Introduzione – 1. Libertà di organizzazione delle pubbliche amministrazioni e tutela della concorrenza. I principi fondamentali in materia di affidamento in house – 2. Il contributo del diritto europeo. Dalla sentenza Teckal alle nuove direttive appalti; 2.1 Il primo requisito Teckal: il controllo analogo; 2.2 Il secondo requisito Teckal: l’attività prevalentemente svolta in favore del soggetto affidante – 3. Il recepimento dell’in house providing nell’ordinamento italiano tra incertezze giurisprudenziali e lacune normative; 3.1 Le iniziali difficoltà applicative. L’autoproduzione quale modulo “in deroga” ed il ruolo dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato; 3.2 Le novità introdotte dal nuovo codice dei contratti pubblici tra recepimento del diritto europeo e restrizioni nazionali; 3.2.1 Le condizioni fondamentali; 3.2.2 L’attività dell’Autorità Nazionale Anticorruzione e la garanzia dei principi di trasparenza e pubblicità; 3.2.3 L’obbligo di motivazione “rafforzata” – Considerazioni conclusive.

Introduzione

La disciplina dell’affidamento in house[1] occupa un ruolo centrale tanto nella normativa sugli appalti pubblici quanto nella materia delle partecipazioni pubbliche. Dal punto di vista sistematico questo istituto viene a configurarsi ogniqualvolta una pubblica amministrazione ottiene un determinato bene o servizio per mezzo di una propria articolazione organizzativa, senza dover ricorrere ai terzi per mezzo di una gara ad evidenza pubblica[2].

Tralasciando, sia per ragioni di sintesi che per l’irrilevanza delle stesse ai fini del presente contributo[3], le questioni inerenti la “veste” giuridica che le amministrazioni in concreto utilizzano al fine di perseguire gli interessi pubblici bisogna, innanzitutto, precisare come le problematiche connesse all’inquadramento di questo fenomeno derivino dal fatto che lo stesso sia, da un lato, originato e sviluppato dal diritto europeo – ed oggetto, negli ultimi tempi, di una notevole armonizzazione tra le legislazioni degli Stati membri – ma, dall’altro lato, bisogna tener presente come le Parti contraenti, in sede di recepimento, abbiano sempre mantenuto un discreto margine di operatività.

Nonostante le incertezze che, come si vedrà nel prosieguo, sono ancora presenti tra gli interpreti risulta innegabile come questo istituto abbia raggiunto, grazie all’opera di affinamento della giurisprudenza e dei più recenti interventi legislativi, un’autonomia concettuale propria che finisce col superare la classica configurazione “in deroga” e gli attribuisce, a determinate condizioni, un proprio spazio operativo.

1. Libertà di organizzazione delle pubbliche amministrazioni e tutela della concorrenza. I principi fondamentali in materia di affidamento in house

Prima di iniziare una puntuale analisi dei requisiti e delle condizioni di applicabilità dell’istituto in commento sembra opportuno dirimere l’annosa questione, che continua a riflettersi anche in alcune recenti pronunce dei giudici amministrativi italiani, circa i principi fondamentali che reggono l’affidamento in house nonché, quale necessario corollario, la configurabilità di questo come un modello avente un proprio carattere “ordinario” al pari delle altre modalità di affidamento dei servizi pubblici (ovverosia la gara ad evidenza pubblica o la cooperazione tra amministrazioni e soggetti aventi natura privata[4]).

In primo luogo bisogna osservare come il diritto europeo preveda, in materia di appalti pubblici e concessioni, due pilastri teorici: da un lato vi è il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche, in forza del quale viene riconosciuta ai soggetti pubblici la piena libertà di organizzare, seguendo il modulo gestionale ritenuto migliore, la prestazione dei servizi che rientrano nella rispettiva sfera operativa[5]. Dall’altro lato vi è il principio di libera concorrenza, il quale rappresenta, storicamente, una delle pietre angolari su cui è stato costruito l’ordinamento europeo[6] e che risulta finalizzato, con gli adeguati correttivi, al progressivo abbattimento di tutte le barriere che impediscono agli operatori economici l’accesso al mercato unico esistente tra gli Stati membri. Da ciò ne discende che le amministrazioni pubbliche sono tenute, quando decidono di concludere un contratto per l’affidamento di determinati servizi, a scegliere la propria controparte applicando tutta una serie di principi (trasparenza, pubblicità, non discriminazione, mutuo riconoscimento, proporzionalità) che garantiscano, nel modo più assoluto, il libero gioco della concorrenza tra le imprese interessate[7].

Seguendo una prospettiva di teoria generale i due principi appena analizzati risultano essere equiordinati anche se, per quello che riguarda la materia in commento, è evidente come l’autonomia organizzativa riconosciuta alle amministrazioni pubbliche ponga – in ossequio alle condizioni che si vedranno nel prossimo paragrafo – la tutela della concorrenza in una posizione subordinata[8]. Infatti l’attuale orientamento della giurisprudenza e della produzione normativa europee, alla luce delle direttive appalti[9] (cfr. artt. 12 direttiva 2014/24/UE – settori classici – 17 direttiva 2014/23/UE – concessioni – e 28 direttiva 2014/25/UE – settori speciali) e dell’art. 166 d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (che cristallizza il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche), risulta incompatibile con quella linea interpretativa che, per lungo tempo, ha inquadrato il fenomeno dell’affidamento in house come «un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono la previa gara»[10]. L’accezione derogatoria in cui l’istituto in commento è stato per lungo tempo declinato trova la sua spiegazione nel risalto, talvolta eccessivo[11], riconosciuto dagli interpreti alla tutela della libera concorrenza (nonché, implicitamente, alla riduzione dei costi derivante dalla messa in competizione degli operatori privati) al fine di comporre il conflitto tra i summenzionati principi. Un contrasto che, seguendo la ratio decidendi dei giudici del Lussemburgo, risulta sempre più apparente che reale (né tantomeno condivisibile) per due ordini di ragioni: innanzitutto bisogna tener presente che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha inquadrato il fenomeno dell’autoproduzione amministrativa sulla scorta di una interpretazione sostanziale della materia contrattuale. Difatti la giurisprudenza europea ritiene sussistente un contratto d’appalto qualora vi siano, almeno, due soggetti giuridicamente distinti[12]; di conseguenza la mancanza – in ragione del controllo gerarchico esercitato – di una relazione intersoggettiva tra le amministrazioni ed i rispettivi soggetti in house giustifica la legittima decisione di non esperire una gara ad evidenza pubblica perché questa rappresenterebbe una fattispecie non contrattuale che, in quanto tale, risulta sottratta sia alla disciplina dettata in materia di appalti sia all’applicazione delle regole da questa previste per la scelta del contraente[13]. In secondo luogo i giudici lussemburghesi hanno tenuto a precisare come la verifica della sussistenza dei requisiti che legittimano l’affidamento in house debba essere effettuata in modo rigoroso, visto che questo rappresenta un’eccezione rispetto all’applicazione della normativa contenuta nelle direttive sugli appalti e le concessioni[14]. Pertanto le amministrazioni possono, in ragione della propria autonomia organizzativa, liberamente decidere di affidare la gestione dei rispettivi servizi pubblici a degli operatori senza prima dare luogo ad una gara pubblica, a condizione che vengano rispettati i rigorosi criteri previsti in materia dal diritto europeo. In merito va registrato come anche il Consiglio di Stato si è, recentemente, posto in linea con l’insegnamento della Corte di giustizia riconoscendo, innanzitutto, come l’affidamento in house non rappresenti un’ipotesi eccezionale nella gestione dei servizi pubblici locali bensì «una delle tre normali forme organizzative delle stesse» e che, come tale, costituisce una scelta che le amministrazioni pongono in essere (sempre che ne sussistano i necessari requisiti) in maniera pienamente discrezionale senza che venga in alcun modo lesa la tutela della concorrenza, in considerazione del fatto che «nessuna impresa viene posta in una situazione di privilegio rispetto alle altre»[15].

2. Il contributo del diritto europeo. Dalla sentenza Teckal alle nuove direttive appalti

Avendo, in prima battuta, delineato la natura ed i principi che regolano la materia è ora opportuno individuare i criteri che consentono alle amministrazioni pubbliche di poter, legittimamente, far ricorso all’affidamento in house.

La materia è stata inizialmente definita, nei suoi contenuti essenziali, dalla Corte di giustizia nella sentenza Teckal[16]. In particolare è stato precisato come l’unica ipotesi che comporta una eccezione rispetto all’applicazione delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici si può configurare quando l’amministrazione appaltante svolga nei confronti del soggetto affidante, anche se formalmente distinto ed autonomo sotto il profilo giuridico, un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi – riducendo la relazione tra questi in una semplice delegazione interorganica – nonché, al contempo, quest’ultimo realizzi con la stessa stazione appaltante la parte più rilevante della propria attività.

L’enunciazione dei summenzionati requisiti è apparsa, fin da subito, troppo vaga ed ha contribuito ad alimentare incerte qualificazioni dell’istituto dell’affidamento in house nelle pronunce dei giudici nazionali (soprattutto italiani). Pertanto la Corte, al fine di evitare le distorsioni che potrebbero essere causate dall’abuso di siffatto modello operativo, si è attestata verso un’interpretazione sempre più rigorosa dei criteri in discorso[17].

