relativi ai titoli e ai soggetti delle obbligazioni che vengono in rilievo conduce a ritenere che le somme corrisposte non possono essere cumulate.

Tale esito interpretativo si fonda su talune ragioni (6.3.1.), è confermato dall’esistenza di alcune fattispecie (6.3.2.) e non è contraddetto (6.3.3.) dalle argomentazioni difensive della parte appellata.

6.3.1.– Sul piano della struttura degli illeciti, la presenza di una condotta unica responsabile che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito, aventi entrambe finalità compensativa del medesimo bene giuridico, in capo allo stesso soggetto determina la nascita di rapporti obbligatori sostanzialmente unitari che giustifica l’attribuzione di una, altrettanto unitaria, prestazione patrimoniale finalizzata a reintegrare la sfera personale della parte lesa.

In questi casi, l’applicazione delle regole della causalità giuridica impone che venga compensato e liquidato soltanto il danno effettivamente subito dal danneggiato, senza che le suddette attribuzioni possano cumularsi tra di esse.

Non si tratta, pertanto, di applicare la regola della compensatio nella sua versione “tradizionale”, che presuppone che la medesima condotta determini un “danno” e un “vantaggio”. Come già esposto, tale regola non ha una sua autonomia ed è riconducibile alle tecniche di determinazione del danno che, nella specie, trovano applicazione in modo ancora più lineare e diretto. In questo caso, infatti, la medesima condotta ha determinato solo “danni” e dunque effetti pregiudizievoli, con la conseguenza che occorre evitare il “cumulo di voci risarcitorie” e non “il cumulo di danno e di lucro”.

Sul piano della funzione degli illeciti, il riconoscimento del cumulo implicherebbe l’attribuzione alla responsabilità contrattuale di una funzione punitiva. L’esistenza, infatti, di un solo soggetto responsabile e obbligato comporterebbe per esso l’obbligo di corrispondere una somma superiore a quella necessaria per reintegrare la sfera del danneggiato con ingiustificata locupletazione da parte di quest’ultimo. Tale risultato, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellato, non può ammettersi in quanto manca una espressa previsione legislativa che contempli un illecito punitivo e dunque che autorizzi un rimedio sovracompensativo e non sarebbe nemmeno configurabile una duplice causa dell’attribuzione patrimoniale.

In definitiva, nella fattispecie in esame l’accertata finalità compensativa di entrambi i titoli delle obbligazioni concorrenti e del conseguente meccanismo risarcitorio, nonché la semplicità del rapporto che evita le possibili complicazioni ricostruttive connesse al funzionamento della surrogazione, impedisce che possa operare il cumulo tra danno e indennità.

6.3.2.– Questo esito interpretativo trova conferma sia in fattispecie legalmente previste sia in talune fattispecie cosi come interpretate dalla Corte di Cassazione.

In relazione alle prime, è sufficiente menzionare l’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990 che, in caso di comportamento illecito dell’amministrazione conseguente alla violazione del termine di conclusione del procedimento, dispone che l’istante ha diritto sia, sussistendone i presupposti, al risarcimento del danno sia ad un indennizzo «per il mero ritardo», aggiungendo, sul presupposto della medesima finalità della misura riparatoria contemplata, che «in tal caso le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento».

In relazione alle seconde, la Cassazione ha affermato che, in presenza di una danno da emoderivati infetti, il Ministero può essere ritenuto responsabile, ricorrendo i presupposti previsti dall’art. 2043 cod. civ., per omessa vigilanza. La legge 25 febbraio 1992, n. 210 prevede la corresponsione da parte del Ministero della sanità di un «indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati». La Cassazione ha affermato che l’indennizzo corrisposto al danneggiato deve essere integralmente scomputato dalle somme corrisposte a titolo di risarcimento «posto che in caso contrario la vittima si avvantaggerebbe di un ingiustificato arricchimento, godendo, in relazione al fatto lesivo del medesimo interesse tutelato di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute dallo stesso soggetto (il Ministero della salute) ed aventi causa dal medesimo fatto (trasfusione di sangue o somministrazione» (Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 584; nello stesso senso, tra le altre, Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2014, n. 26152).

6.3.3.– Questo esito interpretativo non è inciso dalle seguenti argomentazioni difensive della parte appellata.

In relazione alla espressa previsione da parte della normativa di settore sull’equo indennizzo dei fattori che sono idonei a ridurre l’indennità da corrispondere e che non ricomprenderebbero la somma corrisposta a titolo di risarcimento del danno (art. 50 del d.p.r. n. 686 del 1957), deve rilevarsi come non si possa ritenere che essi siano gli unici rilevanti. Ciò in quanto, alla luce dei principi generali che regolano la materia, sarebbe stata necessaria una esplicita previsione idonea ad assegnare carattere di esclusività ai divieti di cumulo.

In relazione alla impossibilità di applicare la regola della compensatio al danno non patrimoniale per la sua natura che escluderebbe la stessa astratta possibilità di una riparazione, in base a “criteri convenzionali”, dell’interesse personale leso, deve rilevarsi come anche tale voce di danno abbia una finalità compensativa e debbano essere previste modalità risarcitorie idonee ad evitare ingiustificati arricchimenti. La “non patrimonialità” del bene leso e soprattutto delle conseguenze derivanti dal fatto lesivo non esclude la possibilità che si proceda, in via equitativa e con l’ausilio di meccanismi tabellari da calare sempre nell’ambito di processi personalizzati che valorizzino le peculiarietà del caso concreto, ad una determinazione quantitativa degli effetti economici negativi subiti dal soggetto leso. In altri termini, la particolare natura del pregiudizio alla persona non esclude che si provveda ad una sua quantificazione.

