Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza non definitiva 5 dicembre 2013, n. 5786

 

Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza non definitiva 5 dicembre 2013, n. 5786

Presidente Torsello; Estensore Franconiero

 

Ai sensi dell’art. 99, comma 1, cod. proc. amm. (come peraltro avvenuto in un caso non dissimile: ordinanza di rimessione 14 ottobre 2013, n. 4998, relativa ad un caso di annullamento in autotutela di contratti di ristrutturazione del debito pubblico regionale mediante swap), è rimessa all’Adunanza Plenaria la questione della possibilità di revocare in autotutela l’aggiudicazione di una gara d’appalto una volta intervenuta la stipula del contratto.

 

Il diritto privatistico di recesso condivide con la revoca la struttura unilaterale, ed infatti è classificato in dottrina come diritto potestativo. Tuttavia, in virtù degli artt. 1372 e 1373 cod. civ. lo stesso trae necessariamente la propria fonte in una clausola negoziale o in una specifica norma di legge autorizzativa. Inoltre, il suo esercizio non è procedimentalizzato, richiedendosi unicamente che venga portato a conoscenza dell’altro contraente. Infine, non sono necessari particolari oneri motivazionali, occorrendo rispettare i soli canoni generali della buona fede oggettiva e della correttezza nell’attuazione dei rapporti obbligatori ex artt. 1375 e 1175 cod. civ.

 

L’istituto della carenza di potere in concreto, elaborato dalla giurisprudenza di legittimità e configurato come ulteriore ipotesi di vizio conoscibile dal giudice ordinario, in tutti i casi di atto amministrativo emanato in difetto di suoi presupposti essenziali, non può trovare più riconoscimento dopo la generale codificazione dei vizi di nullità dell’atto amministrativo ad opera del citato art. 21-septies, tra i quali è stato compreso il difetto assoluto di attribuzione. Tale disposizione della legge generale sul procedimento amministrativo ha infatti sortito l’effetto di ricondurre nell’alveo dei vizi di annullabilità tutte le ipotesi tradizionalmente ascritte alla carenza di potere in concreto, confinando in quella testualmente prevista di difetto assoluto di attribuzione i casi di mancanza della norma fondante il potere nondimeno esercitato.

 

L’incisione sul contratto del potere di revoca può ammettersi solo nelle concessioni, perché in questo caso il contratto “accede” al provvedimento concessorio, in funzione di regolazione degli aspetti economici discendenti da quest’ultimo, che rimane la fonte del rapporto. Vi è dunque in questo caso un rapporto necessariamente dipendente del secondo rispetto al primo, tale per cui il ritiro di autotutela di quest’ultimo si ripercuote automaticamente su quello, facendone venir meno un presupposto fondamentale.

 

 

BREVI ANNOTAZIONI

 

L’OGGETTO DELLA PRONUNCIA

 

Nell’invocare l’intervento nomofilattico dell’Adunanza Plenaria sulla dibattuta questione della revocabilità degli atti della procedura di gara successivamente alla stipulazione del contratto di appalto, la Quinta Sezione offre una suggestiva ricostruzione sistematica del complesso quadro normativo di riferimento, ispirata alla primaria esigenza di tutela dell’affidamento del contraente privato, riaffermando la configurabilità della categoria dei contratti di diritto pubblico e soffermandosi, tra l’altro, sugli istituti della carenza di potere in astratto ed in concreto.

 

IL PERCORSO ARGOMENTATIVO

 

La Quinta Sezione è chiamata a pronunciarsi in appello avverso la sentenza del Tar Lazio che – in accoglimento del ricorso del raggruppamento aggiudicatario – annulla la revoca in autotutela (nel 2012) degli atti di una procedura di gara per l’affidamento di un appalto di lavori, aggiudicata nel 2005 (il contratto veniva stipulato nel 2006).

A fondamento della decisione, il primo Giudice osservava che “la revoca è stata adottata in assenza del suo essenziale presupposto, e cioè di un oggetto costituito da un provvedimento che continua ancora a spiegare effetti… Il provvedimento di aggiudicazione, sebbene abbia efficacia durevole, spiega la propria efficacia sino alla stipulazione del contratto di appalto, sicché l’aggiudicazione definitiva di un appalto può ben essere oggetto di revoca ma solo fino alla data di stipulazione del contratto”. Il Tar riteneva comunque la giurisdizione, venendo censurato il “cattivo esercizio del potere o, per meglio dire, la carenza di potere in concreto ai fini del legittimo esercizio del potere di revoca e non la liceità del recesso esercitato ai sensi dell’art. 134 del codice dei contratti pubblici”.

Osserva la Quinta Sezione che la complessità della questione dedotta deriva anzitutto dai “dati normativi contraddittori” di riferimento.

Il potere generale di revoca è contenuto nell’art. 21-quinquies della legge n. 241/1990 che, se al primo comma si riferisce unicamente agli atti “ad efficacia durevole” (tradizionale ipotesi della revoca ex nunc), al comma 1-bis precisa che la revoca può colpire anche atti “ad efficacia istantanea” incidenti su rapporti negoziali (revoca ex tunc). Tale norma non osta dunque, in linea di principio, alla revocabilità dell’aggiudicazione anche dopo la stipula del contratto. In tal senso, pare deporre anche la previsione dell’art. 1, comma 136, della legge n. 311/2004, che, per “conseguire risparmi o minori oneri finanziari”, consente l’annullamento d’ufficio di provvedimenti anche incidenti su “rapporti contrattuali o convenzionali con privati”, secondo uno schema che la Sezione considera sostanzialmente affine alla revoca.

Parimenti affine alla revoca è ritenuto il “recesso” dagli accordi sostitutivi o integrativi del provvedimento cui fa menzione l’art. 11, quarto comma, legge n. 241/1990, esercitabile dall’amministrazione “per sopravvenuti motivi di interesse pubblico”. Prevede espressamente la revoca “per motivi di pubblico interesse” anche l’art. 158 del Codice dei contratti, con riferimento alle concessioni di lavori in project financing.

Sembra peraltro muovere in direzione opposta l’art. 21-sexies legge n. 241/1990, che ammette il “recesso unilaterale” dell’amministrazione dai contratti, sottolineando con ciò il carattere paritetico delle posizioni giuridiche discendenti dal contratto, nonché l’art. 134 del Codice dei contratti che prevede il recesso “in qualunque tempo dal contratto” per gli appalti di lavori. Come pure l’art. 11, nono comma, del medesimo Codice, ove consente l’esercizio dei poteri di autotutela successivamente all’aggiudicazione ma prima della stipula del contratto.

A completare l’articolato quadro normativo vengono infine richiamati gli artt. 121 e 122 del Codice del processo amministrativo, che rimettono al giudice amministrativo l’accertamento delle conseguenze sul contratto dell’esercizio di poteri di autotutela sugli atti di gara.

Inevitabile riflesso della contraddittorietà normativa è, secondo la Sezione, l’emersione di un contrasto tra l’indirizzo prevalente presso la giurisprudenza amministrativa, favorevole alla revoca (ed all’annullamento) dell’aggiudicazione anche successivamente alla stipula del contratto, con devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione amministrativa (Cons. Stato, Sez. VI, 17 marzo 2010, n. 1554, e 27 novembre 2013, n. 5993; Sez. IV, 14 gennaio 2013, n. 156) ed il fermo orientamento del Giudice di legittimità (Cass., S.U., 26 giugno 2003, n. 10160; 17 dicembre 2008, n. 29425; 11 gennaio 2011, n. 391), che viceversa riconduce ogni ipotesi di “ripensamento” del contraente pubblico al potere contrattuale di recesso, qualificando la revoca dell’aggiudicazione come alterazione del sinallagma contrattuale incidente sul diritto soggettivo del contraente privato, con attrazione della materia alla cognizione del giudice ordinario.

In ragione della rilevata contraddittorietà del quadro normativo e del dibattito giurisprudenziale conseguentemente formatosi sul principio di diritto espresso dal Tar, la Quinta Sezione devolve all’Adunanza Plenaria la questione della revocabilità dell’aggiudicazione successivamente alla stipula del contratto, operando al riguardo un’attenta ricostruzione sistematica e teleologica del dato normativo alla luce del principio guida della tutela del legittimo affidamento del contraente privato.

Nel confermare la correttezza della qualificazione del provvedimento impugnato in prime cure come revoca, viene sinteticamente tratteggiata la differenza tra l’istituto privatistico del recesso e quello pubblicistico della revoca.

Entrambi a struttura unilaterale, gli istituti risultano connotati da profonde differenze: quale “motivata manifestazione unilaterale di volontà volta a sciogliersi dal contratto per superiori motivi di pubblico interesse”, la revoca costituisce esercizio di potere autoritativo – onde la posizione giuridica soggettiva correlata ha consistenza di interesse legittimo – ed è come tale assoggettata alle norme sul procedimento amministrativo ed all’onere motivazionale, nonché ad un obbligo di mero indennizzo.

Viceversa, il recesso ex artt. 1372 e 1373 c.c. – diritto potestativo che trova la propria fonte nelle clausole negoziali o in una puntuale norma autorizzativa – non è soggetto ad oneri procedimentali e motivazionali, incontrando i soli limiti della buona fede oggettiva e correttezza nell’esecuzione dei rapporti obbligatori ai sensi degli artt. 1173 e 1175 c.c., e dà luogo a conseguenze economiche più gravose.