2.1 Il primo requisito Teckal: il controllo analogo

Per quel che riguarda la configurabilità del controllo analogo la Corte, nella sua quasi ventennale opera di definizione dell’istituto, ha precisato che questo risulta integrato qualora sussistano due condizioni: in primo luogo è stato evidenziato come il controllo analogo può essere dedotto, sotto il profilo formale, in ragione della partecipazione pubblica totalitaria al capitale sociale dell’ente in house. Questo primo elemento ha subito, nel tempo, una mutevole interpretazione. Difatti, inizialmente[18], si era esclusa la possibilità che il soggetto affidatario potesse essere direttamente partecipato, anche in minima parte, da soggetti privati[19]. Siffatta conclusione era stata raggiunta in ragione del fatto che la presenza del capitale privato (anche se minoritaria) avrebbe finito, da un lato, con l’orientare le scelte direzionali del soggetto affidatario verso obiettivi utilitaristici – di per sé estranei ai fini pubblicistici demandati alle cure dell’ente locale – mentre, dall’altro lato, veniva considerata la possibilità che l’operatore economico privato potesse, per mezzo della propria partecipazione diretta, ottenere un indebito vantaggio rispetto ai potenziali concorrenti (costituito dall’aggiudicazione di un appalto senza una preventiva procedura ad evidenza pubblica). Seguendo questa linea interpretativa la giurisprudenza aveva ulteriormente escluso la possibilità dell’esercizio, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, di un controllo analogo sul soggetto in house ogniqualvolta, in linea generale, l’impresa avesse acquisito una vocazione commerciale tale da rendere precario il controllo da parte dell’ente pubblico affidante[20] nonché quando lo statuto avesse, in astratto, previsto – o comunque non impedito – che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, potesse essere successivamente alienata in favore di soggetti privati[21]. Rispetto a quest’ultimo profilo la Corte di giustizia è intervenuta[22], prima dell’entrata in vigore delle recenti direttive appalti, precisando che la sola prospettazione di una eventuale partecipazione dei privati al capitale della società aggiudicataria non è, in mancanza di una effettiva partecipazione al momento della stipula di una convenzione, condizione sufficiente ad escludere la configurabilità di un controllo analogo da parte della stazione appaltante in quanto l’organo giudicante è tenuto, in forza del principio di certezza del diritto, a valutare la regolarità di una gara d’appalto (o della sua mancata indizione) alla luce delle condizioni esistenti alla data dell’aggiudicazione, riconoscendo così uno specifico rilievo agli avvenimenti successivi solo in presenza di circostanze particolari[23]. In definitiva veniva così a configurarsi un giudizio prognostico e successivo – poiché relativo, da una parte, alla prospettiva concreta di un’apertura al capitale privato e, dall’altra parte, limitato alla sola fase dell’esecuzione[24] – che, in ragione del subentro di soci privati nel capitale sociale, avrebbe fatto venir meno una condizione necessaria all’affidamento diretto[25]. L’iniziale rigidità di questo orientamento, più o meno attenuata in sede applicativa, è stata mitigata dalla nuova disciplina introdotta con le direttive appalti del 2014 (e recepita, seppur con qualche incertezza linguistica, dal vigente codice dei contratti pubblici). Difatti ora viene presa in considerazione la possibilità che un soggetto in house partecipato, seppur minimamente, da capitali privati possa essere affidatario di un servizio in via diretta se, e solo se, sussistono delle stringenti condizioni: innanzitutto le eventuali forme di partecipazione privata devono essere obbligatorie ai sensi delle disposizioni legislative nazionali nonché conformi ai Trattati istitutivi, in questo modo si vuole riconoscere ai singoli Stati membri anche la possibilità di escludere (onde garantire nel modo più assoluto la parità tra gli operatori economici) che l’ammissibilità di una partecipazione privata diretta all’ente in house sia lasciata ad una valutazione discrezionale dei soggetti aggiudicatari mentre, dall’altro lato, il richiamo alla conformità rispetto ai Trattati sembrerebbe diretto ad evitare confusione tra società affidatarie in house con minima partecipazione privata e società miste – nelle quali la partecipazione privata viene selezionata per mezzo di gara ad evidenza pubblica[26] – di modo da escludere, nei confronti di quest’ultime, la possibilità di dar luogo ad un affidamento diretto (poiché, altrimenti, verrebbe in essere una violazione evidente dei principi europei posti a tutela della concorrenza[27]). In secondo luogo viene stabilito che la partecipazione diretta dei capitali privati non deve comportare il controllo della persona giuridica, oppure un potere di veto, né l’esercizio di un’influenza dominante sul soggetto controllato. A questa precisazione non è seguito, in ragione di una scelta da parte del legislatore europeo, la fissazione di una soglia percentuale massima entro cui ritenere legittima la partecipazione dei capitali privati; questa opzione di politica legislativa sembrerebbe finalizzata ad evitare dei rigidi riferimenti numerici che, da una parte, potrebbero essere facilmente aggirati (a.e. mantenendo la partecipazione del socio privato entro tali limiti) e, dall’altra parte, si vuole consentire ai giudici nazionali una puntuale valutazione dell’influenza che, caso per caso, il socio privato esercita sul soggetto in house[28].

Nelle more della ricezione delle nuove direttive appalti nell’ordinamento nazionale italiano l’interpretazione della disciplina stabilita in sede europea ha creato un interessante caso giurisprudenziale. In particolare è sorto un contrasto, tra sezioni consultive e giurisdizionali del Consiglio di Stato, circa la possibilità di configurare un affidamento in house in favore di un soggetto giuridico partecipato, in minima parte, da soggetti privati. Infatti la questione era stata inizialmente risolta dalla seconda sezione del Consiglio di Stato riconoscendo come, nonostante non fosse ancora scaduto il termine previsto per la ricezione delle stesse, la disciplina introdotta in materia dalle nuove direttive «appare di carattere sufficientemente dettagliato tale da presentare pochi dubbi per la sua concreta attuazione»[29], pertanto si era concluso per la legittimità dell’affidamento senza gara ad un ente partecipato anche da soggetti privati. Di un differente avviso è stata, invece, la sesta sezione del Consiglio di Stato che, nel dichiarare illegittimo l’affidamento in discorso[30], ha escluso l’immediata applicabilità delle direttive appalti per due serie di ragioni: innanzitutto il fatto che non fosse ancora spirato il termine previsto dalle direttive per il recepimento negli ordinamenti dei singoli Stati membri non comporterebbe, nonostante il contenuto di queste risulti particolarmente dettagliato, un’immediata efficacia delle stesse quanto, piuttosto, un dovere di astensione sia in capo al legislatore, rispetto all’adozione di misure che possano compromettere il risultato prescritto dalla normativa europea[31], sia per il giudice, di modo da evitare qualsiasi forma di applicazione o interpretazione del diritto nazionale che potrebbe, a seguito dello scadere del termine previsto, comportare un pregiudizio verso il risultato perseguito dalla direttiva stessa[32]. D’altro canto la sesta sezione ha posto in evidenza come l’art. 12, par. 1, lett. c) direttiva 2014/24/UE difetti dell’ulteriore carattere, ritenuto dalla giurisprudenza europea come necessario affinché le direttive possano dispiegare effetti diretti “verticali”[33], della “incondizionatezza”. Nello specifico questo viene in essere quando la direttiva non lascia, in capo agli Stati membri, alcun margine discrezionale in sede di recepimento. In tal senso è stato rilevato come la possibilità, prescritta dalla norma in discorso, di prevedere un’apertura dei soggetti affidatari di appalti in house in favore di capitali privati costituisce un’opzione demandata, in conformità con i principi contenuti nei Trattati istitutivi, alla volontà dei legislatori nazionali che, pertanto, potrebbero legittimamente escluderla oppure prevedere una tutela della concorrenza maggiore di quella disposta dalla stessa direttiva[34].

Il requisito della totale – o, alla luce della disciplina introdotta dalle nuove direttive appalti, prevalente – partecipazione pubblica della stazione appaltante al soggetto in house è stato considerato condizione necessaria ma non, di per sé, sufficiente a configurare quest’ultimo come una modalità organizzativa interna alla stessa amministrazione. Infatti la Corte di giustizia ha avuto modo di precisare come il requisito del controllo analogo possa essere integrato qualora risulti che il socio pubblico esercita, sul soggetto in house, una influenza determinante tanto sugli «obiettivi strategici» quanto sulle «decisioni importanti»[35]. In particolare è stato evidenziato come tale carattere non possa risolversi, solo ed esclusivamente, nei poteri che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale ma, altresì, deve essere correlato da prerogative speciali – in termini di diritti di voto o poteri di controllo – tali da ridurre l’operatività normalmente riconosciuta al consiglio di amministrazione. Seguendo questa linea ermeneutica la Corte – al fine di evidenziare come sia possibile che sussistano ulteriori fattori, organizzativi e/o strutturali, tali da incidere in modo decisivo sul potere di controllo esercitato dall’ente appaltante[36] – ha avuto modo di sottolineare come i giudici nazionali[37] siano tenuti a verificare la presenza di strumenti che riconoscano all’amministrazione un controllo strutturale, funzionale[38] ed effettivo[39]. Dal canto suo la giurisprudenza amministrativa italiana[40], seguendo l’insegnamento dei giudici lussemburghesi, ha individuato una serie di indici rilevatori del carattere determinante dell’influenza esercitata, in via di fatto, dall’amministrazione aggiudicatrice: innanzitutto è stato statuito che la stazione appaltante deve poter esercitare poteri di direzione più incisivi rispetto a quelli riconosciuti, dal diritto societario nazionale, alla maggioranza sociale[41] e che, comunque, questi devono concretizzarsi in un potere assoluto di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività ordinaria – nonché straordinaria – tale da comportare sia la nomina, ed ovviamente la revoca, dei componenti[42] (o quantomeno della maggioranza di essi) degli organi di gestione, amministrazione e controllo sia il potere di autorizzare, o annullare, gli atti societari più significativi[43]. In secondo luogo è stato ritenuto necessario che le decisioni più importanti debbano essere sottoposte al vaglio preventivo da parte della stazione appaltante[44] ed inoltre è stato prescritto, in deroga alle generali norme in materia, il concorso di tutta una serie di fattori ritenuti idonei a configurare una forma di direzione effettiva: controllo rispetto al bilancio ed alla qualità dell’amministrazione, riconoscimento di concreti poteri ispettivi nonché totale dipendenza del soggetto in house rispetto alle strategie aziendali dettate dalla stazione appaltante[45].

