Tutti sono convinti che l’Italia sarebbe più competitiva con migliori infrastrutture, grandi porti commerciali nel Mediterraneo, più TAV ma anche più reti ordinarie e per il trasporto merci, con qualche maggiore attenzione per le infrastrutture energetiche necessarie.

Che l’Italia sarebbe più sicura con diffusi interventi per la prevenzione dal dissesto idrogeologico e dai danni sismici, valutati in circa 3 miliardi l’anno.

Che sarebbe più bella con la rigenerazione urbana e più concorsi di architettura.

Che, dopo Brexit, sarebbe assai importante fare di Expo e di Bagnoli due aree di infrastrutture strategiche ad alta intensità e attrattività.

E allora, perché non farlo?

Occorre un cambiamento vero e il nuovo Codice degli appalti è l’occasione, l’opportunità. Occorre infatti dire basta all’Italia delle opere pubbliche sin qui descritta come una somma di paradossi: il Paese con il massimo numero di norme e leggi e, nel contempo, il massimo di illegalità; il massimo numero di stazioni appaltanti (oltre 36.000!) ed il massimo numero di opere incompiute; il massimo ribasso come criterio di aggiudicazione e il massimo costo delle opere dopo l’esecuzione …

Oppure, ancora ad una condizione descritta da metafore e barzellette come quella secondo cui in “Germania le opere pubbliche sono fatte dagli ingegneri, in Inghilterra dai manager, in Italia dagli avvocati.”.

Pur senza cedere ai brocardi e all’autodenigrazione di un paese che resta capace di grandi imprese e di grandi architetti, con il nuovo codice si intende cambiare verso.

Solo stazioni appaltanti con la certificazione di qualità, non importa se grandi o meno, capoluogo di provincia o no, importa che abbiano strutture, skill professionali, capacità di gestione efficiente di processi complessi e, quindi, anche di decisione responsabile. Una grande questione nazionale che non può essere affrontata solo a giorni alterni, magari depotenziando le pubbliche amministrazioni o appaltando in toto ai general contractor le funzioni pubbliche.

Mercati aperti alla concorrenza e anche mercati qualificati, tra imprese con rating reputazionali e di legalità, frenando la frammentazione delle piccole imprese improvvisate, le prassi dei massimi ribassi in dumping, l’assenza di garanzie sul risultato finale.

Gare vere, telematiche, trasparenti, basate sul criterio qualità-prezzo, con zero tolleranza per le offerte anomale, con commissari di gara imparziali.

Semplificazione normativa, secondo il criterio del copy out nel recepimento delle direttive europee, con qualche limitata eccezione per favorire il contrasto della corruzione e maggiore concorrenza.

Una seria semplificazione amministrativa, degli oneri burocratici, dei formalismi, favorendo il soccorso istruttorio senza trasformare però l’istituto dell’avvalimento nel market delle qualifiche o nel rifugio degli incapaci.

Una concezione del diritto europeo della concorrenza meno fondamentalista, liberale e non liberista: se le direttive europee ammettono nel regime degli affidamenti di servizi in house la presenza del privato fino al venti per cento, senza poteri di gestione, siamo sicuri che questo modello non corrisponda agli interessi nazionali? Piuttosto è il numero delle società pubbliche locali che occorre drasticamente ridurre.

Ed anche il partenariato pubblico privato, il dialogo competitivo, la finanza di progetto, le stesse opportunità che ora si aprono con il nuovo codice sulle concessioni, dovrebbero essere in fine liberati dall’oppressione della burocrazia e delle regole e sottoposti all’unica e decisiva prova della trasparenza e del confronto concorrenziale.

Progetti veri, direttori dei lavori veri, controlli seri in corso di esecuzione, valorizzando le professionalità e i corpi tecnici.

Strumenti di risoluzione delle controversie anche alternativi al processo e nessun alibi per chi vuole scaricare sui giudici le proprie irresponsabilità.

Sarà possibile tutto questo? La sfida è alta, o tutto o niente.