Sulla scorta di tale distinzione, la Sezione osserva che, per ricondurre a coerenza il contraddittorio panorama normativo in materia, occorre procedere ad un’interpretazione sistematica e teleologicamente orientata delle norme in materia.

A tal fine, la pronuncia prende le mosse dal ritenuto recepimento normativo della dicotomia tra contratti di diritto privato e contratti di diritto pubblico (o ad oggetto pubblico) dell’amministrazione.

I contratti di diritto pubblico (accordi ex art. 11 legge n. 241/1990 e concessioni-contratto), in quanto volti a “determinare consensualmente il contenuto di un provvedimento amministrativo o a regolare i rapporti economici discendenti da quest’ultimo”, ovvero ancora a sostituirsi al provvedimento, risultano connotati dalla permanenza di poteri autoritativi in capo alla parte pubblica, tra cui quello di incidere unilateralmente sul vincolo negoziale mediante revoca (e, quindi, con la corresponsione del solo indennizzo per il danno emergente). Unicamente a tale categoria di contratti sarebbero applicabili l’art. 21 quinquies, comma 1-bis, legge n. 241/1990 e l’art. 158 del Codice dei contratti.

I contratti di diritto privato postulano invece, secondo il tipico schema consensuale privatistico, la posizione paritetica dei contraenti; per sciogliersi unilateralmente dal vincolo, l’amministrazione non può dunque far ricorso ai poteri di autotutela, ma unicamente al diritto privatistico di recesso, con conseguenze economiche più onerose (ristoro dei lavori eseguiti ed utile forfetario del 10% della parte di contratto non eseguita). Secondo il Consiglio di Stato, i citati artt. 21-sexies della legge n. 241/1990 e 134 del Codice dei contratti si riferiscono a tale categoria di contratti, cui sono dunque riconducibili gli appalti.

In esito a tale lettura sistematica, la Sezione conclude nel senso dell’inammissibilità della revoca degli atti di gara a seguito della stipulazione del contratto di appalto. Tale potere residuerebbe solo per le concessioni, perché “in questo caso il contratto ‘accede’ al provvedimento concessorio, in funzione di regolazione degli aspetti economici discendenti da quest’ultimo, che rimane la fonte del rapporto”.

A favore della conclusione prospettata, la pronuncia adduce anche un argomento teleologico: viene salvaguardata la fondamentale esigenza di tutelare l’affidamento del contraente privato, che deve poter “confidare su una relativa stabilità del contratto”. Ammettendo la revoca in luogo del recesso, “si perverrebbe a vanificare nella sostanza lo strumento contrattuale, il quale si fonda sul principio pacta sunt servanda sancito dall’art. 1372 cod. civ”, con “negative ricadute sulle finalità pro-concorrenziali che la normativa sull’evidenza pubblica persegue”.

In punto di giurisdizione, la tesi prospettata dalla Quinta Sezione – che aveva ritenuto corretta la qualificazione del provvedimento impugnato in primo grado come revoca e la conseguente dichiarazione della giurisdizione del giudice amministrativo – comporta che, non essendo esercitabili i poteri di autotutela amministrativa a seguito della sottoscrizione del contratto di appalto, la controversia verterebbe sulla liceità dell’esercizio del potere privatistico di recesso, con conseguente devoluzione al giudice ordinario.

Se questo è il nodo centrale della pronuncia annotata, ulteriori spunti di particolare interesse sono contenuti in altro passaggio della decisione.

In particolare, la Quinta Sezione offre una sintetica quanto puntuale ricostruzione dell’evoluzione dell’istituto della “carenza di potere in concreto”, elaborato ante 2005 dalla giurisprudenza di legittimità per individuare l’atto amministrativo annullabile in quanto “carente dei presupposti essenziali” per l’esercizio del potere (in astratto attribuito all’amministrazione), in contrapposizione all’atto nullo per “carenza di potere in astratto”, ovvero per mancanza di una norma attributiva del potere amministrativo.

Si chiarisce al riguardo che – contrariamente a quanto ritenuto dal Tar nella pronuncia appellata – a seguito dell’introduzione dell’art. 21-septies della legge n. 241/1990 con la legge n. 15/2005 non residua più alcuno spazio per siffatta figura. Nel codificare le ipotesi di nullità dell’atto amministrativo, la norma non fa menzione del difetto dei presupposti essenziali, il quale viene perciò attratto indistintamente nell’alveo dei vizi di legittimità che determinano l’annullabilità dell’atto. Il che, secondo il supremo Consesso, consente di superare la stessa ragion d’essere della dicotomia carenza di potere in astratto-in concreto, che peraltro presenta il limite di rendere “intollerabilmente evanescente il confine tra la giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo”.

 

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

 

La questione affrontata nella sentenza in commento rientra sicuramente tra i “temi caldi” del diritto amministrativo, involgendo l’individuazione dell’esatta linea di confine tra l’agire dell’amministrazione in veste autoritativa e iure privatorum, onde stabilire in particolare se, ed entro quali limiti, possa giustificarsi la permanenza di poteri pubblicistici (sub specie di autotutela) in capo all’amministrazione qualora la stessa ricorra a strumenti privatistici negoziali di azione. Si tratta, in sostanza, di verificare sino a qual punto le esigenze di interesse pubblico possano ritenersi “preminenti” e, pertanto, giustificare una lesione dell’affidamento incolpevolmente riposto dalla parte privata nella stabilità del contratto.

Come noto, è stata recentemente devoluta all’Adunanza Plenaria dalla Quinta Sezione anche la questione dell’ammissibilità dell’annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies legge n. 241/1990 incidente su contratti di ristrutturazione del debito pubblico mediante swap (Cons. Stato, Sez. V, ordinanza 14 ottobre 2013, n. 4998).

La vicenda oggetto di tale pronuncia presentava connotazioni peculiari, risultando dubbia la ricorrenza di una procedura ad evidenza pubblica ovvero di una fattispecie negoziale; favorevole alla prima soluzione, la Sezione mostra di propendere per l’ammissibilità dell’annullamento in autotutela del contratto (per le “preminenti ragioni di salvaguardia del pubblico interesse”), con conseguente affermazione della giurisdizione amministrativa.

In disparte le peculiarità dei casi concreti ed i diversi orientamenti espressi dai Collegi, rileva evidenziare come entrambe le pronunce rechino testimonianza delle difficoltà ricostruttive dell’interprete a fronte di una disciplina complessa e non sempre perspicua, ove le norme generali sui poteri di autotutela devono coniugarsi con le speciali regole dettate in materia dei contratti pubblici.

In tale prospettiva, è certamente condivisibile l’intento della Quinta Sezione di garantire, in uno dei più rilevanti e sensibili settori dell’attività amministrativa, una tutela effettiva e non meramente formale del principio di legittimo affidamento, ormai assurto, anche sulla scorta delle suggestioni comunitarie, ad un ruolo centrale nella materia dei contratti ad evidenza pubblica.

Qualche dubbio potrebbe invece avanzarsi sulla necessità di ricorrere, per ricondurre ad unità il sistema, alla controversa categoria gianniniana dei contratti ad oggetto pubblico, nonché sull’effettiva significatività degli indici normativi segnalati (artt. 21-quinquies, comma 1-bis, legge n. 241/1990 e 158 del Codice dei contratti) a fondamento del riconoscimento positivo della categoria.

E’ tuttora dibattuto, come noto, se tale categoria – che evoca un modulo intermedio tra l’agire pubblicistico e l’agire negoziale dell’amministrazione, tra provvedimento unilaterale e contratto, dal quale ultimo si distinguerebbe sotto un profilo eminentemente “quantitativo”, per il numero delle deroghe alla disciplina di diritto comune in esso contenute, con evidenti riflessi di indeterminatezza dei confini della figura – possa ritenersi coerente con un ordinamento in cui il “contratto” è solo quello regolato dal diritto civile, o debba viceversa, per ciò stesso, considerarsi un insanabile ossimoro.

In ogni caso, nella pronuncia il richiamo al riconoscimento legislativo della species dei contratti di diritto pubblico è strumentale, come osservato, all’affermazione dell’inammissibilità del potere di revoca incidente su contratti di appalto e, quindi, della prevalenza dell’affidamento privato sulle ragioni di interesse pubblico.

Viene allora da chiedersi se il suddetto elemento teleologico non avrebbe potuto essere di per sé sufficiente a giustificare le conclusioni cui perviene la Sezione, riconducendo il venir meno dei poteri di autotutela all’incompatibilità degli stessi con la struttura e l’essenza del contratto (di diritto privato) di appalto. E ciò anche in ragione della vigenza del principio di matrice comunitaria della sussidiarietà, che in senso orizzontale può intendersi altresì nell’accezione di “sussidiarietà dei mezzi giuridici”, volta a valorizzare il ricorso a strumenti giuridici che rechino il minor sacrificio possibile della posizione e dell’autonomia del privato.

Un’ultima notazione: nel riaffermare la revocabilità della concessione, la Sezione sembra voler riaffermare la sussistenza di una differenza ontologica con l’appalto, recuperando la tradizionale nozione di concessione connotata dal trasferimento dell’esercizio di potestà pubblicistiche.

E ciò in controtendenza rispetto alle più recenti elaborazioni che, sulla scorta del diritto comunitario, paiono volte piuttosto alla tendenziale assimilazione degli istituti (si veda l’Adunanza Plenaria n. 13/2013), rinvenendo il proprium delle concessioni unicamente nella diversa modalità di remunerazione del contraente privato (prezzo nell’appalto e proventi della gestione dell’opera o del servizio nella concessione), senza revocare in dubbio la comune natura negoziale di entrambi i modelli.