Il dibattito sulla configurabilità del controllo analogo ha interessato anche l’ipotesi in cui più enti locali partecipino ad un unico soggetto in house (c.d. controllo congiunto o frazionato[46]). In merito la Corte di giustizia ha avuto modo di evidenziare come, al fine di non far venir meno il requisito in discorso (nell’accezione dell’influenza determinante), sia necessario che le singole amministrazioni possano partecipare tanto al capitale quanto agli organi direttivi del soggetto controllato[47]. In particolare è stato precisato come, onde consentire una corretta applicazione dei principi in materia di affidamento in house, il controllo pluripartecipato non deve essere, necessariamente, svolto individualmente da ciascuna autorità in quanto risulta sufficiente che – sulla base di un criterio “sintetico” – la «signoria della mano pubblica» sia esercitata dagli enti partecipanti nella loro totalità, senza porre in essere una puntuale verifica della posizione dominante ricoperta da ogni singolo ente. D’altro canto però, al fine di evitare uno svuotamento della nozione stessa, è stato escluso che in caso di partecipazione “frazionata” il controllo analogo possa risolversi, solo e semplicemente, nell’esercizio di un potere direttivo da parte dell’autorità pubblica che detiene la partecipazione maggioritaria del capitale[48]; pertanto dovrà essere riconosciuta, ad ogni singola amministrazione, una posizione comunque idonea a garantirle la minima possibilità di partecipare al controllo del soggetto in house[49]. In questo modo si mira ad escludere che gli organi di vertice abbiano rilevanti ed autonomi poteri gestionali e, al contempo, vengono riconosciuti alla totalità dei soci pubblici dei poteri di condizionamento superiori a quelli tipizzati dal diritto societario (in cui viene riconosciuta agli organi di governance una maggiore libertà di movimento rispetto alla maggioranza azionaria[50]).

Le direttive sugli appalti, recependo questi orientamenti giurisprudenziali consolidati, hanno stabilito che più amministrazioni aggiudicatrici esercitano un controllo congiunto sul soggetto in house qualora sussistano, contemporaneamente, le seguenti condizioni (cfr. art. 12, par 3 direttiva 2014/24/UE): innanzitutto ogni soggetto pubblico partecipante deve avere un rappresentante negli organi decisionali dell’ente affidatario (tenendo presente che il singolo delegato può rappresentare una o più amministrazioni); in secondo luogo i soci pubblici devono essere in grado di esercitare, in modo congiunto, un’influenza determinante tanto sugli obiettivi strategici quanto sulle decisioni significative dell’ente controllato[51] e, infine, l’organismo controllato non deve perseguire interessi contrari a quelli dei soggetti pubblici a questo partecipanti (cfr. artt. 5 d.lgs. n. 60/2016 e 16 d.lgs. n. 175/2016).

2.2 Il secondo requisito Teckal: l’attività prevalentemente svolta in favore del soggetto affidante

Il secondo requisito Teckal è rappresentato dalla circostanza che il soggetto in house realizzi, con l’amministrazione aggiudicatrice (o le amministrazioni aggiudicatrici), la parte più rilevante della propria attività. Circa il fondamento giuridico di tale condizione è stato escluso che le attività svolte dall’articolazione interna siano mirate, in una logica di mercato, alla massimizzazione dei profitti, in ragione del fatto che queste devono risultare preordinate verso il carattere di stretta strumentalità che viene in essere tra l’attività di impresa svolta dall’ente aggiudicatario nonché, dall’altro lato, dalle esigenze di natura pubblicistica perseguite dalla stazione appaltante[52]. Nel vigente testo delle direttive appalti il legislatore europeo ha precisato come la soglia minima, al di sotto della quale l’attività del soggetto in house non può essere considerata “prevalente”, viene quantificata nell’80% del fatturato totale medio[53] realizzato dal soggetto aggiudicatario dando esecuzione alle decisioni prese dall’ente controllante (anche qualora ne beneficino dei soggetti terzi; a.e. utenti del servizio) oppure in favore di altre persone giuridiche comunque da questo controllate[54]; al fine di calcolare tale percentuale non si tiene conto della natura giuridica del rapporto instaurato – vuoi appalto o concessione – né il luogo in cui tale attività viene, in concreto, svolta.

L’introduzione di un valore soglia ha rappresentato un elemento di novità rispetto agli orientamenti interpretativi consolidatisi prima dell’entrata in vigore della recente normativa in materia di appalti. Infatti la Corte di giustizia, lungi dal quantificare in modo preciso una soglia limite[55], ha da sempre ammesso la possibilità che l’ente in house, nonostante il controllo analogo esercitato dalla stazione appaltante, potesse svolgere parte della propria attività anche in favore di altri operatori, a condizione che questa avesse «solo un carattere marginale»[56]. La finalità di questa previsione, secondo i giudici del Lussemburgo, andava ravvisata nella volontà di garantire una piena tutela della concorrenza anche qualora il soggetto in house svolgesse parte della propria attività sul mercato poiché, in caso contrario, lo stesso avrebbe acquistato una vocazione commerciale tale da rendere precario il controllo esercitato dall’ente partecipante (finendo così, in definitiva, col non perseguire più gli obiettivi pubblicistici a cui l’ente aggiudicatario viene preposto). Tale impostazione è stata fatta propria anche dai giudici nazionali italiani. Infatti la Corte costituzionale ha riconosciuto come la circostanza che il soggetto partecipato ponga in essere, in favore di altri operatori economici, attività non considerabili come “marginali” configurerebbe una impresa «attiva sul mercato», finendo con l’alterare la tutela della concorrenza (vista la posizione privilegiata che l’ente in house ricopre in quanto articolazione interna del soggetto affidante) e, altresì, falsare le procedure che regolano l’aggiudicazione dei contratti pubblici[57]. D’altra parte nella giurisprudenza amministrativa si è affermato, riconoscendo una limitata indicatività alle soglie numeriche, un giudizio basato su elementi qualitativi che ha preso in considerazione come «la natura dei servizi, opere e beni resi al mercato privato, oltre alla sua esiguità, deve anche dimostrare la quasi inesistente valenza nella strategia aziendale e nella collocazione dell’affidatario diretto nel mercato pubblico e privato»[58] nonché, al contempo, è stata valutata in senso negativo la circostanza che l’affidatario potesse impiegare risorse consistenti al di fuori del territorio di competenza dell’ente appaltante, in ragione del fatto che questo implicherebbe, a priori, una vocazione commerciale dello stesso[59]. Infine è stato precisato come, sotto il profilo formale, il requisito dell’attività prevalentemente svolta possa desumersi anche dalla presenza, nello statuto sociale, di meccanismi mirati ad evitare che le risorse dell’ente in house venissero utilizzate, in modo prevalente, in favore di attività d’impresa extraterritoriali[60].

3. Il recepimento dell’in house providing nell’ordinamento italiano tra incertezze giurisprudenziali e lacune normative

Passando ora a trattare la questione dell’affidamento in house in un’ottica di diritto interno bisogna premettere che, al fine di sgombrare il campo da eventuali fraintendimenti, tanto il legislatore quanto, di riflesso, la giurisprudenza nostrani abbiano fin da subito declinato questo fenomeno – vuoi per un’interpretazione, a lungo tempo invalsa, dello stesso come un modulo in deroga rispetto al principio di libera concorrenza vuoi per limitare gli episodi di mala gestio che, talvolta, vengono alla ribalta delle cronache – secondo canoni molto più stringenti rispetto ai principi di volta in volta prospettati in sede europea.

3.1 Le iniziali difficoltà applicative. L’autoproduzione quale modulo “in deroga” ed il ruolo dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato

Rispetto al fenomeno in commento si registra come il legislatore italiano, eccezion fatta per una iniziale apertura[61], abbia sempre dimostrato un eccessivo rigore rispetto all’orientamento seguito dalla giurisprudenza europea. Difatti si era preferito, quasi fin da subito, relegare il ricorso all’autoproduzione alle sole ipotesi in cui – viste le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento – non fosse stato possibile optare, in modo utile ed efficace, per una scelta di mercato[62]. In questo senso assumono un valore emblematico i pareri preventivi rilasciati, ai sensi del previgente comma 4 dell’art. 23-bis d.l. n. 112/2008, dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato circa la legittimità della scelta di affidare un determinato servizio pubblico locale ad un soggetto in house. Dal punto di vista pratico l’Autorità ha chiarito come – oltre alla necessità di prendere in considerazione i c.d. requisiti Teckal[63] – bisognasse effettuare una stringente valutazione delle eccezionali situazioni di carattere economico, sociale e ambientale che avrebbero consentito l’affidamento diretto, finendo così, in sostanza, per riconoscere valore ordinario alle sole procedure di affidamento esperite mediante gara ad evidenza pubblica. Di conseguenza spettava all’ente interessato dimostrare, al fine di ottenere un parere favorevole, di aver svolto una approfondita valutazione delle condizioni di mercato – attraverso l’individuazione di operatori eventualmente interessati – visto che l’AGCM non aveva ritenuto, di per sé, sufficiente un generico richiamo alla circostanza che l’espletamento di una procedura selettiva aperta non avrebbe comportato alcun esito positivo[64]. L’operatività del sistema così delineato è stata riconosciuta come costituzionalmente legittima in considerazione del fatto che la scelta di porre delle stringenti condizioni all’affidamento diretto rappresenta un’opzione legislativa che, senza comportare alcun contrasto tra diritto interno ed europeo, avrebbe solo integrato quel livello minimo di protezione della concorrenza assicurato dalla normativa sovranazionale[65]. Un revirement rispetto agli orientamenti di politica legislativa adottati all’inizio di questo secolo si è registrato a seguito del referendum popolare tenutosi il 12 e 13 giugno 2011. Difatti questo ha comportato l’abrogazione dell’art. 23-bis d.l. n. 112/2008, facendo venir meno qualsiasi limite interno rispetto alle forme di gestione dei servizi pubblici locali e, di conseguenza, ha nuovamente reso “ordinaria” – in forza di un rinvio alle condizioni meno stringenti stabilite dal diritto europeo[66] – la disciplina prevista dall’ordinamento italiano in materia di affidamento in house.