Siamo ora, dopo l’emanazione del nuovo codice, tecnicamente nella fase di VIR (valutazione dell’impatto regolatorio[1]) e di implementazione della disciplina attraverso le “linee guida”.

Ben dieci sono già state oggetto di consultazione attraverso il contributo qualificato degli stakeholders.

Otto sono le linee guida redatte in collaborazione con il Ministero delle infrastrutture che saranno approvate tramite decreti ministeriali e avranno esplicito valore di regolamento.

Si tratta di temi importantissimi quali, solo per citare, la disciplina dell’AVCPass, della programmazione e delle opere incompiute; del dibattito pubblico; dei requisiti dei progettisti; della qualificazione delle stazioni appaltanti; della gestione della banca dati di competenza del MIT, dei requisiti dei general contractor, ecc..

Ma anche le Linee guida di diretta emanazione dell’ANAC che, secondo il parere reso dal Consiglio di Stato, avranno valore di atti amministrativi generali, affrontano nodi delicati e innovativi quali: le procedure sottosoglia di rilevanza comunitaria; l’offerta economicamente più vantaggiosa; il direttore dei lavori e la nuova figura del direttore dell’esecuzione; l’affidamento dei servizi  attinenti all’architettura e all’ingegneria; i criteri di scelta dei commissari di gara e l’iscrizione nell’albo nazionale obbligatorio; i criteri reputazionali per la qualificazione delle imprese; il monitoraggio delle amministrazioni aggiudicatrici sull’attività dell’operatore economico nei contratti di partenariato pubblico-privato; l’indicazione “dei mezzi di prova adeguati e delle carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto che possano considerarsi significative per la dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c) del Codice”.

Per quanto concerne questa ultima “linea guida” è utile qualche riflessione, con una doverosa premessa.

Il lavoro in corso da parte di ANAC, dei tecnici e dei giuristi, degli stessi attori economici e sociali, è straordinario e merita la massima considerazione.

Il binomio inscindibile che attraversa l’intera azione di riforma è “legalità ed efficienza”, insieme, non l’una senza l’altra.

Per questo riteniamo decisiva la massima attenzione sul tema senza soverchie concessioni alle mode del momento.

Orbene occorre certamente una più approfondita riflessione sul par.3 del documento di consultazione relativo “all’indicazione di mezzi di prova adeguati”, ai fini dell'esclusione dell'operatore per gravi illeciti professionali, ai sensi dell'art. 80, comma 5, del d.lgs. 50/2016.

Appare discutibile, e non priva di possibili rilievi di costituzionalità, l’ indicazione di ritenere automaticamente ricomprese, tra le cause di automatica esclusione dalla gara, fattispecie espressamente escluse dal legislatore delegato, quali quelle richiamate al par. 3 della Linea guida in consultazione[2].

La nozione di "dubbia integrità o affidabilità" non può non avere carattere residuale ed eccezionale poiché la sanzione interdittiva che ne deriva ha natura sicuramente afflittiva e tale da poter determinare addirittura l'estinzione dell’impresa, anche in considerazione della prevista durata triennale della misura (sebbene tramite partecipazione in contraddittorio).

Non risulta coerente con i principi di tassatività e di proporzionalità delle misure sanzionatorie, la previsione di un generico elenco di fattispecie di reati di intrinseca differente natura e disvalore sociale, tal che un imprenditore, o un’impresa, responsabile anche in via colposa di una erronea dichiarazione o di un reato ambientale di qualsivoglia entità, debba essere a priori escluso dalla vita economica. 

Ciò risulterebbe ancor più irragionevole ove l’impresa si fosse sottoposta alle misure di riabilitazione e prevenzione previste secondo i modelli della legge 231/2001.

Una tale previsione avrebbe peraltro un effetto retroattivo rispetto al tempus commissi delicti..