In conclusione, la soluzione del nodo interpretativo non appare affatto agevole, ove si consideri altresì che, se certamente l’affidamento del privato è un valore primario, è pur vero che quantomeno in determinate situazioni (si pensi alla sopravvenuta indisponibilità dei fondi necessari a finanziare l’opera, non derivante da “colpa” dell’amministrazione), nel bilanciamento tra gli interessi in gioco potrebbe risultare in concreto eccessivamente oneroso per la collettività assegnare un valore preminente alla tutela dell’interesse alla stabilità del vincolo negoziale con l’amministrazione.

 

PERCORSO BIBLIOGRAFICO

 

F. Caringella, M. Protto, Codice dei contratti pubblici, Ed. Dike, 2013; R. Garofoli, g. Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, Ed. Neldiritto, 2012; V. Campanile, Annullamento in sede giurisdizionale e annullamento in autotutela dell’aggiudicazione: gli effetti sul contratto, in questa Rivista, n. 2/2012; L. Di Giovanni, La variabile geometria di confine tra appalti e concessioni di servizi, in questa Rivista, n. 5/2013; E. Raviele, Contratti pubblici: revoca, annullamento d’ufficio e recesso, in questa Rivista.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA NON DEFINITIVA

sul ricorso numero di registro generale 2775 del 2013, proposto da:
Azienda per la Mobilità del Comune di Roma - Atac s.p.a., rappresentata e difesa dagli avv. Roberta Iacovazzi e Rodolfo Mazzei, con domicilio eletto presso quest’ultimo, in Roma, via XX Settembre 1;

contro

Consorzio Cooperative Costruzioni CCC - Società Cooperativa, in proprio ed in qualità di mandataria dell’ATI con Igemas soc. consortile. a resp. lim., Salcef Costruzioni Edili e Ferroviarie s.p.a., Erregi s.r.l., Project Automation s.p.a., rappresentata e difesa dagli avv. Massimo Lotti, Benedetto Giovanni Carbone, con domicilio eletto presso il primo, in Roma, via di Ripetta 70; Roma Capitale;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE II TER n. 02432/2013, resa tra le parti, concernente affidamento della progettazione esecutiva ed esecuzione lavori di realizzazione del deposito tranviario centro carni

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Consorzio Cooperative Costruzioni CCC;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 novembre 2013 il Cons. Fabio Franconiero e uditi per le parti gli avvocati Mazzei e Carbone;

Visto l'art. 36, comma 2, cod. proc. amm.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

1. L’ATI con capogruppo mandataria il Consorzio Cooperative Costruzioni CCC società cooperativa impugnava davanti al TAR Lazio – sede di Roma il provvedimento del 4 giugno 2012 (n. di prot. 80861), con il quale l’Azienda per la Mobilità del Comune di Roma – ATAC s.p.a. disponeva la revoca in autotutela degli atti della procedura di gara per l’affidamento della progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori necessari alla realizzazione di un deposito tranviario nell’area ex “Centro Carni” ed opere connesse, che il raggruppamento ricorrente si era aggiudicato con deliberazione del consiglio d’amministrazione n. 81 del 14 novembre 2005, stipulando il conseguente contratto d’appalto in data 19 maggio 2006. Con motivi aggiunti il predetto Consorzio impugnava la nota dell’Azienda del 19 ottobre 2012 (prot. n. 147684), con la quale questa chiedeva la riconsegna delle aree di cantiere sul presupposto, espressamente dichiarato, dell’intervenuta caducazione del contratto per effetto della precedente revoca.

L’azienda aveva motivato l’atto di revoca sulla base di plurimi motivi di interesse pubblico, consistenti: nella “sostanziale non esecuzione” dell’appalto; nell’aggravio dei costi prospettati dall’appaltatrice; nelle proprie sopravvenute mutate esigenze operative; nell’inserimento del deposito tramviario in un piano di dismissioni immobiliari deliberato dall’assemblea di Roma Capitale; nell’incertezza in ordine all’effettiva disponibilità di risorse per finanziare l’opera. Aveva quindi preannunciato che con separato provvedimento avrebbe corrisposto all’appaltatrice l’indennizzo di cui all’art. 21-quinquies, comma 1-bis, l. n. 241/1990.

2. Nella propria impugnativa, quest’ultima sosteneva che:

- la stazione appaltante avrebbe esercitato un potere di autotutela al di fuori dei presupposti di legge, sugli atti della procedura di gara, ormai privati di efficacia in conseguenza della sopravvenuta stipulazione del contratto;

- il provvedimento impugnato non aveva ponderato il contrapposto interesse privato, consolidatosi nei sei anni intercorsi dalla stipula del contratto;

- con la revoca l’appaltante avrebbe esercitato in realtà un diritto di recesso o di risoluzione unilaterale, finalizzato a sottrarsi alle conseguenze derivanti dall’esercizio di dette facoltà privatistiche, maggiormente onerose dal punto di vista economico, perché non limitate all’indennizzo commisurato al solo danno emergente;

- l’atto non aveva tenuto in considerazione le controdeduzioni presentate nel corso del procedimento.

3. Il TAR accoglieva il suddetto primo ordine di censure, assorbendo le restanti.

Affermava che la revoca era stata adottata “in assenza del suo essenziale presupposto, e cioè di un oggetto costituito da un provvedimento che continua ancora a spiegare effetti”, tale non potendo ritenersi l’aggiudicazione della gara, in seguito alla stipulazione del contratto. Secondo il giudice di primo grado, per sciogliersi dal vincolo discendente da quest’ultimo, l’amministrazione avrebbe dovuto ricorrere all’istituto del recesso ex art. 134 cod. contratti pubblici. Precisava infine che sulla presente controversia sussiste la giurisdizione amministrativa, vertendosi in un caso di carenza di potere in concreto.

4. Nell’appellare la sentenza l’ATAC ripropone l’eccezione pregiudiziale di inammissibilità del ricorso per omessa notificazione alla Regione Lazio, ente cofinanziatore dell’opera, che assume rivestire nella presente controversia la qualità di controinteressato.

Nel merito, sostiene che il potere di revoca è conformato dall’art. 21-quinquies l. n. 241/1990 in termini talmente ampi da renderlo esercitabile indifferentemente su atti “ad effetti istantanei”, che hanno dunque già esaurito i loro effetti, nonché su qualsiasi tipologia di contratti della pubblica amministrazione, come affermato ripetutamente dalla giurisprudenza amministrativa di secondo grado e come evincibile dall’onnicomprensivo riferimento contenuto nel comma 1-bis della citata disposizione ai “rapporti negoziali”.

In via di subordine, l’azienda appellante assume che il giudice avrebbe dovuto declinare la giurisdizione a favore del giudice ordinario, avendo riqualificato la revoca come atto di esercizio di un diritto potestativo di recesso incidente sull’efficacia del contratto d’appalto, e dunque avendo in definitiva affermato che l’atto impugnato era stato emanato in un caso di carenza di potere in astratto.

5. Si è costituita in resistenza l’ATI originaria ricorrente, la quale ha anche riproposto ai sensi dell’art. 101, comma 2, cod. proc. amm. i motivi assorbiti dal giudice di primo grado.

6. In memoria conclusionale l’ATAC ha eccepito la tardività di questi ultimi, avendo controparte depositato la memoria contenente gli stessi oltre il termine di 30 giorni per la costituzione in appello e cioè il 24 maggio 2013, a fronte della notificazione dell’appello avvenuta l’11 aprile precedente.

DIRITTO

1. Così riassunte le questioni rispettivamente devolute dalle parti litiganti nel presente giudizio d’appello, occorre innanzitutto precisarne la relativa tassonomia.

Ciò in ragione del fatto che l’appellante ATAC chiede in via meramente subordinata che sull’originario ricorso sia declinata la giurisdizione amministrativa a favore del giudice ordinario, trascurando che il potere dispositivo della parte esplicantesi nella graduazione delle domande non può essere riconosciuto quando tra le questioni ad esse sottese vi sia quella concernente la giurisdizione del giudice adito.

A questo riguardo deve infatti darsi seguito all’insegnamento dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato 4 giugno 2011, n. 10, secondo cui l’esame di detta questione assume carattere necessariamente prioritario.

E tanto in virtù del condivisibile argomento secondo cui il potere del giudice adito di emettere qualsiasi statuizione, sia in rito che nel merito della domanda, postula che su quest’ultima lo stesso sia effettivamente munito della potestas iudicandi, ossia di quell’imprescindibile presupposto processuale al solo ricorrere del quale è consentito pronunciarsi sulla medesima. Nella citata pronuncia l’organo di nomofilachia della giurisdizione amministrativa ha tra l’altro posto in rilievo la necessità che sulla domanda non si pronunci in alcun modo il giudice sfornito di giurisdizione, e che la stessa possa invece essere riproposta, completamente impregiudicata, davanti a quello munito di giurisdizione, a mezzo della c.d. translatio iudicii, introdotta per la prima volta dall’art. 59 della legge n. 69/2009 (in seguito alle note decisioni della Corte costituzionale n. 77 del 12 marzo 2007 e delle Sezioni unite civili 22 febbraio 2007, n. 4109), ed ora riprodotto dall’art. 11 del cod. proc. amm.

Anche per questo rilievo, quindi, non si può prescindere dal prioritario esame della questione di giurisdizione.