Poco dopo l’esito dell’abrogazione referendaria il legislatore, al fine di regolamentare nuovamente la materia, ha adottato il decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 (convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148). Questa nuova disciplina, contrariamente alla previgente, seguiva un assetto più attento a garantire la progressiva liberalizzazione del mercato – piuttosto che una tutela “a tutti i costi” della concorrenza – ed in tal senso acquistano, nuovamente, un carattere emblematico i pareri preventivi resi, ai sensi dell’art. 4 d.l. n. 138/2011, dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. In particolare dalla lettura di questi emerge come l’Autorità abbia sì manifestato un favor nei confronti dei processi di liberalizzazione dimostrando però, al contempo, un atteggiamento più prudente rispetto ai pareri resi ai sensi del previgente comma 4 dell’art. 23-bis[67]. In particolare è stata ritenuta legittima la scelta di dar luogo ad un affidamento diretto in ragione delle dimensioni estremamente ridotte del servizio[68] o per la mancanza di operatori aspiranti all’affidamento dello stesso[69] oppure qualora fossero emersi, dalla relazione tecnica allegata, degli elementi idonei a giustificare l’attribuzione dei diritti di esclusiva[70]. Tale normativa, da alcuni ritenuta comunque più rigida rispetto a quella abrogata in sede referendaria, imponeva quindi alle amministrazioni pubbliche di dimostrare – sulla base di un’analisi di mercato – la non idoneità di una gestione concorrenziale a garantire un servizio che corrispondesse ai bisogni della comunità locale[71]. Proprio per la, sostanziale, verosimiglianza tra la disciplina introdotta dall’art. 4 d.l. n. 138/2011 e le prescrizioni contenute nel previgente art. 23-bis d.l. n. 112/2008 la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della stessa in considerazione del fatto che tale normativa aveva finito con l’eludere, in modo più o meno surrettizio, la consultazione referendaria svoltasi nell’estate dell’anno precedente[72].

3.2 Le novità introdotte dal nuovo codice dei contratti pubblici tra recepimento del diritto europeo e restrizioni nazionali

Per tutte le ragioni appena analizzate sembra quindi evidente come, a seguito delle alterne vicende succedutesi nel biennio 2011-2012, la normativa nazionale italiana non abbia previsto alcuna restrizione in merito alla scelta – operata dalla stazione appaltante – dell’indire o meno una gara ad evidenza pubblica (sempre che ne ricorrano le prescritte condizioni) e pertanto risulta esser venuto meno, almeno per il momento[73], il carattere derogatorio della procedura di affidamento in house.

In questo senso sembrerebbe porsi, nelle sue linee essenziali, anche il nuovo codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50). Difatti questo finisce, in sostanza, col far propri gli orientamenti interpretativi raggiunti dalla giurisprudenza europea ed i correttivi introdotti dalle nuove direttive appalti ma, al contempo, dimostra comunque una latente diffidenza del legislatore italiano verso la possibilità di dare seguito all’affidamento di un appalto pubblico senza il preventivo esperimento di una gara ad evidenza pubblica.

3.2.1 Le condizioni fondamentali

Passando ad una puntuale analisi delle previsioni normative del nuovo codice dei contratti pubblici bisogna evidenziare, innanzitutto, come l’art. 5 dello stesso ha finito col positivizzare, in modo quasi pedissequo, i requisiti Teckal così come indicati nelle direttive appalti del 2014. Difatti viene statuito che un affidamento senza previa gara ad evidenza pubblica può essere considerato legittimo nel caso in cui l’amministrazione aggiudicatrice – o le amministrazioni aggiudicatrici – eserciti un controllo analogo (inteso come influenza determinante tanto sugli «obiettivi strategici» quanto sulle «decisioni importanti») tale da far sì che il soggetto in house possa essere considerato una propria articolazione interna[74] e, al contempo, quest’ultimo svolga nei confronti dell’ente affidante – o da altri soggetti controllati o, in caso di in house pluripartecipato, da un ente aggiudicatore – almeno la parte prevalente della propria attività (quantificata nell’80%). In aggiunta a questi due requisiti il legislatore italiano, scegliendo di conformarsi all’apertura prevista dalle nuove direttive, ha prospettato la possibilità che il legislatore possa ammettere – in forza di una puntuale legge e nel rispetto dei Trattati istitutivi – la partecipazione di capitali privati in favore di un soggetto in house, a condizione che questa rappresenti una minima parte del capitale sociale e, comunque, sia tale da non comportare un’influenza determinante sul soggetto controllato. Tale previsione ha superato, riconoscendo quindi come tale opzione sia riservata ai legislatori nazionali, il contrasto sorto tra sezioni consultive e giurisdizionali del Consiglio di Stato ma, al contempo, ha creato alcuni dubbi interpretativi. Difatti è stato correttamente osservato[75] come le direttive appalti pongano, utilizzando il termine «prescritte», l’eventualità di una partecipazione privata in termini di obbligo previsto dalla legislazione interna (in quanto spetterà agli Stati membri valutare, caso per caso, se consentirla o meno) mentre l’art. 5, comma 1, lett. c) d.lgs. n. 50/2016 prospetta – utilizzando la locuzione «previste» – una mera “previsione” che si porrebbe come una facoltà di scelta riconosciuta in favore dell’amministrazione e, in quanto tale, non in linea con quanto disposto dalle direttive europee[76].

3.2.2 L’attività dell’Autorità Nazionale Anticorruzione e la garanzia dei principi di trasparenza e pubblicità

Il comma 1 dell’art. 192 d.lgs. n. 50/2016 prevede che venga redatto, presso l’Autorità Nazionale Anticorruzione, un elenco speciale nel quale sono tenute ad iscriversi, su domanda, le amministrazioni che si avvalgono di affidamenti diretti; spetterà poi all’Autorità stessa procedere, qualora riscontri nei soggetti in house la sussistenza delle condizioni prescritte, a confermare l’iscrizione. Il Consiglio di Stato ha fin da subito precisato come tale registrazione abbia una natura dichiarativa e, pertanto, non costituisce – contrariamente ai requisiti previsti dall’art. 5 del codice – un elemento che legittima o meno la procedura dell’affidamento diretto[77]. Questo comporta che, in presenza dei requisiti di legge, la domanda di iscrizione all’elenco consente ex se – dunque senza la necessità di attendere un esplicito atto da parte dell’Autorità di vigilanza preposta – di poter procedere all’affidamento diretto, fatto salvo il potere di controllo che verrà successivamente posto in essere dall’Autorità stessa; in questo senso l’ANAC, nelle more dell’adozione definitiva del prescritto atto di regolazione[78], ha precisato come le amministrazioni aggiudicatrici possono, a prescindere dall’inoltro della domanda di iscrizione, dar luogo ad un affidamento senza previa gara «in presenza dei presupposti legittimanti definiti dall’art. 12 della direttiva 24/2014/UE e recepiti nei medesimi termini nell’art. 5 del d.lgs. n. 50 del 2016 e nel rispetto delle prescrizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 192»[79].

La disciplina così individuata assume, infine, un interessante risvolto anche sotto il profilo prettamente processuale. Difatti l’orientamento giurisprudenziale attualmente dominante riconosce una legittimazione a ricorrere in capo agli operatori qualificabili, sulla base all’attività svolta e degli scopi sociali perseguiti, come “imprenditori di settore” che agiscono al fine di tutelare l’interesse strumentale – ovvero successivo all’annullamento dell’affidamento diretto – ad avere una possibilità di aggiudicazione in una gara ad evidenza pubblica[80]. D’altro canto è stato sottolineato come, dal momento in cui verrà istituito l’elenco speciale previsto dal comma 1 dell’art. 192, questo indirizzo interpretativo dovrà essere oggetto di una parziale revisione in quanto gli operatori del settore interessati saranno tenuti, innanzitutto, ad impugnare la legittimità dell’iscrizione nell’elenco – attraverso la quale sono stati ritenuti sussistenti, in capo al soggetto in house, i requisiti dettati in materia – e solo successivamente le determinazioni adottate per escludere l’avvio della gara[81].

3.2.3 L’obbligo di motivazione “rafforzata”

La previsione che segna una effettiva novità, carica di risvolti pratici, rispetto alla nuova disciplina dell’affidamento in house è il comma 2 dell’art. 192 d.lgs. n. 60/2016. Difatti questo impone che la scelta di non ricorrere ad una gara pubblica, nonostante venga rimessa ad una valutazione pienamente discrezionale, debba essere adeguatamente motivata sia per quello che riguarda la sussistenza dei classici requisiti Teckal, alla luce dell’evoluzione interpretativa che hanno subito nel tempo, sia sotto il profilo delle ragioni che giustificano – avendo riguardo «agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche» – la convenienza economica del modello gestionale prescelto. In questo modo è stato positivizzato quel canone, già affermato dalla giurisprudenza prima dell’entrata in vigore del codice vigente, di congruità della giustificazione che però – in ragione della natura tecnico-discrezionale della scelta effettuata dall’amministrazione – incontra un limite invalicabile nell’ordinario sindacato di legittimità svolto dal giudice amministrativo[82], salvo che questa non si presenti «manifestamente inficiata da illogicità, irragionevolezza, irrazionalità od arbitrarietà, ovvero sia fondata su di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti»[83].