Non risulta neppure precisato, e sarebbe opportuno farlo, se gli illeciti de quibus sono stati accertati con sentenza passata in giudicato e, in tal caso, se sia sufficiente la commissione di un solo illecito, ed in quale epoca temporale.

Analoghe considerazioni possono essere svolte, in punto di proporzionalità, per l’ultimo capoverso del paragrafo tre poiché appare discutibile che una violazione, sia pure sanzionata dall'AGCM in via definitiva, delle corrette pratiche commerciali e della concorrenza, possa determinare ex post la definitiva eliminazione dell'impresa dalla scena economica.

Ritengo personalmente che la nozione di “integrità e affidabilità” dell’operatore economico, ai fini dell’esclusione dalle procedure di gara, debba essere esplorata con maggiore attenzione, caso per caso, e non per categorie generali di fattispecie che spetta al legislatore definire, ed anche oltre il confine degli illeciti, poiché è pur sempre l’efficienza del mercato, alla luce dei principi fondamentali di legalità, il fine primario che si intende perseguire.

Naturalmente, il problema sollevato ha una sua delicata dimensione culturale che non può essere sottaciuta. 

Non occorre necessariamente aderire alla preghiera di Papa Francesco per l’Anno Santo della Misericordia che ci ricorda che al ladrone pentito fu assicurato il Paradiso. C’è una “pena temporale” che consegue, su piani ben diversi, tanto al peccato che al reato, in quanto espressione del “disordine morale” e “sociale” che si determina. 

Il problema è che, in entrambi i piani, sussiste una domanda di proporzione e di risanamento della legalità e della moralità ferite. 

L’ordinamento giuridico conosce antichi e solidi istituti che consentono di tenere ben fermi i principi di rieducazione sociale della pena e di reinserimento di chi sbaglia nella vita lavorativa. La legislazione più recente ha previsto specifici modelli di responsabilità penale delle imprese al fine della prevenzione dei reati. 

La responsabilità da reato delle società, introdotta nel nostro ordinamento dal d. lgs. 231/2001, costituisce oggi il fulcro del diritto penale dell'economia, strumento efficace di repressione della criminalità d'impresa.

Per la prima volta infatti, in caso di commissione di un reato al suo interno, ove sussistano altresì i requisiti dell'interesse o del vantaggio, la società è chiamata a risponderne di fronte al giudice penale, in modo diretto, unitamente alla persona fisica che si assume esserne l'autore.

Come noto, sono ben temibili le sanzioni nell'ipotesi in cui si pervenga a un giudizio di colpevolezza: sanzioni pecuniarie commisurate alle condizioni economiche e patrimoniali dell'Ente, da applicare sempre; sanzioni interdittive (nei casi piú gravi l'interdizione dall'esercizio dell'attività, negli altri, ad esempio, il divieto di pubblicizzare beni o servizi, di contrattare con la pubblica amministrazione o l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, sussidi, etc); confisca, anche per equivalente, del prezzo o profitto del reato.

Tuttavia, lungi dal delineare una responsabilità oggettiva in capo all’ente, il d. lgs. 231/2001 prevede che la società possa andare esente dall’applicazione di sanzioni ove dimostri di avere adottato ed attuato un modello organizzativo idoneo a prevenire la commissione di reati. La vigilanza sull'osservanza e sull'aggiornamento del modello deve essere altresì affidata a un organismo, composto in modo tale da poter svolgere correttamente le proprie funzioni.

Ma se chi si sottopone a queste misure di “risanamento” e di prevenzione resta ugualmente bollato di “dubbia integrità e affidabilità”, ed escluso ex post dalla vita economica, accade che il sistema delineato risulta vanificato e che il giudizio morale finisce per prevalere su quello giuridico, in tal caso non in direzione del “perdono” ma della “condanna a vita”.

Entrambi questi atteggiamenti, “perdonismo giustificatorio” e “moralismo accusatorio”, facce della stessa medaglia, non dovrebbero prevalere sui principi dello Stato di diritto. 