2. La stessa deve essere definita nel senso affermato dal TAR, e cioè nel senso della relativa spettanza al giudice amministrativo, non meritando condivisione nessuno degli ordini di argomentazione svolti dall’ATAC sul punto.

Innanzitutto, contrariamente a quanto assume quest’ultima, il giudice di primo grado non ha qualificato l’atto impugnato come recesso privatistico ma, anzi, nell’attribuirgli chiaramente la natura di revoca, lo ha espressamente contrapposto al primo. Proprio da questa antitesi ha quindi dedotto l’illegittimità della revoca impugnata, tra l’altro perché costituente manifestazione di autotutela amministrativa esercitata al fine di sottrarre l’azienda emanante alle più onerose conseguenze economiche che in ipotesi sarebbero scaturite dalla decisione di recedere dal contratto, ed alle quali, invece, la stessa azienda, a detta del TAR, non avrebbe potuto sottrarsi una volta stipulato quest’ultimo.

Il giudice di primo grado ha dunque correttamente esercitato il proprio potere di qualificazione della domanda proposta davanti a lui.

Ed in effetti, con essa il Consorzio originario ricorrente ha inteso reagire ad una lesione di una propria posizione giuridica soggettiva avente la consistenza di interesse legittimo, quale indubbiamente è quella correlata al potere di revoca ex art. 21-quinquies della legge generale sul procedimento amministrativo. Risulta così pienamente rispettato il criterio del petitum sostanziale che presiede al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo.

3. Deve al riguardo soggiungersi che tanto i connotati formali e procedimentali, quanto quelli sostanziali dell’atto impugnato, depongono univocamente nel senso che si tratti di una revoca secondo la legge generale sul procedimento amministrativo ora citato.

In primo luogo perché, all’esito di un formale procedimento la cui determinazione di avvio (delibera del consiglio di amministrazione dell’odierna appellante del 24 febbraio 2012) è stata ritualmente comunicata al Consorzio appaltatore, e nel quale quest’ultima ha presentato controdeduzioni scritte, l’ATAC ha adottato un provvedimento espressamente denominato “revoca”, a presupposto del quale ha addotto plurimi motivi sopravvenuti di interesse pubblico, alcuni dei quali riferibili all’esecuzione del contratto, ma nel complesso apprezzati dall’amministrazione come fatti tali da determinare un “radicale mutamento della situazione esistente al momento dell’indizione della gara (…) e della successiva aggiudicazione dell’appalto”. In secondo luogo perché nel provvedimento di revoca in contestazione l’ATAC ha preannunciato di volere fare applicazione delle conseguenze economiche previste dalla citata disposizione della legge generale sul procedimento amministrativo e cioè di volere riconoscere al contraente privato l’indennizzo previsto dalla medesima disposizione.

L’azienda ha dunque inteso esercitare un proprio potere autoritativo, assoggettandosi alle norme sul procedimento amministrativo della l. n. 241/1990, ed emettendo una motivata manifestazione unilaterale di volontà volta a sciogliersi dal contratto per superiori motivi di pubblico interesse.

3.1 Ben diverso, come è noto, è il diritto privatistico di recesso quanto a forme e contenuti.

Con la revoca condivide la struttura unilaterale, ed infatti è classificato in dottrina come diritto potestativo. Tuttavia, in virtù degli artt. 1372 e 1373 cod. civ. lo stesso trae necessariamente la propria fonte in una clausola negoziale o in una specifica norma di legge autorizzativa. Inoltre, il suo esercizio non è procedimentalizzato, richiedendosi unicamente che venga portato a conoscenza dell’altro contraente. Infine, non sono necessari particolari oneri motivazionali, occorrendo rispettare i soli canoni generali della buona fede oggettiva e della correttezza nell’attuazione dei rapporti obbligatori ex artt. 1375 e 1175 cod. civ. (così ha stabilito la Cassazione nella sentenza n. 20106 del 18 settembre 2009, in senso correttivo dell’orientamento tradizionale che ammetteva fino ad allora la legittimità del recesso ad nutum).

4. Inoltre, non è corretto parlare nel caso di specie di atto adottato in carenza di potere in astratto.

L’ipotesi evocata dall’azienda appellante è infatti configurabile nei casi di “difetto assoluto di attribuzione” ex art. 21-septies l. n. 241/1990, nei quali, cioè, l’amministrazione abbia esercitato un potere che nessuna norma le attribuisce o nelle ipotesi di incompetenza assoluta, configurabili allorché un’amministrazione abbia esercitato un potere che la legge attribuisce ad un’altra amministrazione.

E’ palese quindi che nessuno di questi due casi si addice a quello oggetto di questo giudizio.

In primo luogo, la revoca in autotutela costituisce una delle tipiche manifestazioni di potestà amministrativa ed un attributo della personalità giuridica di diritto pubblico. La stessa è ora normativamente riconosciuta in via generale dall’art. 21-quinquies l. n. 241/1990.

Quanto all’ipotesi di incompetenza assoluta, è agevole constatare che l’ATAC era competente ad adottare il provvedimento in contestazione, in quanto autrice dell’atto ritirato e dunque titolare del relativo potere secondo la disposizione da ultimo citata, a mente del cui 1° comma il provvedimento amministrativo “può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato”.

Sul punto deve poi essere richiamata la sentenza del 17 marzo 2010, n. 1554, nella quale la VI Sezione di questo Consiglio di Stato ha affermato – come si vedrà diffusamente trattando il merito della presente controversia - che anche in caso di successiva stipula del contratto, l’amministrazione conserva il potere di revocare gli atti di una procedura di affidamento, conseguentemente ritenendo la propria giurisdizione sulla relativa azione impugnatoria.

Questa Sezione si è espressa negli stessi termini con riguardo all’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione in seguito alla stipulazione del contratto (sentenze 7 settembre 2011, n. 5032 e 4 gennaio 2011, n. 11).

5. E’ ancora il caso di rilevare che l’istituto della carenza di potere in concreto è stato elaborato dalla giurisprudenza di legittimità e configurato come ulteriore ipotesi di vizio conoscibile dal giudice ordinario, in tutti i casi di atto amministrativo emanato in difetto di suoi presupposti essenziali.

Tuttavia, detto istituto non può trovare più riconoscimento dopo la generale codificazione dei vizi di nullità dell’atto amministrativo ad opera del citato art. 21-septies, tra i quali è stato compreso il difetto assoluto di attribuzione. Come infatti di recente chiarito da questa Sezione nella sentenza 30 agosto 2013, n. 4323, tale disposizione della legge generale sul procedimento amministrativo ha sortito l’effetto di ricondurre nell’alveo dei vizi di annullabilità tutte le ipotesi tradizionalmente ascritte alla carenza di potere in concreto, confinando in quella testualmente prevista di difetto assoluto di attribuzione i casi di mancanza della norma fondante il potere nondimeno esercitato (negli stessi termini si era espressa la Sezione nella sentenza 31 gennaio 2012, n. 473).

Questa tesi deve essere confermata, poiché essa trova sicuro ancoraggio non solo nel tenore letterale della disposizione in commento e nelle implicazioni sistematiche da essa discendenti, ma anche per esigenze di certezza che presiedono al riparto di giurisdizione.

A questo specifico riguardo, infatti, deve sottolinearsi che la dicotomia carenza di potere (in astratto o in concreto)/nullità, da un lato, e vizi di legittimità/annullabilità dall’altro finirebbe per rendere intollerabilmente evanescente il confine tra la giurisdizione del giudice ordinario e giudice amministrativo. Risulterebbe in altri termini assai difficile distinguere i casi di carenza di potere in concreto dai tradizionali vizi di legittimità. E ciò perché i presupposti essenziali dell’atto amministrativo sono indiscutibilmente riconducibili ai requisiti di legittimità il cui difetto dà luogo al vizio dell’annullabilità ai sensi dell’art. 21-octies, comma 1, l. n. 241/1990.

Ne consegue: sul piano sostanziale, che il più grave vizio della nullità vedrebbe notevolmente ampliata la propria portata, in spregio alle esigenze di certezza dell’azione amministrativa ed ai connessi corollari dell’imperatività e dell’esecutorietà degli atti amministrativi, i quali rappresentano invece le ragioni alla base del carattere generale del vizio di annullabilità e del correlativo ambito residuale della nullità (in questo senso: C.d.S., Sez. IV, 15 febbraio 2013, n. 922 e 2 aprile 2012, n. 1957); e sul piano processuale, che l’individuazione del giudice munito di giurisdizione sulla relativa domanda diviene operazione di non agevole decifrabilità.

Sovviene sul punto ancora una volta la giurisprudenza di questa Sezione, la quale ha avuto modo di precisare che l’essenza del vizio della nullità risiede “nell’inconfigurabilità della fattispecie concreta rispetto a quella astratta, accertabile con pronuncia giudiziale meramente dichiarativa, donde i noti corollari della radicale inefficacia (da intendersi in senso ampio, quale inidoneità dell’atto a produrre gli effetti da esso tipicamente discendenti), della generale legittimazione all’impugnativa e della insuscettibilità di sanatoria attraverso convalida”; e che, consistendo la nullità in una patologia di maggiore gravità rispetto a quella che dà luogo ad un vizio di legittimità annullabile, essa richiede “una sua agevole conoscibilità in concreto, attraverso un mero riscontro estrinseco del deficit dell’atto rispetto al suo paradigma legale”, tipicamente ravvisabile nelle suddette ipotesi estreme di difetto assoluto di attribuzione o di incompetenza assoluta (sentenza 16 febbraio 2012, n. 792).