A riguardo lo stesso Consiglio di Stato (in sede consultiva) ha riconosciuto come il siffatto onere di “motivazione rafforzata” circa le ragioni sottese alla scelta di un affidamento in house impone che questo sia supportato da ragioni di convenienza – nei termini del rapporto tra costi di gestione e benefici per la collettività – e, al contempo, consente un penetrante controllo giurisdizionale «anzitutto sul piano dell’efficienza amministrativa e del razionale impiego delle risorse pubbliche»[84]. Seguendo questa linea interpretativa i giudici di Palazzo Spada sono arrivati a concludere, in modo condivisibile, che ogniqualvolta una amministrazione decida – per garantire determinati beni o servizi – di non dar luogo ad una procedura concorrenziale sia tenuta a motivare, secondo una logica decrescente (che va dalla gara ad evidenza pubblica all’affidamento in house, passando per la costituzione di una società mista), mettendo in luce «le ragioni che conducono ad un’eventuale limitazione del ricorso al mercato» indicando così i motivi per cui questo non viene ritenuto vantaggioso[85].

Considerazioni conclusive

In definitiva si è visto come l’istituto dell’affidamento in house nel tempo sia stato soggetto a numerose sollecitazioni, di natura legislativa e giurisprudenziale, che hanno contribuito ad alimentare non poche incertezze interpretative.

D’altra parte non bisogna trascurare i recenti passi in avanti fatti dal legislatore italiano che – sempre mostrando una certa diffidenza per il fenomeno in commento – nel nuovo codice degli appalti pubblici è riuscito a raggiungere un accettabile compromesso tra il principio di libera organizzazione delle pubbliche amministrazioni e la tutela della concorrenza. Questo equilibrio è stato raggiunto, come si è visto, grazie ad un articolato intreccio di disposizioni che, integrando la normativa europea, consentono alle pubbliche amministrazioni di procedere con un affidamento in house solo qualora risultino integrate delle stringenti condizioni e – nonostante molte voci in dottrina abbiano posto l’accento sul fatto che la legittimità della partecipazione dei privati debba essere risolta, il prima possibile, dalla Corte di giustizia – al contempo, impongono dei canoni di trasparenza tali da riconoscere, in capo all’Autorità Nazionale Anticorruzione, una funzione “precontenziosa” mirata non tanto a deflazionare il contenzioso amministrativo (visto che gli atti di esclusione di sposti dall’Autorità potranno poi essere impugnati dalla stazione appaltante o dal soggetto in house) quanto a garantire un controllo preventivo rispetto alla possibilità che le amministrazioni finiscano con l’abusare di siffatto modello gestionale.

Infine deve essere accolta con favore la garanzia ex post, successiva all’affidamento stesso, rappresentata da un onere motivazionale rafforzato. In questo modo viene assicurato – seguendo un modello che aveva già ispirato il legislatore prima delle abrogazioni referendarie dell’estate 2011 – che le stazioni appaltanti diano una motivazione più che articolata circa la scelta di non fare ricorso al mercato e, al contempo, viene offerto al giudice amministrativo un penetrante strumento di controllo rispetto alle ragioni che hanno spinto le amministrazioni a preferire il modello in house (fino al punto di prospettare, in caso di manifesta illogicità o macroscopico travisamento dei fatti, una eccezione ai classici limiti riconosciuti alla giurisdizione di legittimità).

 

 

[1]                Questa espressione è stata per la prima volta utilizzata nel Libro Bianco sugli appalti della Commissione europea, presentato al Consiglio europeo del giugno 1995 ed intitolato “Preparazione dei paesi associati dell'Europa centrale ed orientale all'integrazione nel mercato interno dell'Unione”; COM (95) 163 del 3 e 10 maggio 1995.

[2]                L’affidamento in house è stato, icasticamente, definito quale «istituto collocato al di là del confine che segna il territorio della concorrenza, in quanto modello che giustifica affidamenti diretti di compiti disattivando la logica della competizione e del mercato»; v. F. Fracchia, In house providing, codice dei contratti pubblici e spazi di autonomia dell’ente pubblico, in Il diritto dell’economia, n. 02/2012, p. 244.

[3]                Difatti la giurisprudenza della Corte di giustizia ha precisato come, al fine di determinare la legittimità dell’affidamento in house, risulti indifferente la forma giuridica in concreto adottata dall’ente aggiudicatario; a.e. nella sentenza ANAV è stata riconosciuta l’applicabilità della relativa disciplina anche in favore di una società per azioni, cfr. Corte Giust., Sez. I, sentenza 6 aprile 2006, C-410/04. Dal punto di vista statistico l’ISTAT ha evidenziato come la forma giuridica utilizzata in modo più frequente in caso di partecipazione pubblica sia quella della società di capitali (pari a 7.550 unità su un totale di 7.767, dati riferiti all’anno 2013); fonte ISTAT, Report sulle partecipate pubbliche in Italia, Roma, 16 novembre 2015, in www.istat.it. Per una ricognizione generale del fenomeno si veda C. Volpe, La disciplina delle società pubbliche e l’evoluzione normativa, in www.giustizia-amministrativa.it mentre per i profili specifici cfr. AA.VV., Le Società partecipate dopo la riforma Madia, a cura di A. Lalli e M. Meschino, Dike Giuridica, Roma, 2016.

[4]                In tal senso cfr. Cons. Stato, Sez. VI, sentenza 18 maggio 2015, n. 2515; con riguardo al fenomeno del Partenariato pubblico - privato si veda M. Ricci, Il Partenariato pubblico – privato nel nuovo Codice dei contratti pubblici, in www.italiappalti.it, 09 dicembre 2016.

[5]                In questo senso la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito, seguendo un orientamento consolidato, che «un’autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi e che può farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche» Corte Giust., Gr. Sez., sentenza 09 giugno 2009, C-480/06; d’altra parte il Consiglio di Stato ha affermato, quasi fin da subito, come l’organizzazione autonoma delle singole amministrazioni rappresenti un modello alternativo rispetto all’accesso al mercato, escludendo così la possibilità di esercitare «un sindacato sulle scelte legislative o amministrative che consentano ai pubblici poteri, nel produrre ed offrire servizi o beni, di optare per schemi di coordinamento e formule organizzatorie, teoricamente alternative rispetto all’acquisizione delle prestazioni destinate alla collettività per il tramite del mercato» Cons. Stato, Sez. V, sentenza 23 aprile 1998, n. 477.

[6]                La c.d. concorrenza per il mercato, ovvero finalizzata alla scelta dell’operatore economicamente più conveniente. In materia esiste una letteratura vastissima, si veda E. Cannizzaro – E. Bozza, Le politiche di concorrenza, in Diritto dell’Unione europea – Parte speciale, a cura di G. Strozzi, Giappichelli, Torino, 2006; A. Lalli, Disciplina della concorrenza e diritto amministrativo, Editoriale scientifica, Napoli, 2008; AA.VV., Dizionario sistematico del diritto della concorrenza, a cura di L.F. Pace, Jovene, Napoli, 2013.

[7]                Cfr. C. Volpe, Le nuove direttive sui contratti pubblici e l’in house providing: problemi vecchi e nuovi, in www.giustizia-amministrativa.it.

[8]                Nelle conclusioni dell’Avvocato generale Kokott nella causa Parking Brixen si legge come «(s)e si applicasse la disciplina in materia di aggiudicazione di pubblici appalti anche a negozi giuridici tra amministrazioni aggiudicatrici e loro società controllate al 100% […] (a)l relativo ente resterebbe soltanto l’alternativa tra la privatizzazione dei suoi servizi e l’esecuzione diretta di essi per mezzo dei propri servizi amministrativi oppure di aziende autonome, integrate nella gerarchia amministrativa e prive di significativa autonomia» e, di conseguenza, un intervento così incisivo non risulterebbe necessario alla luce dello scopo della normativa sugli appalti (ovverosia quello di garantire, attraverso una scelta trasparente ed imparziale dei contraenti, la c.d. concorrenza per il mercato) mentre «(n)on rientra invece nella ratio della disciplina sugli appalti la realizzazione di una privatizzazione “di straforo” anche di quei servizi pubblici che la pubblica amministrazione voglia continuare a fornire con mezzi propri» Avv. Gen., conclusioni 1 marzo 2005, C-458/03.

[9]                Già la Commissione europea aveva chiarito come la scelta circa l’esternalizzazione o meno della gestione dei servizi pubblici compete, in via esclusiva, alle autorità pubbliche in ragione del fatto che «il diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni non si esprime riguardo l’opzione degli Stati membri se garantire un servizio pubblico attraverso i propri stessi servizi o se affidarli invece ad un terzo»; v. paragrafo n. 17 del Libro Verde relativo ai partenariati pubblico–privati e al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni della Commissione europea, 30 aprile 2004, COM (2004) 27.

[10]               Cons. Stato, Ad. Plen., sentenza 3 marzo 2008, n. 1; nello stesso senso si vedano, da ultimo, Cons. Stato, Sez. III, sentenza 7 maggio 2015, n. 2291 e Sez. II, sentenza 30 gennaio 2015, n. 298.