In tale ottica, se si ammettesse la possibilità di cumulare somme dovute anche a titolo diverso la conseguenza sarebbe quella di assegnare una valenza punitiva al danno risarcibile in contrasto con la più volte enunciata regola della finalità compensativa in assenza di una espressa previsione legislativa.

7.– La decisione dell’intera controversia, ai sensi dell’art. 99, comma 4, comporta l’accoglimento dell’appello.

In via preliminare deve rilevarsi come la regola della compensatio, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte privata resistente, non può ritenersi applicabile soltanto a rapporti futuri e non anche a quelli in corso.

Gli enunciati giurisprudenziali hanno, infatti, natura formalmente dichiarativa. La diversa opinione «finisce per attribuire alla esegesi valore ed efficacia normativa in contrasto con la logica intrinseca della interpretazione e con il principio costituzionale della separazione dei poteri venendosi a porre in sostanza come una fonte di produzione» (Cons. Stato, Ad. Plen., 2 novembre 2015, n. 9).

Affinché un orientamento del giudice della nomofilachia possa avere efficacia solo per il futuro devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: «a) che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; b) che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; c) che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte» (così Cass. civ., 11 marzo 2013, n. 5962).

Nella fattispecie in esame non occorre applicare una norma processuale e nemmeno attinente al procedimento amministrativo, e, in ogni caso, non risulta che vi sia stato né un mutamento imprevedibile di orientamento in ragione anche degli indirizzi interpretativi seguiti nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Cassazione né una incidenza negativa sul diritto di azione della parte appellata.

Chiarito ciò, nella specie il Tribunale amministrativo ha ritenuto, applicando la regola del cumulo, che il ricorrente avesse diritto ad aggiungere all’indennità già percepita il risarcimento del danno non patrimoniale.

La controversia in esame deve, invece, essere risolta, in applicazione dei principi sin qui esposti, mediante l’applicazione della regola del divieto di cumulo.

Occorra detrarre, pertanto, dall’ammontare della somma risarcitoria pari ad euro 85.180,00 la somma di euro 49.567,07 già corrisposta dall’amministrazione a titolo di indennizzo. L’amministrazione deve, pertanto, corrispondere alla parte appellata la somma di euro 35.612,93.

8.– Alla luce di quanto sin qui esposto occorre formulare il seguente principio di diritto limitatamente alla questione relativa al cumulo tra risarcimento e indennità dovute da enti pubblici e non anche, perché non rilevante, da assicuratori privati o sociali: “la presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario”.

9.– Le spese del presente grado di giudizio, in ragione della complessità della questione risolta, giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, definitivamente pronunciando, enunciato il principio di diritto riportato al punto 8 del diritto:

a) accoglie l’appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, condanna il Ministero della Giustizia a corrispondere alla parte appellata la somma di euro 35.613,07;

b) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2017 con l'intervento dei magistrati:

Alessandro Pajno, Presidente

Filippo Patroni Griffi, Presidente

Franco Frattini, Presidente

Giuseppe Severini, Presidente

Luigi Maruotti, Presidente

Roberto Giovagnoli, Consigliere

Claudio Contessa, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere

Bernhard Lageder, Consigliere

Umberto Realfonzo, Consigliere

Lydia Ada Orsola Spiezia, Consigliere

Oberdan Forlenza, Consigliere

Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore

                       

                       

IL PRESIDENTE

            Alessandro Pajno      

                       

                       

                       

L'ESTENSORE                     IL SEGRETARIO

Vincenzo Lopilato     


[1] Su un’ampia panoramica degli indirizzi giurisprudenziali v. l’ordinanza di rimessione (Cons. St., Sez. IV, 6 giugno 2017, n. 2719).

Secondo un primo tradizionale e prevalente, il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione unicamente quando il pregiudizio e l'incremento patrimoniale sono conseguenza del medesimo fatto illecito, mentre non può essere considerato quanto già percepito dal danneggiato a titolo diverso dall'atto illecito e non per finalità risarcitorie (pensione di inabilità o di reversibilità; a titolo di assegni, di equo indennizzo o di qualsiasi altra speciale erogazione connessa alla morte o all'invalidità). In tal senso, Cass. civ., Sez. III, 30 settembre 2014, n. 20548; Id., Sez. III, 10 marzo 2014, n. 5504; Id., Sez. III, 15 ottobre 2009, n. 21897; Id., Sez. III, 2 marzo 2010, n. 4950; Cons. St., Ad. Plen., 8 ottobre 2009, n. 5.

Secondo un indirizzo più recente, invece, è esclusa la loro cumulabilità. Infatti, pur nella diversità dei presupposti fra i vari indennizzi previsti dal contratto o dalla legge ed il risarcimento del danno da illecito civile, sia esso contrattuale o extracontrattuale, occorre considerare l’oggettiva identità del fatto generatore e del pregiudizio che ambedue gli istituti vanno a riparare (Cass. civ., Sez. III, 14 marzo 2013, n. 6573; Id., Sez. VI, 24 settembre 2014, n. 20111; Id., Sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537; Id., Sez. 3, 20 aprile 2016, n. 7774; Id., Sez. III, 11 giugno 2014, n. 13233; Sez. riun., 30 giugno 2016, n. 13372; Sez. III, ordinanza 22 giugno 2017, n. 15534). Seguendo quest’ultimo orientamento, l’ordinanza di rimessione in esame richiama anche l’approccio seguito dalla stessa Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 12 maggio 2017, n. 2.

Sui commenti in dottrina alla sopramenzionata giurisprudenza si rinvia a “L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato esclude il cumulo tra risarcimento del danno ed emolumenti di carattere indennitario erogati da enti pubblici”, in www.giustizia-amministrativa.it, News.