6. In virtù delle considerazioni ora svolte può dunque essere superato anche il contrario indirizzo delle Sezioni unite della Cassazione, richiamato invece dall’appellante (tra le pronunce da quest’ultima a pag. 38 dell’atto d’appello, è in termini al caso di specie la sentenza n. 29425 del 17 dicembre 2008, con la quale un conflitto negativo reale di giurisdizione in ordine ad un’impugnativa di un atto di revoca di una gara emesso quando il contratto era già stato stipulato è stato regolato con l’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario; più in generale è il caso di ricordare la sentenza 28 dicembre 2007, n. 27169, nella quale si è stabilito che tutto le spettro delle patologie contrattuali, sul piano strutturale o funzionale, sono devolute alla cognizione del giudice ordinario).

Occorre infatti sottolineare che il principio ora ricordato si è affermato in relazione a giudizi instaurati in epoca anteriore all’entrata in vigore della l. n. 15/2005, di modifica della l. n. 241/1990, e dunque prima che la nullità dell’atto amministrativo ricevesse una disciplina generale quale quella contenuta nel ridetto art. 21-septies.

Analoga anteriorità temporale della genesi del principio in esame è ravvisabile con riguardo alla direttiva ricorsi 2007/66/CE, ed il conseguente atto di recepimento nel nostro ordinamento (d.lgs. n. 53/2010), con i quali i poteri del giudice amministrativo in ordine ai contratti stipulati in seguito a procedure di affidamento ad evidenza pubblica hanno per la prima volta ricevuto una disciplina normativa, mentre per il passato il cruciale aspetto in questione era dominio di ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali.

Ebbene, in base a queste ultime si era affermata l’idea che il contratto fosse avvinto agli atti di gara all’esito dei quali era stato aggiudicato da un nesso di presupposizione, tale per cui venendo meno questi ultimi, era da ritenersi automaticamente caducato anche il primo. In questa prospettiva, quindi, l’atto di autotutela ben poteva essere riqualificato come esercizio del diritto potestativo di recesso. Anzi, secondo le Sezioni unite della Cassazione non poteva prescindersi da tale qualificazione, pena altrimenti lo sconfinamento del giudice amministrativo nel contratto.

Con la citata direttiva questa ricostruzione sembra ormai superata.

Come di recente ha infatti affermato questa Sezione, l’inefficacia del contratto non costituisce, ai sensi degli artt. 121 e 122 cod. proc. amm., “una conseguenza automatica ed ineluttabile della sentenza di annullamento dell’atto presupposto, essendo rimessi al giudice l’accertamento e la relativa dichiarazione” (sentenza 26 settembre 2013, n. 4752). Inoltre, aderendo alla tesi della giurisdizione amministrativa, in seguito alle novità normative ora esaminate, questa stessa Sezione ha precisato che l’accertamento delle conseguenze sul contratto derivanti dall’esercizio di atti di autotutela da parte dell’amministrazione aggiudicatrice avviene, in sede di impugnativa avverso questi ultimi, in via meramente incidentale, senza efficacia di giudicato, e dunque nel pieno rispetto dell’art. 8 cod. proc. amm. (sentenza 7 giugno 2013, n. 3133).

Del resto, anche le Sezioni unite della Cassazione hanno colto le rilevanti implicazioni sistematiche derivanti dalle novità introdotte dalla sopra citata direttiva, affermando ancor prima del suo recepimento la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda di inefficacia del contratto in conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione (ord. 10 febbraio 2010, n. 2906).

Peraltro, qui non si tratta di pronunciarsi sulla sorte del contratto, proprio perché la cognizione devoluta al giudice amministrativo dal Consorzio attiene esclusivamente alla legittimità dell’atto di revoca degli atti di gara, mentre gli effetti di quest’ultima sul contratto sono conosciuti in via meramente incidentale. Ed allora, l’affermazione della giurisdizione amministrativa risulta rispondente all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità (ribadito nella citata pronuncia n. 29425/2008), secondo cui la seconda questione concerne non già l’individuazione del giudice munito di giurisdizione, ma il merito della controversia.

7. Può quindi essere esaminata l’ulteriore questione pregiudiziale, relativa alla rituale instaurazione del contraddittorio nel giudizio di primo grado, che l’ATAC assume essere mancata, a causa dell’omessa notificazione del ricorso introduttivo alla Regione Lazio. Secondo l’odierna appellante, infatti, quest’ultima amministrazione assumerebbe nella presente vicenda contenziosa la qualifica di controinteressato, in quanto ente finanziatore dell’opera poi revocata.

Questa prospettazione è priva di pregio.

Difetta infatti il c.d. elemento necessario a fare assumere in capo al relativo titolare la posizione di controinteressato, consistente – come ampiamente noto - nel vantaggio discendente dall’atto impugnato, tale da fondare un interesse qualificato alla sua conservazione, speculare ed opposto a quello alla base dell’impugnativa.

Il contributo finanziario della Regione all’opera di competenza comunale (tramite la propria società partecipata ed odierna appellante ATAC) si colloca sul piano dei rapporti istituzionali tra enti pubblici, senza tuttavia dare luogo ad alcun sacrificio della sfera giuridica di tale ente nei confronti dell’amministrazione sovvenuta, perché entrambi gli enti sono portatori del convergente interesse pubblico alla realizzazione dell’opera medesima. In particolare, l’interesse della Regione è reso manifesto proprio dalla sua decisione di contribuire agli oneri economici rivenienti dalla realizzazione dell’opera oggetto dell’atto di revoca.

Oltre a questa convergenza di interessi tra le due amministrazioni, non è configurabile una posizione antagonista della Regione rispetto all’impresa aggiudicataria dell’appalto. Come infatti il cofinanziamento dell’opera non costituisce fonte di alcun pregiudizio per detta amministrazione, ma implica la destinazione di proprie risorse finanziarie per la realizzazione di interessi demandati anche alla propria cura, così l’eventuale ripensamento della committente ATAC in ordine alla realizzazione dell’opera medesima non è idoneo a fondare in capo alla medesima Regione una pretesa giuridicamente qualificata al mantenimento di quest’ultima decisione.

Ad opinare nel senso preteso dall’appellante, ne deriverebbe che tutti gli enti pubblici partecipanti a vario titolo agli oneri economici sottesi all’aggiudicazione di un contratto assumono la qualità di cointeressati nei relativi giudizi di impugnazione, legittimati quindi ad intervenire ad adiuvandum. Una conseguenza così paradossale, che adombra una sorta di conflitto istituzionale permanente ogniqualvolta vi sia un concorso di più enti pubblici nell’onere economico riveniente da contratti di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, costituisce l’argomento decisivo per confutare l’eccezione.

8. Può dunque passarsi al merito della presente vicenda contenziosa, il quale si incentra sul principio di diritto espresso dal TAR, secondo cui il potere di revoca dell’aggiudicazione non può essere esercitato dall’amministrazione una volta intervenuta la stipula del contratto.

La correttezza di questa regola è questione quanto mai complessa, a causa di dati normativi contraddittori e di indirizzi giurisprudenziali che, riflettendo tale contraddittorietà, scontano anche il carattere inevitabilmente episodico delle vicende contenziose sulle quali si sono formati.

Per queste ragioni la Sezione ritiene opportuno avvalersi della facoltà di rimessione all’Adunanza Plenaria ai sensi dell’art. 99, comma 1, cod. proc. amm. (come peraltro avvenuto in un caso non dissimile: ordinanza di rimessione 14 ottobre 2013, n. 4998, relativa ad un caso di annullamento in autotutela di contratti di ristrutturazione del debito pubblico regionale mediante swap), non senza esimersi dall’evidenziare all’organo di nomofilachia i principali profili che sostanziano la questione ad essa devoluta.

8.1 Quanto al dato normativo, occorre innanzitutto sottolineare che la norma generale sul potere di revoca è quella contenuta nel comma 1 dell’art. 21-quinquies più volte citato.

Nel positivizzare un’ampia concezione dello ius poenitendi dell’amministrazione, la disposizione in commento sembra presupporre che la revoca possa incidere esclusivamente su atti “ad efficacia durevole”, determinando il seguente effetto: “la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti”.

Nella descritta formulazione si riflettono chiaramente i tradizionali elementi strutturali della revoca, quali fino ad allora ricostruiti dalla dottrina e dalla giurisprudenza amministrativa, nel senso cioè di atto espressivo del potere di modificazione unilaterale di un rapporto scaturente da un precedente provvedimento amministrativo, diretto a produrne la cessazione degli effetti per il futuro, in seguito alla constatazione della sopravvenuta non congruenza di quest’ultimo rispetto alla cura dell’interesse pubblico demandato all’amministrazione.

Nondimeno, il successivo comma 1-bis introduce un primo elemento di contraddittorietà, giacché esso, nel disciplinare le conseguenze economiche rivenienti dall’esercizio del potere di revoca “su rapporti negoziali”, prevede che l’atto revocato possa anche essere “ad efficacia istantanea” oltre che durevole.