[11]               In questo senso vanno registrate alcune sentenze del Consiglio di Stato che, nel silenzio della normativa italiana dopo l’introduzione del previgente codice dei contratti pubblici, avevano offerto una lettura estremamente restrittiva della giurisprudenza europea stabilendo che «l’in house non costituisce un principio generale, prevalente sulla normativa interna, ma è un principio derogatorio di carattere eccezionale che consente, e non obblighi, i legislatori nazionali a prevedere tale forma di affidamento» Cons. Stato, Sez. VI, sentenza 20 marzo 2007, n. 1514.

[12]               Nella sentenza Stadt Halle si legge come «(u)n’autorità pubblica, che sia una amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi. In tal caso, non si può parlare di contratto a titolo oneroso concluso con un entità giuridicamente distinta dall’Amministrazione aggiudicatrice. Non sussistono dunque i presupposti per applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici» Corte Giust., Sez. I, sentenza 11 gennaio 2005, C-26/03.

[13]               In questo senso cfr. R. Giovagnoli, Gli affidamenti in house tra lacune del codice e recenti interventi legislativi, in www.giustizia-amministrativa.it.

[14]               In particolare viene precisato come, visto che l’obiettivo principale della normativa europea in materia di appalti pubblici è quello di garantire una concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri, «qualsiasi deroga all’applicazione di tale obbligo (ovvero quello, gravante su qualsiasi amministrazione aggiudicatrice, di applicare le norme del diritto europeo quando ne ricorrono i presupposti) va interpretata restrittivamente» Corte Giust., Sez. VIII, sentenza 08 maggio 2014, C-15/13 e Cons. Stato, sentenza 18 aprile 2007, n. 456.

[15]               Recentemente vi sono state alcune pronunce che, oltre a riconoscere l’equiordinazione delle differenti modalità di affidamento, hanno mostrato una preferenza per l’autoproduzione qualora la stazione appaltante non svolga le necessarie considerazioni di natura tecnico-economica che renderebbero più opportuno l’affidamento con evidenza pubblica rispetto a quello in house (nel caso di specie la società affidataria offriva, nei confronti delle amministrazioni proprietarie della stessa, una gestione dei servizi locali particolarmente vantaggiosa sotto il profilo economico); v. T.A.R. Veneto, Sez. I, sentenza 25 agosto 2015, n. 249.

[16]               Corte Giust., Sez. V, sentenza 18 novembre 1999, C-107/98; per una prima applicazione di questi principi nel diritto nazionale italiano si veda Cons. Stato, Sez. V, sentenza 13 luglio 2006, n. 4440.

[17]               Nella sentenza Undis viene ribadito come «l’obiettivo principale delle norme del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici, ossia la libera circolazione delle merci e dei servizi e l’apertura a una concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri, implica l’obbligo di applicare le norme sulle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici previste dalle direttive pertinenti» e, pertanto, «qualsiasi deroga all’applicazione di tale obbligo deve essere interpretata restrittivamente» cfr. Corte Giust., Sez. IV, sentenza 8 dicembre 2016, C-553/15 nonché Corte Giust., Sez. V, sentenza 8 maggio 2014, C-15/13.

[18]               Nella sentenza Stadt Halle la Corte statuì, in modo perentorio, come «la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi» Corte Giust., Sez. I, sentenza 11 gennaio 2005, C-26/03. Nonostante le aperture che sono seguite nelle pronunce successive i giudici del Lussemburgo hanno sempre escluso, ribadendolo anche di recente, che la partecipazione di soggetti privati (anche se, nel caso di specie, si trattava di istituzioni caritative senza scopo di lucro) potesse integrare il requisito del controllo analogo; Corte Giust., Sez. V, sentenza 19 giugno 2014, C-574/12.

[19]               Le stesse direttive prevedono, discutibilmente, che una partecipazione “indiretta” – ovverosia limitata all’amministrazione aggiudicatrice controllante – da parte di un soggetto privato possa essere considerata legittima in quanto ciò non inciderebbe negativamente sulla concorrenza tra gli operatori economici privati (v. i considerando nn. 32 direttiva 2014/24/UE e 46 direttiva 2014/23/UE); cfr. S. Foà – Davide Greco, L’in house providing nelle direttive appalti 2014: norme incondizionate e limiti dell’interpretazione conforme, in www.federalismi.it, n. 15/2015.

[20]               Sono stati ritenuti indici rilevatori della “vocazione commerciale”: il successivo ampliamento dell’oggetto sociale; l’apertura obbligatoria della società, entro un breve termine, ad ulteriori capitali privati; l’espansione dell’attività su tutto il territorio nazionale ed all’estero. V. Corte Giust., Sez. I, sentenza 13 ottobre 2005, C-458/03 e sentenza 10 novembre 2005, C-29/04. In merito l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha avuto modo di precisare come la possibilità che la società affidataria possa, secondo lo statuto, svolgere numerose attività «lascia presumere l’esistenza di una (anche potenziale) vocazione commerciale basata sul rischio di impresa, suscettibile di condizionare le scelte strategiche della società stessa, distogliendola dalla cura primaria dell’interesse pubblico di riferimento» Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, parere 18 giugno 2015, n. AS 1201.

[21]               In questo senso cfr. Cons. Stato, Sez. V, sentenza 30 agosto 2006, n. 5072.

[22]               Corte Giust., Sez. II, sentenza 17 luglio 2008, C-371/05. D’altra parte i giudici amministrativi italiani hanno sempre mostrato un orientamento più rigido, escludendo che possa configurarsi un controllo analogo qualora lo statuto della società consenta, anche in astratto, che una quota del capitale possa essere alienata in favore di terzi; v. Cons. Stato, Sez. V, sentenza 3 febbraio 2009, n. 591 e sentenza 26 agosto 2009, n. 5082.

[23]               In questo senso la Commissione aveva già puntualizzato come «l’aggiudicazione “interna” di un appalto pubblico o di una concessione ad un’impresa pubblica è esclusa se l’intenzione è di aprirne il capitale a soggetti privati nel corso dell’esecuzione dell’appalto o della concessione di cui trattasi. Al contrario, la semplice possibilità teorica della partecipazione di un soggetto privato al capitale di una società controllata da un’amministrazione aggiudicatrice non mette in discussione […] la relazione “interna” tra l’amministrazione aggiudicatrice e la sua controllata» Commissione europea, comunicazione interpretativa “sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati” del 5 febbraio 2008, C-91/4.

[24]               In senso critico si veda C. Volpe, La corte di Giustizia continua la rifinitura dell’in house providing. Ma il diritto interno va in controtendenza, in www.giustizia-amministrativa.it.

[25]               Difatti la giurisprudenza ha precisato come la sostituzione della controparte contrattuale a cui era stato inizialmente affidato l’appalto costituisce una modifica dei termini essenziali dello stesso (a meno che questa non fosse stata contemplata nei termini dell’appalto originario), pertanto sull’amministrazione aggiudicante grava l’obbligo di provvedere alla relativa declaratoria di decadenza; Corte Giust., Sez. III, sentenza 19 giugno 2008, C-454/06.

[26]               Sul punto i giudici di Palazzo Spada hanno precisato come vi sia una differenza strutturale tra i due moduli operativi in ragione del fatto che la scelta, a mezzo di gara ad evidenza pubblica, del partner privato nelle società miste comporterebbe una convergenza tra interessi pubblici e privati tale da rendere ammissibile il relativo affidamento «a condizione che si sia svolta una unica gara per la scelta del socio e l’individuazione del determinato servizio da svolgere, delimitato in sede di gara sia temporalmente che con riguardo all’oggetto» in particolare è stato osservato come, al fine di evitare una elusione delle regole poste a tutela della concorrenza, «l’oggetto sia predeterminato e non genericamente descritto» da ultimo v. Cons. Stato, Sez. V, sentenza 5 marzo 2016, n. 1028 e Corte Giust., Sez. III, sentenza 15 ottobre 2009, C-196/08.

[27]               V. Corte Giust., Sez. I, sentenza 10 novembre 2005, C-29/04.

[28]               In questo senso v. C. Contessa, L’in house providing quindici anni dopo: cosa cambia con le nuove direttive, in www.giustizia-amministrativa.it.

[29]               Cons. Stato, Sez. II, parere 30 gennaio 2015, n. 298.

[30]               Cons. Stato, Sez. VI, sentenza 26 maggio 2015, n. 2660 e Sez. V, sentenza 11 settembre 2015, n. 4253; in questo senso anche la Corte di giustizia ha ritenuto, su rinvio dei giudici di Palazzo Spada (Cons. Stato, Sez. V, ordinanza 25 giugno 2015, n. 4793), come la mancata scadenza del termine per recepire le nuove direttive appalti al momento dell’instaurazione del giudizio principale comportasse l’applicabilità della previgente disciplina in materia, cfr. Corte Giust., Sez. IV, sentenza 8 dicembre 2016, C-553/15. Per un commento su questa giurisprudenza si veda P. Cavalcanti, L’in house e il controllo analogo al vaglio del Consiglio di Stato, in www.italiappalti.it, 04 dicembre 2015.

[31]               Nella sentenza Inter-Environnement Wallonie si legge come «durante il termine fissato per la trasposizione gli Stati membri devono adottare i provvedimenti necessari ad assicurare che il risultato prescritto dalla direttiva sarà realizzato alla scadenza del termine stesso» e pertanto «astenersi dall’adottare disposizioni che possano compromettere gravemente il risultato prescritto dalla direttiva» Corte Giust., sentenza 18 dicembre 1997, C-129/96.

[32]               Nella sentenza Adeneler la Corte ha precisato che «dalla data in cui una direttiva è entrata in vigore i giudici degli Stati membri devono astenersi per quanto possibile dall’interpretare il diritto interno in un modo che rischierebbe di compromettere gravemente, dopo la scadenza del termine di attuazione, la realizzazione del risultato perseguito dalla direttiva» Corte Giust., Gr. Sez., sentenza 4 luglio 2006, C-212/04.