A differenza di Maximilien Robespierre non crediamo che il “principio fondamentale del governo democratico” sia “la virtù” (1793).

Il tema merita un approfondimento anche perché, come rilevato in precedenza, può essere ritenuto emblematico di una fase storica (caratterizzata dall’esplosione delle misure interdittive di prevenzione ante delictum e praeter delictum), alla delicata ricerca di un punto di equilibrio tra efficienza dei mercati, semplificazione e fermo contrasto  della corruzione.

Forse è utile tornare al testo del principio stabilito dall’art. 57 della direttiva 24/2014/UE e comunque prevedere che, ai fini dell’esclusione, gli illeciti siano “gravi e reiterati”, in un arco temporale determinato.

Forse sarebbe anche utile prevedere l’obbligatorietà del modello della legge 231/2001 in tali casi.

In epoca di “costituzionalismo multilivello”, da affermare nella scena del diritto globale, abbiamo piena fiducia che riusciremo a costruire una regolazione più avanzata e innovativa senza travolgere i fondamenti dei principi costituzionali.

 

 

 

di PierluigiMantini

Avvocato cassazionista e professore di diritto amministrativo e di diritto urbanistico nel Politecnico di Milano. Componente del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa e della Commissione tecnica presso il Governo e presso l’ANAC per il Codice dei contratti pubblici

 

 

 

[1] Come noto, è previsto un anno di tempo per l’emanazione dei decreti correttivi.

Tra i punti subito emersi come criticità, e secondo molti in contrasto con il “divieto di gold plating”, la disciplina attuale del subappalto, la soglia del massimo ribasso, i troppo stringenti requisiti economici (in un tempo di crisi) per l’ammissione alle gare, il rischio di eccessiva rigidità della gara solo sul progetto esecutivo.

[2] Il testo è il seguente: «I comportamenti rilevanti ai fini dell’esclusione ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c) del Codice devono essere gravi, illeciti (quindi contrari a norme giuridiche di natura civile, penale o amministrativa) e idonei ad intaccare l’integrità o l’affidabilità del concorrente o di un suo subappaltatore. Si ritiene che la fattispecie in esame debba ricomprendere motivi di esclusione che incidono sull’integrità e affidabilità dell’operatore economico e che non costituiscono già autonome cause di esclusione.

Nella fattispecie devono essere ricompresi i reati commessi nell’esercizio della professione che siano idonei a incidere in maniera sostanziale sul rapporto fiduciario tra l’amministrazione aggiudicatrice e il soggetto esecutore, quali l’abusivo esercizio di una professione, i delitti contro la fede pubblica (es. falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico), i reati fallimentari (bancarotta semplice e bancarotta fraudolenta, omessa dichiarazione di beni da comprendere nell’inventario fallimentare, ricorso abusivo al credito), i reati tributari ex d.lgs. 74/2000, i reati societari, i delitti contro l’industria e il commercio, i reati ambientali. Tali fattispecie, infatti, non sono più previste, espressamente, quali autonome cause di esclusione, stante la mancata riproduzione del disposto dell’art. 38, comma 1, lett. b) del d.lgs. 163/06 nella parte in cui attribuiva rilevanza alla condanna per reati in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale. Sul punto si evidenzia che i reati ai quali consegua l’incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 32-quater c.p. costituiscono già autonoma causa di esclusione ex art. 80, comma 5, lett. f) del Codice.

Oltre alle fattispecie su indicate, deve essere attribuita rilevanza ad altre forme di grave violazione dei doveri professionali, come ad esempio, l’adozione nei confronti dell’operatore economico di provvedimenti di condanna, divenuti inoppugnabili o confermati con sentenza passata in giudicato, dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per pratiche commerciali scorrette o per illeciti antitrust gravi. Non rientrano tra le fattispecie rilevanti, i provvedimenti dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato relativi agli impegni presi dagli operatori economici, nell’ambito di procedimenti antitrust, purché tali impegni abbiano effetti anche sulla contrattualistica pubblica».