Con ciò si profila una possibile deviazione rispetto all’archetipo nel quale il potere di revoca è tradizionalmente collocato, giacché la revoca finirebbe per operare su atti la cui efficacia si è già esaurita e dunque con effetti retroattivi, avvicinandosi all’istituto dell’annullamento d’ufficio per motivi di legittimità. Ed infatti nel disciplinare le conseguenze del potere di annullamento ufficioso finalizzato a “conseguire risparmi o minori oneri finanziari”, l’art. 1, comma 136, l. 30 dicembre 2004 n. 311, regola esplicitamente il caso in cui questo incida “su rapporti contrattuali o convenzionali con privati”.

Ne deriva l’esigenza di coordinare i due capoversi dell’art. 21-quinquies, individuando l’effettiva portata del potere di revoca degli atti delle procedure di affidamento, quando a questi sia seguita la stipulazione del contratto.

Anche questa disposizione, peraltro, non può essere esaminata disgiuntamente dall’art. 21-sexies della legge generale sul procedimento amministrativo, il quale ammette il “recesso unilaterale” dell’amministrazione dai contratti da essa stipulati nei soli casi previsti dalla legge o dal contratto.

Nel sancire chiaramente la regola di tipicità delle ipotesi nelle quali l’amministrazione può sciogliersi unilateralmente dal contratto, in analogia a quanto previsto per i contratti di diritto comune dagli artt. 1372 e 1373 cod. civ., la disposizione sembra porsi nell’ottica di questi ultimi, escludendo per converso che una volta addivenuta alla stipula del contratto l’amministrazione conservi i poteri di scioglimento da quest’ultimo attraverso l’esercizio dei propri poteri di autotutela decisoria nei confronti della prodromica procedura di affidamento.

L’art. 21-sexies deve allora essere coordinato con previsioni generali quale quella della legge finanziaria per il 2005 poc’anzi ricordata.

Al di là del nomen impiegato, infatti, quest’ultima sembra alludere non già ad uno speciale caso di autotutela amministrativa, configurata in termini meno stringenti rispetto alla fattispecie generale di cui all’art. 21-nonies l. n. 241/1990, per via dell’irrilevanza del contrapposto interesse privato, ma ad una generalizzata facoltà dell’amministrazione di rivalutare la convenienza economica di contratti già stipulati e di liberarsi da essi senza sottostare alle norme di diritto comune, al fine di conseguire risparmi di spesa; il tutto secondo uno schema maggiormente affine al potere di revoca.

Ma a prescindere dalle questioni qualificatorie, il punto è in particolare stabilire se questo potere si caratterizzi per una diretta incidenza sul contratto e, in caso di risposta positiva, come si concili tale effetto con il carattere paritetico delle posizioni giuridiche discendenti dal contratto, di cui la generalizzazione dell’istituto del recesso ex art. 21-sexies, poc’anzi visto, è espressione.

Tanto più che di quest’ultima previsione ve ne è una specifica per gli appalti di lavori pubblici, giustamente richiamata dal TAR, data dall’art. 134 cod. contratti pubblici, la quale attribuisce all’amministrazione il “diritto di recedere in qualunque tempo dal contratto”, assoggettandolo tuttavia a conseguenze economiche maggiormente onerose rispetto a quelle previste dall’art. 1, comma 136, l. n. 311/2004, in quanto non limitate alla sola dimensione indennitaria in cui si colloca quest’ultima, ma comprendenti il ristoro dei lavori eseguiti ed un utile forfetariamente determinato nella misura del 10% della parte di contratto non eseguita. Conseguenze economiche non dissimili – è ancora il caso di notare - previste anche dall’art. 158 d.lgs. n. 163/2006 per il caso di risoluzione per inadempimento o, questa volta, anche di revoca per sopravvenuti motivi di interesse pubblico della concessione di lavori pubblici.

Nella presente ricognizione del dato normativo non può nemmeno essere trascurato l’art. 11 l. n. 241/1990, il quale fa espressamente salvo il potere di recesso dell’amministrazione “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse” in caso di accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento e limita nuovamente il ristoro del privato al solo indennizzo per i pregiudizi eventualmente subiti (comma 4).

Infine, come accennato trattando della questione di giurisdizione, in questo quadro deve anche essere inserita la direttiva “ricorsi” 2007/66/CE, con la relativa disciplina dei poteri del giudice amministrativo di incidere sul contratto, ora prevista negli attuali artt. 121 e 122 cod. proc. amm.

8.2 Quanto alla posizione della giurisprudenza, va detto innanzitutto che con sentenza del 17 marzo 2010, n. 1554, la VI Sezione di questo Consiglio di Stato, già citata con riferimento al motivo concernente la giurisdizione, ha affermato che “Il potere di eliminare gli atti amministrativi della serie di evidenza pubblica …. sussiste anche in caso di esistenza del contratto, fermo restando che in tal caso sorge, per effetto della revoca legittima ( art. 21 quinquies della legge n. 241 del 1990 ) un diritto all’indennizzo”.

Nella medesima prospettiva si pone la successiva pronuncia della medesima Sezione del 27 novembre 2013, n. 5993, ancorché richiamata dal TAR Lazio a sostegno della tesi contraria alla permanenza del potere di revoca in seguito alla stipulazione del contratto. Nella sentenza ora citata si è infatti affermato che l’amministrazione conserva il potere di revocare propri atti di gara in ogni tempo, anche successivamente alla stipula del contratto: “Il mutamento della situazione da regolare, determinato dallo scorrere del tempo e dalla connessa nuova valutazione dell’interesse pubblico originario o sopravvenuto, è quindi elemento che l’Amministrazione può motivatamente e legittimamente prendere in considerazione per addivenire ad una nuova determinazione con effetti anche su atti negoziali, rispetto ai quali le conseguenze sono di carattere meramente indennitario”.

Del pari, anche la IV Sezione (sentenza 14 gennaio 2013, n. 156) ha di recente preso posizione in senso adesivo a questo orientamento, muovendo proprio dalla ricognizione di norme quali quella, già vista, contenuta nell’art. 1, comma 136, l. n. 311/2004, nonché nell’art. 11, comma 9, cod. contratti pubblici, il quale fa salvo l’esercizio del potere di autotutela dell’amministrazione sugli atti di gara anche una volta divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva, traendo quindi la conclusione per cui “in via generale (…) è ben possibile l’esercizio di potere di autotutela sugli atti di gara, nonostante la (eventuale) adozione di un atto di aggiudicazione provvisoria ed anche in presenza di contratto stipulato”.

Lo stessa tesi è del resto espressa in relazione all’annullamento d’ufficio degli atti di gara, venendo più precisamente argomentata in base alla “stretta consequenzialità tra l’aggiudicazione della gara pubblica e la stipula del relativo contratto, l’annullamento giurisdizionale ovvero l’annullamento a seguito di autotutela della procedura amministrativa comporta la caducazione automatica degli effetti negoziali del contratto successivamente stipulato, stante la preordinazione funzionale tra tali atti” (C.d.S., Sez. V, 14 gennaio 2011, n. 11 e 7 settembre 2011, n. 5032, sopra citate).

In senso parzialmente difforme sembra invece collocarsi una sentenza della III Sezione (13 aprile 2011, n. 2291). In essa si è ritenuto conforme all’art. 21-quinquies il provvedimento di revoca di una gara d’appalto emesso in seguito alla rivalutazione dell’originario interesse pubblico sotteso al contratto. Nella pronuncia in esame si è inoltre specificato che l’amministrazione si era legittimamente avvalsa di un proprio potere “nel corso della procedura di gara e prima della stipulazione del contratto quando ancora gli interessi economici delle parti non si erano consolidati”, con ciò lasciando supporre che detta stipulazione inibirebbe l’esercizio del potere di revoca.

8.2.1 Decisamente contraria a quest’ultima evenienza è invece la giurisprudenza della Cassazione.

Nel tracciare il confine tra la giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in ordine alla cognizione sul contratto, le Sezioni unite della Cassazione hanno costantemente affermato che tutte le vicende successive alla stipulazione di questo si sostanziano in questioni di validità ed efficacia del medesimo, ancorché scaturenti dall’esercizio di poteri pubblicistici di autotutela o conseguenti all’annullamento in sede giurisdizionale nell’amministrazione. Particolarmente pertinenti al caso oggetto del presente giudizio sono le sentenze nn. 10160 del 26 giugno 2003 e 29425 del 17 dicembre 2008 (quest’ultima già vista trattando della questione di giurisdizione sulla presente controversia). In dette pronunce le Sezioni unite hanno affermato che una volta che il contratto sia concluso, il ripensamento dell’amministrazione in ordine alla realizzazione dell’opera per sopravvenuti motivi di opportunità va ricondotto al “potere contrattuale di recesso, previsto nel caso di contratti di appalto di opere pubbliche dall'art. 345 (l. n. 2248/1865, All. F., n.d.e.)”, in quanto tale scelta si riverbera sul contratto “attraverso il potere contrattuale del committente di recedere dal contratto” (così la sentenza n. 10160/2003); ed inoltre che, in seguito alla suddetta conclusione del contratto, le parti pubblica e privata “si trovano in una posizione paritetica e le rispettive situazioni soggettive si connotano del carattere, rispettivamente, di diritti soggettivi ed obblighi giuridici a seconda delle posizioni assunte in concreto”, e che pertanto l’atto di revoca in autotutela dell’aggiudicazione ciò nonostante adottato incide necessariamente sul sinallagma funzionale, determinando una lesione della posizione del contraente privato avente la consistenza di diritto soggettivo (così la sentenza n. 29425/2008).

Nello stesso senso le Sezioni unite si sono espresse in casi di annullamento degli atti di gara in via ufficiosa (sentenza 18 luglio 2008 n. 19805) o in sede giurisdizionale (ordinanza 13 marzo 2009, n. 6068).