[33]               Sul punto si vedano Corte Giust., sentenza 4 dicembre 1974, C-41/74; sentenza 5 aprile 1979, C-148/78; sentenza 2 febbraio 1986, C-152/84 e sentenza 14 luglio 1994, C-91/92.

[34]               Al fine di porre rimedio alle criticità così emerse il legislatore, in forza del decreto legge 19 giugno 2015, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 125), ha anticipatamente recepito alcune prescrizioni dell’art. 12, par. 3, n. 1 direttiva n. 2014/24/UE richiedendo, ove necessario, i necessari adeguamenti statutari del soggetto affidatario.

[35]               Corte Giust., Sez. I, sentenza 11 maggio 2006, C-340/04; sulla non sufficienza della partecipazione pubblica totalitaria cfr. Cons. Stato, Sez. VI, sentenza 1 giugno 2007, n. 2932.

[36]               Corte Giust., Sez. I, sentenza 13 ottobre 2005, C-458/03; Sez. II, sentenza 17 luglio 2008, C-371/05; Sez. III, sentenza 13 novembre 2008, C-324/07. Con riguardo all’influenza esercitata sulla giurisprudenza amministrativa italiana si veda A. Graziano, Servizi pubblici locali: modalità di gestione dopo le riforme di cui alla l. 24.11.2003 n. 326 e alla l. 24.12.2003, n. 350 e compatibilità con il modello dell’in house providing alla luce delle ultime pronunce della Corte di Giustizia (Sentenze Stadt Halle del 11.1.2005; Parcking Brixen del 25.10.2005 e Modling del 10.11.2005), in www.giustizia-amministrativa.it.

[37]               Recentemente anche la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità, per violazione del comma 1 dell’art. 117 Cost., di una legge regionale per mezzo della quale era stata istituita una società finanziaria non avente le caratteristiche dettate dal diritto europeo in materia di affidamento in house; v. Corte Cost., sentenza 28 maggio 2014, n. 141.

[38]               Circa la sussistenza di questi due requisiti la Corte di giustizia ha avuto modo di precisare l’esercizio di un’influenza determinante sull’istituto in house può essere anche deducibile dal fatto che all’ente locale controllante sia riconosciuta la facoltà di nominare i membri degli organi direttivi del primo nonché, al contempo, dalla presenza di un funzionario dell’amministrazione incaricato di orientarne l’operato; cfr. Corte Giust., Sez. II, sentenza 17 luglio 2008, C-371/05.

[39]               Corte Giust., Sez. III, sentenza 29 novembre 2012, C-182/11 e 183/11.

[40]               I giudici amministrativi italiani hanno, fin da subito, esercitato – al fine di valutare o meno la legittimità dell’affidamento senza gara – dei penetranti poteri di controllo rispetto alle previsioni statutarie concernenti gli organi e le attività poste in essere dai soggetti in house; cfr. Cons. Stato, Sez. V, sentenza 6 maggio 2002, n. 2418 e T.A.R. Abruzzo – Pescara, Sez. I, sentenza 3 novembre 2016, n. 344.

[41]               Riducendo, di conseguenza, il potere decisionale riconosciuto al Consiglio di Amministrazione; Cons. Stato, Sez. VI, sentenza 3 aprile 2007, n. 1514.

[42]               La giurisprudenza non specifica in che modo debba estrinsecarsi la presenza di ciascun socio negli organi direttivi né, tantomeno, con quale modalità operativa questa concorra al controllo analogo; d’altra parte nella prassi vi sono numerosi meccanismi di natura “societaria”, che vanno dalla nomina diretta (e/o concorrente) dei singoli rappresentanti presso i rispettivi organi amministrativi fino alla partecipazione “mediata” (a.e. attraverso la nomina, nel consiglio di amministrazione, di consiglieri riservati ai soci di minoranza), oppure strumenti di carattere parasociale, attraverso la predisposizione di organismi di controllo muniti di penetranti poteri di verifica preventiva sulla gestione dell’attività ordinaria e straordinaria del soggetto affidatario; in tal senso cfr. T.A.R. Piemonte, Torino, Sez. II, sentenza 16 giugno 2014, n. 1069.

[43]               Quali il bilancio, i contratti che superino un certo valore soglia e, più in generale, «gli atti più qualificanti della gestione che non si risolvano in meri atti ordinari e burocratici» v. Cons. Stato, Sez. V, sentenza 13 marzo 2014, n. 1181 e Cons. Stato, sez. VI, sentenza 11 febbraio 2013, n. 762.

[44]               Cons. Stato, Sez. V, sentenza 8 gennaio 2007, n. 5.

[45]               Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sentenza 4 settembre 2007, n. 719.

[46]               Per quel che riguarda l’affidamento in house “orizzontale” o “a cascata” – configurabile quando l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su due distinti soggetti, che svolgono la parte più importante della propria attività in favore della prima, e dei quali uno affida all’altro un appalto (art. 12, par. 2 direttiva 24/2014/UE) – la Corte di giustizia ne ha escluso la configurabilità qualora l’amministrazione aggiudicatrice non detenga alcuna partecipazione sociale né alcun rappresentante nella società affidataria e, al contempo, sussista una situazione di controllo analogo “parziale”, ovverosia limitato solo ad una parte delle attività svolte dal soggetto in house, perché in questo modo verrebbe meno la possibilità di determinare gli obiettivi strategici e le decisioni significative dello stesso; v. Corte Giust., Sez. V, sentenza 8 maggio 2014, C-15/13, per una nota critica si rinvia a G. Pescatore, L’inedito modello dell’in house orizzontale, in Libro dell’anno del diritto 2015, www.treccani.it.

[47]               Nella sentenza Econord si legge come «(q)uando più autorità pubbliche, nella loro veste di amministrazioni aggiudicatrici, istituiscono in comune un’entità incaricata di adempiere compiti di servizio pubblico ad esse spettanti, oppure quando un’autorità pubblica aderisce ad un’entità siffatta, la condizione enunciata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, secondo cui tali autorità, per essere dispensate dal loro obbligo di avviare una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico in conformità alle norme del diritto dell’Unione, debbono esercitare congiuntamente sull’entità in questione un controllo analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi, è soddisfatta qualora ciascuna delle autorità stesse partecipi sia al capitale sia agli organi direttivi dell’entità suddetta» Corte Giust., Sez. III, sentenza 29 novembre 2012, C-182/11 e 183/11.

[48]               In questo senso la giurisprudenza amministrativa italiana ha prospettato la necessità di effettuare un penetrante controllo tanto sullo statuto quanto sui patti parasociali (o gli eventuali regolamenti adottati) del soggetto in house, di modo da verificare che il controllo analogo così garantito a tutte le amministrazioni partecipanti sia in tutto e per tutto uguale a quello che le stesse esercitano sulle proprie articolazioni interne; cfr. T.A.R. Abruzzo – Pescara, Sez. I, sentenza 3 novembre 2016, n. 344.

[49]               Difatti in caso di una partecipazione puramente formale, vuoi nella compagine sociale o nei rispettivi organi direttivi, potrebbe configurarsi una elusione, da parte della stessa amministrazione, dell’obbligo di avviare una gara ad evidenza pubblica; v. Corte Giust., Gr. Sez., sentenza 21 luglio 2005, C-231/03 e T.A.R. Abruzzo – L’Aquila, Sez. I, sentenza 10 luglio 2014, n. 596.

[50]               In tal senso è stato precisato come occorrerà verificare che «il consiglio di amministrazione del soggetto affidatario in house non abbia rilevanti poteri gestionali e che l’ente pubblico affidante eserciti, pur se con moduli su base statutaria, concreti ed effettivi poteri di ingerenza e di condizionamento, sicché risulta indispensabile che le decisioni più importanti siano sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante o, in caso di in house frazionato, della totalità degli enti pubblici soci» v. Cons. Stato, Sez. V, sentenza 10 settembre 2014, n. 1069 e sentenza 8 marzo 2011, n. 1447.

[51]               Pertanto viene ritenuto preferibile che le autorità controllanti vengano poste nelle condizioni di poter deliberare a maggioranza; cfr. Corte Giust., Sez. III, sentenza 13 novembre 2008, C-324/07.

[52]               Sul punto si veda S. Foà – D. Greco, In house providing e requisito dell’attività prevalente tra nuove direttive e rinvii pregiudiziali, in Diritto ed economia dell’impresa, n. 02/2016.

[53]               In alternativa possono essere presi in considerazione «i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice in questione nei campi dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto» altrimenti, qualora la misura relativa ai tre anni precedenti all’aggiudicazione non sia disponibile o non abbia più pertinenza, bisognerà dimostrare che la misura dell’attività abbia un valore credibile.

[54]               Nella recente sentenza Undis la Corte di giustizia ha precisato come, al fine di determinare il valore soglia, non bisogna tener conto delle attività fornite in favore delle amministrazioni pubbliche non partecipanti (in quanto non dotate di alcun potere di controllo sul soggetto in house) evidenziando, inoltre, come risulti necessario, per configurare il requisito della prevalenza, computare sia il fatturato relativo all'attività svolta presso gli enti di riferimento (anche prima dell'affidamento dell'appalto) sia gli eventuali accordi, in essere tra i comuni soci, volti a formalizzare l'esercizio di un controllo analogo sulla società controllata; v. Corte Giust., Sez. IV, sentenza 8 dicembre 2016, C-553/15 e M. Salerno, Appalti «in house», nuovi paletti dalla Corte di giustizia, in Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2016.