Va ancora ricordato che in termini analoghi si pone la pronuncia del giudice della giurisdizione citato dal TAR e cioè la sentenza 11 gennaio 2011, n. 391, nella quale pure le Sezioni unite operano un richiamo al principio di diritto espresso nei precedenti ora richiamati, ma tuttavia lo stesso deve essere inteso come mero obiter dictum, visto che nel caso deciso il contratto non era stato ancora stipulato.

9. Al termine di questa ricognizione del dato normativo e dello stato dell’arte presso la giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato, la Sezione deve prendere atto che vi sono elementi che potrebbero indurre a riconsiderare l’indirizzo allo stato prevalente presso la giurisprudenza amministrativa.

9.1 E ciò alla luce della necessità di interpretare il dato normativo, sopra tratteggiato, in una prospettiva sistematica ed in chiave teleologica, le sole vie praticabili alla luce degli esiti incerti che un criterio rigidamente letterale ex art. 12 preleggi condurrebbe, causa il contrasto tra le diverse norme vigenti in materia (come del resto recentemente affermato proprio dall’Adunanza plenaria nella sentenza n. 24 del 6 novembre 2013).

9.1 Sul piano sistematico, occorre infatti muovere da una fondamentale distinzione tra contratti di diritto privato e contratti di diritto pubblico (o ad oggetto pubblico), che sulla scorta di autorevole dottrina amministrativistica si potrebbe ipotizzare che il legislatore abbia recepito nelle sue linee di fondo.

In base a questa dicotomia entrambi possono essere conclusi con privati, ma in quelli rientrati nella seconda categoria, a dispetto della loro struttura bilaterale, l’amministrazione mantiene comunque la sua tradizionale posizione di supremazia. Con la nozione di contratti di diritto pubblico ora detta si allude quindi ai casi in cui un contratto interviene a determinare consensualmente il contenuto di un provvedimento amministrativo o a regolare i rapporti economici discendenti da quest’ultima; altre volte addirittura in sua sostituzione.

Si tratta dei noti fenomeni degli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento di cui all’art. 11 l. n. 241/1990 e delle concessioni-contratto.

Che il legislatore possa avere recepito questa nozione sembra possa ricavarsi dal fatto che la disposizione ora citata, come visto sopra, attribuisce all’amministrazione un potere qualificato espressamente come recesso, ma riconosciuto per “sopravvenuti motivi di pubblico interesse”. Malgrado l’espressa qualificazione, quindi, è evidente che si tratta di un potere di revoca in autotutela. Non dissimilmente, l’art. 158 d.lgs. n. 163/2006 (già art. 37-septies l. n. 104/1994, introdotto dalla l. n. 415/1998) - cui parimenti si è accennato sopra - prevede, per le concessioni di lavori pubblici in project financing, che l’amministrazione possa revocare la concessione per sopravvenuti motivi di interesse pubblico. Peraltro, per le altre categorie di concessioni la dottrina e la giurisprudenza, sia ordinaria che amministrativa, non dubitano che l’autorità concedente possa sempre esercitare tale potere.

Le norme in esame potrebbero dunque essere considerate come altrettanti indici dell’emersione a livello normativo dell’istituto del contratto di diritto pubblico, assolvendo alla funzione di fugare ogni dubbio circa il fatto che, a dispetto del ricorso a schemi consensuali di stampo privatistico, l’amministrazione mantiene ciò nondimeno le proprie prerogative di autorità, tra le quali quella di incidere unilateralmente sul contratto attraverso poteri rispetto ad esso esorbitanti. Non altrimenti si spiegherebbe la loro esistenza, visto che il potere di revoca costituisce un attributo incontestabilmente spettante all’amministrazione in via generale, quale persona giuridica di diritto pubblico, come è stato poi chiarito dal legislatore nello statuto generale del provvedimento di cui alla l. n. 15/2005, attraverso l’introduzione dell’art. 21-quinquies l. n. 241/1990, e che dunque non necessita di essere ulteriormente prevista.

9.2 La novella del 2005 ha tuttavia contemporaneamente statuito, nel successivo art. 21-sexies, che l’amministrazione possa recedere dai contratti “nei casi previsti dalla legge o dal contratto”.

Si pone quindi il problema interpretativo di collocare questa disposizione nell’ambito di un assetto di rapporti tra pubblica amministrazione e privato contraente che vede tradizionalmente la prima conservare le proprie prerogative di autorità. Pertanto, nella prospettiva dicotomica poc’anzi accennata, la norma potrebbe essere letta come indice della volontà legislativa di ricondurre i contratti ad evidenza pubblica nell’orbita dell’altra categoria dei contratti della pubblica amministrazione, cui sopra si è accennato, e cioè i contratti di diritto privato.

Appaiono infatti palesi le analogie della norma con i sopra visti artt. 1372 e 1373 cod. civ.

La stessa sembra rispondere inoltre ad un altro principio generale regolatore dell’attività della pubblica amministrazione, e cioè quello contenuto nell’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241/1990, anch’esso introdotto dalla ridetta novella del 2005, secondo cui questa “nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”.

Del resto, ben prima di questa fondamentale affermazione il legislatore aveva riconosciuto all’amministrazione il potere di matrice privatistica di risolvere unilateralmente il contratto “in qualunque tempo” (art. 345 della legge sulle opere pubbliche n. 2248/1865, All. F), poi più correttamente qualificato come potere di recesso dall’art. 134 d.lgs. n. 163/2006.

La differenza tra la ora ricordata disposizione del codice dei contratti pubblici e quella l’art. 158 del medesimo testo normativo è data proprio dal fatto che, mentre in quest’ultima si ribadisce che l’amministrazione conserva il proprio potere di revocare la concessione per motivi di pubblico interesse, nulla è previsto dalla prima.

Quindi, se letta in questa nuova prospettiva, la diversa formulazione della norma potrebbe non essere considerata una lacuna, ma una precisa scelta legislativa, che discende da quanto visto poc’anzi, e cioè dalla necessità di precludere all’amministrazione il ricorso alla proprio potere di autotutela, visto che quando ha inteso confermarne l’esperibilità il legislatore lo ha previsto espressamente.

Ed in questa chiave di lettura si spiegherebbe l’utilità di un principio quale quello sancito nell’art. 21-sexies. La norma sarebbe infatti svuotata di significato e portata pratica se si ammettesse che l’amministrazione possa incidere sul contratto mediante il proprio potere di revoca, quest’ultima presentando una maggiore convenienza dal punto di vista economico.

In virtù di tali considerazioni potrebbe dunque essere condiviso quanto affermato dal giudice di primo grado, e cioè che l’incisione sul contratto del potere di revoca può ammettersi solo nelle concessioni, perché in questo caso il contratto “accede” al provvedimento concessorio, in funzione di regolazione degli aspetti economici discendenti da quest’ultimo, che rimane la fonte del rapporto. Vi è dunque in questo caso un rapporto necessariamente dipendente del secondo rispetto al primo, tale per cui il ritiro di autotutela di quest’ultimo si ripercuote automaticamente su quello, facendone venir meno un presupposto fondamentale.

In questa linea si colloca anche la costante giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione, le quali, nel delineare la giurisdizione esclusiva sulle concessioni ex art. 5 l. n. 1034/1971 e 33 d.lgs. n. 80/1998 (ora art. 133, comma 1, lett. “b” e “c” cod. proc. amm.), hanno sempre posto in rilievo la ratio di tale ipotesi di giurisdizione valorizzando il fatto che nelle concessioni di beni e servizi pubblici il ricorso a moduli consensuali è sempre sostitutivo di potestà pubblicistiche, e quindi l’amministrazione concedente “fa comunque valere le proprie prerogative di persona giuridica pubblica, anche laddove faccia ricorso a strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo, trattandosi di facoltà “il cui esercizio, tuttavia, presuppone l'esistenza del potere autoritativo".” (Cass., Sez. un., ord. n. 8094 del 2 aprile 2007). Ed infatti, il più volte ricordato art. 158 d.lgs. n. 163/2006, nel regolare unitariamente le conseguenze economiche derivanti dall’estinzione anticipata della concessione di lavori pubblici in project financing, distingue le patologie negoziali da un lato, ed in particolare l’inadempimento dell’amministrazione, dall’esercizio di potestà pubblicistiche della medesima amministrazione dall’altro, utilizzando un’espressione che allude al potere dell’amministrazione di ritirare il provvedimento concessorio prodromico all’instaurazione dei rapporti convenzionali con il concessionario privato: “Qualora il rapporto di concessione sia risolto per inadempimento del soggetto concedente ovvero quest’ultimo revochi la concessione per motivi di pubblico interesse…”.

9.3 Questa ricostruzione dei rapporti negoziali della pubblica amministrazione dal punto di vista strutturale potrebbe invece non conciliarsi appieno con i contratti ad evidenza pubblica, proprio a causa della presenza degli artt. 21-sexies e 134 sopra visti.

Anche a questo riguardo la chiave di lettura potrebbe provenire dall’opera della dottrina amministrativistica, la quale ha posto in rilievo l’essenziale funzione della fase procedimentale prodromica alla stipulazione del contratto, consistente nel fare emergere l’interesse pubblico alla conclusione dell’accordo attraverso la selezione dell’offerta migliore nell’ambito di un confronto comparativo tra più operatori economici.

In questa prospettiva di matrice funzionale, l’aggiudicazione, quale atto conclusivo della fase pubblicistica, potrebbe quindi segnare il culmine nella ricerca ed individuazione di questo interesse pubblico, mentre la stipulazione del contratto si colloca sull’opposto crinale in cui predomina il diritto privato e la pariteticità delle posizioni dei due contraenti.

9.4 I riflessi di questo modello si colgono, sul piano strutturale, nella scissione tra aggiudicazione e contratto, sancita dall’art. 11 d.lgs. n. 163/2006. In particolare al comma 7, a mente del quale l’aggiudicazione definitiva “non equivale ad accettazione dell’offerta”, ed al comma 9, che prevede un termine entro il quale stipulare il contratto successivamente a tale aggiudicazione. E’ poi vero che quest’ultimo fa salvo l’esercizio del potere di autotutela, ma questo viene espressamente consentito fino a che il contratto non venga concluso.

Pertanto, il consenso contrattuale dell’amministrazione sembra rimanere distinto dall’atto con cui questa aggiudica la gara, essendo destinato a fondersi con il consenso della parte privata nell’accordo di cui all’art. 1325, n. 1), cod. civ. ed a rimanervi ivi incorporato. Ciò fatto salvo il mutuo dissenso di cui all’art. 1372, comma 1, cod. civ., e dunque in virtù del contrarius consensus, e non già in via unilaterale. Ed inoltre in virtù del diritto di recesso, il quale tuttavia non agisce sull’atto contrattuale ma sul rapporto da esso discendente, con diverse conseguenze sul piano della regolamentazione dei reciproci rapporti patrimoniali dei contraenti.

Se dunque nessun atto di ritiro di tale consenso è concepibile, tanto meno sembra che lo stesso risultato l’amministrazione possa conseguire mediante il riesame dell’aggiudicazione, come invece affermato dalla VI Sezione di questo Consiglio di Stato nelle citate sentenze n. 1554/2010 e 5993/2012.

9.5 Non appare poi inconferente ricordare la disciplina di matrice comunitaria sui poteri del giudice amministrativo in ordine alla sorte del contratto in seguito all’annullamento dell’aggiudicazione e la lettura che di essa ne ha recentemente dato questa Sezione (nelle già citate sentenze 26 settembre 2013, n. 4752 e 7 giugno 2013, n. 3133), tale per cui, superata in via normativa l’ipotesi ricostruttiva di matrice giurisprudenziale della caducazione o inefficacia automatica, argomentata in virtù del supposto nesso di presupposizione tra fase pubblicistica e successiva fase privatistica, il contratto può nondimeno rimanere (in tutto o in parte) salvo, nei casi analiticamente disciplinati dai ridetti artt. 121 e 122 cod. proc. amm., anche in caso di annullamento dell’aggiudicazione.

Si potrebbe allora prospettare una possibile obiezione, volta a porre in dubbio la possibilità che l’amministrazione possa, attraverso l’esercizio dei propri poteri di autotutela decisoria, ottenere un risultato in ipotesi superiore a quello ottenibile dal contraente privato in sede giurisdizionale, per giunta in assenza del riscontro di un vizio di legittimità.

9.6 Nella prospettiva finora delineata potrebbe quindi esse collocato il comma 1-bis della disposizione ora citata (come del resto l’art. 1, comma 136, l. n. 311/2004).

Sono in particolare ampiamente note le complesse vicende che hanno accompagnato (ed anche seguito) la prima delle citate disposizioni. E’ soprattutto conosciuto l’intendimento del legislatore dell’epoca di intervenire sulla concessione di lavori pubblici in favore della TAV s.p.a. e sulle concessioni tra questa ed i propri contraenti generali (d.l. n. 7/2007, conv. con modificazioni dalla l. n. 40/2007).

Sul punto, il collegio ritiene che la mens legislatoris potrebbe nel caso di specie essere assurta a ratio legis e che, pertanto, come affermato dal TAR, il potere di revocare atti “ad efficacia durevole o istantanea” incidenti “su rapporti negoziali” potrebbe essere obiettivamente circoscritto alle concessioni amministrative.

In assenza di deroga all’art. 21-sexies, né tanto meno all’art. 134, la norma potrebbe allora essere inserita nel consolidato sistema finora descritto, nel quale l’amministrazione stipula contratti di diritto privato e contratti di diritto pubblico, cosicché lungi dall’essere affermato, l’effetto di incisione sul contratto potrebbe considerarsi meramente presupposto dal suddetto comma 1-bis (e considerazione analoga vale anche per l’art. 1, comma 136 poc’anzi menzionato).

9.7 Come sopra accennato la tesi dell’impossibilità di esercitare il potere di revoca una volta stipulato il contratto potrebbe essere preferibile anche per considerazioni di carattere teleologico.

In particolare è decisiva l’esigenza di non frustrare l’affidamento del privato una volta che gli impegni reciproci siano consacrati in un contratto.

Ed alla luce di questa fondamentale ragione, appaiono spiegarsi le conseguenze che l’ordinamento ha previsto dal punto di vista economico per il caso di sopravvenienze di pubblico interesse ostative alla prosecuzione del rapporto tra contratti di diritto pubblico da un lato e contratti di diritto privato dall’altro.

Come accennato sopra, infatti, nel primo caso il ristoro patrimoniale del contraente privato è limitato all’indennizzo, che, per definizione ed antitesi rispetto al risarcimento del danno, non è integralmente compensativo del pregiudizio sofferto dal contraente privato a causa dello sconvolgimento del programma negoziale prefigurato nel contratto. Per i contratti di diritto privato, l’amministrazione che intenda recedere è tenuta invece a pagare i lavori eseguiti, nonché a tenere indenne l’appaltatore del valore dei materiali esistenti in cantiere e, nell’ottica del ristoro dell’interesse positivo all’integrale esecuzione del contratto, a corrispondere allo stesso l’utile presuntivamente conseguibile in quest’ultimo caso, forfetariamente quantificato nel 10% dei lavori non eseguiti.

Il che appare coerente con la necessità di preservare l’affidamento del contraente privato.

Infatti, la stipulazione del contratto e la sua esecuzione generano e consolidano nell’operatore economico aspettative di profitto, oltre a determinare l’impiego della sua organizzazione produttiva. Laddove si dovesse quindi consentire all’amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela senza considerare queste contrapposte aspettative – e va sottolineato al riguardo che l’art. 21-quinquies non pone l’obbligo di comparare tale aspettativa con l’interesse pubblico, a differenza di quanto prevede l’art. 21-nonies per l’annullamento ufficioso – si perverrebbe a vanificare nella sostanza lo strumento contrattuale, il quale si fonda sul principio pacta servanda sunt sancito dall’art. 1372 cod. civ. Per tacere delle negative ricadute sulle finalità pro-concorrenziali che la normativa sull’evidenza pubblica persegue, e che potrebbero essere poste in discussione laddove si configurasse un indiscriminato potere di revoca delle procedure di affidamento ormai concluse e seguite dalla stipula di contratti.

9.8 Queste considerazioni inducono a ritenere che l’operatore privato debba confidare su una relativa stabilità del contratto con la pubblica amministrazione.

Ma ciò non appare tradursi automaticamente in una svalutazione dell’interesse pubblico di cui quest’ultima è sempre portatrice anche nel caso di utilizzo di strumenti consensuali, come ampiamente noto.

Strumentale a questo interesse e delle rivalutazioni che dello stesso l’amministrazione può compiere nel corso dell’esecuzione del contratto è appunto il diritto di recesso e l’ampia configurazione che di esso si ricava dal più volte citato art. 134 del codice dei contratti pubblici.

Ne consegue che l’amministrazione può valorizzare circostanze che in ipotesi condurrebbero alla revoca ai fini del legittimo esercizio del diritto potestativo di recesso, sciogliendo unilateralmente il rapporto scaturito dal contratto. Il corollario di questa tesi è che, da un lato, l’amministrazione recedente non sarebbe nemmeno tenuta a comunicare in via preventiva tale intenzione ad assicurare il contraddittorio procedimentale con la controparte e ad esternare compiutamente le motivazioni a sostegno di tale scelta. Ma questa maggiore autonomia, propria di un atto di natura privatistica e dunque tendenzialmente libero nei fini (salvo quanto affermato dalla Cassazione nella sopra citata sentenza n. 20106/2009), è controbilanciata dai maggiori oneri economici che la stessa amministrazione è tenuta a sopportare, a ristoro della frustrazione dell’affidamento privato.

10. Per la complessità delle questioni qui affrontate, per i contrasti interni tra Sezioni di questo Consiglio di Stato, nonché alla luce della posizione delle Sezioni unite della Cassazione, si rende opportuno un intervento nomofilattico, dovendosi quindi riservare all’esito di questo ogni pronuncia sugli motivi di impugnativa riproposti dall’originaria ricorrente, nonché in ordine alle spese di causa.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

non definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, e riservata ogni decisione nel merito, nonché sulle spese di causa, così provvede:

- dichiara la giurisdizione del giudice ordinario sulla presente controversia;

- rigetta le restanti eccezioni preliminari riproposte dall’amministrazione appellante;

- rimette all’Adunanza Plenaria la questione specificata in motivazione.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2013 con l'intervento dei magistrati:

Mario Luigi Torsello, Presidente

Manfredo Atzeni, Consigliere

Sabato Malinconico, Consigliere

Antonio Bianchi, Consigliere

Fabio Franconiero, Consigliere, Estensore