[55]               Nella sentenza Asemfo la Corte di giustizia, senza proporre valutazioni dal punto di vista qualitativo, ha ritenuto come lo svolgimento, da parte del soggetto affidatario, del 90% della propria attività in favore degli enti pubblici controllanti rappresenti un dato numerico sufficiente ad integrare il requisito della prevalenza; cfr. Corte Giust., Sez. II, sentenza 19 aprile 2007, C-295/05. Mentre l’Avvocato generale Stix-Hackl, nelle conclusioni presentate per la causa Stadt Halle, alla c.d. regola dell’80% aveva preferito, onde evitare una eccessiva rigidità in sede applicativa, la valorizzazione degli elementi di natura quantitativa e qualitativa; cfr. Avv. Gen., conclusioni 23 settembre 2004, C-26/03.

[56]               Corte Giust., Sez. I, sentenza 11 maggio 2006, C-340/04.

[57]               Cfr. Corte Cost., sentenza 23 dicembre 2008, n. 439.

[58]               Finendo col configurare, tra l’ente appaltante e quello aggiudicatore, un regime di “quasi-esclusività”; v. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sentenza 4 settembre 2007, n. 719.

[59]               In tal senso è stata offerta una lettura estensiva del requisiti stabiliti in materia dalla sentenza Parking Brixen; cfr. Aut. Vig. Contr. Pubb., deliberazione 13 gennaio 2010, n. 2.

[60]               T.A.R. Veneto, Sez. I, sentenza 25 febbraio 2009, n. 236.

[61]               Nell’abrogato testo dell’art. 113, comma 5, lett. c) decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 si leggeva come, nel rispetto della normativa europea, l’assegnazione della titolarità del servizio potesse avvenire in favore di «società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano»; sul punto si veda Ministero per le Politiche Comunitarie, circolare 19 ottobre 2001, n. 12727 e Cons. Stato, Sez. V, ordinanza 22 aprile 2004, n. 2316.

[62]               Cfr. l’abrogato testo dell’art. 23-bis decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 (convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133); con riguardo all’iter di approvazione dell’articolo in commento si veda C. Volpe, In house providing, Corte di giustizia, Consiglio di Stato e legislatore nazionale. Un caso di convergenze parallele?, in www.giustizia-amministrativa.it. Per una completa rassegna della giurisprudenza al tempo dell’entrata in vigore della riforma del 2008 si veda G. Guzzo, La nuova disciplina degli affidamenti in house e delle società miste alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale nazionale e comunitaria più recente e dell’articolo 23-bis del d.l. n. 112/2008, convertito, con modifiche, nella legge n. 133 del 6 agosto 2008, intervento al convegno “La riforma dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”, Vallo della Lucania, 26 giugno 2009.

[63]               Alla luce dell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza della Corte di giustizia; cfr. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, parere 27 ottobre 2009, n. AS 640.

[64]               Cfr. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, parere 17 luglio 2009, n. AS 563 e parere 7 agosto 2009, n. AS 603.

[65]               Corte Cost., sentenza 3 novembre 2010, n. 325; per un commento si veda A. Lucarelli, Primissime considerazioni a margine della sentenza n. 325 del 2010, in www.rivistaaic.it, n. 01/2011.

[66]               In questo senso la stessa Consulta, in sede di ammissibilità del quesito referendario, aveva riconosciuto come l’eventuale abrogazione non avrebbe creato alcuna lacuna normativa poiché vi sarebbe stata, in materia di servizi pubblici locali, l’applicazione diretta dei principi di diritto europeo (meno restrittivi rispetto alla normativa interna); Corte Cost., sentenza 26 gennaio 2011, n. 24. Cfr. A. Lalli, I beni pubblici. Imperativi del mercato e diritti della collettività, Jovene, Napoli, 2015, pp. 203ss. e Cons. Stato, Sez. V, sentenza 22 gennaio 2015, n. 257.

[67]               Per una puntuale analisi dei pareri resi in materia v. C. Leone, Il ruolo di controllo dell’Autorità Antitrust sulle società in house e sui processi di liberalizzazione, in www.rivistacorteconti.it, n. 0/2014.

[68]               Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, parere 9 luglio 2012, n. AS 964.

[69]               Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, parere 4 aprile 2012, n. AS 928.

[70]               Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, parere 15 giugno 2012, n. AS 965.

[71]               In tal senso v. L. Cavallo, L’analisi di impatto della regolazione nell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in www.osservatorioair.it, n. 05/2013.

[72]               Cfr. Corte Cost., sentenza 17 luglio 2012, n. 199; per un commento sulla portata della pronuncia si rinvia a S. La Porta, Il “ripristino” della normativa abrogata con referendum brevi note a margine della travagliata vicenda dei servizi pubblici locali, in www.osservatorioaic.it, n. 04/2012. Per una rassegna generale della giurisprudenza italiana in materia (prima dell’entrata in vigore delle nuove direttive appalti) v. G. Urbano, L’evoluzione giurisprudenziale dell’istituto in house providing tra tutela della concorrenza e autorganizzazione amministrativa, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 4 maggio 2012.

[73]               Difatti i giudici delle leggi non hanno escluso che il legislatore ordinario possa successivamente adottare, senza vanificare l’effetto utile garantito dal divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare (principio desumibile dall’art. 75 Cost.), una disciplina che reintroduca la normativa abrogata qualora si verifichi un mutamento del quadro politico o delle circostanze di fatto che hanno portato alla consultazione referendaria; v. Corte Cost., sentenza 17 luglio 2012, n. 199 e ordinanza 9 gennaio 1997, n. 9.

[74]               Ex multis v. T.A.R. Abruzzo – Pescara, Sez. I, sentenza 3 novembre 2016, n. 346 con il commento di G. Ranalli – S. Biancifiori, Affidamento in house illegittimo in assenza di controllo analogo, in www.italiappalti.it, 18 gennaio 2017.

[75]               V. N. Durante, L’affidamento in house – Relazione resa al convegno sul tema “sistemi di realizzazione”, organizzato presso il T.A.R. del Lazio il 29 settembre 2016, nell’ambito dei “Workshop sul D.lgs. n. 50/2016”, in www.italiappalti.it, 30 settembre 2016.

[76]               Un refuso simile era presente anche nello schema di decreto in materia di società pubbliche (d.lgs. n. 175/2016) successivamente modificato a seguito del parere emesso, in sede consultiva, dai giudici di Palazzo Spada; infatti questi hanno precisato come il rinvio alla normativa nazionale «deve però essere fatto a disposizioni di legge che “prescrivono” e dunque impongono la partecipazione e non anche a quelle che genericamente “prevedono” la partecipazione. La prescrizione deve attuarsi mediante una chiara esplicitazione delle ragioni che giustificano la partecipazione di privati nella compagine societaria» Cons. Stato, Comm. Spec., parere 21 aprile 2016, n. 968.

[77]               Difatti il legislatore italiano non ha voluto ampliare, attraverso l’introduzione dell’obbligo di una iscrizione con efficacia abilitante, il novero dei requisiti sostanziali che consentono al soggetto in house di affidare l’autoproduzione alle proprie articolazioni interne; cfr. Cons. Stato, Comm. Spec., parere 1 aprile 2016, n. 855.

[78]               La definitiva entrata in vigore di questo atto è ormai prossima. Difatti durante l’adunanza del 28 dicembre 2016 l’Autorità ha adottato un documento denominato “Linee Guida per l’iscrizione nell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house”, sul quale il Consiglio di Stato ha espresso un parere favorevole; v. Cons. Stato, Comm. Spec., parere 9 gennaio 2017, n. 282.

[79]               Autorità Nazionale Anticorruzione, comunicato del Presidente del 3 agosto 2016.

[80]               Sotto il profilo della legittimazione attiva è stato riconosciuto come, in forza dei principi di libera concorrenza ed effettività della tutela giurisdizionale, «ogni impresa operante in un determinato settore ha un interesse tutelato a contestare la scelta della p.a. di non procedere all’indizione di una procedura di gara pubblica, in quanto tale decisione viene a ledere l’interesse sostanziale di ciascun imprenditore operante sul libero mercato a competere, secondo pari opportunità, ai fini dell’ottenimento di commesse da aggiudicarsi secondo procedure ad evidenza pubblica» T.A.R. Puglia – Lecce, Sez. II, sentenza 04 ottobre 2007, n. 3436; in senso analogo si veda Cons. Stato, Sez. III, sentenza 26 maggio 2016, n. 2228.

[81]               In questo senso si veda D. De Carolis, Affidamento in house di servizi pubblici locali, controllo analogo e contenuto “minimo” dello statuto societario, in www.italiappalti.it, 09 dicembre 2016.

[82]               Difatti il vigente Codice del processo amministrativo (decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104) riconosce alla giurisdizione di legittimità, rispetto a quella estesa al merito, una minore ampiezza di poteri decisori; sul punto si veda A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Giappichelli, Torino, 2012, pp. 170ss.

[83]               Per una prima applicazione del principio in seguito all’entrata in vigore del nuovo codice si veda T.A.R. Lombardia – Milano, Sez. III, sentenza 3 ottobre 2016, n. 1781; in senso analogo cfr. Cons. Stato, Sez. V, sentenza 12 maggio 2016, n. 1900 e 10 settembre 2014, n. 4599. Sul punto si rinvia a R. Marletta, L’affidamento in house anche alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, in www.italiappalti.it, 15 ottobre 2016, si veda altresì R. De Nictolis, Il nuovo codice dei contratti pubblici, in Urbanistica e appalti, n. 05/2016.

[84]               Cons. Stato, Comm. Spec., parere 1 aprile 2016, n. 855.

[85]               Cons. Stato, Comm. Spec., parere 3 maggio 2016, n. 1075; v. E. de Carlo, Affidamenti in house dei servizi pubblici: lo stato dell’arte, in www.italiappalti.it, 19 luglio 2016.